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FORME, STRUTTURA E LINGUA DELLE COMMEDIE DEL GIANCARLI STUDI SULLA LINGUA DELLA COMMEDIA VENETA DEL CINQUECENTO ENZO SARDELLARO Gigio Artemio Giancarli fu pittore e drammaturgo rodigino; visse e lavorò tra Ferrara e Venezia, e fu amico di Pietro Aretino. Della sua attività di drammaturgo ci restano due commedie interessanti soprattutto sotto l’aspetto linguistico: La Capraria e La Cingana (per la biografia v. Appendice). L’edizione più antica della Capraria risale al 1544, e fu impressa a Venezia, presso l’editore Francesco Marcolini. Quindi fu stampata sempre a Venezia nel 1552 e nel 1553 da Bartolomeo Cesano, e l’ultima è del 1554, ancora presso il Marcolini. La prima edizione del Marcolini (1544) porta una dedica al cardinale Ippolito d’Este, come ringraziamento di certi favori che il giovane Gigio aveva ricevuto dall’illustre prelato a Ferrara1. Non esistono edizioni moderne della 1 Per le edizioni della Capraria, cfr. i seguenti repertori: G.M. Mazzucchelli, Gli scrittori d’Italia, Brescia, Bossini, 1753-1763 e L. Allacci, La drammaturgia accresciuta e continuata fino all'anno 1755, Venezia, Pasquali, 1775. L’edizione che ho sotto gli occhi è quella di F. Marcolini, La Capraria. Comedia di Gigio Arthemio Rhodigino. Appresso Francesco Marcolini. Al segno de la Verità. In Venetia, MDXXXXIIII. Le citazioni sono tratte da questa edizione, che per la verità è molto scorretta. Si è mantenuta la grafia cinquecentesca, tuttavia si è eliminata la h Studi Linguistici e Filologici Online ISSN 1724-5230 Volume 6 (2008) – pagg. 275-343 E. Sardellaro – “Forme, struttura e lingua delle commedie del Giancarli. Studi sulla lingua della commedia veneta del cinquecento” Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo commedia. L’azione si svolge a Ferrara, dove vengono a scontrarsi vari personaggi legati fra loro da stretti vincoli di parentela, ma che non si conoscono l’un l’altro. Troviamo anzitutto il vecchio greco Messer Gerofilo, che si fa chiamare Afrone; poi suo fratello Epidimo, che si fa chiamare Eustrato e, infine, Demetrio e Campaspe, i quali si fanno chiamare rispettivamente Lionello e Dorotea. Ambedue questi ultimi sono figli di messer Afrone, al quale erano stati rapiti ancor bambini da un suo schiavo e che erano stati poi venduti uno a Bologna e l’altra a Venezia. Per gli strani casi della sorte, sia Lionello sia il vecchio Afrone si innamorano di Dorotea, la quale è tenuta in suo potere dal ruffiano Famelico. I due spasimanti, come è logico attendersi, non si risparmiano pur di liberare Dorotea dalle grinfie del ruffiano. Afrone si è messo però nelle mani rapaci del suo servo Brusca, il quale, facendo finta di aiutarlo a conquistare Dorotea, gli spilla molto denaro con vari raggiri. Lo stesso il servo furbo fa anche con la moglie di Afrone, Madonna Cassandra, una vecchia mezza matta che si è invaghita di lui. Per contro Lionello può contare sul servo Ortica, astutissimo, il quale riesce alla fine a prendersi gioco del ruffiano e a costringerlo a cedere Dorotea al padroncino. Alla fine, dopo una serie ben concertata di colpi di scena, si scopre che Lionello e Dorotea sono fratello e sorella e ambedue figli di Afrone. Data la situazione, il sogno d’amore di iniziale in termini come hor, homo. È stata espunta la h diacritica in parole come “cavalchar”, “anchora”. Parecchie le varianti apportate alla punteggiatura: si sono introdotti i due punti e le virgolette nei discorsi diretti; mutati anche i punti e le virgole. Si sono messi gli accenti là dove mancavano. 276 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo Lionello e Dorotea s’infrange e la ragazza è data in sposa al servo Ortica, che è riuscito a guadagnare la stima di tutti. La commedia s’inizia con un “Argomento e Prologo” veramente “originalissimo”, commenta Sanesi, e nel quale tre personaggi (Tasio giovane, Tiberio fanciullo e lo stesso Gigio), dialogando tra loro, espongono al pubblico la trama. In esso si finge che Tasio abbia chiesto inutilmente agli attori quale fosse il soggetto della commedia: Tasio – ...Questi nostri comici, il giorno che dierno principio a questa comedia loro, strinsero ciascuno sotto giuramento che non facessero intendere il soggetto di essa: sì, perché la cosa, per esser più nova, fusse più grata, como anche per fuggir il pericolo che li malevoli uccelli di rapina non li levassero il soggetto... Ma Tasio, essendo “persona curiosa”, non vuole arrendersi di fronte al rifiuto dei compagni e perciò si affida alla magia o, per meglio dire, all’“arte spiritale”. Egli infatti incarica una maga di insegnare “alcune congiurationi” a un ragazzino, Tiberio, il quale, guardando attraverso una “enghistara” riuscirà ugualmente a carpire il soggetto della commedia. Quindi Tasio invita Tiberio a sedere tra gli spettatori, ma prima di lasciarlo andare gli chiede l’argomento della commedia: Tiberio – ...Un roffiano che un servo il rubba, il qual ora è frate, et ora è muto par a me. Et poi gli restituisse ciò che gli ha robbato; et dui giovani inamorati di due giovane, le quali stanno con il roffiano, 277 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo in una de le quali è medesimamente inamorato il vecchio, il quale va immascarato a caval de la capra, facendo non so che atti da pazzo; al fine parmi che si abbraccino tutti insieme, et giovani et vecchi et servi... Tasio – Questa è la conclusione quasi di tutte le comedie. Io non voglio altro, vati con Dio. A questo punto, appare un terzo personaggio, Gigio, il quale, rivolgendosi al pubblico, afferma: Gigio – ... Io era mandato a farvi lo argomento: ma da poi che costui mi ha tolto la fatica... prima io vi farò saper qual sia lo auttor [sic] di essa, perché se error vi vedrete dentro, che non sarà perciò così gran cosa, attento che niuna ne è qua giù che non sia atta a patir corretione, forse lo scuserete. Gigio dunque è lo auttore, lo conoscete voi? quel tanto a voi affitionato: non li perdonerete adunque dui peccatucci attento che egli è pittore et non poeta? fatelo di gratia, ch’io di ciò l’ho assicurato. Dunque egli vi prega che se vedrete ne l’opera nostra uno inamorato non servir al soggetto, che voi non ve ne meravigliate, perché di cotali personaggi, et ne le antiche et ne le moderne comedie, se veggono spesse volte. Et se ve offenderà gli intelletti, Ortica maritandosi in Dorotea nobile, essendo egli servo, ponetevi inanti a gli occhi quanti natti servilmente sonosi agranditi per qualche sua virtù o 278 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo sufficientia, et fatti nobili. Et se porrete mente ne le cose del mondo, vedrete tutto il giorno de li patroni che concedono le figliole a li servi... abenché era facil cosa allo auttore farlo nobile. Perdonatili dunque questi dui peccati, se pur peccati sono, et tanto più che esso prima di voi gli ha veduti, et avrebbe saputo rimediarli, et non ha voluto, et datici il silentio c’or ora darassi principio a la favola... Dopo questo tipico prologo "terenziano", tutto teso alla difesa della struttura dell’opera, s’inizia la commedia. ATTO I Il primo atto si apre su “Flaminio inamorato”, che dà il via alla commedia con un lungo monologo sull’amore: “...Variamente giudicorno gli antiqui circa la felicità e beatitudine nostra...” (sc. I). Appare quindi il ruffiano Famelico, cui Flaminio chiede notizie di Antilla, la fanciulla di cui è innamorato e che si trova nelle di lui mani. I due si lasciano irritati e Flaminio afferma: «...Quale morte è così vituperosa, così orribile et tanto trista che costui non meritasse?». Entra in scena adesso (sc. II) l’altro amoroso, Lionello, insieme con il servo Ortica. Anche Lionello si lamenta con il servo della propria infelice situazione, poiché Dorotea si trova, come Antilla, nelle rapaci mani dell’astuto ruffiano. Ortica (sc. III) promette al padrone di aiutarlo a strappare l’amata dalle grinfie di Famelico, e quindi ambedue si recano in casa di quest’ultimo. Lì Lionello incontra Dorotea, che lo incita a 279 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo riscattarla al più presto, perché su di lei hanno messo gli occhi sia il vecchio e danaroso Afrone sia un soldato greco, che ben presto sarebbe giunto in città con il denaro necessario per riscattarla dal ruffiano. Il quale compare all’improvviso e chiede a Lionello se ha del denaro con sé. Lionello tergiversa e, su suggerimento di Ortica, finge di essere in possesso di una lettera di credito che gli frutterà parecchi soldi (sc. IV). Famelico però è molto scettico, e con il suo atteggiamento irrita il servo Ortica, il quale gli promette che riuscirà a raggirarlo e che pagherà il riscatto di Dorotea con il denaro che gli ruberà sotto gli occhi. Con la settima scena fa la sua apparizione Messer Afrone, accompagnato dal servo Brusca. Afrone è innamorato di Dorotea e supplica Brusca di procurargli un appuntamento con lei. Brusca rassicura il vecchio, ma lo avverte che per condurre a buon compimento la cosa occorrerà molto denaro, almeno venticinque scudi. Afrone, al sentir della cifra, inizia a lamentarsi, dicendo di non possedere venticinque scudi, anche perché è la moglie Cassandra ad avere tutto il maneggio del denaro di casa. Ma quel giorno stesso, gli fa notare Brusca, dovrà venire dalla campagna il suo contadino Spadan con certe capre: dalla loro vendita ne potrà ricavare senz’altro la somma necessaria. ATTO II Madonna Cassandra, moglie di Afrone, è arrabbiata con il marito che ritiene infedele (sc. I). Tuttavia anch’ella è una donna vanesia e smania per il servo Brusca, il quale sta al gioco con il proposito nemmen tanto 280 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo velato di spillarle quattrini: cosa che gli riesce con estrema facilità perché, dopo qualche piagnisteo, si fa elargire dalla vecchia ben dieci scudi. In quel momento rientra Afrone, il quale è assalito dalla moglie, che lo accusa apertamente di infedeltà. I due coniugi, inviperiti, vengono alle mani, sotto lo sguardo divertito di Brusca, il quale, fingendo di acquetarli, dice in effetti cose tali da aizzarli ancor di più l’uno contro l’altra. Ortica (sc. III) nel frattempo, d’accordo con Bolcetta, servo di Famelico, appronta il suo piano per raggirare il ruffiano, il quale, pur essendo pronto a parare i colpi di Ortica, è piuttosto in ansia. Frattanto a casa di Afrone giunge il contadino Spadan con alcune capre. All’insaputa della moglie, Afrone si fa consegnare le capre per rivenderle e ricavare il denaro necessario al riscatto di Dorotea. ATTO III Ortica (sc. I) sorprende per caso il soldato greco Eustrato e il suo servo Barbon, i quali sono alla ricerca della casa di Famelico. Ortica pensa di sfruttare la situazione e si fa credere il servo del ruffiano. Eustrato però è riluttante a consegnargli il denaro, per cui Ortica gli promette di farlo incontrare al più presto con il padrone. Mentre Eustrato, per ingannare l’attesa, si reca all’osteria, Ortica e Barbon continuano a conversare sulla piazza. Ad un tratto Ortica vede passare Lionello e con grande presenza di spirito si mette a urlare: – Famelico, oh padrone! Dopo un attimo di sorpresa, Lionello comprende l’astuzia del suo servo e sta al gioco. Barbon gli chiede se egli sia effettivamente Famelico e Lionello 281 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo risponde affermativamente. Poi tutti insieme vanno all’osteria dove si trova Eustrato. ATTO IV Madonna Cassandra rimprovera aspramente Spadan per aver dato le capre al marito. Spadan si difende dicendo di non aver potuto rifiutarsi di consegnargliele, dato ch’egli è il suo padrone. Successivamente (sc. 8) appare Afrone con un paio di corna sulla testa e a cavallo di una capra. Lo scaltro Brusca l’ha infatti convinto che i mercanti di capre vanno in giro bardati in tal modo e che presentano la propria merce urlando a squarciagola. Afrone – Cavre cul becco, cavre cul becco, cavre! Brusca – Un poco più alto. Afrone – Cavre, cavrazza, cavrine cul becco, cavrone! Brunza. Brusca – Padrone. Afrone – Cheste corniole me pesano. Brusca – Eh voi v’ingannate, ché le corna non pesano al dì d’oggi. Con questo travestimento da mercante Afrone si presenta alla moglie con il proposito di vendergliele. Costei però è già stata avvertita dal servo Brusca che, facendo il doppio gioco, si prende così burla dei due vecchi. ATTO V 282 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo Ortica si presenta a Famelico sotto vari travestimenti: prima si fa passare per un frate e poi per un povero “mutolo”. In tal modo riesce a carpire al ruffiano il denaro necessario per il riscatto di Dorotea. Dopo numerosi colpi di scena, v’è infine lo scioglimento dell’azione: Afrone scopre in Eustrato suo fratello e in Lionello e Dorotea i due figli che un suo “schiavo” gli aveva rapiti da bambini. Tutto si conclude quindi gioiosamente tra baci e “abbracciamenti”. La Capraria è una classica commedia d’intrigo che si cala nella tradizione del cosiddetto “teatro erudito” cinquecentesco, un teatro che, per tutto il secolo, fu al centro degli interessi e delle diatribe dei retori, tutti impegnati, sulla scorta degli “autori antiqui”, e in special modo di Aristotele, a canonizzare le strutture della “comedia”. Tuttavia, nel campo vastissimo della trattatistica cinquecentesca, la materia era assai più fluida di quanto possa sembrare all’apparenza. Le commedie di Gigio, pur rientrando nell’alveo del teatro erudito, possiedono strutture mobili, e ciò perché gli stessi critici del tempo, pur riferendosi a modelli (Plauto e Terenzio) ritenuti pressoché perfetti, accettavano, anche se non sempre di buon grado, soluzioni alternative. Gigio aveva coscienza di cimentarsi in un campo irto di difficoltà, e sapeva bene che le sue commedie scoprivano il fianco a svariate critiche. Benché le sue scelte stilistiche, a ben vedere, rientrassero quasi sempre nei moduli proposti dalla trattatistica contemporanea, contenevano punte polemiche che non sempre riuscivano gradite. 283 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo Premesso che la classica divisione in cinque atti2 e il titolo della commedia (Capraria, appunto, con il suffisso -aria perfettamente foggiato sugli esempi latini: Aulularia, Mostellaria, Cistellaria), non davano adito a critiche di sorta, una prima osservazione gli poteva venire dall’aver scritto sia La Capraria sia La Cingana in prosa anziché in versi. Alcuni retori, come ad esempio il Giraldi, negavano che una commedia senza versi potesse “essere lodevolmente composta”. Altri, ed erano i più, propugnavano invece i diritti della prosa; tra questi Agostino Michele, il quale nel 1592 diede alle stampe un Discorso in cui si dimostra come si possono scrivere le commedie e le tragedie in prosa3. Quando usciva questo “Discorso”, Gigio era morto da quasi trent’anni: indubbiamente tutto fu molto più difficile per lui, ma non gli mancarono certamente esempi autorevoli (Ruzante, Bibbiena, Machiavelli, Ariosto, Aretino, il Calmo). Per tacer del Calmo, del quale basta leggere il “prologo” della Saltuzza4, il Lasca, contemporaneo di Gigio, tuonava senza riserve contro quegli “artefici vilissimi” e “guastatori” che si adattavano supinamente alle regole dei pedanti5. Ma sicuramente l’esempio forse più illustre, e anche più antico, della difesa degli scrittori contro le 2 F. Doglio, Il Teatro in latino nel ’500, in Acc. Naz. dei Lincei. Problemi attuali di scienza e di cultura, Atti del Convegno sul tema Il teatro classico italiano nel ’500, Roma, 9-12 febbraio 1969, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, Quaderno n. 138, 1971, pp. 179 sgg. 3 I. Sanesi, La Commedia, Milano, Vallardi, 1935, vol. I, p. 128. 4 La Saltuzza, Comedia di M. Andrea Calmo. Di nuovo rivista e corretta. In Trevigi, Appresso Fabritio Zanetti MDC. “...Io mi ci ho opposto, che non venghi l’argomento, imperò che la favola da sé lo discuopre...”. 5 Antonfrancesco Grazzini (Il Lasca), Prologo de L’Arzigogolo, Sampietro, 1967, vol. VII, p. 13. 284 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo pretese dei retori si deve al Castiglione, il quale «affrontava già alcune questioni che sarebbero rimaste al centro delle polemiche circa i caratteri e le finalità della commedia: non solo difendeva la scelta di un argomento moderno e ridicolizzava la questione dell’imitazione degli antichi, ma riconosceva nella commedia uno spettacolo destinato a rappresentare “cose familiari fatte e dette” e difendeva l’uso della prosa contro quello del verso...»6. Gigio individua poi altri due “peccatucci”, com’egli li definisce, che potevano scatenargli contro le ire dei retori. Anzitutto l’aver fatto uso di quella particolare tecnica conosciuta con il nome di “favola doppia”, che a rigor di termini andava contro l’unità d’azione aristotelica, che comportava un unico intrigo amoroso. Egli infatti aveva inserito nella Capraria «uno inamorato che non serviva al soggetto»: ossia, accanto alle vicende amorose di Lionello e Dorotea, aveva immesso anche quelle di Flaminio e Antilla. Ciò era evidentemente una divagazione, non richiesta secondo taluni, rispetto al soggetto della commedia. Così, mentre Giason de Nores condannava quegli scrittori di teatro che usavano la “favola doppia”7, il Giraldi al contrario li lodava, perché essa donava «grandissima gratia al nodo et alla solutione della favola»8. Il secondo peccato consisteva nel fatto di aver sposato “Dorotea nobile” con un servo, Ortica. Ciò contravveniva 6 E. Bonora, La teoria del teatro negli scrittori del ’500, in Atti dell’Acc. dei Lincei, cit., pp. 222 sgg. 7 Giason de Nores non ammetteva assolutamente che «due attioni, et ambedue di persone private, che conseguono il medesimo felice essito [sic], e che non siano contrarie, siano mescolate insieme, del che è stato grandemente ripreso Terentio, – per aver unito – l’attion di Pamphilo che ama Gliceria e l’attion di Charino che ama Philomela...». Cfr. I. Sanesi, La Commedia, op. cit., vol. I, p. 227. 8 Cfr. I. Sanesi, La Commedia, op. cit., vol. I, p. 227. 285 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo a quelle ferree regole sociali cui il drammaturgo doveva sottostare. Al proposito Gigio invita gli spettatori a non meravigliarsi poi tanto se Ortica s’è maritato «...in Dorotea nobile, essendo egli servo. Ponetevi inanti agli occhi – prosegue – quanti natti servilmente, sonosi agranditi per qualche sua virtù o sufficientia et fatti nobili. Pamphilo che ama Gliceria e l’attion di Charino che ama Philomela... Et se porrete mente ne le cose del mondo vedrete tutto il giorno de li patroni che concedono le figliole a li servi...». Proprio ponendo «mente ne le cose del mondo», è estremamente improbabile che siffatti casi fossero all’ordine del giorno. È ben vero, come ha fatto notare H. Hauser, che il primo Cinquecento è un periodo ancora dinamico, ma già allora si registravano i primi tentativi di frenare ogni ascesa sociale9. È più verosimile invece che dietro certe affermazioni di Gigio ci fosse la grande ombra di Pietro Aretino, che pure aveva saputo dimostrare come lui, povero figlio di un calzolaio, fosse riuscito non solo a vivere come i nobili, ma addirittura a metterseli tutti sotto i tacchi con la sua penna sferzante. Ma certo Gigio non aveva la forza dirompente dell’Aretino, e, anzi, di questa sua manchevolezza si affretta a fare ammenda. «...Perdonateli – scrive – dunque questi dui peccati, se pur peccati sono, et tanto più che esso prima di voi gli ha veduti, et avrebbe saputo rimediarli, et non ha voluto...»10. Avrebbe saputo... et non ha voluto. L’ostinazione con cui Gigio difende questa sua scelta va al di là di un puro e semplice dissenso nei 9 H. Hauser, Storia sociale dell’Arte, Torino, Einaudi, 1973, vol. I, p. 374. La Capraria, Prologo, parla Gigio Artemio. 10 286 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo confronti di determinate regole sceniche per riflettere, a mo’ dell’Aretino, nella vicenda del servo che si fa nobile per i suoi meriti, il segno di un desiderio inappagato dello stesso autore che, chiuso dalle rigide strutture sociali, realizza il proprio sogno nell’arte e nella finzione teatrale. Ma forse Gigio sentiva tutta la labilità, tutta la improbabilità di questa pretesa, tanto che di nuovo si cospargeva il capo di cenere e, dopo aver pregato gli spettatori di considerare che non v’è cosa quaggiù «che non sia atta a patir corretione», ricorda a tutti che in fondo egli è da scusare «attento ch’egli è pittore et non poeta». Il gusto del “tipico”, del “già visto”, del “già conosciuto” è la categoria alla quale si può ridurre la maggior parte della produzione teatrale del nostro ’500. Tale gusto si innerva nelle commedie con la proposta non solo di personaggi sempre uguali (i vecchi, i giovani innamorati, i lenoni, i parassiti, le mogli autoritarie, le prostitute), ma anche di intrecci che, più o meno, ripetono sempre lo stesso “leitmotiv”. Silvio D’Amico faceva notare come lo studioso russo Miklacesvskij si fosse «divertito a rappresentare questi intrecci con altrettanti grafici»11. Volendo riprendere il gioco del Miklacevskij nel rappresentare la situazione amorosa della Capraria, avremo che A (Lionello) ama B (Dorotea), che a sua volta è desiderata da C (Ortica), da E (Afrone) e da F (Eustrato). Poi c’è G (Flaminio) che ama H (Antilla). Donde deriva questo gusto? 11 S. D’Amico, Storia del teatro drammatico, Milano, Garzanti, 1970, vol. I, p. 177. 287 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo L’Altieri Biagi ne ipotizza l’origine, oltre naturalmente dal teatro latino, anche dai Cantari e dalle Sacre Rappresentazioni12. In effetti in queste ultime è abbozzata una tipologia che insiste moltissimo su “soldati”, “ruffiani”, “contadini”, “mogli autoritarie”, “prostitute” e “servi”. Così nella Santa Felicita, si individuano i soldati come coloro che sempre “chiegon denari”13: nella Rappresentazione di Santo Grisante e Daria, il ruffiano si presenta così: «Io son d’ogni arte bagnato e cimato / e sempre cerco di commetter male»14; e ancora nella Rappresentazione del figliuol prodigo di Castellano Castellani, appaiono un “ruffiano giocatore” e “il ruffiano di Lucrezia”15. L’elemento contadinesco, che tanta parte avrà nel teatro del Ruzante, del Calmo e dello stesso Gigio, viene presentato nelle Sacre Rappresentazioni con gli stessi intenti giocosi, ossia come mero espediente per divertire il pubblico. Così nella Rappresentazione di Giuseppe due contadini si lamentano della loro povertà16; e non mancano neppure esempi di mogli autoritarie, che ricordano molto da vicino l’irascibile Madonna Cassandra. Così nel Miracolo di due pellegrini dice la moglie: «Vuoi ch’io ti dica quel che dir conviensi? / Io tel dirò: tu mi par 12 M. L. Altieri Biagi, Appunti sulla lingua della commedia del ’500, in Atti, cit., p. 268. Cfr. inoltre sulle fonti romanze della commedia del ’500 N. Borsellino, Commedie del ’500, Milano, Feltrinelli, 1972, p. IX. 13 A. D’Ancona, Origini del teatro italiano, Torino, Loescher, 1891, vol. II, p. 590. 14 A. D’Ancona, Origini del teatro italiano, Torino, Loescher, 1891, vol. II, p. 590. 15 Castellano Castellani, La Rappresentazione del figliuol prodigo, in Il Teatro Italiano. Dalle Origini al ’400, Torino, Einaudi, 1975, tomo I, p. 154. 16 A. D’Ancona, Origini..., op. cit., vol.II, pp. 603-604. 288 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo rimbambito»17. Caratterizzate con tutti i crismi sono anche le meretrici, personaggi tra i più ricorrenti nel teatro cinquecentesco. Vere e proprie meretrici, rileva il D’Ancona, si rinvengono nel Grisante e Daria e nel Barlaam e Josafat, “mandate a tentare l’animo de’ giovinetti”18. Infine, la più classica delle figure, quella del servo, compare in numerose Rappresentazioni, da quella di San Grisante e Daria a quella di San Tomaso a quella del Figliuol prodigo19. Per quanto riguarda i Cantari il discorso si deve forzatamente spostare dai personaggi alle strutture narrative, poiché la tradizione canterina si sofferma essenzialmente sulla descrizione di personaggi di alta estrazione sociale, tralasciando tutta la tipologia che non possegga i crismi dell’eccezionalità e dell’eroicità. Nella Istoria di tre giovani disperati e di tre fate fa invero capolino un “villano”, che però non è autentico, ma solo un nobile travestito20. Eguali caratteri di eccezionalità ha nei cantari la presenza delle ruffiane, come per esempio ne La storia del calonaco di Siena, dove appunto compare una vecchia e avida “mercera”21. Ma al di là di tutte le possibili consonanze che si possono riscontrare nei Cantari e nelle Sacre Rappresentazioni, è indubbiamente nel teatro latino che si individua la matrice prima e più importante della commedia classicheggiante del ’500, e tanto più in una personalità 17 A. D’Ancona, Origini..., op. cit., vol. II, pp. 638-639. A. D’Ancona, Origini..., op. cit., p. 642. 19 A. D’Ancona, Sacre Rappresentazioni, op. cit., vol. I, pp.427-429. 20 Istoria di tre giovani disperati e di tre fate, in Cantari antichi, editi e ordinati da E. Levi, serie prima, Cantari leggendari, Bari, Laterza, 1914, pp.111-133. 21 Cantari del Trecento, a c. di A. Balduino, Milano, Marzorati, 1970, p. 149. 18 289 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo come quella di Gigio, formatasi culturalmente tra Ferrara e Mantova, ove Plauto e Terenzio erano rappresentati con una intensità senza eguali rispetto alle altre corti rinascimentali22. Ma il gusto del tipico si pone con una forza senza pari soprattutto perché v’erano nella società di corte le condizioni della sua esasperazione, «che si concretava nella tendenza a vedere i personaggi della commedia non come individui... ma come tipi, come “elementi” di classi sociali ben definite, in cui era bene che il comportamento e la lingua li chiudessero senza scappatoie, in una gerarchia che rispettasse “la stratificazione della società”...»23. Personaggi tipici e tòpoi tradizionali formano quindi l’ossatura anche della Capraria, che però, pur chiusa nella sua cornice manieristicoclassicheggiante e nel gioco brioso di una favola tesa essenzialmente al “delectare” un aristocratico pubblico di corte, si offre a una lettura poliprospettica e realistica da cui emergono i contrasti di una realtà drammatica. LA LINGUA RUSTICANA DELLA CAPRARIA All’interno di questa cornice tramandata da una tradizione comica plurisecolare si apre ad un tratto una zona in cui fa la sua apparizione il “rozzo” contadino Spadan. La commedia, scrive il Sanesi, non è «del tutto priva dell’elemento popolare, in quanto vi ha larga parte il villano 22 23 A. D’Ancona, Origini..., op. cit., pp.113-135; pp. 429-440. M. L. Altieri Biagi, Appunti sulla lingua..., op. cit., pp. 268-269. 290 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo Spadan, che parla alla maniera contadinesca ed è un uomo rozzo, grossolano, triviale»24. Ma in che modo si inquadra questo elemento popolare nella struttura della commedia? La Capraria riecheggia e continua senza alcun dubbio un motivo dominante nell’Italia del ’500, ossia la satira contro il villano. Chi aveva saputo cogliere con occhio acuto la realtà del mondo contadino fu il Ruzante, nonostante in lui non vi fosse alcuna particolare adesione nei confronti dei rustici. Spadan nella commedia di Gigio, per situazioni e lingua, sembrerebbe esaurire la propria funzione nel comico. Spadan ride e fa ridere. Siamo al punto: ben lungi dal possedere punte polemiche, Spadan vive la propria storia nella letteratura: è l’erede diretto dei ministri diaboli, degli insensata animalia della tradizione satirica anticontadina25. Spadan non è un uomo, bensì un simbolo: il simbolo di un mondo contadino degradato, così come lo vedeva una classe dirigente avversa e al tempo stesso timorosa e consapevole di tale degrado. Eppure, anche in questo povero buffone si nota a volte uno scatto rabbioso, il ricordo di essere un uomo. A un certo momento Spadan prorompe in una minaccia, che contiene in nuce tutto lo spirito di rivolta che animava le plebi rurali vessate non solo dalle pestilenze e dalla fame, ma anche dalle canzonature, osserva il Leicht, che «dovettero inacerbire l’animo dei rustici e aumentare... il loro astio 24 25 I. Sanesi, La Commedia, op. cit., vol. I, p. 428. P. Camporesi, La maschera di Bertoldo, Torino, Einaudi, 1976, p. 30. 291 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo verso i nuovi padroni»26. Nella scena settima del quarto atto, Barbon vede Spadan in strada e, volendogli chiedere dove abita Famelico, il ruffiano, lo apostrofa in questi termini: Barbon – ...Villano, oh villano! Spadan – O el mal villan te daghe massier Iesum Dio, gaioffo che te si... Barbon – Come? Spadan – In malora! Spadan – Mo te divi dirme contaìn. Barbon – O tu sei troppo colerico. Spadan – A son el cancaro che te pele... que a son sto soldò de quii maleéti. «Devi chiamarmi contadino e ricordati che sono stato soldato, e di quelli maledetti». Con questo fugace cenno alla guerra, che tanto aveva mutato il carattere dei contadini, Spadan chiude la sua rivolta. Tutto si smorza nel riso e nel ritmo giocoso di sempre. Nonostante l’azione si finga a Ferrara, Spadan usa locuzioni tipiche del dialetto pavano. Evidentemente la lezione di Ruzante era stata indimenticabile per Gigio, che non intendeva scostarsi dai moduli linguistici sperimentati con grande successo da Ruzante, di cui aveva potuto ammirare l’opera quando era a Ferrara. In questo senso, sarà da 26 P. S. Leicht, Operai, artigiani, agricoltori in Italia dal secolo VI al XVI, Milano, Giuffré, 1959, p. 187. 292 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo rilevare che la scena vista sopra è simile a un passo della Moscheta, dove si assiste alla reazione rabbiosa di Ruzante, quando si sente affibbiare da Tonin l’appellativo ingiurioso di “villano”: Tonin – Al sango de des! Ol no fo ma’ vilà... (Al sangue di dieci, non ci fu mai villano...) Ruzante – Al sangue del cancaro! A’ seon vilani perché a’ no aon roba. No di de de vilani, ch’a’ se sbuseron la pele pì ca no fo mè criviegi (Al sangue del canchero, siamo villani perché non abbiamo rubato! Non parlate di villani, perché se no ci bucheremo la pelle peggio di quella dei crivelli) (Ruzante, Moscheta, Atto I, sc. 6)27. Il lessico di Spadan, come già abbiamo rilevato, è ricchissimo di locuzioni gergali che rimandano al pavano dei personaggi ruzantiani. Osserviamo ad esempio il suo linguaggio ingiurioso, che si avvale di stilemi quali: Cancaro: Co cancaro, mo que cancaro disìu massier (II-6-10) Menato – Al sangue del cancaro, sto me compare è pur un gran frison... (Ruzante, Moscheta, II-3-1) Spadan – O sea laldò Messier Iesum Dio... (II-6-6) L’è la più bella biestia che visi mé in lo roverso mondo (II-6-24) 27 Ruzante, La Moscheta, in Il Teatro Italiano, a c. di G. Davico Bonino, Torino, Einaudi, 1977, pp. 233-321. 293 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo Ruzante – A ve domande la vita in don per amor del perdon de Messier Ieson Dio (Moscheta, V-2-9) Menato – ...A dir ch’a n’habi più cancari ch’haesse mé cristian in lo roesso mondo. (Moscheta, I-1-1) Le scelte lessicali di Gigio non si arrestano però alla sostanza gergale, ma si avvalgono di tutta una classe di locuzioni verbali e nominali riprese fedelmente dal dialetto pavano: Anàr (andare) Afrone – No xe pressa no, dunde va vui andesso? Spadan – ...A voràe imprima anare a bevere... (II-6-32) Gnua – Mo a vuogio anàre... (Ruzante, Parlamento, I-2-7)28. Supia (sia) Spadan – Che crìu? Che supia un cogiombaro? (II-6-40) Ruzante – Che crìu che supia a essere in quel paese? (Parlamento, I-145) Ontiera (volentieri) Spadan – Massier sì, mo a vegnere ontiera... (II-6-38) Bìlora – ...Te no gh’iè andà ontiera (Ruzante, Bìlora, I-3-12)29 Lo spoglio del repertorio lessicale di Spadan potrebbe continuare ancora, ma credo che un’analisi della sintassi sia maggiormente probante della conoscenza che Gigio possedeva delle strutture del pavano cinquecentesco. È stato rilevato che Ruzante, specie nei 28 Ruzante, Il reduce o Parlamento de Ruzante che iera vegnù de campo, in Teatro Italiano, Le Origini e il Rinascimento, a c. di S. D’Amico, Milano, Nuova Accademia, 1955, p. 453. 29 Ruzante, Bìlora, in Il Teatro Italiano, a c. di S. D’Amico, op. cit., p. 477. 294 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo monologhi narrativi, faccia discorrere i suoi personaggi usando una sintassi molto ricca di “e”+ il pronome personale (e mi, e ela), di “e”+ un avverbio (e si, e po), di “e”+ una congiunzione (e che, e con)30. Si osservi come anche la lingua di Spadan denoti le stesse caratteristiche, quando il personaggio racconta: Spadan – Mo a te diré: el giera – un giovane – ...e sì so pare el volea far scaltrìo, e sì lo mande a Vegnexia da una so comare perque la ‘l desgrezzase, e che ghe faesse aver del piaxere. Sta femena, cha giera scozzonà, la ghe fasea de le lasagne, e sì la ghe ne impìa un caìn ben ifromagié. E co giera la notte el ghe dixea: “Mea Zanella dème del piaxere”. E ella ghe dixea: Mo miti la man dal cao, e tuotene figiuolo. E ello metéa la man e si se ne toléa de le lasagne... (IV-1-40). (Ora ti dirò: c’era un giovane, che suo padre voleva scaltrire, e così lo mandò a Venezia da una sua comare perché lo digrossasse un po’. Questa donna, che era furba e scaltra, gli faceva delle lasagne, e così glie ne riempiva un catino ben informaggiato. E quand’era notte, lui le diceva: Mia Zanella, datemi del piacere. E lei gli diceva: Metti la man di fuori, e prenditene, figliolo. E lui metteva la mano, e così si prendeva delle lasagne). 30 M. Milani, Snaturalité e deformazione nella lingua teatrale del Ruzzante, in AA.VV., Lingua e strutture del teatro italiano del Rinascimento, presentazione di G. Folena, Padova, Liviana, 1970, p. 113. 295 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo La sintassi prevalentemente paratattica di cui fanno uso i personaggi ruzantiani presenta inoltre molti incisi: Pota de Sant’Abà, Al corpo del crivello, pota de me pare (Ruzante, Pastorale, XIX, vv. 17281). La lingua di Spadan si caratterizza per una molteplicità di formule esclamative: Al sangue de Cribele (II-8-1), Potta de me pare, l’è la più bella biestia... (II-6-24), Co cancaro, mo que cancaro disìu massier... (II-6-10). La sintassi paratattica, fatta di rapide giustapposizioni di frasi molto brevi, è tipica del linguaggio di Spadan e ne caratterizza, come i rustici di Ruzante, la psicologia semplice ed elementare, che si traduce in una parlata popolare priva di profondità prospettica: Spadan – ...I dise po che nu da le ville a son grossuli...; l’è megio che vaghe a cà e pur è miegio che vaghe da staltro lò? Mo se quelù me catasse? Mo sel me catasse, mo a ghe diré que no so chal dighe... Potta, a me recorde ancora del me paron da i cuorni. O cancaro, l’è mo sto un omo onorò... me despuò chel ghe morì la prima femena che fosselo morto an ello... (IV-12-1). (Dicono poi che noi villani siamo rozzi...; è meglio che vada a casa oppure è meglio che vada da quest’altro? Se mi trova, gli dirò che non so quel che si dica... Potta, mi ricordo ancora del mio padrone. Canchero, ma è pur stato un uomo onorato... ma dacché gli morì la prima moglie, meglio sarebbe stato che fosse morto anche lui). 296 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo In una sintassi di questo tipo, l’unico nesso ipotattico presente nel linguaggio rusticano è costituito, come del resto si può notare in qualunque parlante abbia una conoscenza elementare della lingua, dal che/que, il quale viene popolarescamente usato con funzioni pressoché universali. Pertanto il nesso che/que assume tutti i valori: è pronome relativo, interrogativo; congiunzione causale, finale, ecc31. Ruzante – ...Quando a giera puttato, que a’ lagé stare de nare co le biestie, que haea quel can, que a me ‘l menava drio (Anconitana, IV-47). Spadan – ...Potta de San Liombrun... o al cancaro a l’amore... despuò ch’ello vo(l) far cavalcar la cavera, e sì al dise ch’i mercaenti ven da no so que prè de la Maremola... e che i va a quel muo, e sì el gha pettò du cuorni maòri cha veésse mé... po el ghe va inanze, e ello xè su la cavera, e sì el dixe: “Massier, crié Cavere, cavere, e ello no vo(l) cigare... Potta a me, son partìo que a me sentìa cagar... dal maléto riso. A voràe vontiera che la parona... ghe cazzàsse el smorbézzo da sotto da i lachìti... (Spadan sta qui raccontando la scena del vecchio Afrone, costretto dal servo Brusca a cavalcare la capra, e dice: – Potta di San Liombruno e canchero anche all’amore. Gli vuol far cavalcar la capra, perché, dice, i mercanti usan così in Maremma, e che vanno in giro in tal modo. E così gli ha imposto in testa due corna maggiori di quante 31 M. Milani, Snaturalité..., op. cit., p. 119. 297 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo ne abbia mai viste... Poi gli va dinanzi, mentre lui è sulla capra, e gli dice: Messere, gridate forte Capre, capre! Ma lui non vuol gridare... Potta a me, son partito di là che me la facevo sotto dalle risate. Vorrei volentieri che la padrona riuscisse a cacciargli il morbino dalle gambe... (IV-6-1). Da questi esempi si può quindi concludere che Gigio possedeva, come del resto molti gli riconoscevano, una notevole sensibilità linguistica e anche, come Ruzante, una indubbia capacità di impostare la lingua teatrale su toni fortemente realistici. LA CINGANA La Cingana ebbe, al contrario della Capraria, una assai più vasta eco e una maggiore fortuna editoriale. Ebbe tre edizioni mantovane, una nel 1540, una seconda nel 1546, con dedica al cardinal Ercole Gonzaga, e una terza nel 1548. Poi fu la volta delle edizioni veneziane: nel 1550 presso Agostino Bindoni, poi nel 1564 fu stampata da Camillo Franceschini e infine nel 1610 da Giorgio Bizzarro32. Un’edizione 32 Per le edizioni della Cingana, oltre i repertori, già citati, di Mazzucchelli e Melzi, cfr. E. Pastorello, Tipografi, áeditori, librai a Venezia nel sec. XVI, Firenze, 1924, p. 38. Le citazioni della commedia sono tratte dall'ediz. del Bindoni, La Cingana, Comedia di Gigio Arthemio Giancarli Rhodigino. In Vinegia. Appresso Agostino Bindoni, MDC. Per le questioni filologiche cfr. la nota 1. 298 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo moderna della commedia è stata curata da G. A. Cibotto, estensore della voce Giancarli per l’Enciclopedia dello Spettacolo, e un testo è stato approntato da L. Zorzi per gli studi linguistici di G.B. Pellegrini33. Si tratta di una lunghissima commedia in cinque atti, che però Gigio, nel Prologo, attesta essere «stata da lui composta in un ghiribizzo di ott’ore sole». «...Nacquero d’un Messer Acario greco – si legge nell’Argomento – (ma per certo accidente fatto cittadino di questa città di Treviso) et di una Barbarina sua moglie doi figliuoli ad un parto, l’un maschio e l’altro femina. Tanto simil d’effigie quanto sappia o possa far natura: il maschio nomato Medoro et la femina Angelica. Et avenne che essendo li Cingani (popoli erranti) in quel tempo per transito come sogliono esser spesse volte, una cingana, entrata nella casa di Messer Acario..., et trovando una fante sola alla custodia delli duo gemelli ambi nella culla, 33 La lingua araba delle commedie del Giancarli è stata studiata da eminenti linguisti; il Teza (E. Teza, Voci greche e arabe nelle commedie del Giancarli, in Rendiconti delle Regia Accademia dei Lincei, Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, Estratto dal vol. VIII, fasc. 4, seduta del 23 aprile 1899, p. 135, p. 3 dell’estratto, è stato preceduto da Graziadio Isaia Ascoli, che indagò la lingua degli zingari nel secondo volume dei Saggi Critici, Torino, 1877; il primo volume era uscito a Gorizia nel 1861. Ascoli, studiando un dialogo della Cingana del Giancarli, arrivò alla conclusione che non si trattava di un dialetto zingaro italiano, ma di una sorta di lingua araba corrotta. Per l’intervento dell’Ascoli sulla lingua araba della Cingana, cfr. anche F. De Vaux de Foletier, Mille anni di storia degli zingari, Milano, Jaka Book, 1978, pp. 237 sgg. Dopo gli studi dell’Ascoli e del Teza, menzioniamo G. Sala, La lingua degli Stradiotti nelle commedie e nelle poesie dialettali veneziane del secolo XVI, in Atti dell'Ist. Veneto di Scienze, Lettere e Arti, Anno Acc. 1950-’51, Tomo CIX, Classe di Scienze morali e Lettere, p. 156. e G.B. Pellegrini, L’arabo della “Zingara” di A. Giancarli in Gli arabismi nelle lingue neolatine con speciale riguardo all’Italia, Brescia, Paideia, 1972, vol.II, pp. 601-634. Secondo Pellegrini l’arabo parlato dalla zingara del Giancarli sarebbe una lingua “mista di veneto e di arabo magrebino”. Cfr. Zorzi, loc. cit., p. 229, n. 195. 299 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo essendone gita la madre a messa, levòne il maschio, poi ch’ebbe con certa sua astuzia ingannata la fante et poseli in luogo suo il proprio figliuolo... Tacque il furto la fante, temendo la furia d’Acario, et crese (credette) esso che ‘l cinganino rimastoli fosse Medoro rubbatoli. Questo, come volle la sorte, in pochi giorni si morì et rimase la figliuola sola, crescendo nella casa del padre in bellezza, onestà et costumi. Et d’essa ora n’è innamorato il gentilissimo Messer Cassandro, gentiluomo di nome come d’effetti di questa città. Né potendo venire a fine..., ricorre in questo suo amore per aiuto et consiglio ad una certa Agata vecchia, povera et ruffiana, la quale, com’è il costume di queste tali, cavandone non poco utile, li promette il tutto senza sapere come condurre la cosa a fine felice. Ma ecco come la fortuna... conduce in questa (città) Medoro, il fratello d’Angelica, doppo che quatordeci anni ha errato per il mondo... tanto simile alla sorella, ch’essendo vestito da femina per consiglio (della zingara), è incontrato nel sig. Cassandro, che lo crede la sorella tanto amata da lui. Et dapoi... v’agiunge a caso Agata la ruffiana, quale, co ’l mezzo di XXV ducati et certa sua astutia, fa contentar la cingana: che ’l giovane Medoro così travestito da donna... entri a certo tempo in casa del padre, tanto ch’ella ne cava la sorella Angelica... Ora qui s’ha d’aver piacer nel ritornar de’ vecchi a casa e nel cambiar de’ figliuoli. Ma la cingana, al fin fine, preso il tempo e ’l luogo, li scopre il furto ch’ella fece di Medoro sin nelle fascie et Agata altresì l’assassinamento d’averli levato di casa Angelica et condottala al sig. Cassandro... Il tutto se li perdona sì a l’una come a l’altra, et il sig. Cassandro, essendo gentiluomo, come nel principio vi 300 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo dissi, la piglia per moglie. Io non vi fastidirò altramente nel dirvi l’amor di Acario con Stella, l’astutie di Spingarda suo servo, né‚ meno la lite di Garbuglio villano et di Martino Bergamasco...». ATTO I La commedia s’inizia con un lunghissimo monologo di Agata, la ruffiana, che si lamenta per la propria indigenza. Agata – ...Daspuò che son qua, andarò a far un altro servisio, che pelerò ste mie amighe, che vol andar sta sera alla ácomedia, che recita el Burchiella a San Stefano. Ah ah, el me vien tanto da rider co ste comedie. Tamen le xè bone per mi, che anca gieri e ho guadagnao de boni soldi co ste mie sguardoli e perfumeghi... Saputo che messer Cassandro, un giovane gentiluomo, è innamorato di Angelica, la ruffiana decide di andare a fargli visita con l’intento di offrirgli i propri áservigi. Nelle scene seguenti (2, 3), Agata incontra un ragazzino, Fioretto, il quale è al servizio di Cassandro e gli chiede se il padrone è in casa. Fioretto, spaventatissimo perché crede Agata una strega, risponde affermativamente. Entrano il vecchio Acario e il servo Spingarda (sc. 5). Acario, impaziente, chiede notizie di Stella, una giovane di cui è innamorato. Spingarda finge di aiutarlo, ma il suo scopo è quello di trarre un utile dalla situazione. Quindi (7 sgg.) assistiamo agli scaltri maneggi di Spingarda e di Agata, i quali mettono a punto un piano per spillare 301 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo denaro ad Acario. L’atto si áconclude con Garbuglio “vilan” e Martin Bergamasco, i quali per poco non vengono alle mani per una questione di soldi. Garbuglio reclama i suoi “cinquanta trun e vintiquatro marchitti” per il cavallo che gli ha venduto. Il facchino rifiuta invece di saldare il conto perché Garbuglio gli ha venduto un cavallo bolso. ATTO II Il secondo atto si apre su Agata, che mette a parte la figlia Annetta del progetto di far quattrini alle spalle del vecchio Acario. Agata invita la figlia a essere gentile con Spingarda, dal quale dipendono le loro fortune. Quindi compaiono (sc. 4, 5) messer Acario e Spingarda: quest’ultimo dà al padrone la felice notizia che quello stesso giorno potrà ottenere un appuntamento con Stella. Spingarda consiglia Acario di presentarsi a Stella con un regalo degno di lei e gli propone di donarle quella catena d’oro da cinquanta scudi che egli porta al collo. Acario, dopo molte rimostranze, accetta. Inoltre, su consiglio di Spingarda, si traveste da taglialegna per non farsi riconoscere dai vicini. Mentre Acario gongola e appresta gli ultimi preparativi per il fatidico incontro, Agata, Lupo e stella si riuniscono per perfezionare il loro piano: dopo che Acario avrà consegnato la famosa “catena” a Stella, dovrà fare la sua apparizione Lupo che, mostrando di essere geloso di Stella, dovrà spedirla subito in camera sua e cacciare in qualche modo Acario. Frattanto (sc. 12) compaiono Medoro e la zingara, la quale promette al giovane di ritrovargli i genitori ai quali l’aveva rapito da bambino. Dopo un nuovo intermezzo comico di Garbuglio e Martin 302 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo Bergamasco, entra in scena Acario vestito da taglialegna. Tutto si svolge come Agata aveva previsto: non appena il vecchio dà la catena d’oro a Stella, Lupo lo caccia “a pugni e pié del culo”. L’atto si chiude su Garbuglio e Martin Bergamasco che, ubriaco fradicio, è oggetto delle burle di Garbuglio, che lo conduce all’ospedale dei “matti” su una carriola puzzolente. Il secondo atto è altresì interessante perché ci tramanda un esempio antichissimo di canzone rusticana, una di quelle canzoni che Garbuglio era solito intonare sotto l’olmo: Falisco – Canta El mi è sta detto che tu dormi sola. Garbuglio – El me sto dretto che ti druomi sola. E no starìsto miegio accompagnata? E si-aìsi el to moroso a canto, Ti parerìsi pur do volte artanto. La femena xe fatta con e la nula Che no val niente senza la fegura. Mi faré la fegura, el conto è fato: Che a seon du, e sì faronte quatro. (2-11-33) ATTO III Acario, arrabbiatissimo, grida vendetta nei confronti di Lupo, che lo ha riempito di una gragnuola di botte. L’astuto Spingarda, dopo averlo un po’ rabbonito, decide di «ndare a trovar Agata per partir il bottino» (sc. 4). A questo punto s’inizia una vera e propria ridda di sospetti: tutti i complici dell’impresa ai danni di Acario temono di perdere la loro parte 303 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo di bottino. Così Spingarda cerca affannosamente Agata e Lupo, e quest’ultimo a sua volta rincorre Spingarda. Spingarda frattanto prepara un nuovo tranello all’incauto Acario, sempre preso da smanie d’amore per Stella: prima lo fa vestire da medico greco proveniente da Corfù, poi lo fa spogliare degli abiti e si fa consegnare gli anelli e le gioie che porta addosso. Mentre Acario, rimasto solo con Stella, continua imperterrito la sua corte tanto vana quanto spietata, arriva Spingarda tutto trafelato, asserendo di essere stato derubato per strada dei gioelli che il padrone gli aveva affidato. Intanto Medoro appare in scena travestito da donna (sc. 15), ed essendo del tutto uguale alla sorella Angelica, trae in inganno Messer Cassandro, che gli fa delle profferte amorose. Sopraggiungono anche la zingara e Agata: la prima si meraviglia di trovare Medoro in casa di Cassandro, la seconda che colei che crede Angelica possa essere in così buoni rapporti con una zingara. Tra le due donne insorge un battibecco a stento sedato dai buoni uffici di Cassandro. ATTO IV L’atto quarto è lunghissimo e comprende esattamente 33 scene. Le scene 1-10 vedono in azione la ruffiana Agata, la quale, sfruttando astutamente la somiglianza di Medoro con Angelica, appronta insieme con Cassandro un piano per far sì che egli possa incontrare indisturbato l’amata. Mentre maturano questi eventi, il villano Garbuglio (sc. 13-14) s’imbatte nella zingara che, con il pretesto di proporgli un filtro per far innamorare di lui Gnocchetta, la sua “morosa”, lo benda, lo lega e gli 304 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo ruba tutto il denaro. Le scene 20-33 vedono infine i preparativi per condur fuori di casa Acario e sua moglie Barbarina, genitori di Angelica. L’uno e condotto via da Spingarda col solito miraggio di un nuovo e fruttoso incontro con Stella, l’altra è irretita da Agata che le promette un filtro amoroso da usare su Cassandro, di cui la vegliarda è segretamente innamorata. ATTO V È questo l’atto dei riconoscimenti e dello scioglimento dell’azione. Dopo che Agata annuncia a Cassandro l’esito felice della loro impresa, vi è il riconoscimento di Medoro (sc. 10-11), il quale peraltro non crede che Acario sia suo padre. Tuttavia, a dissipare i dubbi del giovane, interviene la zingara (sc. 13), che, vero “deus ex machina”, conferma le parole di Acario e confessa il rapimento perpetrato tanti anni prima.Tutto quindi si conclude felicemente: Acario ritrova il figlio, la zingara è perdonata, Spingarda sposa Annetta e Cassandro l’adorata Angelica. LE FONTI E LA FORTUNA Come La Capraria, anche La Cingana si rifà per molti aspetti alle teoriche del teatro cinquecentesco, per cui la cornice della commedia risente dell’influsso del teatro erudito, che aveva come modelli Plauto e Terenzio. In particolare i Prologhi hanno un carattere tipicamente terenziano, essendo improntati a una sostanziale ed evidente difesa delle 305 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo scelte stilistiche dell’autore34. Sicuramente lo spunto dei gemelli è ripreso da Plauto; lo Stiefel ha individuato vari e probanti elementi di confronto, come per esempio la situazione in cui il fratello gemello non vuole riconoscere i suoi genitori ritenuti pazzi (Cingana, V, 3, 11-12; Menecmi, V, 2, 5), o quella per cui i protagonisti hanno difficoltà a distinguere i gemelli (Cingana, V, 12 e Menecmi, V, 9). Anche La Calandria del Bibbiena è ritenuta da Stiefel una fonte più che certa: il che si desumerebbe chiaramente non solo dalla trama, ma anche dai protagonisti, per cui il vecchio Acario è ritenuto copia fedele di Calandro, e similarità marcate vengono individuate sia tra Barberina e Fulvia sia tra Spingarda e Fessenio. Per le situazioni, Stiefel nota che il travestimento di Medoro da ragazza ricorda da vicino quello di Lidio nella Calandria. Ulteriore fonte sembra essere stata l’anonima commedia Gli Ingannati, composta nell’ambiente degli Intronati di Siena e che conobbe una ventina di ristampe: in questo caso le rispondenze sarebbero individuabili soprattutto nella trama. Eguali consonanze sarebbero quindi ravvisabili nel Ragazzo di Ludovico Dolce e in special modo nella Talanta dell’Aretino, per cui Stellina è ripresa in Annetta e Alvigia (Cortigiana) e Gemma (Ipocrito) in Agata, la ruffiana. Infine, per la sua lunga permanenza alla corte di Ferrara, Gigio non poté non conoscere le commedie dell’Ariosto, per cui Agata ricorda Lena, la ruffiana, e un’eco di Acario si può intravvedere nella 34 A. Ronconi, Prologhi “plautini” e prologhi “terenziani” nella commedia italiana del ’500, in Atti dell’Acc. dei Lincei, cit., pp. 197-214. 306 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo figura dello sciocco Pacifico, marito della Lena35. Per quanto rigurda la “fortuna”, certamente poche commedie italiane possono contare imitatori tanto numerosi quanti ne potè La Cingana. Stiefel, con un’analisi al solito molto accurata, annotò sette-otto commedie italiane contemporanee o di poco più tarde. Così reminiscenze della commedia del Giancarli vengono individuate nel Filosofo dell’Aretino, dove compare tra i protagonisti il nome di Garbuglio. Alla Cingana sembrano essersi rifatti Girolamo Parabosco con La Notte (1547) e l’Ermafrodito (1549), il Salviani con La Ruffiana (1554), Giacomo Cenci con Gli Errori (s.d.), Marino Negro con La Pace (1561), Pietro Bonfanti con Gli Errori incogniti (1586), Curzio Gonzaga con Gli Inganni (1592), Girolamo Campana con Le Redolcite Notti (1620) e Melchior Bossi da Cori con La Gnaccara (1636)36. Più recentemente L. Zorzi ci informa che una Cingana venne rappresentata a Firenze nel 1589 dai comici Gelosi, i quali ne ricavarono un canovaccio basandosi sulla commedia del Giancarli. Essa venne recitata nel corso dei festeggiamenti per il matrimonio di Ferdinando I con Cristina di Lorena, subito dopo la Pellegrina (1567) di Girolamo Bargagli (1537-1586)37. Sarà da notare che Pellegrina è il 35 A. L. Stiefel, Lope de Rueda und das Italianische Lustspiel, «Zeitschrift fur Romanische Philologie», Halle, 1891, vol. XV, pp. 211-212. 36 A. L. Stiefel, Lope de Rueda..., cit., pp. 215-216. 37 L. Zorzi, Il Teatro e la città, Torino, Einaudi, 1977, p. 229; p. 330, alla voce Bargagli G. 307 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo titolo di una delle delle commedie perdute del Giancarli, insieme con il Furbo e L’Exorcismo38. E, tra parentesi, è un vero peccato che queste tre commedie siano andate irrimediabilmente perdute, perché, da come suonano i titoli, esse avrebbero probabilmente dovuto costituire nella mente del Giancarli una sorta di trilogia dell’astuzia e della furfanteria. Esse quindi ci avrebbero probabilmente tramandato non solo notizie interessanti sul versante biografico, ma anche esempi protocinquecenteschi di quel parlar furbesco, di quella lingua zerga di cui l’Aretino si mostrò entusiasta e di cui costellò variamente i suoi Ragionamenti. Alessandro Zanco, scrivendo all’Aretino nel 1531, osservava che «la lingua furfantesca è ora in colmo, e non se ragiona d’altro»39. Sarà altresì da rilevare che l’edizione più antica del Nuovo modo de intendere la lingua zerga, cioè parlare furbesco è ferrarese e risale al 154540, e che furbo (con i suoi sinonimi, Fonzo, Calcagno), ossia il termine usato da Gigio per titolare la sua commedia, è contemplato nel Nuovo Modo, sotto la lettera f (incontrario), con il significato di 38 M. Negro, Prologo della Pace: “...Arthemio... ch’ha composto tante bellissime comedie, tra le quali si ritrova in stampa La Cingana, La Capraria, La Pelegrina et altre degne d’esser comendate...”. Il Furbo e L’Exorcismo sono citate da Gigio stesso nella dedica della Capraria: “...Mentre io stavo varij modi fra me ripensando, mi sopragionse un dolce et piacevol sonno, nel quale mi si presentorno tre mie figliole poco inanti partorite da lo intelletto mio... La Capraria, Il Furbo, et Lo Exorcismo...”. Del Furbo e dell’Exorcismo non abbiamo ulteriori notizie, mentre La Pellegrina è menzionata da M. Quadrio, Della Storia e della Ragione d’ogni poesia, vol. V, p. 228; da E. Fontanini Zeno, Biblioteca dell’eloquenza italiana, Venezia, 1753, vol. I, pp. 365-366; da L. Allacci, La drammaturgia accresciuta e continuata fino all’anno 1755, Venezia, Pasquali, 1775, op. cit. alla voce Giancarli. 39 G. Aquilecchia, Pietro Aretino e la lingua zerga, in Schede di italianistica, Torino, Einaudi, 1976, p. 154. 40 P. Camporesi, Il libro dei vagabondi, Torino, Einaudi, 1976, p. 199. 308 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo compagno41. Certo è che Gigio non dovette aspettare il 1545 per conoscere il linguaggio gergale dei “furbi”, perché esempi di lingua furbesca li troviamo già nell’Ariosto della Cassaria. E guarda caso, il servo che fa uso del “parlar furbesco” nella Cassaria si chiama Furbo, proprio come il personaggio che dà il titolo alla commedia perduta di Gigio: il che rafforza la convinzione che la persona e l’opera dell’Ariosto abbiano costituito un momento importante nella formazione del giovane Giancarli durante il periodo della sua permanenza a Ferrara: Lucramo – Odi: costà m’aspetta: odi la musica! È tutta per amor. Furbo – Contro, ribeccola42. Vallone interpreta il gergo del Furbo come una semplice esclamazione: “perbacco”43. Ma Cecil Grayson, traduce il dialogo in modo più persuasivo. Lucramo intenderebbe dire: «Odi quel che ti dico: è tutto per burla»; e il Furbo: «Capo, sono d’accordo»44. Fuori d’Italia la commedia del Giancarli fu conosciuta anche in Spagna, ove fu ammirata e tradotta quasi letteralmente da Lope De Rueda nella Medora. Stiefel ipotizza che Lope De Rueda ne sia venuto a conoscenza nel corso di un suo viaggio in Italia, ma non scarta la possibilità che gli stessi comici italiani l’abbiano portata in Spagna, ove 41 Modo Nuovo de intendere la lingua zerga, in Camporesi, Il libro dei vagabondi, op. cit., p. 219. 42 L. Ariosto, La Cassaria, in Opere Minori, a c. di A. Vallone, Milano, Rizzoli, 1964, p. 221. 43 L. Ariosto, La Cassaria, op. cit., p. 221, n. 778. 44 C. Grayson, Appunti sulla lingua delle commedie in prosa e in versi, in L. Ariosto: lingua, stile e tradizione, in Atti del Congresso organizzato dai comuni di Reggio Emilia e Ferrara, 12-16 ottobre 1974, a c. di C. Segre, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 384-385. 309 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo nel 1538 agì una compagnia di attori sotto la direzione di Mutio, e dove nel 1548 alcuni attori italiani recitarono in lingua di fronte all’infanta Maria una commedia dell’Ariosto, senza poi contare che l’Arsiccio, ossia Antonio Vignali da Siena recitò commedie italiane alla corte di Filippo II sino al 155645. E devo dire con tutta sincerità che l’intuizione di Stiefel riguardo ad Antonio Vignali, detto l’“Arsiccio”, mi sembra quanto mai geniale e potrebbe addirittura far pensare che la già citata Pellegrina di Girolamo Bargagli derivi in qualche maniera dall’omonima commedia perduta del Giancarli. Vignali fu il fondatore dell’Accademia degli Intronati di Siena e accanto a lui, fra gli “Intronati”, troviamo i fratelli Scipione e Gerolamo Bargagli46. E fu Scipione che curò l’allestimento della Pellegrina dopo la morte del fratello47. Esistevano inoltre fortissimi legami tra gli “Intronati” e l’editoria veneziana, come attesta la stampa veneziana (1537) degli Ingannati, commedia nata nell’ambiente degli “Intronati”. Riguardo poi allo sperimentalismo linguistico che si stava avviando a Venezia, «su queste posizioni c’erano alleati anche in Toscana – rileva G. Folena, non a Firenze, ma piuttosto a Siena, che aveva allora ed ebbe a lungo, soprattutto attraverso gli Intronati... relazioni privilegiate, politiche, religiose e letterarie, con Venezia e l’editoria Veneziana». E Antonio Vignali, il fondatore dell’Accademia, aveva «come suo programma la difesa e l’espansione del volgare» e «soprattutto la 45 A. L. Stiefel, Lope de Rueda..., cit., pp. 318 sgg. Cfr. la nota introduttiva di R. Alonge a Gl’Ingannati, in Il Teatro Italiano, Tomo secondo, op. cit., p. 87. 47 L. Zorzi, Il teatro e la città, op. cit., p. 121. 46 310 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo rivendicazione della libertà linguistica contro ogni pruderie, del dire pane al pane e vino al vino, e usare quando ci vogliono i mots propres e il turpiloquio, perché, diceva l’Arsiccio, al quale piaceva l’odore di zolfo come al Folengo, “secondo li filosofi non è così brutta e così vil cosa che non sia molto più vile e brutto non saperla”...»48 Secondo Stiefel, che passò letteralmente al setaccio la Commedia dello spagnolo Lope De Rueda, la Medora non sarebbe altro che un mero rifacimento della Cingana, che venne imitata anche in Grecia49. LA LINGUA DELLA CINGANA Con La Cingana siamo di fronte a un fluttuante magma linguistico quale raramente è dato di riscontrare nella storia del nostro teatro dialettale: in essa c’è veramente di tutto: greco-italico, pavano, bergamasco, veneziano, arabo e gergo zingaresco. Ferrara costituisce quasi certamente il punto di partenza dell’esperienza linguistica del Giancarli. Lì vi lavorò Ruzante, il quale fu nella città estense almeno due volte fra il 1529 e il 1532, lasciando dietro di sé una vastissima eco. 48 G. Folena, Il linguaggio del “Caos”, in Cultura letteraria e tradizione popolare in Teofilo Folengo, in Atti del convegno tenuto a Mantova il 15-17 ottobre 1977, a c. di E. Bonora e M. Chiesa, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 240-241. 49 A. L. Stiefel, Lope de Rueda..., cit. pp. 319 sgg.: «Lope de Rueda possiede il soggetto... e l’esecuzione si accorda quasi letteralmente alle sue scene (della Cingana)». Cfr. inoltre G. A. Cibotto in Enciclopedia dello Spettacolo, op. cit., alla voce Giancarli. 311 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo L’influenza dello scrittore padovano si ravvisa in modo macroscopico nei “villani” proposti da Gigio: Garbuglio e Spadan sono contadini pavani né più né meno, segno evidente che la lezione ruzantiana aveva lasciato nel Giancarli un’impressione indelebile. Venezia è l’altra tappa fondamentale nell’itinerario culturale di Gigio. La disinvoltura con cui egli pone mano ai diversi linguaggi di Venezia implica non solo una lunga permanenza nella città lagunare, ma anche la conoscenza precisa di quel mondo cosmopolita in cui si convogliavano le più diverse lingue: l’eco vivissima delle più esoteriche voci della città risuona spesso nella Cingana, specie negli stradiotti, il cui esempio più significativo è ravvisabile in personaggi “greci” come Acario. Il suo stesso amico Andrea Calmo fu autore di varie commedie “in diverse lingue”, come La Potione, La Travaglia e La Spagnolas. È quindi probabile che i rapporti d’amicizia fossero sfociati in un reciproco scambio di vedute, in una comunanza di interessi e, infine, in una identità di esiti teatrali. Ma certamente questi sono solo alcuni dei motivi che portarono Gigio a un largo uso di forme dialettali, altri e non meno importanti non sono da sottovalutare. La preoccupazione, ad esempio, di compiacere il pubblico e di assecondarne i gusti. Il ’500 aveva posto di prepotenza il problema contadino, con tutte quelle implicazioni satiriche che una classe dirigente proclive a difendere comunque i propri privilegi incoraggiava negli scrittori di teatro. I quali si erano accorti ben presto che il pubblico di corte favoriva e ricercava i drammi “contadineschi”, portati alla ribalta con enorme fortuna da Ruzante e che avevano 312 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo conosciuto una crescente affermazione a teatro già nei primi anni del secolo. Non è certamente un caso che l’esperienza dialettale della nostra commedia inizi a dare i suoi frutti più saporiti nel ’500 e che la presenza del dialetto si proponga, sia pure di straforo, anche in autori di altissimo livello. Una prima conseguenza di questa consapevolezza degli autori di teatro, osserva l’Altieri Biagi, è che il dialetto viene pertanto a proporsi come lo strumento principe di individuazione netta e precisa dei ruoli sociali: la commedia del ’500 riflette quindi specularmente la divisione in classi cui è soggetto il “corpus” sociale. Va da sé che la trattatistica cinquecentesca sui “ruoli” era intransigente su questo punto: solo ai ridiculi era permesso l’uso del dialetto; ai personaggi di alta estrazione sociale si confaceva l’eloquio in lingua50. Protagonista contadino della Cingana è il villano Garbuglio, di cui Gigio ha saputo cogliere non solo l’aspetto linguistico fatto di pavano, ma anche, attraverso un’intelaiatura volutamente giocosa, elementi sociali che trascendono la mera satira per rappresentare a forti tinte un mondo contadino vessato dalla fame e dalle carestie. Certo, già lo abbiamo notato, Giancarli scriveva la sua commedia in anni molto diversi da quelli del Ruzante, e la sua risulta un’operazione meramente “letteraria”, di “imitazione” di situazioni tipicamente ruzantiane, per cui anche Garbuglio viene visto una vittima delle guerre che dalla fine degli anni ’20 avevano imperversato nel Veneto, portando ovunque rovine, morti e fame. «Sul padovano, scrive Menegazzo, come nella maggior parte d’Italia, si erano abbattuti nel 50 M. L. Altieri Biagi, Appunti sulla lingua..., op. cit., pp. 267-268. 313 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo primo Cinquecento tutti i flagelli biblici della peste, della fame e della guerra...»51. Il primo effetto della guerra è quello di mutare profondamente il carattere: «Garbuglio – ...Nu dalle ville, inanzo le guere, a giere nu tundi co è una mescola... ma daché è vegnù ste guere e che a som sté in campo... e cha gom spratiché con soldé, sbrisighei, Galiuti e altre zenìe a som deventé an nu scozzoné, an nu scaltrì...» (Cingana, I, 15). “Da quando siamo stati al campo, dice Garbuglio, siamo diventati anche noi dei furfanti e dei ladri”: della guerra come scuola di astuzia e di furfanteria ci aveva parlato negli stessi termini anche Ruzante nel Parlamento: «...Non bisogna esser coglioni, vi dico, io mi son fatto scaltro». E ancora: «...Non ne besuogna suppiar pi sotto la coa... a son sì... fato scozonò che no me cognosso ápì sa son mi o me frello…». (Cingana, I, 15). “Non bisogna soffiarci troppo sotto la coda, sono diventato un tal furfante che non mi riconosco più...”. Parole che nascondono una minaccia nemmeno tanto velata e in cui è condensata tutta la rabbia di una classe contadina sul punto di esplodere, pronta alla ribellione. Un’altra conseguenza inevitabile della guerra era la carestia, che sottraeva alle plebi rurali anche le più umili forme di sostentamento, 51 E. Menegazzo, Stato economico sociale del padovano all’epoca del Ruzante, in Atti del Convegno sul tema: La poesia rusticana nel Rinascimento, Problemi attuali di Scienza e di Cultura, Roma, Acc. Naz. dei Lincei, Quaderno n. 129, 1969, pp. 161 sgg. 314 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo rappresentato da polenta e rape, “pasto da villano”, “cibo da persone che molto s’affatichino”52. Cassandro – Che si fa alla villa? Garbuglio – A digom male e si a fagon pezo, po a la fagon anare a polenta e a rave... (Cingana, II, 11) (Diciamo male e facciamo peggio, e poi la facciamo andare a polenta e rape). Garbuglio – ...Quatro dì ca n’ha magnò solamen polenta e pan de sorgo (Quattro giorni che ho mangiato solo polenta e pan di sorgo). Che sono poi gli alimenti tipici del contadino pavano, come attesta Ruzante nella Prima Orazione (1521): «Pavan, an? Mo no ghe cresce po de tuta fata legume del mondo? De fave?... Mo biave, po, cun è mégio, sorgo, spelta, segale, orzo».53 L’altro eroe contadino della commedia è il facchino Martin Bergamasco: egli è il tipico contadino inurbato, piombato in città alla ricerca di un lavoro. Così Garbuglio inquadra, con stilemi tipicamente ruzantiani, roesso mondo54, i facchini bergamaschi, «...che sotto el caòre del sole no fu mé uomeni pi avezù e sotile e stregnente a i 52 P. Camporesi, La maschera di Bertoldo, op. cit., p. 18. Ruzante, La Prima Orazione, in La Pastorale. La Prima orazione. Una lettera giocosa, a c. di G. Padoan, Padova, Antenore, 1978, pp. 201 sgg. 54 «Il pavano roesso – scrive G. Padoan – significa propriamente “universo”, ma mi pare indubbio che il Beolco giochi allusivamente con questo termine. Il motivo del “mondo alla riversa” ricorre frequentemente nella letteratura». Cfr. G. Padoan, A. Beolco da Ruzante a Perduoçimo, in Lettere Italiane, XX, n. 2, 1968, p. 131, n. 52. E in effetti Ruzante, nel prologo della Moscheta, afferma: «Orbétena, el mondo è tuto voltò col culo in su». 53 315 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo denari de iggi, per que i vola per tutto el roesso mondo... per guagnare...» (Cingana, I, 15) (I facchini bergamaschi, che sotto il calore del sole non si videro mai uomini più avveduti, sottili e attaccati al denaro di essi, perché li si vede volare per tutto “l’universo mondo” per guadagnare...). Il povero facchino si lamenta di essere stato imbrogliato da Garbuglio (che in dialetto veneziano significa appunto “ingannatore”, “imbroglione” (Boerio)), che gli ha venduto un vecchio cavallo bolso. Martin Bergamasco – Orsù, l’è cusì com dis la canzò: “no ‘l ghe più fè nel mond, per que tug è bararìa”. Quel che dis più la bosìa è più credèst e più giocond , com ha facchg un vilà a mi, che me l’ha cazzada, c’ho credest comprà un so caval... si ho comprà una cavra a rost... (Cingana, I, 16) (Orsù, è così come dice la canzone: “Non c’è più fede al mondo, perché tutto è imbroglio”. Colui che dice le bugie più grandi è il più creduto e il più felice, come ha fatto un villano con me, che me l’ha messa...; ho creduto di comprare un cavallo e invece ho comprato una capra arrosta...). Tug è bararìa: Martin Bergamasco traduce nel suo dialetto le parole famose del Viaggio in Alemagna (1507) di F. Vettori: «...il cervello di questo (del cerretano) si fa acuto a trovare arte nuova per fraudare e quello d’un altro si fa sottile per guardarsene. Et in effetto tutto il mondo è ciurmeria...».55 55 P. Camporesi, Il libro dei vagabondi, op. cit., p. 325. 316 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo Secondo l’ideologia corrente il villano ruba per sua natura, perché il rubare, l’arraffare è insito nella sua psiche: «Di natura baia il cane / di natura robba il villano», diceva un antico pronostico, che riassumeva perfettamente l’idea che la classe dirigente cinquecentesca s’era fatta intorno ai villani, agli “uomini bestia”. «Progenies malnata quidem villana vocatur», scriveva Folengo nel Baldus (XII, vv. 246 sgg.). La citazione del Folengo è a mio avviso pertinente, perché nelle commedie del Giancarli vi sono “spie” che fanno pensare a una qualche influenza folenghiana. Fra i nomi dei personaggi che popolano il Baldus, c’è uno Spingardus che rimanda inequivocabilmente al servo Spingarda della Cingana56; così come nel canto XIII appaiono varie parole arabe (atholac, alphatar, aludel), che riecheggiano la lingua mista di arabo e dialetto con cui si esprime la zingara del Giancarli57. Uomo della frode, il villano trova la sua collocazione nella stoltezza e nella buffoneria: lo Spadan della Capraria, Garbuglio e Martin Bergamasco sono soprattutto dei buffoni, uomini degradati, atti solo a far ridere il pubblico della città per la loro stoltezza e la totale insipienza. Ma l’occhio di Gigio non si sofferma solo sui villani, ma anche su quel mondo oscuro e maledetto dei subalterni che vivono a Venezia, e la cui unica fonte di sopravvivenza è data appunto dall’imbroglio, dalla frode e dal raggiro. Così tutta l’esistenza di Agata, la ruffiana, ruota intorno al guadagno, ottenuto con l’inganno e la 56 B. Migliorini, Aspetti rusticani del linguaggio maccheronico del Folengo, in Atti..., Quaderno 129, cit., pp. 192 sgg. 57 B. Migliorini, Aspetti rusticani..., op. cit., pp. 188 sgg. 317 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo prostituzione, mentre una morale cinica permea di sé ogni azione dei “servi”, come ben si vede dal lungo monologo di Spingarda (IV, 6): Spingarda – ...Così comanderà il tesoro di cui sarò possessore... beato colui che, facendomi di beretta, avrà da me in iscambio un mio cenno co ’l capo. Facend’io così, ne avrò rispetto... perché sono passati quelli umori all’antica, quando si facea onore alla nobiltà e alla virtù. Non più nobiltà, non più virtù, no: o sia un uomo o sia un asino, pur che sia carico di denari faciasegli onore, perché lo merita. ...Uscirò per una volta di servitù e diverrò d’un asino un uomo, perché non è uomo colui che non ha danari oggidì... È indubbio che nella commedia circola un’atmosfera molto aretinesca, e Agata, con i suoi “consigli” alla figlia Annetta, ricorda molto da vicino la Nanna dei Ragionamenti. Agata – Aldi fia, no ghel far pur a sàver ti, che dalla mia banda fa conto... no aver per mal de ste mie parole, perché ti vedi ben che son pi vecchia ca ti, e de nu vecchi no xè bon altro che i consegi. Annetta – Come a male, ohimé? Dite pur ciò che vi piace, che tutto si torrà… in buona parte. Agata – Questo te vogio dir: che da qua ananti tu ti faci pi conto de Spingarda... cerca de farghe più piaséri che ti puòl, perché chi sa che ancora a questa no fosse la to ventura. Contentalo de quello che ‘i vuol. Si in casa te vien... con to commodo, come saràve a 318 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo dir fazoleti, qualche camisa, qualche linzuol vecchio, no restar de tuòrli. L’è ben vero che sto zuògo no besògna farlo troppo spesso, azò che to madonna no se ne accòrza... No te far conscientia de questo, sì ben i no xè toi, che ad ogni modo sti patroni no puòl mai pagar tutte le vostre fadìghe. E si no avessi donde liogàrli, no te manca la casa de sta to vecchia, che è vostra secretaria. Cusì ancuo tuò una cosa, doman un’altra, tanto che in cao de l’anno s’ha sunào una meza massarìa senza spesa. E quando ti no la volessi adoperar, no te mancherà venderla... Che dìstu de sti mei conségi? te piàsei? Annatta – Madonna sì! Agata – Adònca fa che ti i metti in opra. Aldi: peltri, cusilieri, piròni, cortèi, saliere: tutto è robba! (Cingana, II, 1). Agata, oltre che ruffiana, si presenta inoltre come una “strega”, in grado di preparare misteriose pozioni per le più svariate necessità. E come tutte le streghe gode di una fama sinistra, come quella, ad esempio, di mangiare i bambini. Così Fioretto, un ragazzino, le si rivolge in questi termini: Agata – Ah, fìo, a chi digo mi, an? onde vàstu sangue? Fioretto – Ohimé, ohimé, ohimé. Agata – Onde còristu? No aver paura. Fioretto – Falisco, o Falisco: la strega che va in corso. Apri tosto. Agata – Nona, fìo. 319 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo Fioretto – Falisco m’ha pur detto che voi mangiate i bambini. Agata – Oh, che gramo el fazza Dio, sémpio che ’l xè. Tiò, che te vògio donar sto bel pomo, caro. Fioretto – Ma voi mi mangiarete poi. Agata – No aver paura, te digo! Fioretto – Voi mangiate pur li fanciulli e li forate il corpo. (I-3) Ma nella commedia il personaggio chiave di questo mondo oscuro è la zingara, che provenendo da mondi lontani e sconosciuti, è depositaria di misteriosi segreti, che vela con il suo arabo “balbettante”, proveniente probabilmente dall’Egitto, come nota il Teza58. Medoro – Come vi poté sofferir il core di lasciar il propio [sic] figliuolo, uscitovi del propio ventre e portarne me, ch’io vi ero nulla? Zingara – ...Cando mi entra fil beith abuch, sul casa de to pari, ... – una fantesca mi chiese – ...se mi sabèr far martella l so inamorata (sic); mi dito de sì e promessa far gran cosa e presta mi insegnata a ella un ration e mandata ella sul copi de casa... e mi rimasta sola... messo mio figliuol cingani cul to sorella in chel to loga (sic). (Quando io entrai fil beith áabuch, in casa di tuo padre, una fantesca mi chiese se sapevo far un incantesimo al suo innamorato. Io dissi di sì, e promisi di far gran cosa, e prestamente le insegnai uno scongiuro e la mandai sul tetto di 58 E. Teza, Voci greche e arabe..., cit. pp. 12-13. 320 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo casa. Rimasta sola, misi il mio figlio zingaro con tua sorella al posto tuo.) Medoro – ...Essendo voi cingana, non vi si crede con settanta pegni. Zingara – Letachaf, no dubita ninta... (II-12) Come si può vedere, le parole arabe vengono subito tradotte in un veneziano storpiato, suscitando così l’ilarità del pubblico. Fil ábeith abuch, “sul casa de to pari” (in casa di tuo padre); letachaf, “no dubita ninta” (non dubitare per niente). Ma l’arte zingaresca è tesa all’imbroglio, e a farne le spese è Garbuglio, imbroglione a sua volta gabbato, il quale, dopo aver saputo delle capacità della zingara a far nigromanta... a far l’incanta, chiede: Garbuglio – ...Dime, cara mea, savèu farme una qualche pregantéola que la me Gnocheta me morisse drìo? (Dimmi, cara mia, sai farmi un qualche incantesimo in modo che la mia Gnocchetta mi muoia dietro?) Zingara – Chesta star apunto el mio arti. (Questa è appunto la mia arte) Zingara – Anduch’mantil, enti, aber fazuleta? (Anduch’ mantil, enti: hai un fazzoletto?) Garbuglio – A crezo averlo... (credo di averlo) Zingara – Mi ligàr bel ti l’occhia, enti no bedér ninta. (Ti benderò per bene gli occhi, perché tu non veda niente) 321 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo Garbuglio – Oh, oh, a sto muo sì che la va ben. (Oh, oh, in questo modo va bene) Zingara – ...Andor... flus, barda se ti abér danari adossa, cava fuora... che no te fazza mal el saitan. (Andor... flus: guarda se hai denari addosso, tirali fuori, che non abbiano a punirti el saitàn, gli spiriti.) (IV-13) Anduch’ mantil, enti, “guarda se hai un fazzoletto”; andor... flus, guarda se hai denari, tirali fuori, se non vuoi che ti facciano del male el saitan, gli spiriti59. «Non prima dell’anno 1400 – annota il Muratori – uscì de’ suoi nascondigli questa mala razza di gente, fingendo per sua patria l’Egitto e spacciando che il re di Ungheria gli avea spogliati delle lor terre: il che fa ridere chiunque sa di geografia, ma si credea facilmente una volta dall’ignorante plebe... Questa sporca nazione, cacciata dal proprio covile..., comparve nelle provincie occidentali, e piena di mille bugie seppe quivi piantare il piede... Non campi, non arte aveano che desse loro da vivere. Il furto, la rapina, le frodi erano il granaio infausto per loro... E pure si tollerava questa infame canaglia perché facea credere alla gente grossa... che seco portava il dono d’indovinar le cose avvenire...»60. È indubbio che tra ’400 e ’500 il problema degli zingari ebbe una risonanza sociale non indifferente, con riflessi notevoli sia nella letteratura sia nella pittura. Tra XV e XVI secolo ebbero ad esempio 59 E. Teza, Voci greche e arabe..., cit., p. 13. L. A. Muratori, Dissertazione sopra le antichità italiane, Milano, Pasquali, MDCCLI, tomo III, p. 298. 60 322 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo una certa fortuna le “zingaresche”61, e nella pittura non mancarono esempi significativi proprio nell’ambiente emiliano e veneziano. Non sarà inutile ricordare che la famosa Tempesta di Giorgione, nell’inventario approntato da Marcantonio Michiel, quando il quadro si trovava in casa Vendramin, viene titolato come El paeseto in tela cun la tempesta cun la cingana el soldato62. Al Correggio appartiene la famosa “Zingarella” e sempre col nome di “Zingarella” fu chiamata l’Assunta del Tiziano. Quanto poi alla presenza di riflessi arabi nella cultura di Gigio, ciò è da rapportarsi non solo a influenze letterarie, ma, come abbiamo già ricordato, anche pittoriche: in questo senso è difficile non pensare a Palazzo Schifanoia, con tutti i suoi simboli astrologici che rimandano a indubbie contaminazioni e fusioni tra mondo classico e arabo. Magia, negromanzia, cartomanzia: sono termini che ricorrono con insistenza nelle commedie del Giancarli. E già abbiamo rilevato come a Ferrara, nei primi anni del ’500 avessero operato i più noti cultori di arti occulte, da Paracelso al famoso medico Giovanni Mainardi, il quale si dedicò allo studio della medicina araba, che sola sembrava depositaria di conoscenze arcane e misteriose. Ma tutta questa complessa materia, magia, astrologia, alchimia, che potrebbe far pensare a una cultura e a una società tutto sommato ancora primitive e facilmente suggestionabili, è invece il segno forse più potente della modernità verso cui si stavano avviando le tre città in cui Gigio visse la propria 61 P. Toschi, Le Origini del teatro italiano, Torino, Boringhieri, 1976, pp. 587 sgg. E. Carli, G. A. Dall’Acqua, Storia dell’Arte, Bergamo, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, MCMLXX, vol. III, p. 163. 62 323 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo esperienza di uomo, di scrittore e di pittore. Questo triangolo conosce fra la fine del ’400 e la prima metà del ’500 un’insorgenza di elementi innovatori, in senso mercantile e, direi quasi capitalistico, quali nessun’altra città o corte conobbero in quegli anni. Il Doge Andrea Gritti, che governò sin quasi sulla soglia degli anni ’40 e la cui influenza si fece sentire sino al ’60, diede il via a una modernizzazione della città, accogliendo tutte quelle frange sociali che la cultura egemone del tempo condannava come eretiche. Ebrei, greci, alchimisti: tutta questa gente, portatrice di malnoti segreti magici, trova ospitalità nella “libera” Venezia, e ciò non tanto perché il Doge sia dotato di particolare “buon cuore”, ma essenzialmente perché egli usa le capacità tecniche di queste persone per rafforzare la potenza di Venezia63. Sono Venezia, Ferrara e Mantova che accolgono per loro utilità le minoranze perseguitate, e il Gritti, in quest’opera di protezione, risulta “la punta più matura e avanzata”64. Nella prima metà del ’500, Venezia è veramente il centro di raccolta di tecnici, di inzegneri, medici, architetti, artisti. «Non sono solo Sansovino, L’Aretino, Tiziano, il Doni ad essere coinvolti in un processo di rinnovamento urbano, scrive l’Olivieri, ma gli alchimisti, che si sono formati nelle “fornaci” di Costantinopoli, poi fuggiti, i fornai della Terraferma che portano a Venezia nuovi ingegni per una più razionale utilizzazione dei mulini, i tecnici di armi bavaresi e 63 Su tutto l’argomento riguardante la consistenza della “magia” come elemento modernizzante tra Venezia, Ferrara e Mantova, cfr. il bel saggio di A. Olivieri, Un’articolazione urbana, la Corte: tecnologia e modelli culturali fra ’400 e ’500, in Economia e Storia, Milano, Giuffré, 1983, pp. 139-154. 64 A. Olivieri, Un’articolazione..., cit., p. 145. 324 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo svizzeri, che recano proposte per il miglioramento delle artiglierie, i greci che sono vieppiù usati nell’Arsenale»65. Il Gritti apre le porte soprattutto agli alchimisti, che possiedono l’arte della manipolazione dell’oro, che addirittura sanno creare l’oro, quell’oro che poi sarà utile nelle guerre e nell’acquisto di tutti i beni necessari alla città66. Essi sono appunto quei «filosofi, strologi, alchimisti e nigromanti», cui accenna l’Aretino nella Terza Giornata dei Ragionamenti67. I rapporti del Gritti con Ferrara e Mantova sono strettissimi. A Mantova giungono gli ebrei con tutto il loro corredo di conoscenze magiche, astrologiche, mediche (di una medicina occulta). Quando poi per loro l’aria si fa irrespirabile a Mantova, essi trovano un rifugio sicuro a Ferrara, la Ferrara di Renata di Francia68. Nelle riunioni che il Doge Gritti tiene a Palazzo Ducale, fra il 1530 e il 1537, egli si premunisce di invitare anche i rappresentanti delle corti di Ferrara e Mantova, perché è anche qui che si stanno ponendo le basi di una cultura moderna, che utilizza tutte le potenzialità, anche quelle eretiche69. Mantova e Venezia costituiscono le principali vie di congiunzione degli alchimisti, come del gioco e delle ricchezze di corte. L’Aretino ne aveva compreso l’importanza70. Lo spazio apparentemente magico e irrelato rispetto ai reali bisogni della società è invece uno spazio utile: gli eretici, le minoranze sono invece 65 A. Olivieri, Un’articolazione..., A. Olivieri, Un’articolazione..., 67 P. Aretino, Sei Giornate, a c. XXXVII. 68 A. Olivieri, Un’articolazione..., 69 A. Olivieri, Un’articolazione..., 70 A. Olivieri, Un’articolazione..., 66 cit., p. 145. cit., p. 147. di G. Aquilecchia, Bari, Laterza, 1980, pp. Vcit., p. 145. cit., p. 143. cit., p. 147, n. 35. 325 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo depositarie di tecniche, anche agricole, tendenti a migliorare il rendimento delle terre. Quanti problemi aveva Ferrara per l’area fluviale del Po? Di quali e quante tecnologie aveva bisogno per tentare di domare una natura avversa? Ecco quindi Ferrara che richiama a sé ogni eretico che possegga però strumenti tecnici adeguati. Un altro rodigino, molto più giovane di Gigio, Giovan Maria Avanzi (1549-1622), anch’egli girovago inveterato, avrà rapporti con la corte ferrarese, e anche con Adria, prima di stabilirsi a Rovigo definitivamente nel 1581. E l’Avanzi era un eretico, ma anche un tecnico che fondava «le sue argomentazioni sulla coltura del grano e del fagiolo sulla base dei testi e delle discussioni, che alla corte ferrarese avvenivano e che rintraccia nella biblioteca del Groto».71 Questa era dunque la vita che circolava intorno a Gigio, una vita che però, già l’abbiamo notato, all’affacciarsi degli anni ’60 del ’500 tende a dissolversi per la forza della Controriforma: l’affermarsi delle istanze inquisitoriali implicò infatti una vera e propria “fuga”, un’“emigrazione” non solo di capitali e di tecniche, «ma anche l’abbandono di Venezia da parte di quegli intellettuali, come il Curione e il Doni, che l’avevano privilegiata per il loro lavoro tipografico ed intellettuale».72 Erano quindi svaniti nel nulla i sogni aretiniani di una società veneziana “aperta”, in cui era possibile l’ascesa sociale, quei sogni che erano stati propri, già l’abbiamo visto, anche di Gigio. Quanto infine 71 72 A. Olivieri, Un’articolazione..., cit., p. 151. A. Olivieri, Un’articolazione..., cit., p. 152. 326 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo all’uso variegato della lingua greca, sarà da considerare che «presso la Scuola di San Giorgio dei Greci a Venezia aveva sede la comunità di quella nazione. Fra mercanti e soldati si incontravano molti pittori di immagini sacre, che continuavano a ripetere l’iconografia bizantineggiante dei quadri di devozione»73. Ed è probabilmente in simili ambienti che Gigio venne a contatto con il linguaggio degli stradiotti, i soldati greci al servizio della Serenissima. Organizzati in un corpo militare autonomo, gli stradiotti operavano di rincalzo alle milizie veneziane, e di qui la necessità e la ragione di una distinzione del nome, che indicava «...la loro professione di soldati»74. Notava ancora il Sala che essi erano soldati per lo più rozzi e indotti, che parlavano un veneziano sgrammaticato, per cui ne risultava un linguaggio estremamente ibrido, fatto di veneziano storpiato e parole greche. Anche nella Capraria abbiamo esempi eloquenti di linguaggio stradiotesco attraverso la figura del vecchio Afrone, che dice venderi invece di “vedere”, andosso al posto di “addosso”, crendo invece di “credo”. Per il greco di Afrone, gia abbiamo visto qualche esempio sopra, ma non dissimile è il linguaggio di Acario, altra vittima delle arti della zingara. Il Teza, rifacendosi agli studi di C. Sathas, ne riporta in nota alcune considerazioni, per cui «quasi tutte le prime commedie italiane hanno argomenti di grecità medievale: e il più curioso è questo, 73 74 G. Muraro, El Greco, Milano, Garzanti, s.d., p.1. G. Sala, La lingua degli stradiotti..., op. cit., p. 143. 327 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo che i personaggi, in quelle del Ruzante, del Giancarli, del Calmo e di altri, parlano i dialetti di allora dei Cretesi, dei Corfioti, dei Rodiani».75 Come ha osservato il Sala, il greco presente nelle commedie era fatto più che altro di stereotipi, largamente correnti, e pertanto facilmente riconoscibili dal pubblico e per altro tradotti pressoché simultaneamente dai personaggi stradioteschi. Acario – ...Ti ave visto mai chel fia del vecchia? Spingarda – Madonna Stellina volete dir voi? Acario – Si, madonna Stellina, bella, dulci, cara, pulìa fatta sul parandiso. Spingarda – Io la conosco sì, perchè? Sareste voi forse mio rivale? Acario – Chie Stivali? Spingarda – Io non dico “stivale”. Io dico mio “rivale”. Acario – Chie vol dir rivali? Spingarda – Mio concorente: se siete inamorato d’essa. Acario – Dunga anga ti xe inamorao d’ella. Spingarda – Che non lo sapete se non adesso? Acario – Oymena to cardiamu, ohimé la mio cori (Cingana, II, 5) Oymena to cardiamu (Oiména to Kardìa mou), “Oimé, povero il mio cuore”. E gli esempi si potrebbero moltiplicare. Ma oltre al greco v’è anche un uso vario e arbitrario del veneziano, «e il pubblico rideva – 75 E. Teza, Voci greche e arabe..., op. cit. p. 7. 328 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo osserva Teza – a sentire mio mugieri e sul casa e della diavulo e sul Venesia... e cento altre strampalerie»76. Senza poi contare anche la presenza di un comico del significante, per cui, agli orecchi del vecchio Acario, “rivale” diventava “stivale”: una tecnica che avrebbe avuto una fortuna immensa nella Commedia all’Improvviso. Non per nulla il Sanesi, e per la presenza di personaggi come Martin Bergamasco e per l’uso variopinto dei linguaggi, vide nelle commedie del Giancarli le prime avvisaglie dell’incipiente Commedia dell’Arte77. Enzo Sardellaro. Professore di Lettere Italiane Via T. Aguiari 7/A – Adria – Ro E-mail: [email protected] Appendice Cenni biografici Per quanto riguarda la biografia, le notizie sono scarne: Gigio, secondo Stiefel, dovrebbe essere nato intorno al 1508-1509 e morto circa 1570. Confusione notevole è sorta anche intorno al nome. Così, 76 77 E. Teza, Voci greche e arabe..., op. cit., p. 8. I. Sanesi, La Commedia, op. cit., vol. II, p. 434. 329 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo per esempio, Gigio è “Giorgio” pari pari per il Salaa, mentre diventa un improbabile “Giorgio Antonio” per il Tezab, i moderni esegeti (G. Davico Bonino) lo trasformano in un elegante Gian Artemio Carli, dove, si vede bene, il cognome è stato secato a metà per interporvi “Artemio”. Il quale, come è facile intendere, è “nome d’arte”, e il Teza ne ipotizza l’origine in un critico Artemo, che scrisse un Dei Pittori o in un pittore di nome “Artemon”, ricordato nelle Istorie di Plinio. Una fonte, che però fu largamente equivocata fu quella di Baldassarre Bonifacio, il quale scrisse: «...Viget quoque memoria Gygis Arthemij Jancaroli Rhodigini, excellenti ingenio viri, et in comica poesi percelebris, huius Joanniss Baptistae consanguinei... Gygis Arthemij duae... personant in theatris comoediae... altera Capraria nuncupata... altera cui Cingana nomen fecit...» (Vivida è ancor la memoria Di Gigio Artemio Giancarli rodigino, uomo d’eccellente ingegno e assai famoso nell’arte comica, consanguineo di questo Giovan Battista. Due commedie di Gigio echeggiano ancora nei teatri, una chiamata Capraria, l’altra cui pose nome di Cingana).c Però, e qui sta il “busillis”, un poco prima di menzionare Gigio, Baldassarre Bonifacio si era soffermato su un altro membro illustre a G. Sala, La lingua degli Stradiotti nelle commedie e nelle poesie dialettali veneziane del secolo XVI, in Atti dell’Ist. Veneto di Scienze, Lettere e Arti, Anno Acc. 1950-’51, Tomo CIX, Classe di Scienze morali e Lettere, p. 156. b E. Teza, Voci greche e arabe nelle commedie del Giancarli, in Rendiconti delle Regia Accademia dei Lincei, Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, Estratto dal vol. VIII, fasc. 4, seduta del 23 aprile 1899, p. 135, p. 3 dell’estratto. c Illustrium Rhodiginae urbis virorum elogia, a Baldassare Bonifacio Episcopo Justinopolitano, c. 87. Il Ms., del 1654, si trova nella Biblioteca dell’Accademia dei Concordi di Rovigo. Si tratta di un manoscritto in latino, di 30x40 cm, numerato, con scrittura calligrafica di una sola mano). 330 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo della famiglia Giancarli, l’assessore e giurisperito Giovan Battista Giancarli, il quale «...post diutina studia bina iurisprudentia, bina diademata consecutus... assessorium munus audacter arripiens, perpetuo cursu per omnes Reipublicae Venetae urbes summa cum integritate et sapientia Praetorius iudex assidit...» (Dopo lunghi studi, conseguì la dignità in ambedue i diritti, e, ottenendo brillantemente la carica d’assessore, con una carriera ininterrotta, fu giudice pretorio, con somma integrità e sapienza, per tutte le città della Repubblica Veneta) (c. 86). Bronziero aveva scorso molto “velociter” il manoscritto del vescovo Baldassarre, cadendo in una sequenza impressionante di equivoci, scrivendo: «...Gian Battista Giancarli, assessore... stampò la Capraria e la Cingana e fu intorno al 1551...»d. Il disgraziato “error” del Bronziero gettò nella disperazione il maggiore studioso del Giancarli, il tedesco A. L. Stiefel. Il quale, riportando le parole del Bronziero, ne costellò la citazione con una sequenza preoccupata di punti interrogativi: «...Gioan Batista (?) Giancarli Assessore (?) stampò la Capraria e la Cingano e fu intorno al 1551 (?)…». Infatti, quella famosa data, 1551, che aveva fatto ammattire Stiefel, non ha senso alcuno se riferita a Gigio o alla sua opera, mentre l’acquista se rapportata a Giovan Battista Giancarli, il quale, nell’“Anno Domini” 1551, «...Annam filiam Vincentij Zeni patricij veneti secundis nuptiis coniunxit...»: in altre parole l’illustre legista s’era risposato proprio nel 1551 con Anna, figlia dell’altrettanto d Bronziero, Istoria dell’origine e condizioni dei luoghi principali del Polesine di Rovigo, Venezia, 1747, p. 127. 331 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo illustre patrizio veneto Vincenzo Zeno. La data, chiarissima, la si può leggere sul margine sinistro del manoscritto, in relazione alle “secundis nuptiis” già citate (c. 86). Se oggi possiamo spendere due parole sullo “status” sociale di Gigio, lo dobbiamo in gran parte al vescovo Baldassarre Bonifacio. Non dobbiamo però compiere l’errore di farci fuorviare dal fatto che il di lui consanguineo, a noi già noto, Giovan Battista, fosse uomo di elevata condizione sociale. Il nostro vescovo ci informa infatti che Giovan Battista aveva sudato per farsi un po’ di strada nel mondo. Era costui Antonii Mariae filium, il quale Antonio vien classificato “inter minutos cives”, che è come dire di estrazione pressoché popolare. Tuttavia, il rampante Giovan Battista, “fluctibus emergens”, emergendo cioè da un’umile condizione, grazie ai propri studi riuscì a diventare un eminente cittadino. Ma forse la cosa gli riuscì più facile perché Giovan Battista seppe calibrare un paio di matrimoni che dovettero in qualche modo facilitargli la carriera: uno con «Lauram..., viri perillustris filiam» (Laura, figlia di un uomo illustrissimo) (1547) e un altro (già menzionato) con «Annam... filiam Vincentii Zeni patricij veneti» (1551), ottenendo così, a detta di Baldassarre, anche la carica di “maleficiorum iudex”. Proseguendo, il prelato aggiunge anche qualche altro particolare interessante: afferma cioè che se il nostro uomo emerse per meriti puramente personali (“huius gratia meruit hic vir”), lo conosce però anche consanguineo di una illustre famiglia del patriziato veneto, detta “Zancarola” («...et ab illustri patriciaque veneta... familia Zancarola»), il cui “cognomen” era «Jancarolus o Zancarolus, eo tantum discrimen», con questa sola 332 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo differenza, a seconda, cioè, se ne pronunciasse il nome secondo l’uso latino («latine») o italiano («italice»). Infatti la suddetta famiglia Zancarola era sì illustre per antichità, ma anche alquanto male in arnese sotto il profilo patrimoniale. I Zancarolo appartenevano ai cosiddetti “nobili poveri”, che a Venezia costituivano una vera pletora e che la Serenissima manteneva in qualche modo. Orbene, come dicevamo, lo Stato veneziano si faceva carico dei propri “nobili mendicanti” e, con nostra soddisfazione, abbiamo constatato che tra i «plerique nobiles nostri pauperes» è menzionato un Giovanni Zancarolo: «...L’impero veneziano, scrive D. E. Queller, offriva molteplici occasioni di impiego per i nobili poveri. Tra le altre, le castellanie e i posti di comando venivano utilizzati in tempo di pace per distribuire incarichi... Una grazia dei 1311 concedeva la castellania di Castro Nuovo di Creta a Giovanni Zancarolo, che, catturato nella guerra di Ferrara, aveva trascorso undici mesi in prigione...»e. È pertanto presumibile che Gigio appartenesse a uno dei rami collaterali della variegata e tutt’altro che facoltosa famiglia Zancarola, ossia a quei “minutos cives” cui accennava Baldassarre Bonifacio. Con tutto ciò, nulla vieta di pensare che alcuni componenti la famiglia Giancarli potessero avere conoscenze e relazioni anche importanti a Ferrara, tali, voglio dire, da permettere di allogare a bottega il giovane Gigio presso i maestri più qualificati della pittura ferrarese. Infatti l’arte con la quale Gigio si guadagnava il pane era quella del pittore: la drammaturgia costituiva per lui solo un e D. E. Queller, Il Patriziato veneziano, La realtà contro il mito, «Il Veltro», 1987, 73 79-80. 333 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo “pendant”, che però per noi è fonte rara a cui poter attingere qualche notiziola non peregrina. Infatti, nella Dedica della Capraria troviamo scritto: «...Tosto che la famma (sic) fece udire, o grande Hippolito, la desiderata venuta tua... in me nacque... desiderio de pagare in parte li favori, et benefitij, che giovanetto ne la tua patria io ricevei, da lo illustre tuo çio Sigismondo, et dal magnanimo duca Hercole tuo fratello, et da te insieme...»f. Spiccano con chiarezza due fatti molto significativi: il primo è che Gigio, giovanetto, era a Ferrara; il secondo, non meno importante, che all’epoca aveva goduto di una certa consuetudine con alcuni fra i più illustri componenti la famiglia d’Este, da Sigismondo a Ercole II, per non parlare dello stesso Ippolito II, il futuro cardinale. Qui il Giancarli fece il pittore. Come poi a Venezia, dove entra in contatto con L’Aretino. L’Aretino pubblica nel 1546 una lettera stizzita nei confronti di Messer Gratiano da Perugia, che lo assilla con la richiesta di sonetti, ecloghe e simile merce: Aretino assicura il suo interlocutore che a Venezia non mancano poeti in grado di servirlo degnamente, anche se nessuno di essi eguaglia «le cose di Gigio Artemio Rodigino, poeta non men famoso, che pittore valente»g. Ricordiamo che le lettere dell’Aretino hanno in quegli anni a Venezia una fortuna senza precedenti: tutti le leggono. Allo stesso modo con cui egli sa flagellare i f La Capraria, Comedia di Gigio Arthemio Rhodigino, Appresso Francesco Marcolini, in Venetia, MDXXXXIIII. A lo Illus. et Reverendissimo Signore Don Hippolito da Este Cardinal di Ferrara Gigio Arthemio. g P. Aretino, Il terzo libro delle Lettere, Venetia, Gab. Giolito, 1609, p. 358. 334 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo suoi nemici, l’Aretino è nel contempo un’ottima cassa di risonanza per quanti, come Gigio, si muovono nel suo “entourage”. Aretino spende sul Giancarli poche ma significative parole: lo definisce poeta famoso e pittore valente, che nel gergo artistico dell’epoca suonava come “virtuoso”, ossia particolarmente capace nell’arte della pittura. In una città come Venezia, dove la pletora dei pittori è immensa, una presentazione benevola del più noto fra i critici dell’epoca alza enormemente le quotazioni in borsa del pittore rodigino, allargandone la fama e le conseguenti possibilità di guadagno. Nel frattempo L’Aretino si fa promotore di iniziative culturali di vasto respiro; non solo, ma egli diventa anche la “guida” di vari editori veneziani, tra i quali spiccano Gabriele Giolito e Francesco Marcolinih. Marcolini, in modo particolare, è «un uomo dell’Aretino», disponibile a ogni suo suggerimento, e insieme danno vita a «un’impresa editoriale e letteraria di tipo nuovo». L’Aretino, «digiuno di ogni educazione umanistica», apre una breccia nel sistema chiuso della letteratura umanistica e tira la cordata a tutta una serie di poligrafi e “scapigliati”, che a Venezia irruppero impazienti di sperimentare i loro “capricci”i. Non è certamente un caso che l’edizione più antica della Capraria, del 1544, sia stata «impressa presso Francesco Marcolini», e quindi riedita dallo stesso nel 1554. A Venezia il Giancarli fu amico anche del Calmo, che lo ricorda in una sua lettera. Il Calmo afferma di h A Quondam, “Mercanzia d’onore” e “Mercanzia d’utile”. Produzione libraria e lavoro intellettuale a Venezia nel ‘500, Bari, Laterza, 1977, p. 60, n. 11. i C. Dionisotti, La letteratura italiana nell’Età del Concilio di Trento, op. cit., p. 244; pp. 239 sgg. 335 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo sentire il dovere di pagare, almeno in parte, i “debiti” che egli ha nei confronti di Gigio, uomo «nassuo fuor de le buèle de la poesia» (uomo nato fuor dalle budelle della poesia). Dopo aver lodato le opere pittoriche di Gigio, nelle quali «ogni zorno le persone se ispirita drento» (ogni giorno le persone ci si spiritano dentro), il Calmo ne esalta anche l’eccezionale produzione poetica, composta da «egloghe, soneti, capitoli, stantie e tanta roba, che no la poràve portar tre burchi feranti»: ossia, tanta di quella roba, che a stento la potrebbero traportare tre barche pesantil. Bibliografia l Cherebizzi di M. Andrea Calmo. Ne’ quali si contengono varij et ingeniosi discorsi, et fantastiche fantasie filosifiche, compresi in più lettere volgari, nella lingua antica dechiariti. In Trevigi, appresso Fabritio Zanetti, MDCI, p. 69. Ma ora anche in Le lettere di Messer Andrea Calmo, riprodotte sulle stampe migliori con introduzione e illustrazioni di V. Rossi, Torino, Loerscher, 1888, pp. 120-121. La stessa lettera anche in Il Teatro Italiano, op. cit., tomo I, pp. 520-21. Per la traduzione delle locuzioni gergali veneziane ci siamo serviti di G. Boerio, Dizionario del dialetto veneziano, Cecchini, 1856, rist. anastatica, Martello, Milano, MCMLXXI.). Le tracce si perdono intorno al 1570. All’altezza di questa data M. Negro, nel Prologo della Pace (Venezia, Zanetti, 1561) ricorda l’ombra di Giancarli: «...Arthemio... ch’ha composto tante bellissime comedie, tra le quali si ritrova in stampa La Cingana, La Capraria, La Pelegrina et altre degne d’esser comendate...». Il Furbo e L’Exorcismo sono citate da Gigio stesso nella dedica della Capraria: «...Mentre io stavo varij modi fra me ripensando, mi sopragionse un dolce et piacevol sonno, nel quale mi si apresentorno tre mie figliole poco inanti partorite da lo intelletto mio... La Capraria, Il Furbo, et Lo Exorcismo...». Del Furbo e dell’Exorcismo non abbiamo ulteriori notizie, mentre La Pellegrina è menzionata da M. Quadrio, Della Storia e della Ragione d’ogni poesia, vol. V, p. 228; da E. Fontanini Zeno, Biblioteca dell’eloquenza italiana, Venezia, 1753, vol. I, pp. 365-366; da L. Allacci, Drammaturgia..., op. cit. Alla voce Giancarli. 336 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo EDIZIONI DELLE COMMEDIE DI GIANCARLI Artemio Gigio Artemio Giancarli, La Capraria. Comedia di Gigio Arthemio Rhodigino. Appresso Francesco Marcolini. Al segno de la Verità. In Venetia, MDXXXXIIII. La Cingana, Comedia di Gigio Arthemio Giancarli Rhodigino. In Vinegia. Appresso Agostino Bindoni, MDC. EDIZ. MODERNE. Teatro Veneto, La Cingana, a c. di G. A. Cibotto, Parma, 1960. COMMEDIE PERDUTE Il Furbo, L’Exorcismo e La Pellegrina. MANOSCRITTI Bonifacio B. Illustrium Rhodiginae urbis virorum elogia, a Baldassare Bonifacio Episcopo Justinopolitano, c. 87. Il Ms., del 1654, si trova nella Biblioteca dell’Accademia dei Concordi di Rovigo. DIZIONARI E REPERTORI Allacci L., La drammaturgia accresciuta e continuata fino all’anno 1755, Venezia, Pasquali, 1775. Boerio G., Dizionario del dialetto veneziano, Cecchini, 1856, rist. anastatica, Martello, Milano, MCMLXXI. Fontanini Zeno E., Biblioteca dell’eloquenza italiana, Venezia, 1753, vol. I, pp. 365-366. 337 Studi Linguistici e Filologici Online 6 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo Mazzucchelli G. M., Gli scrittori d’Italia, Brescia, Bossini, 1753-1763. 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