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Apollo e Dafne
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Primus amor Phoebi Daphne Peneia: quem non
Fors ignara dedit, sed saeua Cupidinis ira.
Delius hunc nuper, uicto serpente superbus,
Viderat adducto flectentem cornua neruo
"Quid" que "tibi, lasciue puer, cum fortibus armis?"
Dixerat, "ista decent umeros gestamina nostros,
Qui dare certa ferae, dare uulnera possumus hosti,
Qui modo pestifero tot iugera uentre prementem
Strauimus innumeris tumidum Pythona sagittis.
Tu face nescio quos esto contentus amores
Inritare tua nec laudes adsere nostras."
Filius huic Veneris "figat tuus omnia, Phoebe,
Te meus arcus" ait, "quantoque animalia cedunt
Cuncta deo, tanto minor est tua gloria nostra".
Dixit et eliso percussis aere pennis
Inpiger umbrosa Parnasi constitit arce
Eque sagittifera prompsit duo tela pharetra
Diuersorum operum: fugat hoc, facit illud amorem;
Quod facit, auratum est et cuspide fulget acuta,
Quod fugat, obtusum est et habet sub harundine plumbum.
Hoc deus in nympha Peneide fixit, at illo
Laesit Apollineas traiecta per ossa medullas:
Protinus alter amat, fugit altera nomen amantis
Siluarum latebris captiuarumque ferarum
Exuuiis gaudens innuptaeque aemula Phoebes;
Vitta coercebat positos sine lege capillos.
Multi illam petiere, illa auersata petentes
Inpatiens expersque uiri nemora auia lustrat
Nec, quid Hymen, quid Amor, quid sint conubia, curat.
Ovidio, Met., I, 452-567
(P. Ovidio Nasone, Metamorfosi, a cura di Mario Ramous ed Emilio
Pianezzola, Milano, Garzanti Libri, 1995)
Il primo amore di Febo fu Dafne, figlia di Peneo,
e non fu dovuto al caso, ma all'ira implacabile di Cupido.
Ancora insuperbito per aver vinto il serpente, il dio di Delo,
vedendolo che piegava l'arco per tendere la corda:
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«Che vuoi fare, fanciullo arrogante, con armi così impegnative?»
gli disse. «Questo è peso che s'addice alle mie spalle,
a me che so assestare colpi infallibili alle fiere e ai nemici,
a me che con un nugolo di frecce ho appena abbattuto Pitone,
infossato col suo ventre gonfio e pestifero per tante miglia.
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Tu accontèntati di fomentare con la tua fiaccola,
non so, qualche amore e non arrogarti le mie lodi».
E il figlio di Venere: «Il tuo arco, Febo, tutto trafiggerà,
ma il mio trafigge te, e quanto tutti i viventi a un dio
sono inferiori, tanto minore è la tua gloria alla mia».
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Disse, e come un lampo solcò l'aria ad ali battenti,
fermandosi nell'ombra sulla cima del Parnaso,
e dalla faretra estrasse due frecce
d'opposto potere: l'una scaccia, l'altra suscita amore.
La seconda è dorata e la sua punta aguzza sfolgora,
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la prima è spuntata e il suo stelo ha l'anima di piombo.
Con questa il dio trafisse la ninfa penea, con l'altra
colpì Apollo trapassandogli le ossa sino al midollo.
Subito lui s'innamora, mentre lei nemmeno il nome d'amore
vuol sentire e, come la vergine Diana, gode nella penombra
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dei boschi per le spoglie della selvaggina catturata:
solo una benda raccoglie i suoi capelli scomposti.
Molti la chiedono, ma lei respinge i pretendenti
e, decisa a non subire un marito, vaga nel folto dei boschi
indifferente a cosa siano nozze, amore e amplessi.
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Saepe pater dixit "generum mihi, filia, debes,"
Saepe pater dixit "debes mihi, nata, nepotes:"
Illa uelut crimen taedas exosa iugales
Pulchra uerecundo subfuderat ora rubore
Inque patris blandis haerens ceruice lacertis
"Da mihi perpetua, genitor carissime," dixit
"Virginitate frui: dedit hoc pater ante Dianae."
Ille quidem obsequitur; sed te decor iste, quod optas,
Esse uetat, uotoque tuo tua forma repugnat.
Phoebus amat uisaeque cupit conubia Daphnes,
Quodque cupit, sperat, suaque illum oracula fallunt;
Vtque leues stipulae demptis adolentur aristis,
Vt facibus saepes ardent, quas forte uiator
Vel nimis admouit uel iam sub luce reliquit,
Sic deus in flammas abiit, sic pectore toto
Vritur et sterilem sperando nutrit amorem.
Spectat inornatos collo pendere capillos
Et "quid, si comantur?" ait; uidet igne micantes
Sideribus similes oculos, uidet oscula, quae non
Est uidisse satis; laudat digitosque manusque
Bracchiaque et nudos media plus parte lacertos:
Siqua latent, meliora putat. fugit ocior aura
Illa leui neque ad haec reuocantis uerba resistit:
"Nympha, precor, Penei, mane! non insequor hostis;
Nympha, mane! sic agna lupum, sic cerua leonem,
Sic aquilam penna fugiunt trepidante columbae,
Hostes quaeque suos; amor est mihi causa sequendi.
Me miserum! ne prona cadas indignaue laedi
Crura notent sentes, et sim tibi causa doloris.
Aspera, qua properas, loca sunt: moderatius, oro,
Curre fugamque inhibe: moderatius insequar ipse.
Cui placeas, inquire tamen; non incola montis,
Non ego sum pastor, non hic armenta gregesque
Horridus obseruo. nescis, temeraria, nescis
Quem fugias, ideoque fugis. mihi Delphica tellus
Il padre le ripete: «Figliola, mi devi un genero»;
le ripete: «Bambina mia, mi devi dei nipoti»;
ma lei, odiando come una colpa la fiaccola nuziale,
il bel volto soffuso da un rossore di vergogna,
con tenerezza si aggrappa al collo del padre:
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«Concedimi, genitore carissimo, ch'io goda», dice,
«di verginità perpetua: a Diana suo padre l'ha concesso».
E in verità lui acconsentirebbe; ma la tua bellezza vieta
che tu rimanga come vorresti, al voto s'oppone il tuo aspetto.
E Febo l'ama; ha visto Dafne e vuole unirsi a lei,
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e in ciò che vuole spera, ma i suoi presagi l'ingannano.
Come, mietute le spighe, bruciano in un soffio le stoppie,
come s'incendiano le siepi se per ventura un viandante
accosta troppo una torcia o la getta quando si fa luce,
così il dio prende fuoco, così in tutto il petto
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divampa, e con la speranza nutre un impossibile amore.
Contempla i capelli che le scendono scomposti sul collo,
pensa: 'Se poi li pettinasse?'; guarda gli occhi che sfavillano
come stelle; guarda le labbra e mai si stanca
di guardarle; decanta le dita, le mani,
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le braccia e la loro pelle in gran parte nuda;
e ciò che è nascosto, l'immagina migliore. Ma lei fugge
più rapida d'un alito di vento e non s'arresta al suo richiamo:
«Ninfa penea, férmati, ti prego: non t'insegue un nemico;
férmati! Così davanti al lupo l'agnella, al leone la cerva,
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all'aquila le colombe fuggono in un turbinio d'ali,
così tutte davanti al nemico; ma io t'inseguo per amore!
Ahimè, che tu non cada distesa, che i rovi non ti graffino
le gambe indifese, ch'io non sia causa del tuo male!
Impervi sono i luoghi dove voli: corri più piano, ti prego,
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rallenta la tua fuga e anch'io t'inseguirò più piano.
Ma sappi a chi piaci. Non sono un montanaro,
non sono un pastore, io; non faccio la guardia a mandrie e greggi
come uno zotico. Non sai, impudente, non sai
chi fuggi, e per questo fuggi. Io regno sulla terra di Delfi,
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Et Claros et Tenedos Patareaque regia seruit;
Iuppiter est genitor. per me, quod eritque fuitque
Estque, patet; per me concordant carmina neruis.
Certa quidem nostra est, nostra tamen una sagitta
Certior, in uacuo quae uulnera pectore fecit.
Inuentum medicina meum est, opiferque per orbem
Dicor, et herbarum subiecta potentia nobis:
Ei mihi, quod nullis amor est sanabilis herbis,
Nec prosunt domino, quae prosunt omnibus, artes!"
Plura locuturum timido Peneia cursu
Fugit cumque ipso uerba inperfecta reliquit,
Tum quoque uisa decens; nudabant corpora uenti,
Obuiaque aduersas uibrabant flamina uestes,
Et leuis inpulsos retro dabat aura capillos,
Auctaque forma fuga est. sed enim non sustinet ultra
Perdere blanditias iuuenis deus, utque monebat
Ipse amor, admisso sequitur uestigia passu.
Vt canis in uacuo leporem cum Gallicus aruo
Vidit, et hic praedam pedibus petit, ille salutem
(Alter inhaesuro similis iam iamque tenere
Sperat et extento stringit uestigia rostro;
Alter in ambiguo est, an sit conprensus, et ipsis
Morsibus eripitur tangentiaque ora relinquit):
Sic deus et uirgo; est hic spe celer, illa timore.
Qui tamen insequitur, pennis adiutus amoris
Ocior est requiemque negat tergoque fugacis
Inminet et crinem sparsum ceruicibus adflat.
Viribus absumptis expalluit illa citaeque
Victa labore fugae, spectans Peneidas undas
"Fer, pater," inquit "opem, si flumina numen habetis!
Qua nimium placui, mutando perde figuram!"
Vix prece finita torpor grauis occupat artus:
Mollia cinguntur tenui praecordia libro,
In frondem crines, in ramos bracchia crescunt;
Pes modo tam uelox pigris radicibus haeret,
di Claro e Tènedo, sulla regale Pàtara.
Giove è mio padre. Io sono colui che rivela futuro, passato
e presente, colui che accorda il canto al suono della cetra.
Infallibile è la mia freccia, ma più infallibile della mia
è stata quella che m'ha ferito il cuore indifeso.
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La medicina l'ho inventata io, e in tutto il mondo guaritore
mi chiamano, perché in mano mia è il potere delle erbe.
Ma, ahimè, non c'è erba che guarisca l'amore,
e l'arte che giova a tutti non giova al suo signore!».
Di più avrebbe detto, ma lei continuò a fuggire
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impaurita, lasciandolo a metà del discorso.
E sempre bella era: il vento le scopriva il corpo,
spirandole contro gonfiava intorno la sua veste
e con la sua brezza sottile le scompigliava i capelli
rendendola in fuga più leggiadra. Ma il giovane divino
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non ha più pazienza di perdersi in lusinghe e, come amore
lo sprona, l'incalza inseguendola di passo in passo.
Come quando un cane di Gallia scorge in campo aperto
una lepre, e scattano l'uno per ghermire, l'altra per salvarsi;
questo, sul punto d'afferrarla e ormai convinto
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d'averla presa, che la stringe col muso proteso,
quella che, nell'incertezza d'essere presa, sfugge ai morsi
evitando la bocca che la sfiora: così il dio e la fanciulla,
un fulmine lui per la voglia, lei per il timore.
Ma lui che l'insegue, con le ali d'amore in aiuto,
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corre di più, non dà tregua e incombe alle spalle
della fuggitiva, ansimandole sul collo fra i capelli al vento.
Senza più forze, vinta dalla fatica di quella corsa
allo spasimo, si rivolge alle correnti del Peneo e:
«Aiutami, padre», dice. «Se voi fiumi avete qualche potere,
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dissolvi, mutandole, queste mie fattezze per cui troppo piacqui».
Ancora prega, che un torpore profondo pervade le sue membra,
il petto morbido si fascia di fibre sottili,
i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami;
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i piedi, così veloci un tempo, s'inchiodano in pigre radici,
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Ora cacumen habet: remanet nitor unus in illa.
Hanc quoque Phoebus amat positaque in stipite dextra
Sentit adhuc trepidare nouo sub cortice pectus
Conplexusque suis ramos, ut membra, lacertis
Oscula dat ligno: refugit tamen oscula lignum.
Cui deus "at quoniam coniunx mea non potes esse,
Arbor eris certe" dixit "mea. semper habebunt
Te coma, te citharae, te nostrae, laure, pharetrae.
Tu ducibus Latiis aderis, cum laeta triumphum
Vox canet et uisent longas Capitolia pompas.
Postibus Augustis eadem fidissima custos
Ante fores stabis mediamque tuebere quercum,
Vtque meum intonsis caput est iuuenale capillis,
Tu quoque perpetuos semper gere frondis honores".
Finierat Paean: factis modo laurea ramis
Adnuit utque caput uisa est agitasse cacumen.
il volto svanisce in una chioma: solo il suo splendore conserva.
Anche così Febo l'ama e, poggiata la mano sul tronco,
sente ancora trepidare il petto sotto quella nuova corteccia
e, stringendo fra le braccia i suoi rami come un corpo,
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ne bacia il legno, ma quello ai suoi baci ancora si sottrae.
E allora il dio: «Se non puoi essere la sposa mia,
sarai almeno la mia pianta. E di te sempre si orneranno,
o alloro, i miei capelli, la mia cetra, la faretra;
e il capo dei condottieri latini, quando una voce esultante
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intonerà il trionfo e il Campidoglio vedrà fluire i cortei.
Fedelissimo custode della porta d'Augusto,
starai appeso ai suoi battenti per difendere la quercia in mezzo.
E come il mio capo si mantiene giovane con la chioma intonsa,
anche tu porterai il vanto perpetuo delle fronde!».
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Qui Febo tacque; e l'alloro annuì con i suoi rami