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FORME, STRUTTURA E LINGUA DELLE
COMMEDIE DEL GIANCARLI
STUDI SULLA LINGUA DELLA COMMEDIA VENETA DEL
CINQUECENTO
ENZO SARDELLARO
Gigio Artemio Giancarli fu pittore e drammaturgo rodigino; visse e
lavorò tra Ferrara e Venezia, e fu amico di Pietro Aretino. Della sua
attività di drammaturgo ci restano due commedie interessanti
soprattutto sotto l’aspetto linguistico: La Capraria e La Cingana (per
la biografia v. Appendice).
L’edizione più antica della Capraria risale al 1544, e fu impressa
a Venezia, presso l’editore Francesco Marcolini. Quindi fu stampata
sempre a Venezia nel 1552 e nel 1553 da Bartolomeo Cesano, e
l’ultima è del 1554, ancora presso il Marcolini. La prima edizione del
Marcolini (1544) porta una dedica al cardinale Ippolito d’Este, come
ringraziamento di certi favori che il giovane Gigio aveva ricevuto
dall’illustre prelato a Ferrara1. Non esistono edizioni moderne della
1
Per le edizioni della Capraria, cfr. i seguenti repertori: G.M. Mazzucchelli, Gli
scrittori d’Italia, Brescia, Bossini, 1753-1763 e L. Allacci, La drammaturgia
accresciuta e continuata fino all'anno 1755, Venezia, Pasquali, 1775. L’edizione
che ho sotto gli occhi è quella di F. Marcolini, La Capraria. Comedia di Gigio
Arthemio Rhodigino. Appresso Francesco Marcolini. Al segno de la Verità. In
Venetia, MDXXXXIIII. Le citazioni sono tratte da questa edizione, che per la verità
è molto scorretta. Si è mantenuta la grafia cinquecentesca, tuttavia si è eliminata la h
Studi Linguistici e Filologici Online
ISSN 1724-5230
Volume 6 (2008) – pagg. 275-343
E. Sardellaro – “Forme, struttura e lingua
delle commedie del Giancarli. Studi sulla lingua
della commedia veneta del cinquecento”
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commedia. L’azione si svolge a Ferrara, dove vengono a scontrarsi vari
personaggi legati fra loro da stretti vincoli di parentela, ma che non si
conoscono l’un l’altro. Troviamo anzitutto il vecchio greco Messer
Gerofilo, che si fa chiamare Afrone; poi suo fratello Epidimo, che si fa
chiamare Eustrato e, infine, Demetrio e Campaspe, i quali si fanno
chiamare rispettivamente Lionello e Dorotea. Ambedue questi ultimi
sono figli di messer Afrone, al quale erano stati rapiti ancor bambini da
un suo schiavo e che erano stati poi venduti uno a Bologna e l’altra a
Venezia. Per gli strani casi della sorte, sia Lionello sia il vecchio Afrone
si innamorano di Dorotea, la quale è tenuta in suo potere dal ruffiano
Famelico. I due spasimanti, come è logico attendersi, non si
risparmiano pur di liberare Dorotea dalle grinfie del ruffiano. Afrone si
è messo però nelle mani rapaci del suo servo Brusca, il quale, facendo
finta di aiutarlo a conquistare Dorotea, gli spilla molto denaro con vari
raggiri. Lo stesso il servo furbo fa anche con la moglie di Afrone,
Madonna Cassandra, una vecchia mezza matta che si è invaghita di lui.
Per contro Lionello può contare sul servo Ortica, astutissimo, il quale
riesce alla fine a prendersi gioco del ruffiano e a costringerlo a cedere
Dorotea al padroncino. Alla fine, dopo una serie ben concertata di colpi
di scena, si scopre che Lionello e Dorotea sono fratello e sorella e
ambedue figli di Afrone. Data la situazione, il sogno d’amore di
iniziale in termini come hor, homo. È stata espunta la h diacritica in parole come
“cavalchar”, “anchora”. Parecchie le varianti apportate alla punteggiatura: si sono
introdotti i due punti e le virgolette nei discorsi diretti; mutati anche i punti e le
virgole. Si sono messi gli accenti là dove mancavano.
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Lionello e Dorotea s’infrange e la ragazza è data in sposa al servo
Ortica, che è riuscito a guadagnare la stima di tutti.
La commedia s’inizia con un “Argomento e Prologo” veramente
“originalissimo”, commenta Sanesi, e nel quale tre personaggi (Tasio
giovane, Tiberio fanciullo e lo stesso Gigio), dialogando tra loro,
espongono al pubblico la trama. In esso si finge che Tasio abbia chiesto
inutilmente agli attori quale fosse il soggetto della commedia:
Tasio – ...Questi nostri comici, il giorno che dierno principio a questa
comedia loro, strinsero ciascuno sotto giuramento che non
facessero intendere il soggetto di essa: sì, perché la cosa, per esser
più nova, fusse più grata, como anche per fuggir il pericolo che li
malevoli uccelli di rapina non li levassero il soggetto...
Ma Tasio, essendo “persona curiosa”, non vuole arrendersi di
fronte al rifiuto dei compagni e perciò si affida alla magia o, per meglio
dire, all’“arte spiritale”. Egli infatti incarica una maga di insegnare
“alcune congiurationi” a un ragazzino, Tiberio, il quale, guardando
attraverso una “enghistara” riuscirà ugualmente a carpire il soggetto
della commedia. Quindi Tasio invita Tiberio a sedere tra gli spettatori,
ma prima di lasciarlo andare gli chiede l’argomento della commedia:
Tiberio – ...Un roffiano che un servo il rubba, il qual ora è frate, et ora è
muto par a me. Et poi gli restituisse ciò che gli ha robbato; et dui
giovani inamorati di due giovane, le quali stanno con il roffiano,
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in una de le quali è medesimamente inamorato il vecchio, il quale
va immascarato a caval de la capra, facendo non so che atti da
pazzo; al fine parmi che si abbraccino tutti insieme, et giovani et
vecchi et servi...
Tasio – Questa è la conclusione quasi di tutte le comedie. Io non voglio
altro, vati con Dio.
A questo punto, appare un terzo personaggio, Gigio, il quale,
rivolgendosi al pubblico, afferma:
Gigio – ... Io era mandato a farvi lo argomento: ma da poi che costui mi
ha tolto la fatica... prima io vi farò saper qual sia lo auttor [sic] di
essa, perché se error vi vedrete dentro, che non sarà perciò così
gran cosa, attento che niuna ne è qua giù che non sia atta a patir
corretione, forse lo scuserete. Gigio dunque è lo auttore, lo
conoscete voi? quel tanto a voi affitionato: non li perdonerete
adunque dui peccatucci attento che egli è pittore et non poeta?
fatelo di gratia, ch’io di ciò l’ho assicurato. Dunque egli vi prega
che se vedrete ne l’opera nostra uno inamorato non servir al
soggetto, che voi non ve ne meravigliate, perché di cotali
personaggi, et ne le antiche et ne le moderne comedie, se veggono
spesse volte. Et se ve offenderà gli intelletti, Ortica maritandosi in
Dorotea nobile, essendo egli servo, ponetevi inanti a gli occhi
quanti natti servilmente sonosi agranditi per qualche sua virtù o
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sufficientia, et fatti nobili. Et se porrete mente ne le cose del
mondo, vedrete tutto il giorno de li patroni che concedono le
figliole a li servi... abenché era facil cosa allo auttore farlo nobile.
Perdonatili dunque questi dui peccati, se pur peccati sono, et tanto
più che esso prima di voi gli ha veduti, et avrebbe saputo
rimediarli, et non ha voluto, et datici il silentio c’or ora darassi
principio a la favola...
Dopo questo tipico prologo "terenziano", tutto teso alla difesa
della struttura dell’opera, s’inizia la commedia.
ATTO I
Il primo atto si apre su “Flaminio inamorato”, che dà il via alla
commedia con un lungo monologo sull’amore: “...Variamente
giudicorno gli antiqui circa la felicità e beatitudine nostra...” (sc. I).
Appare quindi il ruffiano Famelico, cui Flaminio chiede notizie di
Antilla, la fanciulla di cui è innamorato e che si trova nelle di lui mani. I
due si lasciano irritati e Flaminio afferma: «...Quale morte è così
vituperosa, così orribile et tanto trista che costui non meritasse?». Entra
in scena adesso (sc. II) l’altro amoroso, Lionello, insieme con il servo
Ortica. Anche Lionello si lamenta con il servo della propria infelice
situazione, poiché Dorotea si trova, come Antilla, nelle rapaci mani
dell’astuto ruffiano. Ortica (sc. III) promette al padrone di aiutarlo a
strappare l’amata dalle grinfie di Famelico, e quindi ambedue si recano
in casa di quest’ultimo. Lì Lionello incontra Dorotea, che lo incita a
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riscattarla al più presto, perché su di lei hanno messo gli occhi sia il
vecchio e danaroso Afrone sia un soldato greco, che ben presto sarebbe
giunto in città con il denaro necessario per riscattarla dal ruffiano. Il
quale compare all’improvviso e chiede a Lionello se ha del denaro con
sé. Lionello tergiversa e, su suggerimento di Ortica, finge di essere in
possesso di una lettera di credito che gli frutterà parecchi soldi (sc. IV).
Famelico però è molto scettico, e con il suo atteggiamento irrita il servo
Ortica, il quale gli promette che riuscirà a raggirarlo e che pagherà il
riscatto di Dorotea con il denaro che gli ruberà sotto gli occhi.
Con la settima scena fa la sua apparizione Messer Afrone,
accompagnato dal servo Brusca. Afrone è innamorato di Dorotea e
supplica Brusca di procurargli un appuntamento con lei. Brusca
rassicura il vecchio, ma lo avverte che per condurre a buon compimento
la cosa occorrerà molto denaro, almeno venticinque scudi. Afrone, al
sentir della cifra, inizia a lamentarsi, dicendo di non possedere
venticinque scudi, anche perché è la moglie Cassandra ad avere tutto il
maneggio del denaro di casa. Ma quel giorno stesso, gli fa notare
Brusca, dovrà venire dalla campagna il suo contadino Spadan con certe
capre: dalla loro vendita ne potrà ricavare senz’altro la somma
necessaria.
ATTO II
Madonna Cassandra, moglie di Afrone, è arrabbiata con il marito che
ritiene infedele (sc. I). Tuttavia anch’ella è una donna vanesia e smania
per il servo Brusca, il quale sta al gioco con il proposito nemmen tanto
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velato di spillarle quattrini: cosa che gli riesce con estrema facilità
perché, dopo qualche piagnisteo, si fa elargire dalla vecchia ben dieci
scudi. In quel momento rientra Afrone, il quale è assalito dalla moglie,
che lo accusa apertamente di infedeltà. I due coniugi, inviperiti,
vengono alle mani, sotto lo sguardo divertito di Brusca, il quale,
fingendo di acquetarli, dice in effetti cose tali da aizzarli ancor di più
l’uno contro l’altra. Ortica (sc. III) nel frattempo, d’accordo con
Bolcetta, servo di Famelico, appronta il suo piano per raggirare il
ruffiano, il quale, pur essendo pronto a parare i colpi di Ortica, è
piuttosto in ansia. Frattanto a casa di Afrone giunge il contadino Spadan
con alcune capre. All’insaputa della moglie, Afrone si fa consegnare le
capre per rivenderle e ricavare il denaro necessario al riscatto di
Dorotea.
ATTO III
Ortica (sc. I) sorprende per caso il soldato greco Eustrato e il suo servo
Barbon, i quali sono alla ricerca della casa di Famelico. Ortica pensa di
sfruttare la situazione e si fa credere il servo del ruffiano. Eustrato però
è riluttante a consegnargli il denaro, per cui Ortica gli promette di farlo
incontrare al più presto con il padrone. Mentre Eustrato, per ingannare
l’attesa, si reca all’osteria, Ortica e Barbon continuano a conversare
sulla piazza. Ad un tratto Ortica vede passare Lionello e con grande
presenza di spirito si mette a urlare: – Famelico, oh padrone! Dopo un
attimo di sorpresa, Lionello comprende l’astuzia del suo servo e sta al
gioco. Barbon gli chiede se egli sia effettivamente Famelico e Lionello
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risponde affermativamente. Poi tutti insieme vanno all’osteria dove si
trova Eustrato.
ATTO IV
Madonna Cassandra rimprovera aspramente Spadan per aver dato le
capre al marito. Spadan si difende dicendo di non aver potuto rifiutarsi
di consegnargliele, dato ch’egli è il suo padrone. Successivamente (sc.
8) appare Afrone con un paio di corna sulla testa e a cavallo di una
capra. Lo scaltro Brusca l’ha infatti convinto che i mercanti di capre
vanno in giro bardati in tal modo e che presentano la propria merce
urlando a squarciagola.
Afrone – Cavre cul becco, cavre cul becco, cavre!
Brusca – Un poco più alto.
Afrone – Cavre, cavrazza, cavrine cul becco, cavrone! Brunza.
Brusca – Padrone.
Afrone – Cheste corniole me pesano.
Brusca – Eh voi v’ingannate, ché le corna non pesano al dì d’oggi.
Con questo travestimento da mercante Afrone si presenta alla
moglie con il proposito di vendergliele. Costei però è già stata avvertita
dal servo Brusca che, facendo il doppio gioco, si prende così burla dei
due vecchi.
ATTO V
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Ortica si presenta a Famelico sotto vari travestimenti: prima si fa
passare per un frate e poi per un povero “mutolo”. In tal modo riesce a
carpire al ruffiano il denaro necessario per il riscatto di Dorotea. Dopo
numerosi colpi di scena, v’è infine lo scioglimento dell’azione: Afrone
scopre in Eustrato suo fratello e in Lionello e Dorotea i due figli che un
suo “schiavo” gli aveva rapiti da bambini. Tutto si conclude quindi
gioiosamente tra baci e “abbracciamenti”. La Capraria è una classica
commedia d’intrigo che si cala nella tradizione del cosiddetto “teatro
erudito” cinquecentesco, un teatro che, per tutto il secolo, fu al centro
degli interessi e delle diatribe dei retori, tutti impegnati, sulla scorta
degli “autori antiqui”, e in special modo di Aristotele, a canonizzare le
strutture della “comedia”. Tuttavia, nel campo vastissimo della
trattatistica cinquecentesca, la materia era assai più fluida di quanto
possa sembrare all’apparenza. Le commedie di Gigio, pur rientrando
nell’alveo del teatro erudito, possiedono strutture mobili, e ciò perché
gli stessi critici del tempo, pur riferendosi a modelli (Plauto e Terenzio)
ritenuti pressoché perfetti, accettavano, anche se non sempre di buon
grado, soluzioni alternative.
Gigio aveva coscienza di cimentarsi in un campo irto di difficoltà,
e sapeva bene che le sue commedie scoprivano il fianco a svariate
critiche. Benché le sue scelte stilistiche, a ben vedere, rientrassero quasi
sempre nei moduli proposti dalla trattatistica contemporanea,
contenevano punte polemiche che non sempre riuscivano gradite.
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Premesso che la classica divisione in cinque atti2 e il titolo della
commedia (Capraria, appunto, con il suffisso -aria perfettamente
foggiato sugli esempi latini: Aulularia, Mostellaria, Cistellaria), non
davano adito a critiche di sorta, una prima osservazione gli poteva
venire dall’aver scritto sia La Capraria sia La Cingana in prosa anziché
in versi. Alcuni retori, come ad esempio il Giraldi, negavano che una
commedia senza versi potesse “essere lodevolmente composta”. Altri,
ed erano i più, propugnavano invece i diritti della prosa; tra questi
Agostino Michele, il quale nel 1592 diede alle stampe un Discorso in
cui si dimostra come si possono scrivere le commedie e le tragedie in
prosa3. Quando usciva questo “Discorso”, Gigio era morto da quasi
trent’anni: indubbiamente tutto fu molto più difficile per lui, ma non gli
mancarono
certamente
esempi
autorevoli
(Ruzante,
Bibbiena,
Machiavelli, Ariosto, Aretino, il Calmo).
Per tacer del Calmo, del quale basta leggere il “prologo” della
Saltuzza4, il Lasca, contemporaneo di Gigio, tuonava senza riserve
contro quegli “artefici vilissimi” e “guastatori” che si adattavano
supinamente alle regole dei pedanti5. Ma sicuramente l’esempio forse
più illustre, e anche più antico, della difesa degli scrittori contro le
2
F. Doglio, Il Teatro in latino nel ’500, in Acc. Naz. dei Lincei. Problemi attuali di
scienza e di cultura, Atti del Convegno sul tema Il teatro classico italiano nel ’500,
Roma, 9-12 febbraio 1969, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, Quaderno n.
138, 1971, pp. 179 sgg.
3
I. Sanesi, La Commedia, Milano, Vallardi, 1935, vol. I, p. 128.
4
La Saltuzza, Comedia di M. Andrea Calmo. Di nuovo rivista e corretta. In Trevigi,
Appresso Fabritio Zanetti MDC. “...Io mi ci ho opposto, che non venghi
l’argomento, imperò che la favola da sé lo discuopre...”.
5
Antonfrancesco Grazzini (Il Lasca), Prologo de L’Arzigogolo, Sampietro, 1967,
vol. VII, p. 13.
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pretese dei retori si deve al Castiglione, il quale «affrontava già alcune
questioni che sarebbero rimaste al centro delle polemiche circa i
caratteri e le finalità della commedia: non solo difendeva la scelta di un
argomento moderno e ridicolizzava la questione dell’imitazione degli
antichi, ma riconosceva nella commedia uno spettacolo destinato a
rappresentare “cose familiari fatte e dette” e difendeva l’uso della prosa
contro quello del verso...»6. Gigio individua poi altri due “peccatucci”,
com’egli li definisce, che potevano scatenargli contro le ire dei retori.
Anzitutto l’aver fatto uso di quella particolare tecnica conosciuta con il
nome di “favola doppia”, che a rigor di termini andava contro l’unità
d’azione aristotelica, che comportava un unico intrigo amoroso. Egli
infatti aveva inserito nella Capraria «uno inamorato che non serviva al
soggetto»: ossia, accanto alle vicende amorose di Lionello e Dorotea,
aveva immesso anche quelle di Flaminio e Antilla. Ciò era
evidentemente una divagazione, non richiesta secondo taluni, rispetto al
soggetto della commedia. Così, mentre Giason de Nores condannava
quegli scrittori di teatro che usavano la “favola doppia”7, il Giraldi al
contrario li lodava, perché essa donava «grandissima gratia al nodo et
alla solutione della favola»8. Il secondo peccato consisteva nel fatto di
aver sposato “Dorotea nobile” con un servo, Ortica. Ciò contravveniva
6
E. Bonora, La teoria del teatro negli scrittori del ’500, in Atti dell’Acc. dei Lincei,
cit., pp. 222 sgg.
7
Giason de Nores non ammetteva assolutamente che «due attioni, et ambedue di
persone private, che conseguono il medesimo felice essito [sic], e che non siano
contrarie, siano mescolate insieme, del che è stato grandemente ripreso Terentio, –
per aver unito – l’attion di Pamphilo che ama Gliceria e l’attion di Charino che ama
Philomela...». Cfr. I. Sanesi, La Commedia, op. cit., vol. I, p. 227.
8
Cfr. I. Sanesi, La Commedia, op. cit., vol. I, p. 227.
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a quelle ferree regole sociali cui il drammaturgo doveva sottostare. Al
proposito Gigio invita gli spettatori a non meravigliarsi poi tanto se
Ortica s’è maritato «...in Dorotea nobile, essendo egli servo. Ponetevi
inanti agli occhi – prosegue – quanti natti servilmente, sonosi agranditi
per qualche sua virtù o sufficientia et fatti nobili. Pamphilo che ama
Gliceria e l’attion di Charino che ama Philomela... Et se porrete mente
ne le cose del mondo vedrete tutto il giorno de li patroni che concedono
le figliole a li servi...». Proprio ponendo «mente ne le cose del mondo»,
è estremamente improbabile che siffatti casi fossero all’ordine del
giorno. È ben vero, come ha fatto notare H. Hauser, che il primo
Cinquecento è un periodo ancora dinamico, ma già allora si
registravano i primi tentativi di frenare ogni ascesa sociale9. È più
verosimile invece che dietro certe affermazioni di Gigio ci fosse la
grande ombra di Pietro Aretino, che pure aveva saputo dimostrare come
lui, povero figlio di un calzolaio, fosse riuscito non solo a vivere come i
nobili, ma addirittura a metterseli tutti sotto i tacchi con la sua penna
sferzante. Ma certo Gigio non aveva la forza dirompente dell’Aretino,
e, anzi, di questa sua manchevolezza si affretta a fare ammenda.
«...Perdonateli – scrive – dunque questi dui peccati, se pur peccati sono,
et tanto più che esso prima di voi gli ha veduti, et avrebbe saputo
rimediarli, et non ha voluto...»10.
Avrebbe saputo... et non ha voluto. L’ostinazione con cui Gigio
difende questa sua scelta va al di là di un puro e semplice dissenso nei
9
H. Hauser, Storia sociale dell’Arte, Torino, Einaudi, 1973, vol. I, p. 374.
La Capraria, Prologo, parla Gigio Artemio.
10
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confronti di determinate regole sceniche per riflettere, a mo’
dell’Aretino, nella vicenda del servo che si fa nobile per i suoi meriti, il
segno di un desiderio inappagato dello stesso autore che, chiuso dalle
rigide strutture sociali, realizza il proprio sogno nell’arte e nella
finzione teatrale. Ma forse Gigio sentiva tutta la labilità, tutta la
improbabilità di questa pretesa, tanto che di nuovo si cospargeva il capo
di cenere e, dopo aver pregato gli spettatori di considerare che non v’è
cosa quaggiù «che non sia atta a patir corretione», ricorda a tutti che in
fondo egli è da scusare «attento ch’egli è pittore et non poeta».
Il gusto del “tipico”, del “già visto”, del “già conosciuto” è la
categoria alla quale si può ridurre la maggior parte della produzione
teatrale del nostro ’500. Tale gusto si innerva nelle commedie con la
proposta non solo di personaggi sempre uguali (i vecchi, i giovani
innamorati, i lenoni, i parassiti, le mogli autoritarie, le prostitute), ma
anche di intrecci che, più o meno, ripetono sempre lo stesso “leitmotiv”. Silvio D’Amico faceva notare come lo studioso russo
Miklacesvskij si fosse «divertito a rappresentare questi intrecci con
altrettanti grafici»11. Volendo riprendere il gioco del Miklacevskij nel
rappresentare la situazione amorosa della Capraria, avremo che A
(Lionello) ama B (Dorotea), che a sua volta è desiderata da C (Ortica),
da E (Afrone) e da F (Eustrato). Poi c’è G (Flaminio) che ama H
(Antilla). Donde deriva questo gusto?
11
S. D’Amico, Storia del teatro drammatico, Milano, Garzanti, 1970, vol. I, p. 177.
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L’Altieri Biagi ne ipotizza l’origine, oltre naturalmente dal teatro
latino, anche dai Cantari e dalle Sacre Rappresentazioni12. In effetti in
queste ultime è abbozzata una tipologia che insiste moltissimo su
“soldati”, “ruffiani”, “contadini”, “mogli autoritarie”, “prostitute” e
“servi”. Così nella Santa Felicita, si individuano i soldati come coloro
che sempre “chiegon denari”13: nella Rappresentazione di Santo
Grisante e Daria, il ruffiano si presenta così: «Io son d’ogni arte
bagnato e cimato / e sempre cerco di commetter male»14; e ancora nella
Rappresentazione del figliuol prodigo di Castellano Castellani,
appaiono un “ruffiano giocatore” e “il ruffiano di Lucrezia”15.
L’elemento contadinesco, che tanta parte avrà nel teatro del
Ruzante, del Calmo e dello stesso Gigio, viene presentato nelle Sacre
Rappresentazioni con gli stessi intenti giocosi, ossia come mero
espediente per divertire il pubblico.
Così nella Rappresentazione di Giuseppe due contadini si
lamentano della loro povertà16; e non mancano neppure esempi di mogli
autoritarie, che ricordano molto da vicino l’irascibile Madonna
Cassandra. Così nel Miracolo di due pellegrini dice la moglie: «Vuoi
ch’io ti dica quel che dir conviensi? / Io tel dirò: tu mi par
12
M. L. Altieri Biagi, Appunti sulla lingua della commedia del ’500, in Atti, cit., p.
268. Cfr. inoltre sulle fonti romanze della commedia del ’500 N. Borsellino,
Commedie del ’500, Milano, Feltrinelli, 1972, p. IX.
13
A. D’Ancona, Origini del teatro italiano, Torino, Loescher, 1891, vol. II, p. 590.
14
A. D’Ancona, Origini del teatro italiano, Torino, Loescher, 1891, vol. II, p. 590.
15
Castellano Castellani, La Rappresentazione del figliuol prodigo, in Il Teatro
Italiano. Dalle Origini al ’400, Torino, Einaudi, 1975, tomo I, p. 154.
16
A. D’Ancona, Origini..., op. cit., vol.II, pp. 603-604.
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rimbambito»17. Caratterizzate con tutti i crismi sono anche le meretrici,
personaggi tra i più ricorrenti nel teatro cinquecentesco. Vere e proprie
meretrici, rileva il D’Ancona, si rinvengono nel Grisante e Daria e nel
Barlaam e Josafat, “mandate a tentare l’animo de’ giovinetti”18. Infine,
la più classica delle figure, quella del servo, compare in numerose
Rappresentazioni, da quella di San Grisante e Daria a quella di San
Tomaso a quella del Figliuol prodigo19.
Per quanto riguarda i Cantari il discorso si deve forzatamente
spostare dai personaggi alle strutture narrative, poiché la tradizione
canterina si sofferma essenzialmente sulla descrizione di personaggi di
alta estrazione sociale, tralasciando tutta la tipologia che non possegga i
crismi dell’eccezionalità e dell’eroicità. Nella Istoria di tre giovani
disperati e di tre fate fa invero capolino un “villano”, che però non è
autentico, ma solo un nobile travestito20. Eguali caratteri di
eccezionalità ha nei cantari la presenza delle ruffiane, come per
esempio ne La storia del calonaco di Siena, dove appunto compare una
vecchia e avida “mercera”21.
Ma al di là di tutte le possibili consonanze che si possono
riscontrare nei Cantari e nelle Sacre Rappresentazioni, è indubbiamente
nel teatro latino che si individua la matrice prima e più importante della
commedia classicheggiante del ’500, e tanto più in una personalità
17
A. D’Ancona, Origini..., op. cit., vol. II, pp. 638-639.
A. D’Ancona, Origini..., op. cit., p. 642.
19
A. D’Ancona, Sacre Rappresentazioni, op. cit., vol. I, pp.427-429.
20
Istoria di tre giovani disperati e di tre fate, in Cantari antichi, editi e ordinati da
E. Levi, serie prima, Cantari leggendari, Bari, Laterza, 1914, pp.111-133.
21
Cantari del Trecento, a c. di A. Balduino, Milano, Marzorati, 1970, p. 149.
18
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come quella di Gigio, formatasi culturalmente tra Ferrara e Mantova,
ove Plauto e Terenzio erano rappresentati con una intensità senza eguali
rispetto alle altre corti rinascimentali22. Ma il gusto del tipico si pone
con una forza senza pari soprattutto perché v’erano nella società di corte
le condizioni della sua esasperazione, «che si concretava nella tendenza
a vedere i personaggi della commedia non come individui... ma come
tipi, come “elementi” di classi sociali ben definite, in cui era bene che il
comportamento e la lingua li chiudessero senza scappatoie, in una
gerarchia che rispettasse “la stratificazione della società”...»23.
Personaggi tipici e tòpoi tradizionali formano quindi l’ossatura anche
della Capraria, che però, pur chiusa nella sua cornice manieristicoclassicheggiante e nel gioco brioso di una favola tesa essenzialmente al
“delectare” un aristocratico pubblico di corte, si offre a una lettura
poliprospettica e realistica da cui emergono i contrasti di una realtà
drammatica.
LA LINGUA RUSTICANA DELLA CAPRARIA
All’interno di questa cornice tramandata da una tradizione comica
plurisecolare si apre ad un tratto una zona in cui fa la sua apparizione il
“rozzo” contadino Spadan. La commedia, scrive il Sanesi, non è «del
tutto priva dell’elemento popolare, in quanto vi ha larga parte il villano
22
23
A. D’Ancona, Origini..., op. cit., pp.113-135; pp. 429-440.
M. L. Altieri Biagi, Appunti sulla lingua..., op. cit., pp. 268-269.
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Spadan, che parla alla maniera contadinesca ed è un uomo rozzo,
grossolano, triviale»24.
Ma in che modo si inquadra questo elemento popolare nella
struttura della commedia?
La Capraria riecheggia e continua senza alcun dubbio un motivo
dominante nell’Italia del ’500, ossia la satira contro il villano. Chi aveva
saputo cogliere con occhio acuto la realtà del mondo contadino fu il
Ruzante, nonostante in lui non vi fosse alcuna particolare adesione nei
confronti dei rustici. Spadan nella commedia di Gigio, per situazioni e
lingua, sembrerebbe esaurire la propria funzione nel comico. Spadan
ride e fa ridere. Siamo al punto: ben lungi dal possedere punte
polemiche, Spadan vive la propria storia nella letteratura: è l’erede
diretto dei ministri diaboli, degli insensata animalia della tradizione
satirica anticontadina25. Spadan non è un uomo, bensì un simbolo: il
simbolo di un mondo contadino degradato, così come lo vedeva una
classe dirigente avversa e al tempo stesso timorosa e consapevole di tale
degrado. Eppure, anche in questo povero buffone si nota a volte uno
scatto rabbioso, il ricordo di essere un uomo. A un certo momento
Spadan prorompe in una minaccia, che contiene in nuce tutto lo spirito
di rivolta che animava le plebi rurali vessate non solo dalle pestilenze e
dalla fame, ma anche dalle canzonature, osserva il Leicht, che
«dovettero inacerbire l’animo dei rustici e aumentare... il loro astio
24
25
I. Sanesi, La Commedia, op. cit., vol. I, p. 428.
P. Camporesi, La maschera di Bertoldo, Torino, Einaudi, 1976, p. 30.
291
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verso i nuovi padroni»26. Nella scena settima del quarto atto, Barbon
vede Spadan in strada e, volendogli chiedere dove abita Famelico, il
ruffiano, lo apostrofa in questi termini:
Barbon – ...Villano, oh villano!
Spadan – O el mal villan te daghe massier Iesum Dio, gaioffo che te si...
Barbon – Come?
Spadan – In malora!
Spadan – Mo te divi dirme contaìn.
Barbon – O tu sei troppo colerico.
Spadan – A son el cancaro che te pele... que a son sto soldò de quii
maleéti.
«Devi chiamarmi contadino e ricordati che sono stato soldato, e
di quelli maledetti». Con questo fugace cenno alla guerra, che tanto
aveva mutato il carattere dei contadini, Spadan chiude la sua rivolta.
Tutto si smorza nel riso e nel ritmo giocoso di sempre.
Nonostante l’azione si finga a Ferrara, Spadan usa locuzioni
tipiche del dialetto pavano. Evidentemente la lezione di Ruzante era
stata indimenticabile per Gigio, che non intendeva scostarsi dai moduli
linguistici sperimentati con grande successo da Ruzante, di cui aveva
potuto ammirare l’opera quando era a Ferrara. In questo senso, sarà da
26
P. S. Leicht, Operai, artigiani, agricoltori in Italia dal secolo VI al XVI, Milano,
Giuffré, 1959, p. 187.
292
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rilevare che la scena vista sopra è simile a un passo della Moscheta,
dove si assiste alla reazione rabbiosa di Ruzante, quando si sente
affibbiare da Tonin l’appellativo ingiurioso di “villano”:
Tonin – Al sango de des! Ol no fo ma’ vilà... (Al sangue di dieci, non ci
fu mai villano...)
Ruzante – Al sangue del cancaro! A’ seon vilani perché a’ no aon roba.
No di de de vilani, ch’a’ se sbuseron la pele pì ca no fo mè
criviegi (Al sangue del canchero, siamo villani perché non
abbiamo rubato! Non parlate di villani, perché se no ci bucheremo
la pelle peggio di quella dei crivelli) (Ruzante, Moscheta, Atto I,
sc. 6)27.
Il lessico di Spadan, come già abbiamo rilevato, è ricchissimo di
locuzioni gergali che rimandano al pavano dei personaggi ruzantiani.
Osserviamo ad esempio il suo linguaggio ingiurioso, che si avvale di
stilemi quali:
Cancaro: Co cancaro, mo que cancaro disìu massier (II-6-10)
Menato – Al sangue del cancaro, sto me compare è pur un gran frison...
(Ruzante, Moscheta, II-3-1)
Spadan – O sea laldò Messier Iesum Dio... (II-6-6)
L’è la più bella biestia che visi mé in lo roverso mondo (II-6-24)
27
Ruzante, La Moscheta, in Il Teatro Italiano, a c. di G. Davico Bonino, Torino,
Einaudi, 1977, pp. 233-321.
293
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Ruzante – A ve domande la vita in don per amor del perdon de Messier
Ieson Dio (Moscheta, V-2-9)
Menato – ...A dir ch’a n’habi più cancari ch’haesse mé cristian in lo
roesso mondo. (Moscheta, I-1-1)
Le scelte lessicali di Gigio non si arrestano però alla sostanza
gergale, ma si avvalgono di tutta una classe di locuzioni verbali e
nominali riprese fedelmente dal dialetto pavano:
Anàr (andare)
Afrone – No xe pressa no, dunde va vui andesso?
Spadan – ...A voràe imprima anare a bevere... (II-6-32)
Gnua – Mo a vuogio anàre... (Ruzante, Parlamento, I-2-7)28.
Supia (sia)
Spadan – Che crìu? Che supia un cogiombaro? (II-6-40)
Ruzante – Che crìu che supia a essere in quel paese? (Parlamento, I-145)
Ontiera (volentieri)
Spadan – Massier sì, mo a vegnere ontiera... (II-6-38)
Bìlora – ...Te no gh’iè andà ontiera (Ruzante, Bìlora, I-3-12)29
Lo spoglio del repertorio lessicale di Spadan potrebbe continuare
ancora, ma credo che un’analisi della sintassi sia maggiormente
probante della conoscenza che Gigio possedeva delle strutture del
pavano cinquecentesco. È stato rilevato che Ruzante, specie nei
28
Ruzante, Il reduce o Parlamento de Ruzante che iera vegnù de campo, in Teatro
Italiano, Le Origini e il Rinascimento, a c. di S. D’Amico, Milano, Nuova
Accademia, 1955, p. 453.
29
Ruzante, Bìlora, in Il Teatro Italiano, a c. di S. D’Amico, op. cit., p. 477.
294
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monologhi narrativi, faccia discorrere i suoi personaggi usando una
sintassi molto ricca di “e”+ il pronome personale (e mi, e ela), di “e”+
un avverbio (e si, e po), di “e”+ una congiunzione (e che, e con)30. Si
osservi come anche la lingua di Spadan denoti le stesse caratteristiche,
quando il personaggio racconta:
Spadan – Mo a te diré: el giera – un giovane – ...e sì so pare el volea far
scaltrìo, e sì lo mande a Vegnexia da una so comare perque la ‘l
desgrezzase, e che ghe faesse aver del piaxere. Sta femena, cha
giera scozzonà, la ghe fasea de le lasagne, e sì la ghe ne impìa un
caìn ben ifromagié. E co giera la notte el ghe dixea: “Mea Zanella
dème del piaxere”. E ella ghe dixea: Mo miti la man dal cao, e
tuotene figiuolo. E ello metéa la man e si se ne toléa de le
lasagne... (IV-1-40). (Ora ti dirò: c’era un giovane, che suo padre
voleva scaltrire, e così lo mandò a Venezia da una sua comare
perché lo digrossasse un po’. Questa donna, che era furba e
scaltra, gli faceva delle lasagne, e così glie ne riempiva un catino
ben informaggiato. E quand’era notte, lui le diceva: Mia Zanella,
datemi del piacere. E lei gli diceva: Metti la man di fuori, e
prenditene, figliolo. E lui metteva la mano, e così si prendeva
delle lasagne).
30
M. Milani, Snaturalité e deformazione nella lingua teatrale del Ruzzante, in
AA.VV., Lingua e strutture del teatro italiano del Rinascimento, presentazione di G.
Folena, Padova, Liviana, 1970, p. 113.
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La sintassi prevalentemente paratattica di cui fanno uso i
personaggi ruzantiani presenta inoltre molti incisi: Pota de Sant’Abà, Al
corpo del crivello, pota de me pare (Ruzante, Pastorale, XIX, vv. 17281). La lingua di Spadan si caratterizza per una molteplicità di formule
esclamative: Al sangue de Cribele (II-8-1), Potta de me pare, l’è la più
bella biestia... (II-6-24), Co cancaro, mo que cancaro disìu massier...
(II-6-10).
La sintassi paratattica, fatta di rapide giustapposizioni di frasi
molto brevi, è tipica del linguaggio di Spadan e ne caratterizza, come i
rustici di Ruzante, la psicologia semplice ed elementare, che si traduce
in una parlata popolare priva di profondità prospettica:
Spadan – ...I dise po che nu da le ville a son grossuli...; l’è megio che
vaghe a cà e pur è miegio che vaghe da staltro lò? Mo se quelù
me catasse? Mo sel me catasse, mo a ghe diré que no so chal
dighe... Potta, a me recorde ancora del me paron da i cuorni. O
cancaro, l’è mo sto un omo onorò... me despuò chel ghe morì la
prima femena che fosselo morto an ello... (IV-12-1). (Dicono poi
che noi villani siamo rozzi...; è meglio che vada a casa oppure è
meglio che vada da quest’altro? Se mi trova, gli dirò che non so
quel che si dica... Potta, mi ricordo ancora del mio padrone.
Canchero, ma è pur stato un uomo onorato... ma dacché gli morì
la prima moglie, meglio sarebbe stato che fosse morto anche lui).
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In una sintassi di questo tipo, l’unico nesso ipotattico presente nel
linguaggio rusticano è costituito, come del resto si può notare in
qualunque parlante abbia una conoscenza elementare della lingua, dal
che/que, il quale viene popolarescamente usato con funzioni pressoché
universali. Pertanto il nesso che/que assume tutti i valori: è pronome
relativo, interrogativo; congiunzione causale, finale, ecc31.
Ruzante – ...Quando a giera puttato, que a’ lagé stare de nare co le
biestie, que haea quel can, que a me ‘l menava drio (Anconitana,
IV-47).
Spadan – ...Potta de San Liombrun... o al cancaro a l’amore... despuò
ch’ello vo(l) far cavalcar la cavera, e sì al dise ch’i mercaenti ven
da no so que prè de la Maremola... e che i va a quel muo, e sì el
gha pettò du cuorni maòri cha veésse mé... po el ghe va inanze, e
ello xè su la cavera, e sì el dixe: “Massier, crié Cavere, cavere, e
ello no vo(l) cigare... Potta a me, son partìo que a me sentìa
cagar... dal maléto riso. A voràe vontiera che la parona... ghe
cazzàsse el smorbézzo da sotto da i lachìti... (Spadan sta qui
raccontando la scena del vecchio Afrone, costretto dal servo
Brusca a cavalcare la capra, e dice: – Potta di San Liombruno e
canchero anche all’amore. Gli vuol far cavalcar la capra, perché,
dice, i mercanti usan così in Maremma, e che vanno in giro in tal
modo. E così gli ha imposto in testa due corna maggiori di quante
31
M. Milani, Snaturalité..., op. cit., p. 119.
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ne abbia mai viste... Poi gli va dinanzi, mentre lui è sulla capra, e
gli dice: Messere, gridate forte Capre, capre! Ma lui non vuol
gridare... Potta a me, son partito di là che me la facevo sotto dalle
risate. Vorrei volentieri che la padrona riuscisse a cacciargli il
morbino dalle gambe... (IV-6-1).
Da questi esempi si può quindi concludere che Gigio possedeva,
come del resto molti gli riconoscevano, una notevole sensibilità
linguistica e anche, come Ruzante, una indubbia capacità di impostare
la lingua teatrale su toni fortemente realistici.
LA CINGANA
La Cingana ebbe, al contrario della Capraria, una assai più vasta eco e
una maggiore fortuna editoriale. Ebbe tre edizioni mantovane, una nel
1540, una seconda nel 1546, con dedica al cardinal Ercole Gonzaga, e
una terza nel 1548. Poi fu la volta delle edizioni veneziane: nel 1550
presso Agostino Bindoni, poi nel 1564 fu stampata da Camillo
Franceschini e infine nel 1610 da Giorgio Bizzarro32. Un’edizione
32
Per le edizioni della Cingana, oltre i repertori, già citati, di Mazzucchelli e Melzi,
cfr. E. Pastorello, Tipografi, áeditori, librai a Venezia nel sec. XVI, Firenze, 1924, p.
38. Le citazioni della commedia sono tratte dall'ediz. del Bindoni, La Cingana,
Comedia di Gigio Arthemio Giancarli Rhodigino. In Vinegia. Appresso Agostino
Bindoni, MDC. Per le questioni filologiche cfr. la nota 1.
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moderna della commedia è stata curata da G. A. Cibotto, estensore della
voce Giancarli per l’Enciclopedia dello Spettacolo, e un testo è stato
approntato da L. Zorzi per gli studi linguistici di G.B. Pellegrini33. Si
tratta di una lunghissima commedia in cinque atti, che però Gigio, nel
Prologo, attesta essere «stata da lui composta in un ghiribizzo di ott’ore
sole».
«...Nacquero
d’un
Messer
Acario
greco
–
si
legge
nell’Argomento – (ma per certo accidente fatto cittadino di questa città
di Treviso) et di una Barbarina sua moglie doi figliuoli ad un parto, l’un
maschio e l’altro femina.
Tanto simil d’effigie quanto sappia o possa far natura: il maschio
nomato Medoro et la femina Angelica. Et avenne che essendo li
Cingani (popoli erranti) in quel tempo per transito come sogliono esser
spesse volte, una cingana, entrata nella casa di Messer Acario..., et
trovando una fante sola alla custodia delli duo gemelli ambi nella culla,
33
La lingua araba delle commedie del Giancarli è stata studiata da eminenti linguisti;
il Teza (E. Teza, Voci greche e arabe nelle commedie del Giancarli, in Rendiconti
delle Regia Accademia dei Lincei, Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche,
Estratto dal vol. VIII, fasc. 4, seduta del 23 aprile 1899, p. 135, p. 3 dell’estratto, è
stato preceduto da Graziadio Isaia Ascoli, che indagò la lingua degli zingari nel
secondo volume dei Saggi Critici, Torino, 1877; il primo volume era uscito a
Gorizia nel 1861. Ascoli, studiando un dialogo della Cingana del Giancarli, arrivò
alla conclusione che non si trattava di un dialetto zingaro italiano, ma di una sorta di
lingua araba corrotta. Per l’intervento dell’Ascoli sulla lingua araba della Cingana,
cfr. anche F. De Vaux de Foletier, Mille anni di storia degli zingari, Milano, Jaka
Book, 1978, pp. 237 sgg. Dopo gli studi dell’Ascoli e del Teza, menzioniamo G.
Sala, La lingua degli Stradiotti nelle commedie e nelle poesie dialettali veneziane
del secolo XVI, in Atti dell'Ist. Veneto di Scienze, Lettere e Arti, Anno Acc. 1950-’51,
Tomo CIX, Classe di Scienze morali e Lettere, p. 156. e G.B. Pellegrini, L’arabo
della “Zingara” di A. Giancarli in Gli arabismi nelle lingue neolatine con speciale
riguardo all’Italia, Brescia, Paideia, 1972, vol.II, pp. 601-634. Secondo Pellegrini
l’arabo parlato dalla zingara del Giancarli sarebbe una lingua “mista di veneto e di
arabo magrebino”. Cfr. Zorzi, loc. cit., p. 229, n. 195.
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essendone gita la madre a messa, levòne il maschio, poi ch’ebbe con
certa sua astuzia ingannata la fante et poseli in luogo suo il proprio
figliuolo... Tacque il furto la fante, temendo la furia d’Acario, et crese
(credette) esso che ‘l cinganino rimastoli fosse Medoro rubbatoli.
Questo, come volle la sorte, in pochi giorni si morì et rimase la figliuola
sola, crescendo nella casa del padre in bellezza, onestà et costumi. Et
d’essa ora n’è innamorato il gentilissimo Messer Cassandro, gentiluomo
di nome come d’effetti di questa città. Né potendo venire a fine...,
ricorre in questo suo amore per aiuto et consiglio ad una certa Agata
vecchia, povera et ruffiana, la quale, com’è il costume di queste tali,
cavandone non poco utile, li promette il tutto senza sapere come
condurre la cosa a fine felice. Ma ecco come la fortuna... conduce in
questa (città) Medoro, il fratello d’Angelica, doppo che quatordeci anni
ha errato per il mondo... tanto simile alla sorella, ch’essendo vestito da
femina per consiglio (della zingara), è incontrato nel sig. Cassandro,
che lo crede la sorella tanto amata da lui. Et dapoi... v’agiunge a caso
Agata la ruffiana, quale, co ’l mezzo di XXV ducati et certa sua astutia,
fa contentar la cingana: che ’l giovane Medoro così travestito da
donna... entri a certo tempo in casa del padre, tanto ch’ella ne cava la
sorella Angelica... Ora qui s’ha d’aver piacer nel ritornar de’ vecchi a
casa e nel cambiar de’ figliuoli. Ma la cingana, al fin fine, preso il
tempo e ’l luogo, li scopre il furto ch’ella fece di Medoro sin nelle
fascie et Agata altresì l’assassinamento d’averli levato di casa Angelica
et condottala al sig. Cassandro... Il tutto se li perdona sì a l’una come a
l’altra, et il sig. Cassandro, essendo gentiluomo, come nel principio vi
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dissi, la piglia per moglie. Io non vi fastidirò altramente nel dirvi l’amor
di Acario con Stella, l’astutie di Spingarda suo servo, né‚ meno la lite di
Garbuglio villano et di Martino Bergamasco...».
ATTO I
La commedia s’inizia con un lunghissimo monologo di Agata, la
ruffiana, che si lamenta per la propria indigenza.
Agata – ...Daspuò che son qua, andarò a far un altro servisio, che pelerò
ste mie amighe, che vol andar sta sera alla ácomedia, che recita el
Burchiella a San Stefano. Ah ah, el me vien tanto da rider co ste
comedie. Tamen le xè bone per mi, che anca gieri e ho guadagnao
de boni soldi co ste mie sguardoli e perfumeghi...
Saputo che messer Cassandro, un giovane gentiluomo, è
innamorato di Angelica, la ruffiana decide di andare a fargli visita con
l’intento di offrirgli i propri áservigi. Nelle scene seguenti (2, 3), Agata
incontra un ragazzino, Fioretto, il quale è al servizio di Cassandro e gli
chiede se il padrone è in casa. Fioretto, spaventatissimo perché crede
Agata una strega, risponde affermativamente.
Entrano il vecchio Acario e il servo Spingarda (sc. 5). Acario,
impaziente, chiede notizie di Stella, una giovane di cui è innamorato.
Spingarda finge di aiutarlo, ma il suo scopo è quello di trarre un utile
dalla situazione. Quindi (7 sgg.) assistiamo agli scaltri maneggi di
Spingarda e di Agata, i quali mettono a punto un piano per spillare
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denaro ad Acario. L’atto si áconclude con Garbuglio “vilan” e Martin
Bergamasco, i quali per poco non vengono alle mani per una questione
di soldi. Garbuglio reclama i suoi “cinquanta trun e vintiquatro
marchitti” per il cavallo che gli ha venduto. Il facchino rifiuta invece di
saldare il conto perché Garbuglio gli ha venduto un cavallo bolso.
ATTO II
Il secondo atto si apre su Agata, che mette a parte la figlia Annetta del
progetto di far quattrini alle spalle del vecchio Acario. Agata invita la
figlia a essere gentile con Spingarda, dal quale dipendono le loro
fortune. Quindi compaiono (sc. 4, 5) messer Acario e Spingarda:
quest’ultimo dà al padrone la felice notizia che quello stesso giorno
potrà ottenere un appuntamento con Stella. Spingarda consiglia Acario
di presentarsi a Stella con un regalo degno di lei e gli propone di
donarle quella catena d’oro da cinquanta scudi che egli porta al collo.
Acario, dopo molte rimostranze, accetta. Inoltre, su consiglio di
Spingarda, si traveste da taglialegna per non farsi riconoscere dai vicini.
Mentre Acario gongola e appresta gli ultimi preparativi per il fatidico
incontro, Agata, Lupo e stella si riuniscono per perfezionare il loro
piano: dopo che Acario avrà consegnato la famosa “catena” a Stella,
dovrà fare la sua apparizione Lupo che, mostrando di essere geloso di
Stella, dovrà spedirla subito in camera sua e cacciare in qualche modo
Acario. Frattanto (sc. 12) compaiono Medoro e la zingara, la quale
promette al giovane di ritrovargli i genitori ai quali l’aveva rapito da
bambino. Dopo un nuovo intermezzo comico di Garbuglio e Martin
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Bergamasco, entra in scena Acario vestito da taglialegna. Tutto si
svolge come Agata aveva previsto: non appena il vecchio dà la catena
d’oro a Stella, Lupo lo caccia “a pugni e pié del culo”. L’atto si chiude
su Garbuglio e Martin Bergamasco che, ubriaco fradicio, è oggetto
delle burle di Garbuglio, che lo conduce all’ospedale dei “matti” su una
carriola puzzolente. Il secondo atto è altresì interessante perché ci
tramanda un esempio antichissimo di canzone rusticana, una di quelle
canzoni che Garbuglio era solito intonare sotto l’olmo:
Falisco – Canta El mi è sta detto che tu dormi sola.
Garbuglio – El me sto dretto che ti druomi sola.
E no starìsto miegio accompagnata?
E si-aìsi el to moroso a canto,
Ti parerìsi pur do volte artanto.
La femena xe fatta con e la nula
Che no val niente senza la fegura.
Mi faré la fegura, el conto è fato:
Che a seon du, e sì faronte quatro. (2-11-33)
ATTO III
Acario, arrabbiatissimo, grida vendetta nei confronti di Lupo, che lo ha
riempito di una gragnuola di botte. L’astuto Spingarda, dopo averlo un
po’ rabbonito, decide di «ndare a trovar Agata per partir il bottino» (sc.
4). A questo punto s’inizia una vera e propria ridda di sospetti: tutti i
complici dell’impresa ai danni di Acario temono di perdere la loro parte
303
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di bottino. Così Spingarda cerca affannosamente Agata e Lupo, e
quest’ultimo a sua volta rincorre Spingarda.
Spingarda frattanto prepara un nuovo tranello all’incauto Acario,
sempre preso da smanie d’amore per Stella: prima lo fa vestire da
medico greco proveniente da Corfù, poi lo fa spogliare degli abiti e si fa
consegnare gli anelli e le gioie che porta addosso. Mentre Acario,
rimasto solo con Stella, continua imperterrito la sua corte tanto vana
quanto spietata, arriva Spingarda tutto trafelato, asserendo di essere
stato derubato per strada dei gioelli che il padrone gli aveva affidato.
Intanto Medoro appare in scena travestito da donna (sc. 15), ed
essendo del tutto uguale alla sorella Angelica, trae in inganno Messer
Cassandro, che gli fa delle profferte amorose. Sopraggiungono anche la
zingara e Agata: la prima si meraviglia di trovare Medoro in casa di
Cassandro, la seconda che colei che crede Angelica possa essere in così
buoni rapporti con una zingara. Tra le due donne insorge un battibecco
a stento sedato dai buoni uffici di Cassandro.
ATTO IV
L’atto quarto è lunghissimo e comprende esattamente 33 scene. Le
scene 1-10 vedono in azione la ruffiana Agata, la quale, sfruttando
astutamente la somiglianza di Medoro con Angelica, appronta insieme
con Cassandro un piano per far sì che egli possa incontrare indisturbato
l’amata. Mentre maturano questi eventi, il villano Garbuglio (sc. 13-14)
s’imbatte nella zingara che, con il pretesto di proporgli un filtro per far
innamorare di lui Gnocchetta, la sua “morosa”, lo benda, lo lega e gli
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ruba tutto il denaro. Le scene 20-33 vedono infine i preparativi per
condur fuori di casa Acario e sua moglie Barbarina, genitori di
Angelica. L’uno e condotto via da Spingarda col solito miraggio di un
nuovo e fruttoso incontro con Stella, l’altra è irretita da Agata che le
promette un filtro amoroso da usare su Cassandro, di cui la vegliarda è
segretamente innamorata.
ATTO V
È questo l’atto dei riconoscimenti e dello scioglimento dell’azione.
Dopo che Agata annuncia a Cassandro l’esito felice della loro impresa,
vi è il riconoscimento di Medoro (sc. 10-11), il quale peraltro non crede
che Acario sia suo padre. Tuttavia, a dissipare i dubbi del giovane,
interviene la zingara (sc. 13), che, vero “deus ex machina”, conferma le
parole di Acario e confessa il rapimento perpetrato tanti anni
prima.Tutto quindi si conclude felicemente: Acario ritrova il figlio, la
zingara è perdonata, Spingarda sposa Annetta e Cassandro l’adorata
Angelica.
LE FONTI E LA FORTUNA
Come La Capraria, anche La Cingana si rifà per molti aspetti alle
teoriche del teatro cinquecentesco, per cui la cornice della commedia
risente dell’influsso del teatro erudito, che aveva come modelli Plauto e
Terenzio. In particolare i Prologhi hanno un carattere tipicamente
terenziano, essendo improntati a una sostanziale ed evidente difesa delle
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scelte stilistiche dell’autore34. Sicuramente lo spunto dei gemelli è
ripreso da Plauto; lo Stiefel ha individuato vari e probanti elementi di
confronto, come per esempio la situazione in cui il fratello gemello non
vuole riconoscere i suoi genitori ritenuti pazzi (Cingana, V, 3, 11-12;
Menecmi, V, 2, 5), o quella per cui i protagonisti hanno difficoltà a
distinguere i gemelli (Cingana, V, 12 e Menecmi, V, 9). Anche La
Calandria del Bibbiena è ritenuta da Stiefel una fonte più che certa: il
che si desumerebbe chiaramente non solo dalla trama, ma anche dai
protagonisti, per cui il vecchio Acario è ritenuto copia fedele di
Calandro, e similarità marcate vengono individuate sia tra Barberina e
Fulvia sia tra Spingarda e Fessenio. Per le situazioni, Stiefel nota che il
travestimento di Medoro da ragazza ricorda da vicino quello di Lidio
nella Calandria. Ulteriore fonte sembra essere stata l’anonima
commedia Gli Ingannati, composta nell’ambiente degli Intronati di
Siena e che conobbe una ventina di ristampe: in questo caso le
rispondenze sarebbero individuabili soprattutto nella trama. Eguali
consonanze sarebbero quindi ravvisabili nel Ragazzo di Ludovico
Dolce e in special modo nella Talanta dell’Aretino, per cui Stellina è
ripresa in Annetta e Alvigia (Cortigiana) e Gemma (Ipocrito) in Agata,
la ruffiana. Infine, per la sua lunga permanenza alla corte di Ferrara,
Gigio non poté non conoscere le commedie dell’Ariosto, per cui Agata
ricorda Lena, la ruffiana, e un’eco di Acario si può intravvedere nella
34
A. Ronconi, Prologhi “plautini” e prologhi “terenziani” nella commedia italiana
del ’500, in Atti dell’Acc. dei Lincei, cit., pp. 197-214.
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figura dello sciocco Pacifico, marito della Lena35. Per quanto rigurda la
“fortuna”, certamente poche commedie italiane possono contare
imitatori tanto numerosi quanti ne potè La Cingana. Stiefel, con
un’analisi al solito molto accurata, annotò sette-otto commedie italiane
contemporanee o di poco più tarde. Così reminiscenze della commedia
del Giancarli vengono individuate nel Filosofo dell’Aretino, dove
compare tra i protagonisti il nome di Garbuglio.
Alla Cingana sembrano essersi rifatti Girolamo Parabosco con La
Notte (1547) e l’Ermafrodito (1549), il Salviani con La Ruffiana (1554),
Giacomo Cenci con Gli Errori (s.d.), Marino Negro con La Pace
(1561), Pietro Bonfanti con Gli Errori incogniti (1586), Curzio
Gonzaga con Gli Inganni (1592), Girolamo Campana con Le Redolcite
Notti (1620) e Melchior Bossi da Cori con La Gnaccara (1636)36.
Più recentemente L. Zorzi ci informa che una Cingana venne
rappresentata a Firenze nel 1589 dai comici Gelosi, i quali ne
ricavarono un canovaccio basandosi sulla commedia del Giancarli. Essa
venne recitata nel corso dei festeggiamenti per il matrimonio di
Ferdinando I con Cristina di Lorena, subito dopo la Pellegrina (1567) di
Girolamo Bargagli (1537-1586)37. Sarà da notare che Pellegrina è il
35
A. L. Stiefel, Lope de Rueda und das Italianische Lustspiel, «Zeitschrift fur
Romanische Philologie», Halle, 1891, vol. XV, pp. 211-212.
36
A. L. Stiefel, Lope de Rueda..., cit., pp. 215-216.
37
L. Zorzi, Il Teatro e la città, Torino, Einaudi, 1977, p. 229; p. 330, alla voce
Bargagli G.
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titolo di una delle delle commedie perdute del Giancarli, insieme con il
Furbo e L’Exorcismo38.
E, tra parentesi, è un vero peccato che queste tre commedie siano
andate irrimediabilmente perdute, perché, da come suonano i titoli, esse
avrebbero probabilmente dovuto costituire nella mente del Giancarli
una sorta di trilogia dell’astuzia e della furfanteria. Esse quindi ci
avrebbero probabilmente tramandato non solo notizie interessanti sul
versante biografico, ma anche esempi protocinquecenteschi di quel
parlar furbesco, di quella lingua zerga di cui l’Aretino si mostrò
entusiasta e di cui costellò variamente i suoi Ragionamenti. Alessandro
Zanco, scrivendo all’Aretino nel 1531, osservava che «la lingua
furfantesca è ora in colmo, e non se ragiona d’altro»39.
Sarà altresì da rilevare che l’edizione più antica del Nuovo modo
de intendere la lingua zerga, cioè parlare furbesco è ferrarese e risale al
154540, e che furbo (con i suoi sinonimi, Fonzo, Calcagno), ossia il
termine usato da Gigio per titolare la sua commedia, è contemplato nel
Nuovo Modo, sotto la lettera f (incontrario), con il significato di
38
M. Negro, Prologo della Pace: “...Arthemio... ch’ha composto tante bellissime
comedie, tra le quali si ritrova in stampa La Cingana, La Capraria, La Pelegrina et
altre degne d’esser comendate...”. Il Furbo e L’Exorcismo sono citate da Gigio
stesso nella dedica della Capraria: “...Mentre io stavo varij modi fra me ripensando,
mi sopragionse un dolce et piacevol sonno, nel quale mi si presentorno tre mie
figliole poco inanti partorite da lo intelletto mio... La Capraria, Il Furbo, et Lo
Exorcismo...”. Del Furbo e dell’Exorcismo non abbiamo ulteriori notizie, mentre La
Pellegrina è menzionata da M. Quadrio, Della Storia e della Ragione d’ogni poesia,
vol. V, p. 228; da E. Fontanini Zeno, Biblioteca dell’eloquenza italiana, Venezia,
1753, vol. I, pp. 365-366; da L. Allacci, La drammaturgia accresciuta e continuata
fino all’anno 1755, Venezia, Pasquali, 1775, op. cit. alla voce Giancarli.
39
G. Aquilecchia, Pietro Aretino e la lingua zerga, in Schede di italianistica,
Torino, Einaudi, 1976, p. 154.
40
P. Camporesi, Il libro dei vagabondi, Torino, Einaudi, 1976, p. 199.
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compagno41. Certo è che Gigio non dovette aspettare il 1545 per
conoscere il linguaggio gergale dei “furbi”, perché esempi di lingua
furbesca li troviamo già nell’Ariosto della Cassaria.
E guarda caso, il servo che fa uso del “parlar furbesco” nella
Cassaria si chiama Furbo, proprio come il personaggio che dà il titolo
alla commedia perduta di Gigio: il che rafforza la convinzione che la
persona e l’opera dell’Ariosto abbiano costituito un momento
importante nella formazione del giovane Giancarli durante il periodo
della sua permanenza a Ferrara: Lucramo – Odi: costà m’aspetta: odi la
musica! È tutta per amor. Furbo – Contro, ribeccola42. Vallone
interpreta il gergo del Furbo come una semplice esclamazione:
“perbacco”43. Ma Cecil Grayson, traduce il dialogo in modo più
persuasivo. Lucramo intenderebbe dire: «Odi quel che ti dico: è tutto
per burla»; e il Furbo: «Capo, sono d’accordo»44.
Fuori d’Italia la commedia del Giancarli fu conosciuta anche in
Spagna, ove fu ammirata e tradotta quasi letteralmente da Lope De
Rueda nella Medora. Stiefel ipotizza che Lope De Rueda ne sia venuto
a conoscenza nel corso di un suo viaggio in Italia, ma non scarta la
possibilità che gli stessi comici italiani l’abbiano portata in Spagna, ove
41
Modo Nuovo de intendere la lingua zerga, in Camporesi, Il libro dei vagabondi,
op. cit., p. 219.
42
L. Ariosto, La Cassaria, in Opere Minori, a c. di A. Vallone, Milano, Rizzoli,
1964, p. 221.
43
L. Ariosto, La Cassaria, op. cit., p. 221, n. 778.
44
C. Grayson, Appunti sulla lingua delle commedie in prosa e in versi, in L. Ariosto:
lingua, stile e tradizione, in Atti del Congresso organizzato dai comuni di Reggio
Emilia e Ferrara, 12-16 ottobre 1974, a c. di C. Segre, Milano, Feltrinelli, 1976, pp.
384-385.
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nel 1538 agì una compagnia di attori sotto la direzione di Mutio, e dove
nel 1548 alcuni attori italiani recitarono in lingua di fronte all’infanta
Maria una commedia dell’Ariosto, senza poi contare che l’Arsiccio,
ossia Antonio Vignali da Siena recitò commedie italiane alla corte di
Filippo II sino al 155645. E devo dire con tutta sincerità che l’intuizione
di Stiefel riguardo ad Antonio Vignali, detto l’“Arsiccio”, mi sembra
quanto mai geniale e potrebbe addirittura far pensare che la già citata
Pellegrina di Girolamo
Bargagli derivi
in qualche maniera
dall’omonima commedia perduta del Giancarli. Vignali fu il fondatore
dell’Accademia degli Intronati di Siena e accanto a lui, fra gli
“Intronati”, troviamo i fratelli Scipione e Gerolamo Bargagli46.
E fu Scipione che curò l’allestimento della Pellegrina dopo la
morte del fratello47. Esistevano inoltre fortissimi legami tra gli
“Intronati” e l’editoria veneziana, come attesta la stampa veneziana
(1537) degli Ingannati, commedia nata nell’ambiente degli “Intronati”.
Riguardo poi allo sperimentalismo linguistico che si stava avviando a
Venezia, «su queste posizioni c’erano alleati anche in Toscana – rileva
G. Folena, non a Firenze, ma piuttosto a Siena, che aveva allora ed ebbe
a lungo, soprattutto attraverso gli Intronati... relazioni privilegiate,
politiche, religiose e letterarie, con Venezia e l’editoria Veneziana». E
Antonio Vignali, il fondatore dell’Accademia, aveva «come suo
programma la difesa e l’espansione del volgare» e «soprattutto la
45
A. L. Stiefel, Lope de Rueda..., cit., pp. 318 sgg.
Cfr. la nota introduttiva di R. Alonge a Gl’Ingannati, in Il Teatro Italiano, Tomo
secondo, op. cit., p. 87.
47
L. Zorzi, Il teatro e la città, op. cit., p. 121.
46
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rivendicazione della libertà linguistica contro ogni pruderie, del dire
pane al pane e vino al vino, e usare quando ci vogliono i mots propres e
il turpiloquio, perché, diceva l’Arsiccio, al quale piaceva l’odore di
zolfo come al Folengo, “secondo li filosofi non è così brutta e così vil
cosa che non sia molto più vile e brutto non saperla”...»48
Secondo Stiefel, che passò letteralmente al setaccio la Commedia
dello spagnolo Lope De Rueda, la Medora non sarebbe altro che un
mero rifacimento della Cingana, che venne imitata anche in Grecia49.
LA LINGUA DELLA CINGANA
Con La Cingana siamo di fronte a un fluttuante magma linguistico
quale raramente è dato di riscontrare nella storia del nostro teatro
dialettale: in essa c’è veramente di tutto: greco-italico, pavano,
bergamasco, veneziano, arabo e gergo zingaresco. Ferrara costituisce
quasi certamente il punto di partenza dell’esperienza linguistica del
Giancarli. Lì vi lavorò Ruzante, il quale fu nella città estense almeno
due volte fra il 1529 e il 1532, lasciando dietro di sé una vastissima eco.
48
G. Folena, Il linguaggio del “Caos”, in Cultura letteraria e tradizione popolare in
Teofilo Folengo, in Atti del convegno tenuto a Mantova il 15-17 ottobre 1977, a c. di
E. Bonora e M. Chiesa, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 240-241.
49
A. L. Stiefel, Lope de Rueda..., cit. pp. 319 sgg.: «Lope de Rueda possiede il
soggetto... e l’esecuzione si accorda quasi letteralmente alle sue scene (della
Cingana)». Cfr. inoltre G. A. Cibotto in Enciclopedia dello Spettacolo, op. cit., alla
voce Giancarli.
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L’influenza dello scrittore padovano si ravvisa in modo macroscopico
nei “villani” proposti da Gigio: Garbuglio e Spadan sono contadini
pavani né più né meno, segno evidente che la lezione ruzantiana aveva
lasciato nel Giancarli un’impressione indelebile.
Venezia è l’altra tappa fondamentale nell’itinerario culturale di
Gigio. La disinvoltura con cui egli pone mano ai diversi linguaggi di
Venezia implica non solo una lunga permanenza nella città lagunare,
ma anche la conoscenza precisa di quel mondo cosmopolita in cui si
convogliavano le più diverse lingue: l’eco vivissima delle più esoteriche
voci della città risuona spesso nella Cingana, specie negli stradiotti, il
cui esempio più significativo è ravvisabile in personaggi “greci” come
Acario. Il suo stesso amico Andrea Calmo fu autore di varie commedie
“in diverse lingue”, come La Potione, La Travaglia e La Spagnolas. È
quindi probabile che i rapporti d’amicizia fossero sfociati in un
reciproco scambio di vedute, in una comunanza di interessi e, infine, in
una identità di esiti teatrali.
Ma certamente questi sono solo alcuni dei motivi che portarono
Gigio a un largo uso di forme dialettali, altri e non meno importanti non
sono da sottovalutare. La preoccupazione, ad esempio, di compiacere il
pubblico e di assecondarne i gusti. Il ’500 aveva posto di prepotenza il
problema contadino, con tutte quelle implicazioni satiriche che una
classe dirigente proclive a difendere comunque i propri privilegi
incoraggiava negli scrittori di teatro. I quali si erano accorti ben presto
che il pubblico di corte favoriva e ricercava i drammi “contadineschi”,
portati alla ribalta con enorme fortuna da Ruzante e che avevano
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conosciuto una crescente affermazione a teatro già nei primi anni del
secolo. Non è certamente un caso che l’esperienza dialettale della nostra
commedia inizi a dare i suoi frutti più saporiti nel ’500 e che la presenza
del dialetto si proponga, sia pure di straforo, anche in autori di altissimo
livello. Una prima conseguenza di questa consapevolezza degli autori di
teatro, osserva l’Altieri Biagi, è che il dialetto viene pertanto a proporsi
come lo strumento principe di individuazione netta e precisa dei ruoli
sociali: la commedia del ’500 riflette quindi specularmente la divisione
in classi cui è soggetto il “corpus” sociale. Va da sé che la trattatistica
cinquecentesca sui “ruoli” era intransigente su questo punto: solo ai
ridiculi era permesso l’uso del dialetto; ai personaggi di alta estrazione
sociale si confaceva l’eloquio in lingua50.
Protagonista contadino della Cingana è il villano Garbuglio, di
cui Gigio ha saputo cogliere non solo l’aspetto linguistico fatto di
pavano, ma anche, attraverso un’intelaiatura volutamente giocosa,
elementi sociali che trascendono la mera satira per rappresentare a forti
tinte un mondo contadino vessato dalla fame e dalle carestie.
Certo, già lo abbiamo notato, Giancarli scriveva la sua commedia
in anni molto diversi da quelli del Ruzante, e la sua risulta
un’operazione meramente “letteraria”, di “imitazione” di situazioni
tipicamente ruzantiane, per cui anche Garbuglio viene visto una vittima
delle guerre che dalla fine degli anni ’20 avevano imperversato nel
Veneto, portando ovunque rovine, morti e fame. «Sul padovano, scrive
Menegazzo, come nella maggior parte d’Italia, si erano abbattuti nel
50
M. L. Altieri Biagi, Appunti sulla lingua..., op. cit., pp. 267-268.
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primo Cinquecento tutti i flagelli biblici della peste, della fame e della
guerra...»51. Il primo effetto della guerra è quello di mutare
profondamente il carattere: «Garbuglio – ...Nu dalle ville, inanzo le
guere, a giere nu tundi co è una mescola... ma daché è vegnù ste guere e
che a som sté in campo... e cha gom spratiché con soldé, sbrisighei,
Galiuti e altre zenìe a som deventé an nu scozzoné, an nu scaltrì...»
(Cingana, I, 15). “Da quando siamo stati al campo, dice Garbuglio,
siamo diventati anche noi dei furfanti e dei ladri”: della guerra come
scuola di astuzia e di furfanteria ci aveva parlato negli stessi termini
anche Ruzante nel Parlamento: «...Non bisogna esser coglioni, vi dico,
io mi son fatto scaltro».
E ancora: «...Non ne besuogna suppiar pi sotto la coa... a son sì...
fato scozonò che no me cognosso ápì sa son mi o me frello…».
(Cingana, I, 15). “Non bisogna soffiarci troppo sotto la coda, sono
diventato un tal furfante che non mi riconosco più...”. Parole che
nascondono una minaccia nemmeno tanto velata e in cui è condensata
tutta la rabbia di una classe contadina sul punto di esplodere, pronta alla
ribellione.
Un’altra conseguenza inevitabile della guerra era la carestia, che
sottraeva alle plebi rurali anche le più umili forme di sostentamento,
51
E. Menegazzo, Stato economico sociale del padovano all’epoca del Ruzante, in
Atti del Convegno sul tema: La poesia rusticana nel Rinascimento, Problemi attuali
di Scienza e di Cultura, Roma, Acc. Naz. dei Lincei, Quaderno n. 129, 1969, pp. 161
sgg.
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rappresentato da polenta e rape, “pasto da villano”, “cibo da persone
che molto s’affatichino”52.
Cassandro – Che si fa alla villa?
Garbuglio – A digom male e si a fagon pezo, po a la fagon anare a
polenta e a rave... (Cingana, II, 11) (Diciamo male e facciamo
peggio, e poi la facciamo andare a polenta e rape).
Garbuglio – ...Quatro dì ca n’ha magnò solamen polenta e pan de sorgo
(Quattro giorni che ho mangiato solo polenta e pan di sorgo). Che
sono poi gli alimenti tipici del contadino pavano, come attesta
Ruzante nella Prima Orazione (1521): «Pavan, an? Mo no ghe
cresce po de tuta fata legume del mondo? De fave?... Mo biave,
po, cun è mégio, sorgo, spelta, segale, orzo».53 L’altro eroe
contadino della commedia è il facchino Martin Bergamasco: egli
è il tipico contadino inurbato, piombato in città alla ricerca di un
lavoro. Così Garbuglio inquadra, con stilemi tipicamente
ruzantiani, roesso mondo54, i facchini bergamaschi, «...che sotto
el caòre del sole no fu mé uomeni pi avezù e sotile e stregnente a i
52
P. Camporesi, La maschera di Bertoldo, op. cit., p. 18.
Ruzante, La Prima Orazione, in La Pastorale. La Prima orazione. Una lettera
giocosa, a c. di G. Padoan, Padova, Antenore, 1978, pp. 201 sgg.
54
«Il pavano roesso – scrive G. Padoan – significa propriamente “universo”, ma mi
pare indubbio che il Beolco giochi allusivamente con questo termine. Il motivo del
“mondo alla riversa” ricorre frequentemente nella letteratura». Cfr. G. Padoan, A.
Beolco da Ruzante a Perduoçimo, in Lettere Italiane, XX, n. 2, 1968, p. 131, n. 52.
E in effetti Ruzante, nel prologo della Moscheta, afferma: «Orbétena, el mondo è
tuto voltò col culo in su».
53
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denari de iggi, per que i vola per tutto el roesso mondo... per
guagnare...» (Cingana, I, 15) (I facchini bergamaschi, che sotto il
calore del sole non si videro mai uomini più avveduti, sottili e
attaccati al denaro di essi, perché li si vede volare per tutto
“l’universo mondo” per guadagnare...). Il povero facchino si
lamenta di essere stato imbrogliato da Garbuglio (che in dialetto
veneziano
significa
appunto
“ingannatore”,
“imbroglione”
(Boerio)), che gli ha venduto un vecchio cavallo bolso. Martin
Bergamasco – Orsù, l’è cusì com dis la canzò: “no ‘l ghe più fè
nel mond, per que tug è bararìa”. Quel che dis più la bosìa è più
credèst e più giocond , com ha facchg un vilà a mi, che me l’ha
cazzada, c’ho credest comprà un so caval... si ho comprà una
cavra a rost... (Cingana, I, 16) (Orsù, è così come dice la canzone:
“Non c’è più fede al mondo, perché tutto è imbroglio”. Colui che
dice le bugie più grandi è il più creduto e il più felice, come ha
fatto un villano con me, che me l’ha messa...; ho creduto di
comprare un cavallo e invece ho comprato una capra arrosta...).
Tug è bararìa: Martin Bergamasco traduce nel suo dialetto le
parole famose del Viaggio in Alemagna (1507) di F. Vettori: «...il
cervello di questo (del cerretano) si fa acuto a trovare arte nuova per
fraudare e quello d’un altro si fa sottile per guardarsene. Et in effetto
tutto il mondo è ciurmeria...».55
55
P. Camporesi, Il libro dei vagabondi, op. cit., p. 325.
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Secondo l’ideologia corrente il villano ruba per sua natura, perché
il rubare, l’arraffare è insito nella sua psiche: «Di natura baia il cane / di
natura robba il villano», diceva un antico pronostico, che riassumeva
perfettamente l’idea che la classe dirigente cinquecentesca s’era fatta
intorno ai villani, agli “uomini bestia”. «Progenies malnata quidem
villana vocatur», scriveva Folengo nel Baldus (XII, vv. 246 sgg.). La
citazione del Folengo è a mio avviso pertinente, perché nelle commedie
del Giancarli vi sono “spie” che fanno pensare a una qualche influenza
folenghiana. Fra i nomi dei personaggi che popolano il Baldus, c’è
uno Spingardus che rimanda inequivocabilmente al servo Spingarda
della Cingana56; così come nel canto XIII appaiono varie parole
arabe (atholac, alphatar, aludel), che riecheggiano la lingua mista di
arabo e dialetto con cui si esprime la zingara del Giancarli57.
Uomo della frode, il villano trova la sua collocazione nella
stoltezza e nella buffoneria: lo Spadan della Capraria, Garbuglio e
Martin Bergamasco sono soprattutto dei buffoni, uomini degradati, atti
solo a far ridere il pubblico della città per la loro stoltezza e la totale
insipienza. Ma l’occhio di Gigio non si sofferma solo sui villani, ma
anche su quel mondo oscuro e maledetto dei subalterni che vivono a
Venezia, e la cui unica fonte di sopravvivenza è data appunto
dall’imbroglio, dalla frode e dal raggiro. Così tutta l’esistenza di Agata,
la ruffiana, ruota intorno al guadagno, ottenuto con l’inganno e la
56
B. Migliorini, Aspetti rusticani del linguaggio maccheronico del Folengo, in
Atti..., Quaderno 129, cit., pp. 192 sgg.
57
B. Migliorini, Aspetti rusticani..., op. cit., pp. 188 sgg.
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prostituzione, mentre una morale cinica permea di sé ogni azione dei
“servi”, come ben si vede dal lungo monologo di Spingarda (IV, 6):
Spingarda – ...Così comanderà il tesoro di cui sarò possessore... beato
colui che, facendomi di beretta, avrà da me in iscambio un mio
cenno co ’l capo. Facend’io così, ne avrò rispetto... perché sono
passati quelli umori all’antica, quando si facea onore alla nobiltà e
alla virtù. Non più nobiltà, non più virtù, no: o sia un uomo o sia
un asino, pur che sia carico di denari faciasegli onore, perché lo
merita. ...Uscirò per una volta di servitù e diverrò d’un asino un
uomo, perché non è uomo colui che non ha danari oggidì...
È indubbio che nella commedia circola un’atmosfera molto
aretinesca, e Agata, con i suoi “consigli” alla figlia Annetta, ricorda
molto da vicino la Nanna dei Ragionamenti. Agata – Aldi fia, no ghel
far pur a sàver ti, che dalla mia banda fa conto... no aver per mal de ste
mie parole, perché ti vedi ben che son pi vecchia ca ti, e de nu vecchi no
xè bon altro che i consegi.
Annetta – Come a male, ohimé? Dite pur ciò che vi piace, che tutto si
torrà… in buona parte.
Agata – Questo te vogio dir: che da qua ananti tu ti faci pi conto de
Spingarda... cerca de farghe più piaséri che ti puòl, perché chi sa
che ancora a questa no fosse la to ventura. Contentalo de quello
che ‘i vuol. Si in casa te vien... con to commodo, come saràve a
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dir fazoleti, qualche camisa, qualche linzuol vecchio, no restar de
tuòrli. L’è ben vero che sto zuògo no besògna farlo troppo spesso,
azò che to madonna no se ne accòrza... No te far conscientia de
questo, sì ben i no xè toi, che ad ogni modo sti patroni no puòl
mai pagar tutte le vostre fadìghe. E si no avessi donde liogàrli, no
te manca la casa de sta to vecchia, che è vostra secretaria. Cusì
ancuo tuò una cosa, doman un’altra, tanto che in cao de l’anno
s’ha sunào una meza massarìa senza spesa. E quando ti no la
volessi adoperar, no te mancherà venderla... Che dìstu de sti mei
conségi? te piàsei?
Annatta – Madonna sì!
Agata – Adònca fa che ti i metti in opra. Aldi: peltri, cusilieri, piròni,
cortèi, saliere: tutto è robba! (Cingana, II, 1).
Agata, oltre che ruffiana, si presenta inoltre come una “strega”, in
grado di preparare misteriose pozioni per le più svariate necessità. E
come tutte le streghe gode di una fama sinistra, come quella, ad
esempio, di mangiare i bambini. Così Fioretto, un ragazzino, le si
rivolge in questi termini:
Agata – Ah, fìo, a chi digo mi, an? onde vàstu sangue?
Fioretto – Ohimé, ohimé, ohimé.
Agata – Onde còristu? No aver paura.
Fioretto – Falisco, o Falisco: la strega che va in corso. Apri tosto.
Agata – Nona, fìo.
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Fioretto – Falisco m’ha pur detto che voi mangiate i bambini.
Agata – Oh, che gramo el fazza Dio, sémpio che ’l xè. Tiò, che te vògio
donar sto bel pomo, caro.
Fioretto – Ma voi mi mangiarete poi.
Agata – No aver paura, te digo!
Fioretto – Voi mangiate pur li fanciulli e li forate il corpo. (I-3)
Ma nella commedia il personaggio chiave di questo mondo
oscuro è la zingara, che provenendo da mondi lontani e sconosciuti, è
depositaria di misteriosi segreti, che vela con il suo arabo “balbettante”,
proveniente probabilmente dall’Egitto, come nota il Teza58.
Medoro – Come vi poté sofferir il core di lasciar il propio [sic]
figliuolo, uscitovi del propio ventre e portarne me, ch’io vi ero
nulla?
Zingara – ...Cando mi entra fil beith abuch, sul casa de to pari, ... – una
fantesca mi chiese – ...se mi sabèr far martella l so inamorata
(sic); mi dito de sì e promessa far gran cosa e presta mi insegnata
a ella un ration e mandata ella sul copi de casa... e mi rimasta
sola... messo mio figliuol cingani cul to sorella in chel to loga
(sic). (Quando io entrai fil beith áabuch, in casa di tuo padre, una
fantesca mi chiese se sapevo far un incantesimo al suo
innamorato. Io dissi di sì, e promisi di far gran cosa, e
prestamente le insegnai uno scongiuro e la mandai sul tetto di
58
E. Teza, Voci greche e arabe..., cit. pp. 12-13.
320
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casa. Rimasta sola, misi il mio figlio zingaro con tua sorella al
posto tuo.)
Medoro – ...Essendo voi cingana, non vi si crede con settanta pegni.
Zingara – Letachaf, no dubita ninta... (II-12)
Come si può vedere, le parole arabe vengono subito tradotte in un
veneziano storpiato, suscitando così l’ilarità del pubblico. Fil ábeith
abuch, “sul casa de to pari” (in casa di tuo padre); letachaf, “no dubita
ninta” (non dubitare per niente).
Ma l’arte zingaresca è tesa all’imbroglio, e a farne le spese è
Garbuglio, imbroglione a sua volta gabbato, il quale, dopo aver saputo
delle capacità della zingara a far nigromanta... a far l’incanta, chiede:
Garbuglio – ...Dime, cara mea, savèu farme una qualche pregantéola
que la me Gnocheta me morisse drìo? (Dimmi, cara mia, sai farmi
un qualche incantesimo in modo che la mia Gnocchetta mi muoia
dietro?)
Zingara – Chesta star apunto el mio arti. (Questa è appunto la mia arte)
Zingara – Anduch’mantil, enti, aber fazuleta? (Anduch’ mantil, enti: hai
un fazzoletto?)
Garbuglio – A crezo averlo... (credo di averlo)
Zingara – Mi ligàr bel ti l’occhia, enti no bedér ninta. (Ti benderò per
bene gli occhi, perché tu non veda niente)
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Garbuglio – Oh, oh, a sto muo sì che la va ben. (Oh, oh, in questo modo
va bene)
Zingara – ...Andor... flus, barda se ti abér danari adossa, cava fuora...
che no te fazza mal el saitan. (Andor... flus: guarda se hai denari
addosso, tirali fuori, che non abbiano a punirti el saitàn, gli
spiriti.) (IV-13)
Anduch’ mantil, enti, “guarda se hai un fazzoletto”; andor... flus,
guarda se hai denari, tirali fuori, se non vuoi che ti facciano del male el
saitan, gli spiriti59. «Non prima dell’anno 1400 – annota il Muratori –
uscì de’ suoi nascondigli questa mala razza di gente, fingendo per sua
patria l’Egitto e spacciando che il re di Ungheria gli avea spogliati delle
lor terre: il che fa ridere chiunque sa di geografia, ma si credea
facilmente una volta dall’ignorante plebe... Questa sporca nazione,
cacciata dal proprio covile..., comparve nelle provincie occidentali, e
piena di mille bugie seppe quivi piantare il piede... Non campi, non arte
aveano che desse loro da vivere. Il furto, la rapina, le frodi erano il
granaio infausto per loro... E pure si tollerava questa infame canaglia
perché facea credere alla gente grossa... che seco portava il dono
d’indovinar le cose avvenire...»60.
È indubbio che tra ’400 e ’500 il problema degli zingari ebbe una
risonanza sociale non indifferente, con riflessi notevoli sia nella
letteratura sia nella pittura. Tra XV e XVI secolo ebbero ad esempio
59
E. Teza, Voci greche e arabe..., cit., p. 13.
L. A. Muratori, Dissertazione sopra le antichità italiane, Milano, Pasquali,
MDCCLI, tomo III, p. 298.
60
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una certa fortuna le “zingaresche”61, e nella pittura non mancarono
esempi significativi proprio nell’ambiente emiliano e veneziano. Non
sarà inutile ricordare che la famosa Tempesta di Giorgione,
nell’inventario approntato da Marcantonio Michiel, quando il quadro si
trovava in casa Vendramin, viene titolato come El paeseto in tela cun la
tempesta cun la cingana el soldato62. Al Correggio appartiene la famosa
“Zingarella” e sempre col nome di “Zingarella” fu chiamata l’Assunta
del Tiziano. Quanto poi alla presenza di riflessi arabi nella cultura
di Gigio, ciò è da rapportarsi non solo a influenze letterarie, ma, come
abbiamo già ricordato, anche pittoriche: in questo senso è difficile non
pensare a Palazzo Schifanoia, con tutti i suoi simboli astrologici che
rimandano a indubbie contaminazioni e fusioni tra mondo classico e
arabo.
Magia, negromanzia, cartomanzia: sono termini che ricorrono con
insistenza nelle commedie del Giancarli. E già abbiamo rilevato come a
Ferrara, nei primi anni del ’500 avessero operato i più noti cultori di arti
occulte, da Paracelso al famoso medico Giovanni Mainardi, il quale si
dedicò allo studio della medicina araba, che sola sembrava depositaria
di conoscenze arcane e misteriose. Ma tutta questa complessa materia,
magia, astrologia, alchimia, che potrebbe far pensare a una cultura e a
una
società
tutto
sommato
ancora
primitive
e
facilmente
suggestionabili, è invece il segno forse più potente della modernità
verso cui si stavano avviando le tre città in cui Gigio visse la propria
61
P. Toschi, Le Origini del teatro italiano, Torino, Boringhieri, 1976, pp. 587 sgg.
E. Carli, G. A. Dall’Acqua, Storia dell’Arte, Bergamo, Istituto Italiano d’Arti
Grafiche, MCMLXX, vol. III, p. 163.
62
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esperienza di uomo, di scrittore e di pittore. Questo triangolo conosce
fra la fine del ’400 e la prima metà del ’500 un’insorgenza di elementi
innovatori, in senso mercantile e, direi quasi capitalistico, quali
nessun’altra città o corte conobbero in quegli anni. Il Doge Andrea
Gritti, che governò sin quasi sulla soglia degli anni ’40 e la cui
influenza si fece sentire sino al ’60, diede il via a una modernizzazione
della città, accogliendo tutte quelle frange sociali che la cultura
egemone del tempo condannava come eretiche.
Ebrei, greci, alchimisti: tutta questa gente, portatrice di malnoti
segreti magici, trova ospitalità nella “libera” Venezia, e ciò non tanto
perché il Doge sia dotato di particolare “buon cuore”, ma
essenzialmente perché egli usa le capacità tecniche di queste persone
per rafforzare la potenza di Venezia63. Sono Venezia, Ferrara e
Mantova che accolgono per loro utilità le minoranze perseguitate, e il
Gritti, in quest’opera di protezione, risulta “la punta più matura e
avanzata”64. Nella prima metà del ’500, Venezia è veramente il centro
di raccolta di tecnici, di inzegneri, medici, architetti, artisti. «Non sono
solo Sansovino, L’Aretino, Tiziano, il Doni ad essere coinvolti in un
processo di rinnovamento urbano, scrive l’Olivieri, ma gli alchimisti,
che si sono formati nelle “fornaci” di Costantinopoli, poi fuggiti, i
fornai della Terraferma che portano a Venezia nuovi ingegni per una
più razionale utilizzazione dei mulini, i tecnici di armi bavaresi e
63
Su tutto l’argomento riguardante la consistenza della “magia” come elemento
modernizzante tra Venezia, Ferrara e Mantova, cfr. il bel saggio di A. Olivieri,
Un’articolazione urbana, la Corte: tecnologia e modelli culturali fra ’400 e ’500, in
Economia e Storia, Milano, Giuffré, 1983, pp. 139-154.
64
A. Olivieri, Un’articolazione..., cit., p. 145.
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svizzeri, che recano proposte per il miglioramento delle artiglierie, i
greci che sono vieppiù usati nell’Arsenale»65.
Il Gritti apre le porte soprattutto agli alchimisti, che possiedono
l’arte della manipolazione dell’oro, che addirittura sanno creare l’oro,
quell’oro che poi sarà utile nelle guerre e nell’acquisto di tutti i beni
necessari alla città66. Essi sono appunto quei «filosofi, strologi,
alchimisti e nigromanti», cui accenna l’Aretino nella Terza Giornata dei
Ragionamenti67. I rapporti del Gritti con Ferrara e Mantova sono
strettissimi. A Mantova giungono gli ebrei con tutto il loro corredo di
conoscenze magiche, astrologiche, mediche (di una medicina occulta).
Quando poi per loro l’aria si fa irrespirabile a Mantova, essi trovano un
rifugio sicuro a Ferrara, la Ferrara di Renata di Francia68.
Nelle riunioni che il Doge Gritti tiene a Palazzo Ducale, fra il
1530 e il 1537, egli si premunisce di invitare anche i rappresentanti
delle corti di Ferrara e Mantova, perché è anche qui che si stanno
ponendo le basi di una cultura moderna, che utilizza tutte le
potenzialità, anche quelle eretiche69. Mantova e Venezia costituiscono
le principali vie di congiunzione degli alchimisti, come del gioco e delle
ricchezze di corte. L’Aretino ne aveva compreso l’importanza70. Lo
spazio apparentemente magico e irrelato rispetto ai reali bisogni della
società è invece uno spazio utile: gli eretici, le minoranze sono invece
65
A. Olivieri, Un’articolazione...,
A. Olivieri, Un’articolazione...,
67
P. Aretino, Sei Giornate, a c.
XXXVII.
68
A. Olivieri, Un’articolazione...,
69
A. Olivieri, Un’articolazione...,
70
A. Olivieri, Un’articolazione...,
66
cit., p. 145.
cit., p. 147.
di G. Aquilecchia, Bari, Laterza, 1980, pp. Vcit., p. 145.
cit., p. 143.
cit., p. 147, n. 35.
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depositarie di tecniche, anche agricole, tendenti a migliorare il
rendimento delle terre. Quanti problemi aveva Ferrara per l’area
fluviale del Po? Di quali e quante tecnologie aveva bisogno per tentare
di domare una natura avversa?
Ecco quindi Ferrara che richiama a sé ogni eretico che possegga
però strumenti tecnici adeguati. Un altro rodigino, molto più giovane di
Gigio, Giovan Maria Avanzi (1549-1622), anch’egli girovago
inveterato, avrà rapporti con la corte ferrarese, e anche con Adria, prima
di stabilirsi a Rovigo definitivamente nel 1581. E l’Avanzi era un
eretico, ma anche un tecnico che fondava «le sue argomentazioni sulla
coltura del grano e del fagiolo sulla base dei testi e delle discussioni,
che alla corte ferrarese avvenivano e che rintraccia nella biblioteca del
Groto».71 Questa era dunque la vita che circolava intorno a Gigio, una
vita che però, già l’abbiamo notato, all’affacciarsi degli anni ’60 del
’500 tende a dissolversi per la forza della Controriforma: l’affermarsi
delle istanze inquisitoriali implicò infatti una vera e propria “fuga”,
un’“emigrazione” non solo di capitali e di tecniche, «ma anche
l’abbandono di Venezia da parte di quegli intellettuali, come il Curione
e il Doni, che l’avevano privilegiata per il loro lavoro tipografico ed
intellettuale».72
Erano quindi svaniti nel nulla i sogni aretiniani di una società
veneziana “aperta”, in cui era possibile l’ascesa sociale, quei sogni che
erano stati propri, già l’abbiamo visto, anche di Gigio. Quanto infine
71
72
A. Olivieri, Un’articolazione..., cit., p. 151.
A. Olivieri, Un’articolazione..., cit., p. 152.
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all’uso variegato della lingua greca, sarà da considerare che «presso la
Scuola di San Giorgio dei Greci a Venezia aveva sede la comunità di
quella nazione. Fra mercanti e soldati si incontravano molti pittori di
immagini
sacre,
che
continuavano
a
ripetere
l’iconografia
bizantineggiante dei quadri di devozione»73. Ed è probabilmente in
simili ambienti che Gigio venne a contatto con il linguaggio degli
stradiotti, i soldati greci al servizio della Serenissima. Organizzati in un
corpo militare autonomo, gli stradiotti operavano di rincalzo alle milizie
veneziane, e di qui la necessità e la ragione di una distinzione del nome,
che indicava «...la loro professione di soldati»74.
Notava ancora il Sala che essi erano soldati per lo più rozzi e
indotti, che parlavano un veneziano sgrammaticato, per cui ne risultava
un linguaggio estremamente ibrido, fatto di veneziano storpiato e parole
greche. Anche nella Capraria abbiamo esempi eloquenti di linguaggio
stradiotesco attraverso la figura del vecchio Afrone, che dice venderi
invece di “vedere”, andosso al posto di “addosso”, crendo invece di
“credo”. Per il greco di Afrone, gia abbiamo visto qualche esempio
sopra, ma non dissimile è il linguaggio di Acario, altra vittima delle arti
della zingara. Il Teza, rifacendosi agli studi di C. Sathas, ne riporta in
nota alcune considerazioni, per cui «quasi tutte le prime commedie
italiane hanno argomenti di grecità medievale: e il più curioso è questo,
73
74
G. Muraro, El Greco, Milano, Garzanti, s.d., p.1.
G. Sala, La lingua degli stradiotti..., op. cit., p. 143.
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che i personaggi, in quelle del Ruzante, del Giancarli, del Calmo e di
altri, parlano i dialetti di allora dei Cretesi, dei Corfioti, dei Rodiani».75
Come ha osservato il Sala, il greco presente nelle commedie era
fatto più che altro di stereotipi, largamente correnti, e pertanto
facilmente riconoscibili dal pubblico e per altro tradotti pressoché
simultaneamente dai personaggi stradioteschi.
Acario – ...Ti ave visto mai chel fia del vecchia?
Spingarda – Madonna Stellina volete dir voi?
Acario – Si, madonna Stellina, bella, dulci, cara, pulìa fatta sul
parandiso.
Spingarda – Io la conosco sì, perchè? Sareste voi forse mio rivale?
Acario – Chie Stivali?
Spingarda – Io non dico “stivale”. Io dico mio “rivale”.
Acario – Chie vol dir rivali?
Spingarda – Mio concorente: se siete inamorato d’essa.
Acario – Dunga anga ti xe inamorao d’ella.
Spingarda – Che non lo sapete se non adesso?
Acario – Oymena to cardiamu, ohimé la mio cori (Cingana, II, 5)
Oymena to cardiamu (Oiména to Kardìa mou), “Oimé, povero il
mio cuore”.
E gli esempi si potrebbero moltiplicare. Ma oltre al greco v’è
anche un uso vario e arbitrario del veneziano, «e il pubblico rideva –
75
E. Teza, Voci greche e arabe..., op. cit. p. 7.
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osserva Teza – a sentire mio mugieri e sul casa e della diavulo e sul
Venesia... e cento altre strampalerie»76. Senza poi contare anche la
presenza di un comico del significante, per cui, agli orecchi del vecchio
Acario, “rivale” diventava “stivale”: una tecnica che avrebbe avuto una
fortuna immensa nella Commedia all’Improvviso. Non per nulla il
Sanesi, e per la presenza di personaggi come Martin Bergamasco e per
l’uso variopinto dei linguaggi, vide nelle commedie del Giancarli le
prime avvisaglie dell’incipiente Commedia dell’Arte77.
Enzo Sardellaro. Professore di Lettere Italiane
Via T. Aguiari 7/A – Adria – Ro
E-mail: [email protected]
Appendice
Cenni biografici
Per quanto riguarda la biografia, le notizie sono scarne: Gigio,
secondo Stiefel, dovrebbe essere nato intorno al 1508-1509 e morto
circa 1570. Confusione notevole è sorta anche intorno al nome. Così,
76
77
E. Teza, Voci greche e arabe..., op. cit., p. 8.
I. Sanesi, La Commedia, op. cit., vol. II, p. 434.
329
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per esempio, Gigio è “Giorgio” pari pari per il Salaa, mentre diventa un
improbabile “Giorgio Antonio” per il Tezab, i moderni esegeti (G.
Davico Bonino) lo trasformano in un elegante Gian Artemio Carli,
dove, si vede bene, il cognome è stato secato a metà per interporvi
“Artemio”. Il quale, come è facile intendere, è “nome d’arte”, e il Teza
ne ipotizza l’origine in un critico Artemo, che scrisse un Dei Pittori o in
un pittore di nome “Artemon”, ricordato nelle Istorie di Plinio.
Una fonte, che però fu largamente equivocata fu quella di
Baldassarre Bonifacio, il quale scrisse: «...Viget quoque memoria Gygis
Arthemij Jancaroli Rhodigini, excellenti ingenio viri, et in comica
poesi percelebris, huius Joanniss Baptistae consanguinei... Gygis
Arthemij duae... personant in theatris comoediae... altera Capraria
nuncupata... altera cui Cingana nomen fecit...» (Vivida è ancor la
memoria Di Gigio Artemio Giancarli rodigino, uomo d’eccellente
ingegno e assai famoso nell’arte comica, consanguineo di questo
Giovan Battista. Due commedie di Gigio echeggiano ancora nei teatri,
una chiamata Capraria, l’altra cui pose nome di Cingana).c
Però, e qui sta il “busillis”, un poco prima di menzionare Gigio,
Baldassarre Bonifacio si era soffermato su un altro membro illustre
a
G. Sala, La lingua degli Stradiotti nelle commedie e nelle poesie dialettali
veneziane del secolo XVI, in Atti dell’Ist. Veneto di Scienze, Lettere e Arti, Anno
Acc. 1950-’51, Tomo CIX, Classe di Scienze morali e Lettere, p. 156.
b
E. Teza, Voci greche e arabe nelle commedie del Giancarli, in Rendiconti delle
Regia Accademia dei Lincei, Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche,
Estratto dal vol. VIII, fasc. 4, seduta del 23 aprile 1899, p. 135, p. 3 dell’estratto.
c
Illustrium Rhodiginae urbis virorum elogia, a Baldassare Bonifacio Episcopo
Justinopolitano, c. 87. Il Ms., del 1654, si trova nella Biblioteca dell’Accademia dei
Concordi di Rovigo. Si tratta di un manoscritto in latino, di 30x40 cm, numerato,
con scrittura calligrafica di una sola mano).
330
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della famiglia Giancarli, l’assessore e giurisperito Giovan Battista
Giancarli, il quale «...post diutina studia bina iurisprudentia, bina
diademata consecutus... assessorium munus audacter arripiens, perpetuo
cursu per omnes Reipublicae Venetae urbes summa cum integritate et
sapientia Praetorius iudex assidit...» (Dopo lunghi studi, conseguì la
dignità in ambedue i diritti, e, ottenendo brillantemente la carica
d’assessore, con una carriera ininterrotta, fu giudice pretorio, con
somma integrità e sapienza, per tutte le città della Repubblica Veneta)
(c. 86). Bronziero aveva scorso molto “velociter” il manoscritto del
vescovo Baldassarre, cadendo in una sequenza impressionante di
equivoci, scrivendo: «...Gian Battista Giancarli, assessore... stampò la
Capraria e la Cingana e fu intorno al 1551...»d.
Il disgraziato “error” del Bronziero gettò nella disperazione il
maggiore studioso del Giancarli, il tedesco A. L. Stiefel. Il quale,
riportando le parole del Bronziero, ne costellò la citazione con una
sequenza preoccupata di punti interrogativi: «...Gioan Batista (?)
Giancarli Assessore (?) stampò la Capraria e la Cingano e fu intorno al
1551 (?)…». Infatti, quella famosa data, 1551, che aveva fatto
ammattire Stiefel, non ha senso alcuno se riferita a Gigio o alla sua
opera, mentre l’acquista se rapportata a Giovan Battista Giancarli, il
quale, nell’“Anno Domini” 1551, «...Annam filiam Vincentij Zeni
patricij veneti secundis nuptiis coniunxit...»: in altre parole l’illustre
legista s’era risposato proprio nel 1551 con Anna, figlia dell’altrettanto
d
Bronziero, Istoria dell’origine e condizioni dei luoghi principali del Polesine di
Rovigo, Venezia, 1747, p. 127.
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illustre patrizio veneto Vincenzo Zeno. La data, chiarissima, la si può
leggere sul margine sinistro del manoscritto, in relazione alle “secundis
nuptiis” già citate (c. 86). Se oggi possiamo spendere due parole sullo
“status” sociale di Gigio, lo dobbiamo in gran parte al vescovo
Baldassarre Bonifacio. Non dobbiamo però compiere l’errore di farci
fuorviare dal fatto che il di lui consanguineo, a noi già noto, Giovan
Battista, fosse uomo di elevata condizione sociale. Il nostro vescovo ci
informa infatti che Giovan Battista aveva sudato per farsi un po’ di
strada nel mondo. Era costui Antonii Mariae filium, il quale Antonio
vien classificato “inter minutos cives”, che è come dire di estrazione
pressoché popolare. Tuttavia, il rampante Giovan Battista, “fluctibus
emergens”, emergendo cioè da un’umile condizione, grazie ai propri
studi riuscì a diventare un eminente cittadino. Ma forse la cosa gli riuscì
più facile perché Giovan Battista seppe calibrare un paio di matrimoni
che dovettero in qualche modo facilitargli la carriera: uno con
«Lauram..., viri perillustris filiam» (Laura, figlia di un uomo
illustrissimo) (1547) e un altro (già menzionato) con «Annam... filiam
Vincentii Zeni patricij veneti» (1551), ottenendo così, a detta di
Baldassarre, anche la carica di “maleficiorum iudex”. Proseguendo, il
prelato aggiunge anche qualche altro particolare interessante: afferma
cioè che se il nostro uomo emerse per meriti puramente personali
(“huius gratia meruit hic vir”), lo conosce però anche consanguineo di
una illustre famiglia del patriziato veneto, detta “Zancarola” («...et ab
illustri patriciaque veneta... familia Zancarola»), il cui “cognomen” era
«Jancarolus o Zancarolus, eo tantum discrimen», con questa sola
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differenza, a seconda, cioè, se ne pronunciasse il nome secondo l’uso
latino («latine») o italiano («italice»). Infatti la suddetta famiglia
Zancarola era sì illustre per antichità, ma anche alquanto male in arnese
sotto il profilo patrimoniale. I Zancarolo appartenevano ai cosiddetti
“nobili poveri”, che a Venezia costituivano una vera pletora e che la
Serenissima manteneva in qualche modo. Orbene, come dicevamo, lo
Stato veneziano si faceva carico dei propri “nobili mendicanti” e, con
nostra soddisfazione, abbiamo constatato che tra i «plerique nobiles
nostri pauperes» è menzionato un Giovanni Zancarolo: «...L’impero
veneziano, scrive D. E. Queller, offriva molteplici occasioni di impiego
per i nobili poveri. Tra le altre, le castellanie e i posti di comando
venivano utilizzati in tempo di pace per distribuire incarichi... Una
grazia dei 1311 concedeva la castellania di Castro Nuovo di Creta a
Giovanni Zancarolo, che, catturato nella guerra di Ferrara, aveva
trascorso undici mesi in prigione...»e. È pertanto presumibile che Gigio
appartenesse a uno dei rami collaterali della variegata e tutt’altro che
facoltosa famiglia Zancarola, ossia a quei “minutos cives” cui
accennava Baldassarre Bonifacio. Con tutto ciò, nulla vieta di pensare
che alcuni componenti la famiglia Giancarli potessero avere conoscenze
e relazioni anche importanti a Ferrara, tali, voglio dire, da permettere di
allogare a bottega il giovane Gigio presso i maestri più qualificati della
pittura ferrarese. Infatti l’arte con la quale Gigio si guadagnava il pane
era quella del pittore: la drammaturgia costituiva per lui solo un
e
D. E. Queller, Il Patriziato veneziano, La realtà contro il mito, «Il Veltro», 1987,
73 79-80.
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“pendant”, che però per noi è fonte rara a cui poter attingere qualche
notiziola non peregrina.
Infatti, nella Dedica della Capraria troviamo scritto: «...Tosto che
la famma (sic) fece udire, o grande Hippolito, la desiderata venuta tua...
in me nacque... desiderio de pagare in parte li favori, et benefitij, che
giovanetto ne la tua patria io ricevei, da lo illustre tuo çio Sigismondo,
et dal magnanimo duca Hercole tuo fratello, et da te insieme...»f.
Spiccano con chiarezza due fatti molto significativi: il primo è che
Gigio, giovanetto, era a Ferrara; il secondo, non meno importante, che
all’epoca aveva goduto di una certa consuetudine con alcuni fra i più
illustri componenti la famiglia d’Este, da Sigismondo a Ercole II, per
non parlare dello stesso Ippolito II, il futuro cardinale. Qui il Giancarli
fece il pittore. Come poi a Venezia, dove entra in contatto con
L’Aretino.
L’Aretino pubblica nel 1546 una lettera stizzita nei confronti di
Messer Gratiano da Perugia, che lo assilla con la richiesta di sonetti,
ecloghe e simile merce: Aretino assicura il suo interlocutore che a
Venezia non mancano poeti in grado di servirlo degnamente, anche se
nessuno di essi eguaglia «le cose di Gigio Artemio Rodigino, poeta non
men famoso, che pittore valente»g. Ricordiamo che le lettere
dell’Aretino hanno in quegli anni a Venezia una fortuna senza
precedenti: tutti le leggono. Allo stesso modo con cui egli sa flagellare i
f
La Capraria, Comedia di Gigio Arthemio Rhodigino, Appresso Francesco
Marcolini, in Venetia, MDXXXXIIII. A lo Illus. et Reverendissimo Signore Don
Hippolito da Este Cardinal di Ferrara Gigio Arthemio.
g
P. Aretino, Il terzo libro delle Lettere, Venetia, Gab. Giolito, 1609, p. 358.
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suoi nemici, l’Aretino è nel contempo un’ottima cassa di risonanza per
quanti, come Gigio, si muovono nel suo “entourage”. Aretino spende
sul Giancarli poche ma significative parole: lo definisce poeta famoso e
pittore valente, che nel gergo artistico dell’epoca suonava come
“virtuoso”, ossia particolarmente capace nell’arte della pittura. In una
città come Venezia, dove la pletora dei pittori è immensa, una
presentazione benevola del più noto fra i critici dell’epoca alza
enormemente le quotazioni in borsa del pittore rodigino, allargandone la
fama e le conseguenti possibilità di guadagno.
Nel frattempo L’Aretino si fa promotore di iniziative culturali di
vasto respiro; non solo, ma egli diventa anche la “guida” di vari editori
veneziani, tra i quali spiccano Gabriele Giolito e Francesco Marcolinih.
Marcolini, in modo particolare, è «un uomo dell’Aretino», disponibile a
ogni suo suggerimento, e insieme danno vita a «un’impresa editoriale e
letteraria di tipo nuovo». L’Aretino, «digiuno di ogni educazione
umanistica», apre una breccia nel sistema chiuso della letteratura
umanistica e tira la cordata a tutta una serie di poligrafi e “scapigliati”,
che a Venezia irruppero impazienti di sperimentare i loro “capricci”i.
Non è certamente un caso che l’edizione più antica della
Capraria, del 1544, sia stata «impressa presso Francesco Marcolini», e
quindi riedita dallo stesso nel 1554. A Venezia il Giancarli fu amico
anche del Calmo, che lo ricorda in una sua lettera. Il Calmo afferma di
h
A Quondam, “Mercanzia d’onore” e “Mercanzia d’utile”. Produzione libraria e
lavoro intellettuale a Venezia nel ‘500, Bari, Laterza, 1977, p. 60, n. 11.
i
C. Dionisotti, La letteratura italiana nell’Età del Concilio di Trento, op. cit., p.
244; pp. 239 sgg.
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sentire il dovere di pagare, almeno in parte, i “debiti” che egli ha nei
confronti di Gigio, uomo «nassuo fuor de le buèle de la poesia» (uomo
nato fuor dalle budelle della poesia). Dopo aver lodato le opere
pittoriche di Gigio, nelle quali «ogni zorno le persone se ispirita drento»
(ogni giorno le persone ci si spiritano dentro), il Calmo ne esalta anche
l’eccezionale produzione poetica, composta da «egloghe, soneti,
capitoli, stantie e tanta roba, che no la poràve portar tre burchi feranti»:
ossia, tanta di quella roba, che a stento la potrebbero traportare tre
barche pesantil.
Bibliografia
l
Cherebizzi di M. Andrea Calmo. Ne’ quali si contengono varij et ingeniosi discorsi,
et fantastiche fantasie filosifiche, compresi in più lettere volgari, nella lingua antica
dechiariti. In Trevigi, appresso Fabritio Zanetti, MDCI, p. 69. Ma ora anche in Le
lettere di Messer Andrea Calmo, riprodotte sulle stampe migliori con introduzione e
illustrazioni di V. Rossi, Torino, Loerscher, 1888, pp. 120-121. La stessa lettera
anche in Il Teatro Italiano, op. cit., tomo I, pp. 520-21. Per la traduzione delle
locuzioni gergali veneziane ci siamo serviti di G. Boerio, Dizionario del dialetto
veneziano, Cecchini, 1856, rist. anastatica, Martello, Milano, MCMLXXI.). Le
tracce si perdono intorno al 1570. All’altezza di questa data M. Negro, nel Prologo
della Pace (Venezia, Zanetti, 1561) ricorda l’ombra di Giancarli: «...Arthemio...
ch’ha composto tante bellissime comedie, tra le quali si ritrova in stampa La
Cingana, La Capraria, La Pelegrina et altre degne d’esser comendate...». Il Furbo e
L’Exorcismo sono citate da Gigio stesso nella dedica della Capraria: «...Mentre io
stavo varij modi fra me ripensando, mi sopragionse un dolce et piacevol sonno, nel
quale mi si apresentorno tre mie figliole poco inanti partorite da lo intelletto mio...
La Capraria, Il Furbo, et Lo Exorcismo...». Del Furbo e dell’Exorcismo non
abbiamo ulteriori notizie, mentre La Pellegrina è menzionata da M. Quadrio, Della
Storia e della Ragione d’ogni poesia, vol. V, p. 228; da E. Fontanini Zeno,
Biblioteca dell’eloquenza italiana, Venezia, 1753, vol. I, pp. 365-366; da L. Allacci,
Drammaturgia..., op. cit. Alla voce Giancarli.
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EDIZIONI DELLE COMMEDIE DI GIANCARLI
Artemio Gigio Artemio Giancarli, La Capraria. Comedia di Gigio Arthemio
Rhodigino. Appresso Francesco Marcolini. Al segno de la Verità. In
Venetia, MDXXXXIIII.
La Cingana, Comedia di Gigio Arthemio Giancarli Rhodigino. In Vinegia.
Appresso Agostino Bindoni, MDC.
EDIZ. MODERNE.
Teatro Veneto, La Cingana, a c. di G. A. Cibotto, Parma, 1960.
COMMEDIE PERDUTE
Il Furbo, L’Exorcismo e La Pellegrina.
MANOSCRITTI
Bonifacio B. Illustrium Rhodiginae urbis virorum elogia, a Baldassare
Bonifacio Episcopo Justinopolitano, c. 87. Il Ms., del 1654, si trova
nella Biblioteca dell’Accademia dei Concordi di Rovigo.
DIZIONARI E REPERTORI
Allacci L., La drammaturgia accresciuta e continuata fino all’anno 1755,
Venezia, Pasquali, 1775.
Boerio G., Dizionario del dialetto veneziano, Cecchini, 1856, rist. anastatica,
Martello, Milano, MCMLXXI.
Fontanini Zeno E., Biblioteca dell’eloquenza italiana, Venezia, 1753, vol. I,
pp. 365-366.
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Mazzucchelli G. M., Gli scrittori d’Italia, Brescia, Bossini, 1753-1763.
Pastorello E., Tipografi, editori, librai a Venezia nel sec.XVI, Firenze, 1924,
p. 38.
Quadrio M., Della Storia e della Ragione d’ogni poesia, vol. V, p. 228.
La voce Giancarli, in Dizionario letterario Bompiani, Milano, 1957, vol. II,
p. 58.
TESTIMONIANZE DI CONTEMPORANEI SUL GIANCARLI
Aretino P., Il terzo libro delle Lettere, Venetia, Gab. Giolito, 1609, p. 358.
Calmo Andrea. Cherebizzi di M. Andrea Calmo. Ne’ quali si contengono
varij et ingeniosi discorsi, et fantastiche fantasie filosifiche, compresi in
più lettere volgari, nella lingua antica dechiariti. In Trevigi, appresso
Fabritio Zanetti, MDCI, p. 69.
Ma ora anche in Le lettere di Messer Andrea Calmo, riprodotte sulle stampe
migliori con introduzione e illustrazioni di V. Rossi, Torino, Loerscher,
1888, pp. 120-121.
La stessa lettera anche in Il Teatro Italiano, op. cit., tomo I, pp. 520-21.
Negro M., Prologo della Pace ,Venezia, Zanetti, 1561.
OPERE TEATRALI DI CONTEMPORANEI DI GIANCARLI
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Ruzante, Il reduce o Parlamento de Ruzante che iera vegnù de campo, in
Teatro Italiano, Le Origini e il Rinascimento.
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La Saltuzza, Comedia di M. Andrea Calmo. Di nuovo rivista e corretta. In
Trevigi, Appresso Fabritio Zanetti.
Antonfrancesco Grazzini (Il Lasca), Prologo de L’Arzigogolo, Sampietro,
1967, vol.VII, p. 13.
Ruzante, La Moscheta, in Il Teatro Italiano, a c. di G. Davico Bonino,
Torino, Einaudi, 1977, pp. 233-321.
Ruzante, Il reduce o Parlamento de Ruzante che iera vegnù de campo, in
Teatro Italiano, Le Origini e il Rinascimento, a c. di S. D’Amico,
Milano, Nuova Accademia, 1955, p. 453.
Ruzante, La Prima Orazione, in La Pastorale. La Prima orazione. Una
lettera giocosa, a c. di G. Padoan, Padova, Antenore, 1978, pp. 201 sgg.
STUDI DI CARATTERE GENERALE E LINGUISTICO
Aquilecchia G., Pietro Aretino e la lingua zerga, in Schede di italianistica,
Torino, Einaudi, 1976, p. 154.
Altieri Biagi M.L., Appunti sulla lingua della commedia del ’500, in Atti...,
cit., p. 268. Cfr. inoltre sulle fonti romanze della commedia del ’500.
Ariosto L., La Cassaria, in Opere Minori, a c. di A. Vallone, Milano, Rizzoli,
1964, p. 221.
Ascoli G.I., che indagò la lingua degli zingari nel secondo volume dei Saggi
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Balduino A., Cantari del Trecento, a c. di A. Balduino, Milano, Marzorati,
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inoltre la voce, curata dallo stesso Cibotto, Giancarli, Gigio Artemio, in
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voll. 10. E, sempre dello stesso, la voce Giancarli, in Dizionario
letterario Bompiani, Milano, 1957, vol. II, p. 58.
D’Amico S., Storia del teatro drammatico, Milano, Garzanti, 1970, vol. I, p.
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244; pp. 239 sgg.
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