Francesco Nullo - fondazione bergamo nella storia
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Francesco Nullo - fondazione bergamo nella storia
G. LOCATELLI – MILESI FRANCESCO NULLO BERGOMUM 1932 (4, P. 205) FRANCESCO NULLO 1 Storici del risorgimento d'Italia, poeti illustri di quell'epoca eroica, dal 1863 a questo 50° anniversario della morte di Garibaldi, non potevano, insieme a' più degni seguaci suoi, non celebrare Francesco Nullo, che fu detto il Fieramosca dei Mille. Perchè, dovunque brillò nel cielo d'Italia l'astro luminoso di Garibaldi, un raggio della sua gloria immortale irradiò la figura magnifica dell'eroe garibaldino di Bergamo. Egli nacque il 1° marzo 1826. L'infanzia e l'adolescenza passò in seno alla famiglia, dedito agli studi commerciali che perfezionò poi a Milano, ove apprese le lingue francese e tedesca. Ritornato a Bergamo, ottenne di essere ammesso quale agente alle dipendenze della ditta Steiner, di cui seppe in breve, con assiduo e intelligente lavoro, acquistarsi la stima e la completa fiducia. La sua prima medaglia guadagnò il Nullo presentando ad una esposizione industriale un nuovo sistema meccanico, da lui ideato, per tessere le tele. Iniziò la sua vita militare allo scoppiar della rivoluzione del marzo 1848. Dopo essersi distinto fra la gioventù bergamasca insorta contro i croati del principe Sigismondo, accompagnato da due fratelli si unì alla schiera dei 200 concittadini che correvano in aiuto di Milano. I bergamaschi, arrivati a piè delle mura sulle quali il nemico difendeva gl'ingressi alla città, coadiuvarono efficacemente Manara ed i suoi nell'espugnazione di Porta Tosa. Alle prime fucilate, Francesco Nullo vide cadérsi ferito a lato il fratello Lodovico, che raccolse ed affidò alle cure de' medici nel vicino stabilimento della Senavra, per tornar subito a sfidare le palle degli austriaci. E fu perciò tra i primi ch'ebbero la ventura di entrare in Milano per quella porta dove si erano, dopo quattro giorni di combattimento, decise le sorti della capitale lombarda. Appena questa fu libera d'austriaci, Nullo, aderendo all'invito del Governo Provvisorio, entrava in servizio, con grado di ufficiale, in una colonna di 400 uomini che marciava su Peschiera. Arrivato a Castelnuovo, quel nerbo di ardente gioventù trovossi a fronte tremila nemici. Nessuno indietreggiò; ma la lotta era troppo ineguale perché il valore potesse trionfare del numero. Dopo quattr'ore di strenua difesa, i nostri dovettero cercar scampo nella ritirata, mentre gli austriaci mandavano in fiamme il paese e trucidavano, veri barbari, inermi e feriti. Nullo, coi pochi superstiti, riparava a Salò, dove si congiunse al corpo dei suoi concittadini posti agli ordini del colonnello Nicola Bonorandi di Nembro, veterano dell' armata napoleonica. Da Salò, Bonorandi penetrava nel Trentino, occupandovi, in seguito a tre giorni di combattimento, Castel Toblino. Ma le operazioni non poterono continuare, perchè non appoggiate da altri corpi e per inettitudine del generale Allemandi, comandante dei volontari. Nullo, ch'era stato eletto ufficiale portabandiera, partì col Bonorandi per il Tonale, ove rimase finche l'esercito piemontese, sopraffatto, si ritirò su Milano e poi oltre Ticino. Allora egli pure, come tutti gli altri volontari, dovette sottostare al fato comune, e, per non trovarsi 1 Con questo scritto cominciano le Appendici biografiche all'articolo La VIII compagnia dei Mille pubblicato nel fascicolo precedente, p. 128 e sgg.. soggetto di nuovo alla dominazione austriaca, riparò in Piemonte. Dopo l'infausta giornata di Novara, tutto il partito d'azione erasi dato convegno in Roma, che aveva proclamata la repubblica, retta dai triumviri Mazzini, Saffi ed Armellini. All'annunzio dell'auspicato evento, Nullo s'affretta a recarsi nella eterna città, dove, ufficiale de' lancieri, prende parte a tutti i gloriosi fatti d'armi della memorabile difesa. Il 30 aprile, combatte da valoroso fuori Porta S. Pancrazio ; il 19 maggio a Velletri, accanto a Garibaldi ; due vittorie, la prima sui francesi, l'altra sui borbonici. Quando, la mattina del 3 giugno, i francesi, violando l'armistizio, sorprendono a tradimento gli avamposti romani a Villa Pamfìli e s'impossessano di Villa Corsini, il colonnello Masina si slancia co' suoi cavalieri per ricuperare questa importante posizione. I lancieri romani, fra i quali il luogotentente Nullo, entrano al galoppo tra un nembo di palle nel viale del giardino che precede la villa, salgono lo scalone a cavallo e, tempestando i francesi con le sciabole, li costringono a saltare dal terrazzo e dalle finestre. Intorno a villa Corsini, presa e perduta cinque volte, cadde in quel giorno il fiore della gioventù italiana. Allorché, un mese più tardi, Roma non si arrese, ma cedette alla forza che rendeva impossibile ogni resistenza, Nullo seguì la sorte di Garibaldi nella sua mirabile ritirata, anche quando l'eroe, sfuggito miracolosamente a' francesi ed agli austriaci, ebbe sciolto il piccolo corpo de' suoi volontari a S. Martino. Con lui, il Nullo s'imbarcò di poi a Cesenatico, dirigendosi a Venezia, dove sventolava ancora, libera ma pericolante, la bandiera d'Italia. Inseguiti da navi austriache in crociera, e catturati alcuni dei bragozzi sui quali erano parte dei volontari che, ad ogni costo, non vollero abbandonare il loro duce, furono gli altri costretti a prender terra a Punta Maestra. Quivi anche gli ultimi avanzi della legione Garibaldi, ridotti a meno di cento uomini, fra i quali il Nullo, dovettero sbandarsi per deserti sentieri, onde non cader prigioni degli austriaci che erano sulle tracce dei profughi e potevano da un istante all'altro circondarli e piombar loro addosso. Appena Nullo ebbe la ventura di por piede sul suolo natio, venne riconosciuto dagli sgherri dell'Austria ed arrestato a Caprino, dove, rinchiuso in carcere, passò un mese, privo di notizie circa la sorte che lo aspettava. Un bel giorno però fu rilasciato senz'altro in libertà. I « colpevoli » d'aver preso parte ai moti rivoluzionari d'Italia erano tanti da non poter intentare loro de' processi, e il governo austriaco aveva creduto, nel suo stesso interesse, di concedere l'amnistia. Nullo, ritornato a Bergamo, volle tentare la fortuna entrando, come socio, nel commercio delle tele, e v'impiegò tanta accortezza e attività che i suoi sforzi furono ben presto coronati da felice successo. Ma, sotto la calma esteriore del commerciante, batteva, sempre ardente, il cuore del patriota, che aspettava, con impazienza, tempi migliori per l'Italia. Alle prime voci di guerra, nella primavera del 1859, Nullo alzò il capo di mezzo a' suoi libri mastri e fuggì da Bergamo. Giunto in Piemonte, si arruolò nel corpo delle Guide di Garibaldi, provvedendosi all'uopo di cavallo e di armi proprie. A Varese, ripetè le prove di valore date dieci anni prima ; a S. Fermo, caricando il nemico, disarmò un capitano austriaco. La mattina dell'8 giugno entrava nella sua Bergamo, al seguito di Garibaldi, che vi era accolto da entusiastici evviva e da pioggia di fiori. Nullo, con Antonio Curò, eravi penetrato anche il dì antecedente, sfidando grave rischio, perchè gli austriaci occupavano tuttavia la città, mentre i Cacciatori delle Alpi erano appena arrivati ad Almenno S. Salvatore. Ivi ritornarono i due esploratori per dar notizie al generale delle condizioni in cui si trovava la città. Pochi giorni dopo, a Rezzato ed a Treponti, il Nullo confermava la sua fama di valorosissimo soldato. Dopo la pace di Villafranca egli accompagnò Garibaldi nell'Italia Centrale, dove si era costituito l'esercito della Lega. Ma divenuta impossibile, per il momento, ogni impresa grande e generosa, e ritiratosi Garibaldi, Nullo svestì l'assisa militare e ritornò a Bergamo, per dedicarsi come prima a' suoi affari commerciali, la cui gestione aveva, durante la sua assenza, affidata al fratello minore. La notte del 3 maggio 1860, Francesco Nullo parte di nuovo da Bergamo per raggiungere a Quarto il duce al quale porta una schiera di quasi duecento giovani concittadini per la spedizione leggendaria dei Mille. Sbarcati prodigiosamente a Marsala, Nullo, per rimanere sempre a fianco del generale, non accetta il comando d'una compagnia, e, come nella campagna precedente, acquista armi e cavallo onde potere far parte ancora delle Guide. A Calatafimi si copre di gloria. Colpito non gravemente in una gamba, fascia alla meglio la ferita con un fazzoletto e continua a combattere nelle prime file. All'alba del 27 maggio, Garibaldi è alle mura di Palermo. I volontari corrono all'assalto ; ma i borbonici appostati dietro la barricata a Porta Termini tentano, con un fuoco micidiale, di arrestarli. Le artiglierie nemiche, numerose, convergono i tiri sul viale che si prolunga ai lati di quella porta. Il momento è supremo. Bisogna assolutamente espugnare quel luogo ; ma occorrono perciò sacrifici d'uomini, e d'uomini coraggiosi. Due volte Bixio, Tuköry e Missori avevano tentato invano il passaggio. Garibaldi, a cavallo, esposto serenamente ai colpi, grida : «Bisogna vincere finalmente». Poi si rivolge a Nullo, il quale non aspettava che il cenno del suo generale : « Date l'esempio per il nuovo assalto », gli dice. E il Fieramosca dei Mille strappa dalle mani d'un milite la banderuola della sua squadra, sprona furiosamente, corre fra una tempesta di palle alla baricata, impenna il destriero e con un salto ardito eccolo dall'altra parte. Lo seguono primi Bezzi, Damiani, Manci, Tranquillini e Zasio. Nullo a cavallo oltre la barricata con la sua rossa torma, ferino e umano eroe, gran torso inserto nella vasta groppa, centaurea possa, erto su la vampa come in un vol di criniere.... (D'ANNUNZIO, Laudi). In un istante quell'esempio d'eroismo fortunato è seguito da tutti i volontari. Garibaldi conferì a Nullo il grado di capitano. Poi lo incaricò di ritornare a Bergamo e arruolarvi altri volontari. Pochi giorni dopo, Nullo avea la soddisfazione di condurre in Sicilia e presentare al generale altri concittadini. A Missori e a Nullo, eroi di Palermo e di Milazzo, il Dittatore affidò il pericoloso incarico di sbarcare primi sul continente, e furono essi che, alla testa di pochi uomini scelti, prepararono l'invasione delle Calabrie alle schiere garibaldine. Con tale mira, passato appena lo stretto di Messina, Missori, Nullo e 200 volontari s'internano, prendendo la via dei monti, nella provincia di Reggio, sempre inseguiti dai regi. Era appunto il fine cui i nostri valorosi tendevano : allontanare il nemico dalla costa, per lasciare libero adito allo sbarco di Garibaldi in Calabria. Missori eseguì abilmente la tattica dal generale adottata per impadronirsi di Palermo. Si trasferiva con rapidità da un punto all'altro, facendo credere ai borbonici che la simultaneità degli attacchi provenisse da più corpi, e non permettendo, con l'improvviso ritirarsi, venissero valutate le sue scarsissime forze. Sfuggiti le cento volte al nemico, proprio allorché questi si lusingava di averli nelle mani, i volontari poterono, dopo privazioni e fatiche incredibili, ricongiungersi alle schiere condotte da Garibaldi sul continente. Il 21 agosto questi era sotto le mura di Reggio, e faceva prendere d'assalto le opere esteriori del forte, che venne occupato dopo vivo combattimento ; il generale Vial dovette capitolare, lasciando sul campo 500 soldati tra morti e feriti, oltre a 400 prigionieri 2. Il valore dimostrato in quella giornata, valse a Nullo il grado di maggiore. Il giorno susseguente egli si spinge lontano in ricognizione, a Villa S. Giovanni, con soli cinque compagni: Alberto Mario, Bezzi e tre Guide. Improvvisamente si trovano di fronte un drappello di quaranta borbonici. Che fa il Nullo? Ordina la carica gridando: «Viva l'Italia ! Viva Garibaldi ! Abbasso le armi ! » E i regi, più stupefatti che sbigottiti, non tentarono resistenza. Ma, in quel momento, compare d'un tratto la brigata intiera del generale Briganti. « Avanti » grida Nullo e si precipita al galoppo, seguito dai cinque, su tutta la fronte di quel corpo intimando la resa e invitandoli ad unirsi a Garibaldi. Visto che tra le file serpeggia, minaccioso, lo spirito della rivolta, gli ufficiali regi fanno segno a Nullo di fermarsi : propongono che il loro generale parlamenti col Dittatore. Ma questi, informato da Nullo, respinge ogni trattativa. L'indomani otteneva la resa dei borbonici, che non potevano altrimenti trovar scampo, perchè già circondati dai nostri. Il 7 settembre, il Dittatore entrava in Napoli, i cui forti erano ancora occupati dalle truppe nemiche, col solo seguito di pochi ufficiali ; tra questi Nullo nella stessa carrozza con Garibaldi. E Nullo fu dei primissimi a rendere visita di omaggio e di riconoscenza al suo vecchio maestro di Roma, nel 1849 ; al preparatore della rivolta siciliana del 1860. La giornata del Io ottobre, al Volturno, recava a Nullo nuova gloria e la promozione a tenente colonnello ; grado di cui il suo generale lo insignì, anche questa volta, sul campo di battaglia. Reso sempre più audace dai portentosi successi, il prode bergamasco non volle ritirarsi da un'impresa ancor più ardimentosa di quelle precedentemente tentate e riuscite. Soverchiato da forze preponderanti ad Isernia, dovette affrontare i più grandi pericoli per 2 Francesco Nullo, Martire in Polonia. Notizie storiche per STEFANONI LUIGI (Milano, 1863). ridursi in salvo ; dovette aprirsi un varco tra i nemici, sotto fuochi di fila a bruciapelo, per quattro lunghe miglia. Aveva con lui i valorosissimi Alberto Mario, Caldesi e Zasio. Al 9 novembre, il liberatore della Sicilia e di Napoli salpava da quel porto con due sacchi….. di legumi l'uno, di sementi l'altro ; più un rotolo di merluzzo secco, e pochissima pecunia, spoglie opime della conquista di un regno, per ritirarsi nella sua solitaria Caprera. Lo accompagnava anche Nullo, con Menotti, Basso, Gusmaroli, Mario. Incorporato il regno delle Due Sicilie nelle altre provincie italiane, Nullo aspettò invano che dal ministero si formassero i corpi di volontari stati promessi. Accettò dapprima la conferma del suo grado di tenente colonnello di cavalleria nelle truppe regolari, ma si dimise poco dopo, come rinunciò poi la croce dell'Ordine Militare di Savoia e la pensione che i Mille avevano meritata. Così, come aveva date splendide prove di valore, mostrò esempio di rara modestia, ritirandosi a vita privata, senza far comunque valere gli eminenti servizi da lui resi alla patria. Fatto di nuovo ritorno a Bergamo in seno alla famiglia, attese a' suoi negozi. All'esposizione di Firenze del 1861 ottenne la medaglia, per bellissimi tessuti di canapa da lui confezionati. Contemporaneamente, Garibaldi, memore di Nullo e dei valorosi suoi concittadini, indirizzava la lettera seguente al Sindaco di Bergamo Gio. Battista Camozzi Vertova : Caro Camozzi Caprera, 10 febbraio 1861 Nella gioventù lombarda, sempre pronta a lanciarsi nel pericolo per la redenzione della patria — e che partecipò alla prima spedizione di Sicilia e Napoli — contano in prima riga i prodi figli di Bergamo. Se la Provvidenza ha deciso ch'io divida le ultime battaglie della patria per l’intiero suo affrancamento — io legherò alle generazioni venture — accanto a quello di Bergamo — il nome della città italiana che con più figli avrà gettato più ferro sulla bilancia liberatrice. Un caro saluto alla famiglia Vostro G. GARIBALDI. Non appena il generale incominciò, nella primavera dell'anno successivo, il suo giro trionfale dell'alta Italia per la istituzione dei tiri al bersaglio, il colonnello Nullo corse a lui, e gli fu compagno indivisibile e perseguitato. All'arrivo di Garibaldi a Trescore per la cura delle acque termali (1 maggio 1862), uomini ed armi erano già pronti e tutto faceva credere ad un accordo tra il ministero Rattazzi e l'Eroe di Marsala. Il mattino del 15 maggio, Nullo partiva da Trescore accompagnato dal suo attendente, Luigi Testa dei Mille, e fermavasi a Palazzolo, dov'era, nella stazione, già atteso dagli agenti della questura, che gl'intimarono l'arresto, in una al signor Ambiveri Giuseppe di Bergamo, perchè indiziati come capi d'una spedizione di volontari nel Trentino. Fu ventura che l'attendente restasse indietro alcuni passi, all'atto dell'arresto, e potesse sfuggire cosi alla cattura. Il Testa, compreso che urgeva portar subito a conoscenza di Garibaldi l'accaduto, ritornò immediatamente a Trescore. Il generale con visibile impazienza, udì la triste nuova, e, presa una subitanea risoluzione, portossi in vettura da nolo a Bergamo. Quivi giunto, recavasi dal Prefetto, il Duca di Cesare, e col suo mezzo faceva pervenire al ministero il seguente telegramma : « S i presenta in questo momento il signor generale Garibaldi, e dice la riunione in queste parti e il trasporto armi essere per sua disposizione. Se è male, lui solo e non altri è responsabile. Si chiede determinazione del Governo. Prefetto Cesarò ». Ma il Governo, che ben conosceva la propria connivenza, evitò di dare risposta categorica, cercando soltanto di fare in modo che il nome di Garibaldi comparisse il meno possibile, e lasciando credere invece che armi e arruolamenti fossero opera personale di alcuni sconsigliati, a capo dei quali si trovava il colonnello Nullo. Come era da prevedere, Garibaldi sdegnò di assolver sè condannando altri, e volle assumere tutta la responsabilità che gli spettava, malgrado ciò suonasse aperto biasimo alla politica del signor Rattazzi. Nella notte del giorno stesso, venivano pure arrestati in Sarnico 55 giovani, ed altri 44 ad Alzano Maggiore. Erano imputati di appartenere a milizie illegali che segretamente preparavano una spedizione sul Trentino. Invece Garibaldi li autorizzò a dire francamente che erano stati chiamati da lui. In quanto al Nullo faceva questa esplicita dichiarazione : « Poiché il colonnello Nullo fu arrestato ieri a Palazzolo, credo mio dovere dichiarare, che quel valoroso ufficiale era andato ed aveva agito conformandosi esattamente a miei ordini ». Quando il generale scese lo scalone della Prefettura di Bergamo (Cittadella) il popolo, già informato del suo arrivo, ne circondò la carrozza e l'accompagnò, fra entusiastici evviva, fino al palazzo del sindaco ed amico suo Camozzi Vertova. Benché il tempo fosse piovoso, la calca era sempre grande ed invadeva tutta la corte ed il peristilio di quel palazzo. Reiterati applausi chiamarono Garibaldi, che comparve ad una finestra. Appena fu stabilito il silenzio, egli parlò al popolo ringraziando vivamente dell'affetto che gli portava e dell'eroismo dei suoi figli, che avevano dato tanto sangue per la causa della libertà. Ma poscia, tornando sulla corda dolorosa e ch'egli allora profondamente sentiva vibrare in sè, disse : « Sappiate che il Nullo fu arrestato ingiustamente e calunniato. Egli è mio amico, e posso rendermi garante per lui. La città di Bergamo non ha che da essere orgogliosa di tale uomo ». In quel punto, una voce del popolo gridò : Vogliamo Nullo ! « Sì - rispose il generale, con calore — sì, voi avete diritto di volerlo, perchè egli è innocente ». La pioggia, che incominciava a cadere con violenza, costrinse il generale a licenziarsi dal popolo, il quale scoppiando in un entusiastico « Evviva Garibaldi », corse in alta città, per chiedere al prefetto la liberazione del suo prediletto concittadino. Il colonnello invece, da Palazzolo veniva in quella sera medesima del 15 tradotto a Brescia e rinchiuso nelle carceri pretorie, insieme all'Ambiveri e ad altri due ex ufficiali dell'esercito meridionale, catturati nella stessa occasione. La notizia del loro arresto, e della dimostrazione fatta a Bergamo, trasse, la mattina del 16, i bresciani ad imitarne l'esempio. Dimostrazione pacifica di inermi cittadini, i quali, dopo aver emesso clamorose grida di « viva Garibaldi, vogliamo Nullo » sotto le finestre del prefetto, barone Natoli, che non si fece vivo, recavansi innanzi alle carceri della Pretura. Ivi furono ripetute quelle grida, senza che autorità, od agenti della stessa, intervenissero, e allora taluno dei dimostranti si avvicinò alla porta, bussando e spingendo col bastone. Nullo intanto (così il suo biografo Luigi Stefanoni) udiva distintamente, dall'interno della prigione, le grida del popolo, per cui comprendeva benissimo lo scopo della riunione. Affacciatosi alle sbarre della finestra aperta sopra il cortile, che presentava la vista della porta d'ingresso al carcere, assistette ad una tragica scena. Vide soldati italiani caricare le armi, per uccidere fratelli italiani. « Fermate — gridò egli con angoscia — fermate. Lasciate ch'io mi presenti, che parli al popolo, onde possa convincerlo, tranquillizzarlo sulla mia sorte : se ne andranno, perchè sono buoni cittadini ». Nessuna risposta. « Non fate fuoco per Dio ! » — gridò ancora Nullo vedendo le canne dei fucili dirigersi verso la porta che i soldati avevano semiaperto, « lasciatemi parlare prima : vi do la mia parola d'onore che non fuggirò, nemmeno per forza.... », Ma una scarica di moschetteria gli rispondeva e nello stesso tempo si udirono le grida dei caduti. Poi i soldati usciti dalla porta, tirarono ancora qualche colpo sui dimostranti in fuga, ferendo alle spalle un altro cittadino. Quel picchetto di fanti al comando d'un tenente lo aveva mandato a proteggere le carceri il Prefetto, appena questi ebbe avviso della dimostrazione popolare, i componenti della quale ignoravano che ivi si celasse la truppa con ordini così spietati. Nessuna intimazione aveva preceduto il fuoco ; nessuna provocazione o resistenza era susseguita alla prima scarica. Le vittime del tristissimo avvenimento furono : quattro morti, due feriti gravi e due leggermente. Era il preludio di Aspromonte. Il giorno dopo, Nullo veniva tradotto nelle carceri della cittadella d'Alessandria, con altri arrestati. Furono rinchiusi in un locale basso ed umido, e trattati col massimo rigore ; perciò, visite severamente proibite, lettere consegnate aperte. La madre del colonnello, recatasi ad Alessandria per abbracciare il suo Francesco, ebbe la fortuna d'ottenere un permesso per 12 minuti ; ma dovette aspettare dodici ore prima di essere introdotta nella prigione. Finalmente due carabinieri armati di fucile con baionetta, condussero la povera donna al figliol suo. In compenso però della lunghissima attesa, le vennero accordati altri 3 minuti ; in tutto un quarto d'ora. Ma Nullo sdegnato delle vessazioni cui era stata soggetta una donna, una vecchia madre, non volle neppure ricevere, come grazia, la brevissima proroga. Il 10 giugno i prigionieri venivano lasciati tutti in libertà, con dichiarazione di non luogo a procedere, per mancanza di azione penale. Infatti non si potevano condannare quei giovani se non condannando prima Garibaldi, e Garibaldi non poteva esserlo, senza compromettere il Ministero. Appena libero, Nullo recavasi subito presso il suo generale che, partito da Trescore il 26 maggio, si trovava a Belgirate in casa Cairoli. Allorché, un mese più tardi, Garibaldi, lasciata Caprera, sbarcava a Palermo, innalzandovi la bandiera col motto fatidico « Roma o morte », Nullo partiva da Bergamo e, preso imbarco a Genova, arrivava il 4 agosto nel porto di Napoli. La polizia di quella città, prevenuta del suo arrivo, aveva mandato a bordo un funzionario con carabinieri perchè di nuovo lo arrestassero. Ma questa volta Nullo fu salvo mercè la prontezza di spirito del suo attendente Luigi Testa, che si presentò disinvolto al delegato qualificandosi per il colonnello. In tal modo questi potè, senza molestie, proseguire il viaggio e raggiungere Garibaldi in Sicilia, mentre il Testa veniva rimandato indietro. Solo a Genova la Questura si accorse che era stata solennemente mistificata. Nullo entrò a formar parte dello Stato Maggiore di Garibaldi. « Non fate fuoco », ecco l'ordine ripetutamente dato dal generale a' suoi volontari allorché, ad Aspromonte, si vide assalito da truppe regolari. « Non fate fuoco ! non fate fuoco ! » gridava Nullo e con lui gli altri ufficiali dello stato maggiore, percorrendo la fronte dei garibaldini. Ma i bersaglieri continuavano ad avanzare, ripetendo le scariche di moschetteria. Quando Garibaldi venne, nello stesso tempo ferito da due palle, leggermente alla coscia sinistra, gravemente al malleolo della gamba destra e si coprì il capo gridando « Viva l'Italia ! non fate fuoco » fu Nullo che, per un istante, lo sorresse e lo aiutò poi a mettersi a sedere a' piedi d'un albero. E furono Nullo e Clemente Corte che, animati di patriottico zelo, interposero i loro concilianti uffici tra il Duce dei Mille ed il colonnello marchese Pallavicini, comandante dei regi. Ciò provano i rapporti da costui diretti al Ministero. Nullo, dopo avere, con altri ufficiali dello Stato Maggiore, accompagnato Garibaldi al forte del Varignano, alla Spezia, subiva la sorte dei compagni. Rinchiusi nel forte di Bard, in Val d'Aosta, quei così detti « prigionieri di guerra », rei d'aver tentato di dare all'Italia — Roma — la sua capitale, vennero sottoposti a sevizie peggio che se fossero stati dei malfattori. Ma l'amnistia era pur necessaria e fu ben presto promulgata. Temevasi troppo la pubblicità di un giudizio, per voler costringere Garibaldi a fare delle rivelazioni. Tutti gl'inquisiti, eccetto i disertori dell'esercito regolare, vennero scarcerati, e Nullo, ferito moralmente nell'animo, fece per l'ultima volta ritorno alla sua Bergamo, dove, pur troppo, non dovea rimanervi che pochi mesi, gli ultimi che dedicava al proprio fiorente commercio di telerie, e di sua vita. Alla minacciosa agitazione manifestatasi nella Polonia russa allorché l'autocrate Alessandro II (lo tzar ucciso da nichilisti il 13 marzo 1881), aveva bandito l'ukase per la leva generale, tenne dietro l'aperta rivolta nel gennaio del 1863. Fu quando le potestà russe di Varsavia applicarono la draconiana legge col sistema del terrore, che trasformava il reclutamento militare, già per sè stesso inviso tanto ai polacchi, in una vera caccia all'uomo. Refrattari e disertori accorrevano ad ingrossare l'emigrazione, che si ricoverava in Cracovia, da prima favorita sottomano dall'Austria, per mire politiche, in seguito, causa le mutevoli diplomatiche vicende, fattasi propensa alla Russia. Era a breve distanza il confine che divideva la Polonia russa dall'austriaca, onde ben presto le foreste della prima brulicavano di bande rivoluzionarie, le quali crebbero di numero e di audacia al punto da mettere in allarme il governo di Pietroburgo e il generale Berg, detto il fucilatore, mandato con numerose truppe a soffocare nel sangue la insurrezione. Le notizie degli insperati felici successi che Mariano Langiewicz riportava sui russi, e delle atrocità commesse da questi, avevano sollevato, oltre che in Polonia, negli altri popoli, manifestazioni di esecrazione contro il tiranno moscovita e di grande simpatia per i non degeneri figli di Kosciuzko. In Francia ed in Inghilterra specialmente, e in tutte le provincie italiane rese a libertà, si erano tenuti comizi ed aperte sottoscrizioni per la causa polacca. A Bergamo si fece di più. Eletto nucleo di giovani ardenti, e già provati sui nostri campi di battaglia, concepirono un disegno altamente generoso ; andar a combattere per la Polonia. Grandi le difficoltà per effettuare il fiero proposito : lontananza dei luoghi da raggiungere, gravi spese, l'incognita del contegno che avrebbe assunto l'Austria contro Italiani, sospetti di febbri rivoluzionarie, transitanti sui territori dell'imperiale reale stato absburgico. Non importa. Per uomini come Francesco Nullo e Luigi Caroli, infervorati dall'idea di assolvere un sacro dovere per l'Italia, nulla v'era d'impossibile. Quei valorosi, e con loro altri concittadini, volevano offrire ad ogni costo ai fratelli di Polonia un atto di riconoscenza per quanto essi avevano fatto per la patria nostra, con Langiewicz, nelle schiere garibaldine c dell'esercito regolare. E la piccola spedizione fu in breve organizzata malgrado la triste notizia arrivata, i primi giorni di marzo, dalla Polonia : il suo eroe e dittatore Langiewicz, degno ufficiale di Garibaldi, dal quale aveva molto appreso di arte guerriera, era stato arrestato dagli austriaci e tradotto a Brünn. Il palazzo Caroli di via S. Orsola (ora Regazzoni) serviva da quartier generale dove convenivano i volonterosi che, alla progettata impresa, auspice Francesco Nullo, davano i loro nomi. Eccoli : Luigi Cairoli, aiutante del colonnello ; il notaio Emanuele Maironi, capitano garibaldino, veterano del 1848 ; Elia Marchetti, Cacciatore delle Alpi nel 1859, tenente dei Mille, tutti di Bergamo, i quali si potrebbe dire costituissero lo Stato Maggiore del comandante. Il pittore, già capitano garibaldino, Paolo Mazzoleni, di Bergamo, reduce da Morazzone (1848), da Roma (1849), da S. Fermo (1859), da Milazzo e dal Volturno (1860), da Aspromonte (1862). Luigi Testa di Seriate (Bergamo), allo scoppiare della rivoluzione del 1848 disertore dall'esercito austriaco nel quale serviva per obbligo di leva, arruolatosi in Piemonte sotto la bandiera di Carlo Alberto, combatteva in Lombardia e l'anno successivo a Novara. Congedato, entrava tosto nella Legione Italiana di Garibaldi e prendeva parte alla gloriosa difesa di Roma. Dopo aver combattuto valorosamente contro i francesi, andò a combattere insieme a loro nella legione straniera d'Africa, in Crimea, e, ancora nelle schiere stesse, venne in Lombardia, a dare altre prove del suo ardimento a Solferino. Partito coi Mille, fu continuamente al seguito di Nullo, prestandogli servizi di affezionatissimo attendente. Essere sempre con lui voleva dire correre incontro ai più gravi pericoli. Il Testa, nell'agosto 1862, fu autore, come dissi, di straordinaria beffa alla questura assumendo il nome di Francesco Nullo. In tale supposizione venne arrestato e tradotto da Napoli a Genova, mentre l'autentico Nullo raggiungeva, senza poliziesche molestie, Garibaldi in vicinanza di Aspromonte. Chiarito a Genova l'equivoco di tale cattura, ed era facile perchè il Testa, detto il Testino, avea una dozzina d'anni più di Nullo ed era perfettamente in antitesi per statura, complessione fisica e fisionomia col « più bello dei Mille » (Abba), tutti i giornali seri ed umoristici, prima del fratricida scontro di Aspromonte, divertirono i lettori col racconto della beffa. Quando Nullo si mise in corrispondenza col Comitato rivoluzionario polacco e si diede a preparare la spedizione, il di lui pseudososia fu dei primi ad inscriversi nel ruolino dei volontari. Combattè a Krzykawka ; dolente di non essere stato colpito dalla palla che uccise il suo comandante, sfuggì a cosacchi ed a gendarmi austriaci e ritornò a Bergamo. Quivi, a 75 anni, morì questo veterano dei campi di battaglia nazionali e internazionali. Altri volontari : Febo Arcangeli di Sarnico ; Giacomo Cristofoli di Clusone, ufficiale ad Aspromonte ; Dilani Giuseppe di Bergamo, caduto da valoroso a Monte Suello il 3 luglio 1866 ; Sacchi Aiace, nativo di Gravedona (Como), bergamasco di origine e domicilio ; Ambrogio Giupponi di Seriate, tutti dei Mille e volontari del 1859 ; Giovanni Maggi di Treviglio ; Enrico Isnenghi, nato a Rovereto, dal 1854 domiciliato e vissuto poi sempre in Bergamo, volontario nel 1859 e ad Aspromonte, anche questi dei Mille. Furono de' primi a seguire Nullo, Gio. Battista Belotti, Alessandro Venanzio, Fermo Calderini, pure di Bergamo. Ai nostri concittadini eransi uniti e partirono con loro da Bergamo : un Cattaneo del Canton Ticino, che aveva, da ufficiale, militato in America sotto il generale Frèmont, federale ; il conte Pietro Laderchi e il suo concittadino Parazza di Faenza. Il Caroli, dissimulando il concorso pecunario che portava nelle spese, provvide a munire di passaporti e biglietti ferroviari i giovani, ricchi di entusiasmo e d'ardimento, ma scarsi di soldi. Tutti dovevano partire in piccoli gruppi, seguendo l'itinerario Venezia, Trieste, Vienna, per trovarsi il 1 maggio a Cracovia, e ciò allo scopo di non destare sospetti nella polizia austriaca, alla quale era specialmente noto il colonnello Nullo. Egli fu il primo a lasciar Bergamo, con il suo nuovo attendente Settimio Pattelli, di Bergamo, cameriere d'albergo, che per la giovine età e perchè sapeva di francese e di tedesco sostituì il vecchio Testino. A Cracovia, i gendarmi trassero in arresto i bergamaschi Fermo Calderini, che prese parte alle guerre di Lombardia nel 1848 e nel '59, e fu a Milazzo ed al Volturno, ad Aspromonte e poi, nel 1867, a Mentana ; Giovanni Maggi, Emanuele Maironi, Giuseppe Dilani, Gio. Battista Belotti, Aiace Sacchi, e con loro Enrico Isnenghi. Insieme a quei sette vennero imprigionati il conte Laderchi e il Parazza di Faenza, e il ticinese Cattaneo. Dopo alcuni giorni, essi vennero tradotti fino a Peschiera e posti in libertà, eccetto il Belotti che ottenne di essere rilasciato al confine svizzero e da Zurigo, con gravi stenti e sacrifici, ritornò in Polonia troppo tardi per unirsi a Nullo. Si rivolse ad altro campo di azione. Il 30 agosto, con grado di luogotenente, passò il confine della Polonia russa a Stubno nella legione del colonnello Wirzbiki. Morì combattendo, il mese susseguente, nelle vicinanze di Growno. Era nato a Bergamo il 29 ottobre 1838. Sergente dei bersaglieri a Napoli, nel settembre 1860, non potendo rassegnarsi all'inerzia mentre i garibaldini, a breve distanza, si apprestavano ad altre battaglie, depose il cappello piumato per indossare la camicia rossa. Combattè il 1° ottobre a Castel Morone, nella piccola, gloriosa schiera dell'eroico maggiore Pilade Bronzetti ; ebbe la menzione onorevole al valor militare e il condono per il reato di diserzione. L'Aiace Sacchi, arrestato a Cracovia, non poteva darsi pace al pensiero di dover tornare a Bergamo senza aver preso di mira «i barbete» (i cosacchi ). Appartatosi dai compagni, che, sotto scorta di gendarmi, venivano tradotti in Italia, appena arrivato il convoglio ferroviario in aperta campagna saltò fuori dal carrozzone. Fortunatamente, sul declivio sottostante alla strada ferrata sorgeva folto strato di erba, così che il temerario rotolò giù, sino in fondo al terrapieno, senza riportare gravi contusioni. « Pedibus calcantibus » ritornò a Cracovia. Qui trovò la banda raccolta dal Rochebrune, il francese che non volle unirsi alla piccola ma valorosa legione straniera di Nullo. Il Sacchi, ignaro e smanioso di combattere, si aggregò alla compagnia del Rochebrune, che inoltratasi, per breve tratto, sul territorio della Polonia russa, il 4 maggio, venne da forte corpo nemico dispersa. II Sacchi fu di nuovo arrestato a Cracovia e carcerato. Egli aveva partecipato alle guerre del 1848 e del '59, alla spedizione del Mille ; poi ebbe parte in quelle del 1866 e '67. Eccetto che in Polonia, l'Aiace ebbe sempre a compagno d'armi il fratello Achille. I bergamaschi, primo nucleo della piccola legione Nullo, da 17 che erano prima degli arresti di Cracovia, si ridussero a 10 ; Nullo generale, Caroli suo aiutante, Mazzoleni capitano, Marchetti tenente, Arcangeli, Cristofoli, Testa, Giupponi, Venanzio, Pattelli. Cinque gl'italiani di altre provincie : Giacomo e Lucio Meuli, fratelli, di Viadana (Mantova) ; Giuseppe Clerici di Como, Carlo Pizzaferri di Reggio Emilia, Ernesto Bendi siciliano. Otto i francesi, tra i quali Emilio An-dreoli, di Besancon, oriundo italiano (di Corsica). Circa 600 polacchi emigrati a Cracovia si aggregarono alla compagnia Nullo, per la stima e la fiducia che loro inspirava l'eroe garibaldino. Nullo, appena arrivato a Cracovia, si era posto in relazione con Giuseppe Miniewski, ricco polacco, del Comitato Nazionale di Varsavia, avente incarico di organizzare una spedizione di volontari, con titolo di generale, conferitogli quale benemerito per cospicui sacrifici pecuniari a prò della rivoluzione. Conformandosi agli ordini del Comitato, il Miniewski si presentò a Nullo e si mise a' suoi ordini, operando così la riunione delle forze, in un sol corpo, del quale assunse l'effettivo comando il generale bergamasco. Al Miniewski, non ancora trentenne e affatto nuovo alla vita militare, rimase il grado semplicemente onorario. La sera del 2 maggio, i volontari polacchi, italiani e francesi, convennero fuori ed a breve distanza della porta cittadina di Cracovia verso tramontana. Si udivano tre lingue, frammiste a liete canzoni e a richiami fra i diversi crocchi, e un idioma incomprensibile a francesi o a polacchi, e perfino agl'italiani non bergamaschi, il dialetto gioppinorio. Assenza completa di gendarmi e di poliziotti ; presenza di cittadini in folla che salutavano i partenti, particolarmente di altre nazioni, con abbracci, auguri ed evviva, che venivano affettuosamente ricambiati. Non sembrerà strano ed ambiguo, a chi ricorda il gesuitismo del governo absburgico, la mancata repressione di atti che violavano la neutralità amica. A Vienna, per quanto riguarda il Nullo ed i suoi compatrioti, avranno trovato, quei diplomatici, ch'era loro conveniente andassero gl'italiani ad incontrar la morte in Rùssia ; tanti di meno d'aver contro, presto o tardi, sul Mincio. E andassero pure con loro anche i polacchi soggetti all'Austria ; tanti pericolosi rivoluzionari di meno da sorvegliare. La legione Nullo, raggiunte le cime boscose delle colline, diramazione dei Carpazi, che segnavano il confine tra la Polonia austriaca e la russa, intraprendeva la discesa dell’opposto versante. Aveva così principio la breve e pur gloriosa campagna traverso la vasta malinconica pianura. Marcie faticosissime tra paludose foreste secolari, in cui erano tracciati pochi sentieri seminascosti da erbaccie assai alte che intricavano le gambe, e tra frequenti acquitrini in cui affondavano i piedi. Dopo 8 o 9 ore di quel notturno camminare, la legione arrivò ad una spianata spoglia d'alberi, in gran parte occupata da più vasta palude in mezzo alla quale affiorava un'isoletta. Scavata la terra, si scoprirono delle grandi casse di grosso legno. Contenevano armi, divise militari e ben protette munizioni ; il tutto predisposto dal Comitato nazionale polacco. Per gl'italiani v'erano camicie rosse. Indossandole, mandarono evviva a Garibaldi ed alla Polonia. Italiani e francesi, come si è detto, erano 23 (10 di Bergamo, 5 italiani d'altre provincie, 8 francesi). I polacchi, molti dei quali adolescenti, costituirono 4 compagnie ; ma lamentavano la mancanza di provetti. I quali abbondavano invece nella piccola schiera italiana, ma non potevano giovare alle compagnie indigene perchè non conoscevano parola di polacco. Eravi anche un plotone di cavalleria; i polacchi riposati alquanto e asciugati alla meglio, dopo mezzodì tutti i volontari allegramente ripresero la marcia. La testa di colonna era formata dalla compagnia considerata e che si autoconsiderava estera, non straniera, nel senso odioso quale si usa attribuire a tale sostantivo. Lo prova il fatto che alla stessa, in segno d'onore, venne dai polacchi affidata la bandiera nazionale del loro corpo. Vi campeggia, nel centro del drappo, l'immagine della Vergine nera di Czenstochowa, col Bambino, patrona della Polonia. L'alfiere, Teofilo Pindelski, giovine ufficiale, si acquistò fama di valoroso. Sempre tra paludose foreste, camminarono i volontari anche di notte, facendo assai brevi alt, perchè il freddo li intirizziva, e il generale bergamasco li sollecitava per raggiungere altra colonna d'insorti, che gl'informatori assicuravano poco lontana. La fame, le fatiche avevano resi muti i già canterini, non scotevano però gli animi dei volontari. Partiti da Cracovia la sera del 2 maggio, arrivano all'alba del 5 in vicinanza di Krzykawka, presso Slawkow, che si trova a poche leghe dalla città di Olkusz. Hanno raggiunto una strada campestre carreggiabile, incassata in terrapieno, che si innalza, come parapetto di trincea, quasi ad altezza d'uomo. Da un lato della strada, il terreno digrada con lieve pendìo per circa 200 metri, oltre i quali sorgono le prime piante di un bosco. Dalla parte opposta, il terrapieno si svolge in larga curva ; alto invece circa un metro, scende fino all'altra parte estrema del bosco. Quivi la legione Nullo fermasi a riposare un po'. Gl'italiani ricordano il fortunoso avvenimento di tre anni addietro. Fra 10 bergamaschi v'erano 6 dei Mille. Nullo, passando loro da presso esclama: « Oggi è l'anniversario dell'imbarco a Quarto. Giorno di buon augurio per noi. Se verremo a trovarci di fronte al nemico, e sarà probabile, dobbiamo farci onore ». Egli presentiva l'imminenza del combattimento. Non trascorre che breve tempo dagli scoppi della fucileria nemica. Nullo, sempre vigile e parato ad ogni evento, dà, con calma e sicurezza proprie dell'esperimentato uomo di guerra, i comandi per disporre i legionari in ordinanza di battaglia. Essi balzano in piedi senza badare al riparo offerto dall'argine, e rispondono alle scariche di moschetteria dei russi avanzatisi al limite del bosco. Si noti che il fuoco proveniva ai volontari dalle spalle, stante la direzione loro di marcia. Avevano da sostenere l'urto di un grosso corpo, fanti e dragoni, che si era avanzato sulla strada per Olkusz, con mira di stendersi lungo il confine della Galizia ; e per ciò esso si era posto fra questo e la legione di Nullo. Da pochi minuti si combatte da entrambe le parti nelle stesse posizioni, e già i nostri si dolgono per ferita grave toccata al tenente Elia Marchetti. Sentendo egli molte palle dei russi passar via fischianti di sopra l'argine, vi depone il suo rosso berretto perchè fosse bersaglio dei nemici, mentre, scostandosi alquanto, sporge la testa per osservarne le mosse. Ma, nel punto stesso in cui si scopriva, fu visto vacillare, cadere fra le braccia del capitano Mazzoleni, comprimendosi con una mano la sommità del petto che apparve tutta sanguinante. Accorre Nullo, e insieme al Mazzoleni, sorregge il ferito, gli fa traversare la strada, l'aiuta a montare sul piccolo parapetto che si trova da quella parte, poi, disceso il breve declivio, lo adagia al riparo delle fucilate nella vicina foresta. Il generale e il capitano ritornano ai loro posti di combattimento, e inviano due militi al ferito per le medicazioni e l'assistenza. Anche l'Arcangeli, avvezzo a sprezzare i pericoli ed a seguire gl'impulsi del cuore, si slancia verso l'amico sofferente. Ma, appena mette piede su quel rialzo di terra, a brevi intervalli solcato da palle, è colpito ad una gamba. Mazzoleni, vistolo cadere, sfida nuovamente il rischio del luogo, aiuta l'amico ad alzarsi, lo sostiene fino a che può coricarlo a lato del Marchetti, e poco dopo eccolo, come dianzi, presso il Nullo che gli dice : « Qui siamo di fronte ad un arduo cimento ; si devono considerare i modi per uscirne con onore. Lasciamo che i russi, fatti baldanzosi dalla nostra inazione, sbuchino da quella foresta, ove sarebbe temerario l'assalirli. Allora noi faremo la bella carica alla baionetta di cui darò il segnale a tempo opportuno. Qualunque cosa abbia a succedere dovremo, per le nostre esigue forze, riparare ad Olkusz, essendo gl'insorti polacchi più a noi vicini di sei o sette leghe lontani. Nel peggiore dei casi, avremo libero il confine, perchè i russi non potranno tagliarci la ritirata. Poi tenteremo la sorte in altro più conveniente luogo ». Malgrado il ripetuto comando, avuto dal generale, di cessare il fuoco, i polacchi tirano ancora fucilate; egli monta per breve rampa su l'argine in faccia ai nemici. Eccolo, ritto in arcioni, galoppare sulla cima di quel largo terrapieno. Percorre la fronte dell'ala destra, per obbligare coloro che non avevano compreso l'ordine, di finire lo spreco delle già scarse munizioni. Anche altra ragione muove Nullo ad esporsi alle palle che gli rimbalzano intorno e fanno impennare il cavallo del perfetto cavalcatore. Dare una lezione pratica militare al Miniewski, ritiratosi con pochi altri al sicuro dal luogo del combattimento ; nè il Miniewslsi vi ritorna dopo che Nullo gli aveva mandato l'interprete della legione a pregarlo di venire tra i suoi compatrioti, a far loro sospendere il fuoco. L'ala sinistra dei polacchi, agli ordini del prode colonnello Giuseppe. Czapski, secondava con precisione il Nullo. Quei volontari aspettavano l'ordine di combattere. Il loro colonnello era stato ufficiale nel 1831, aveva onorato il nome polacco anche nel 1848, fu promosso generale nel 1863. Ma dallo schieramento di destra scoppiano altre fucilate. Un cenno con la sciabola alzata e poi ribassata, che voleva significare di finirla coi tiri, viene interpretato qual segnale della carica. Italiani e francesi vedendo gran parte de' polacchi balzare sull'argine, fanno altrettanto senza attendere un solo istante e, gridando viva la Polonia, corrono per mettersi alla testa dei combattenti. Ma il generale, dando di sproni al cavallo, passa dinanzi a tutti e fa segni imperiosi di ritirata. Pochi minuti dopo si trovano ancora tutti sulla strada, dietro il terrapieno, e incolumi. I russi, quando videro i « ribelli » correr loro incontro con tanto impeto, si ritirarono nel folto delle piante per tendere l'imboscata. Nullo rimane su l'argine finché non vede al sicuro i suoi dalle fucilate che riprendono a fischiare. Essi avrebbero oramai finito di trepidare per lui, ch'era sul punto di scendere, alla sua volta, sulla strada. Ed è precisamente davanti ai concittadini che cavallo e cavaliere stramazzano, quest'ultimo col corpo verso la strada e la gamba destra sotto il ventre dell'animale. A tal vista il Mazzoleni, l'interprete Zajaczkowski ed il capitano francese Camille Didiers, col cuore in tumulto, balzano sul parapetto. Mercè i loro sforzi il generale può trarsi di sotto al cavallo, che aveva spezzato un garetto : «Grazie; nulla di male », dice sorridendo per rassicurare i presenti di prima e gli accorsi. Benché quel gruppo offra largo bersaglio ai tiri dei nemici riparati sempre dagli alberi, il solo valoroso interprete, non ancora ventenne, è ferito leggermente alle dita della mano sinistra. Finalmente, acclamati dai polacchi, tutti sono saltati giù dal terrapieno. Nullo, traversata la strada, sale d'un balzo sul terrapieno opposto ove l'Arcangeli era andato per trarre in salvo il Marchetti, e avea di poi toccata la ferita. Vi è appena montato e volge intorno i neri occhi per verificare se i nemici operavano qualche movimento aggirante, che lo si vede allargare le braccia, far la giravolta su sè stesso e cadere, senza metter gemito, con la testa rivolta al bosco. Con l'animo conturbato da triste presentimento, Caroli, Mazzoleni, Testa, Cristofoli, Venanzio, poi altri, si precipitano ov'è caduto il loro duce. Ansiosi, si piegano su di lui, gli si inginocchiano intorno con un filo di speranza che la ferita non sia mortale. I più vicini gli aprono la giubba polacca, la camicia rossa, gli mettono la mano sul cuore. L'Italia aveva perduto quel suo valorosissimo campione. Una palla gli era penetrata nel fianco destro, e, nel traversare il corpo dal basso in alto, aveva toccato il cuore dell'eroe bergamasco. La morte di Nullo produsse nella sua eterogenea colonna, rimasta priva di guida in quel momento difficilissimo, conseguenze fatali. Incominciava l'angosciosa ritirata. Moltissimi, prima di abbandonare il tragico luogo davano l'estremo addio alla salma dell'eroe, morto per la Polonia, pochi istanti prima ritto in sella, sopra l'argine, come arcangelo di guerra, e allora steso al suolo irrigidito dalla morte. Venne sepolto nel cimitero di Olkusz. La sua tomba fu segnata da anonima colonna, e tale dovea rimanere fino a che, sul basamento che la regge, venne scolpito il nome di Francesco Nullo il giorno in cui la Polonia risorse a libertà. Quella tomba fu sempre onorata, e prima e dopo il novembre 1918, come fosse del nume indigete di Olkusz3. Caprera, 27 Maggio 1863. Donna ! cui devo affetto di fratello — perdonatemi se mi addentro nel santuario del vostro dolore — perdonatemi s'io vengo ad immischiarmi nell'amor vostro di madre — che un uomo non può apprezzare, ma che sento il diritto di condividere — perchè anch'io amavo il nato dalle vostre viscere. Io amavo sì, e stimavo il prode dei prodi d'una falange per cui l'Italia sentirà meno certamente il peso delle sue vergogne. Egli è caduto da valoroso per una causa santa — e quando gli uomini capiranno tutta l'altezza del sacrificio del vostro Francesco — oh ! allora l'umanità potrà decantare senza sacrilegio — libertà, virtù, eroismo. Sono con tutto l'affetto dell'anima Vostro G. GARIBALDI. 3 Alla signora Angela Nullo – Magni di Bergamo Da principio la ritirata da Krzykawka si effettuava, in buon ordine, traverso la foresta dietro il luogo del combattimento. I legionari traevano seco loro, con stento, i feriti sui pochissimi cavalli che marciavano con la retroguardia. Ma allorché, dopo faticoso cammino, si affacciarono all'altra estremità della boscaglia, trovandovi orizzonte aperto sopra largo tratto di pianura sabbiosa, vennero accolti da ripetute scariche di moschetteria. Era la testa di colonna dei russi che avevano bersagliato la posizione di Krzykawka. Non avendo osato, per tema d'imboscate, inseguire gl'insorti fra i meandri della foresta, l'avevano di corsa girata per aspettarli al varco ; nè gl'insorti potevano ritornare indietro ove altre numerose sotnie di cosacchi vigilavano. Onde la ritirata si convertì in fuga. Miniewski non era uomo da padroneggiare la disastrosa situazione. I polacchi travolsero con loro parte de' componenti la compagnia estera, e infilata la strada di Olkusz riuscirono a mettersi in salvo oltre il confine galiziano, dove caddero, la maggior parte, nelle mani delle pattuglie austriache. Altri pochi invece, fra i quali taluni bergamaschi, spintisi alquanto innanzi nel momento del trambusto generale, si trovarono improvvisamente soli, a poca distanza dai nemici pronti a circondarli. I poveri legionari vistisi perduti, sapendo con quale genìa aveano da fare, decisero di vender cara la vita e scaricarono i fucili, mentre il generale maggiore comandante dei russi principe Szachowkoj, ammirando il valore di quei pochi giovani, ordinò a' suoi di risparmiarli. Fu così che, alle 3 pomeridiane del 5 maggio, vennero fatti prigionieri di guerra nelle vicinanze di Olkusz, Luigi Caroli, Febo Arcangeli, Alessandro Venanzio, Ambrogio Giupponi, tutti di Bergamo ; Giuseppe Clerici di Como ; i fratelli Lucio e Giacomo Meuli di Viadana ; Ernesto Bendi, siciliano. « A qual nazione appartenete voi? » domandò loro, in francese, il generale. Risposero : « la nostra patria è l'Italia ». « Terra di eroi e di pazzi ! » egli esclamò con tono di voce più compassionevole che minaccioso. Insieme ai nostri si trovarono prigioni i francesi Emilio Andreoli, di famiglia córsa, e Luigi Alfredo Die, parigino ; Carlo Richard, di Riga (Russia), sedicente francese ; Giuseppe Czerny, Ritter e Leczinski, galiziani. Nel breve scambio di fucilate che precedette la loro cattura, caddero estinti due polacchi, venne leggermente ferito il Clerici, corse gravi pericoli il bergamasco Arcangeli, già ferito da palla in una gamba. Caroli gli aveva ceduto il proprio cavallo che, nel fuggi fuggi della ritirata, era quasi affondato in una palude. Il ferito, esausto di forze, vi sarebbe annegato se il Caroli, sotto i tiri del nemico, non correva a trarlo in salvo. E il Venanzio, pochi istanti dopo, gli faceva scudo del suo corpo atletico deviando dalla testa del povero amico il fendente che un cosacco furiosamente gli tirava. Si andrebbe assai oltre i limiti dell'argomento che ci siamo proposti, volendo seguire i prigionieri nella tristissima e pietosa Iliade che dovettero subire. Furono tratti alla Corte marziale di Varsavia, con processo rapido e feroce condotto senza difensori ; a brevi domande permesse brevi risposte tradotte e trascritte a libito dei giudici militari. Sentenza di morte mediante capestro ; che tutti rifiutarono sdegnosamente di firmare gridando : « Noi siamo soldati, vogliamo essere trattati militarmente, fateci fucilare ».. Ma poi venne la commutazione della pena capitale in quella della deportazione. Condannati ai lavori forzati nelle miniere siberiane Andreoli, Caroli, Clerici, Venanzio, i fratelli Meuli, Giupponi, per 12 anni ; Die, Richard, Bendi per 10 anni. A 12 venne pur condannato l'Arcangeli posteriormente, causa la ferita che tardò a rimarginarsi. Finalmente, dopo 3 anni e mezzo di indicibili sofferenze nelle katorghe e nelle miniere boreali, si ebbe il decreto d'amnistia agl'italiani ed ai francesi della spedizione Nullo deportati in Siberia. Portava la data 25 novembre (7 dicembre s. r.) 1866. Non tutti poterono rivedere la patria adorata e cotanto desiderata. Uno, Luigi Caroli, l’8 giugno 1865, aveva finito di soffrire nel fisico, e più gravemente nel morale per tormento di nostalgia, nella galera di Kadaya. Oltre il Nullo, morì in Polonia un altro suo concittadino e compagno d'armi, Elia Marchetti. Allorché i legionari, perduto il loro duce, parte si sbandarono, altri, circondati da' nemici, vennero fatti prigionieri, il Mazzoleni non volle, ad ogni costo, abbandonare il Marchetti, dolorante per la grave ferita. Il prode capitano lo solleva e lo porta via sulle braccia poderose, con sollecito passo per quanto lo consente il peso di cui è gravato. Per di più, gli si era attaccato un giovine polacco pure ferito, non gravemente però, ad una gamba. Ma sono visti da un drappello di russi e inseguiti. Il polacco, fermatosi appena un istante per riallacciare la fasciatura alla gamba, è raggiunto e finito a colpi di baionetta. Il Mazzoleni col Marchetti in braccio, che si doleva, sommesso, in modo compassionevole, s'inoltra allora nei boschi, passa a guado un fiumicello. Finalmente il valoroso salvatore trova un amico e concittadino sbandato, il Cristofoli, e un cavallo per trasportare il Marchetti. Pervenuti in un villaggio, sentono il grido pauroso : i cosacchi ! e vedono gente che fugge o si ricovera nelle case sbattendone le porte. Il povero ferito è da' suoi portato a braccia su per la scaletta d'un campanile, dall'alto del quale si avvedono che si trattava d'un falso allarme. Riprendono il cavallo, che aveano lasciato a piè della scaletta, e nel paese trovano carro e guide per raggiungere e passare oltre il confine galiziano. Dopo tanti pericoli e patimenti erano, col caro amico, in salvo, ma prigionieri di gendarmi austriaci nella città di Chrzanow. Il Marchetti, invitato, ebbe gentile e amorosa ospitalità e assistenza in casa del notaio polacco Horwath. L'ungherese capitano dell'esercito austriaco Giovanni Lippa, ch'era stato della guarnigione di Bergamo, dopo molte preghiere, ottenne da' suoi superiori che il Mazzoleni, tanto invocato dal povero Marchetti, potesse confortarlo nelle poche ore che gli rimanevano di vita a giudizio dei medici curanti. Ancora per mezzo del capitano Lippa, ebbe anche il Cristofoli permesso di uscire dalla prigione per dare l'estremo saluto al morente, che spirò il 7 maggio. Splendidi, commoventi i funebri onori che la città di Chrzanow tributò al giovine eroe italiano morto per la Polonia. Al momento in cui la salma, avvolta nella bandiera polacca sormontata da corona d'alloro, venne fatta scendere nel sepolcro, la folla inginocchiatasi proruppe in lacrime gridando : addio, fratello nostro, addio ! Dopo breve prigionia, Mazzoleni e Cristofoli, sotto scorta di gendarmi, furono accompagnati sino al confine del Mincio. Nella sosta alle carceri di Cracovia, trovarono l'Aiace Sacchi ed il Dilani, coi quali proseguirono il viaggio per Bergamo, dove già erano, reduci dalla Polonia, Testa e Pattelli, scampati anche dalla polizia austriaca. Nel 1866, Paolo Mazzoleni partecipò alla campagna Garibaldina, e fu insignito di medaglia d'argento al valor militare. Giuseppe Dilani cadde il 3 luglio di quell'anno, da valoroso, a Monte Suello. Ambrogio Giupponi fu dei combattenti di Mentana, 1867. Alessandro Venanzio seguì Garibaldi in Francia, nel 1871, e combattè a Digione. GIUSEPPE LOCATELLI MILESI.