Religiosità Ho letto il pezzo di Carlo Bolpin che, prendendo

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Religiosità Ho letto il pezzo di Carlo Bolpin che, prendendo
Religiosità
Ho letto il pezzo di Carlo Bolpin che, prendendo l’avvio
da un libro del teologo valdese Fulvio Ferrario su
Bonhoeffer , dà corso al prossimo numero di “Esodo”. Ho
acquistato qualche mese fa ma non ancora letto il libro di
Ferrario: è lì, in cima alla pila sempre più alta delle letture
in lista d’ attesa…
Mi baso perciò sul resoconto di Bolpin e sul poco che so di
Bonhoeffer. Se ben ricordo, questi parte da Barth e dalla
sua critica all’apriori religioso del protestantesimo liberale
(Troeltsch in testa) per poi arrivare alla grande intuizione
del cristianesimo non religioso e come essere-per-gli-altri.
Ricordo l’entusiasmo quando, nel 1969, Paolo De Benedetti
pubblicò da Bompiani, nella collana di studi religiosi da lui
diretta, la prima traduzione italiana (di Sergio Bologna) di
Resistenza e resa. Il libro ebbe un effetto liberatorio, aria
d’alta montagna nello smog del cattolicesimo in cui si
stavano già chiudendo le speranze innescate dal Concilio
conclusosi solo quattro anni prima. Amare il penultimo
sullo sfondo dell’ultimo, la critica al culto dell’interiorità, la
reviviscenza delle radici giudaiche, la debolezza di un Dio
sofferente, che di lì a poco, grazie ad Hans Jonas, si sarebbe
trasfusa nel motivo luriano di Dio che si ritira dalla sua
creazione per lasciar libero l’uomo, il principio speranza,
Dio morto in Gesù Cristo…
È passato più di mezzo secolo, ma sembra trascorso un
millennio! E io non so se quell’impostazione, che potrei
sintetizzare nella formula “fede vs religione”, possa ancora
parlare alla nostra sofferta e disincantata contemporaneità.
Non potremo mai sapere come Bonhoeffer avrebbe
sviluppato le intuizioni abbozzate nel carcere di Tegel, ma
credo che la critica barthiana dell’apriori religioso vada
forse riconsiderata, soprattutto alla luce della
globalizzazione e del confronto quotidiano con le altre
religioni, compreso l’islamismo che non si può certo ridurre
alle farneticazioni terroristiche cui stiamo assistendo
sgomenti in questi mesi.
Non sappiamo a chi/che cosa ci riferiamo quando usiamo
la parola “Dio”, ma con Valéry potremmo ripetere “Que
serons nous sans le sécour de ce qui n’existe pas?”. In
proposito, però, parlare di esistenza o di non esistenza è
improprio: nel momento in cui cerchiamo di definirne i
modi manipoliamo comunque a nostra misura ciò che per
definizione non è riducibile alle nostre categorie e quindi
non manipolabile. Forse chiamiamo “Dio” un centro vuoto
e originario (non in senso temporale ma in senso spaziale,
come un fondo inesauribile, un abisso di energia) che
continua a irradiare, sconosciuto e inconoscibile, nel
cosmo, in quella phỷsis non cosciente che produce
spontaneamente anche la natura umana. Siamo privi di dèi e
valori: non sono più plausibili, sono monete consunte e, a
differenza delle monete, dèi e valori non si inventano a
comando. “Notre héritage n’est précedé d’aucun testament”
(René Char): non siamo più capaci di muoverci nel
soprasensibile anche perché, dopo la fine della metafisica,
non siamo più in grado di immaginarlo, nemmeno come
astrazione o come ipotesi di lavoro. Le varie “rivelazioni
divine” ci appaiono come macchine mitologiche (Furio
Jesi) che non producono più “verità”; forniscono tuttavia
metafore utili per alludere a ciò che sfugge al nostro
intelletto bisognoso di certezze. In queste mitologie
arrivano a esprimersi esperienze, o forse solo sensazioni o
emozioni, inverificabili, prive come sono di un riferimento
tangibile, ma percepite come reali. E nella storia dell’uomo
conosciamo alcune figure dotate di una particolare
sensibilità per questa dimensione che tradizionalmente
chiamiamo “religiosa”. Trasmettono dei significati nel
sensibile, come la musica, come l’arte in genere (penso che
esperienza estetica ed esperienza religiosa siano molto
simili, o almeno contigue nella nostra vita spirituale).
Nella cultura occidentale Gesù di Nazareth è stato
senz’altro colui che più e meglio di tutti ci ha “narrato” la
storia divina, ci ha detto di Dio, e soprattutto ha incarnato
nella sua vita e morte, aspetti altrimenti indeducibili. Ha
comunicato un’immagine di Dio che prima di lui non era
arrivata all’uomo. Per questo i suoi seguaci, cercando di
darsi ragione di quanto avevano vissuto al suo fianco,
l’hanno subito divinizzato.
Mi ha colpito, nello scritto di Bolpin, una citazione di
Bonhoeffer: “Chi resta saldo? Solo colui che non ha come
criterio ultimo la propria ragione, il proprio principio, la
propria coscienza, la propria libertà, la propria virtù, ma che
è pronto a sacrificare tutto questo quando sia chiamato
all’azione ubbidiente e responsabile, nella fede e nel
vincolo esclusivo di Dio: l’uomo responsabile, la cui vita
non vuol essere altro che una risposta alla domanda e alla
chiamata di Dio. Dove sono questi uomini responsabili?”.
Ma davvero per essere responsabili è necessario rispondere
alla domanda e alla chiamata di Dio? La condotta morale
dipende davvero dal comando di Dio? O non piuttosto dal
fatto che ci sentiamo interiormente obbligati a un certo
comportamento? (Un esempio bellissimo di risposta a
questa autonoma obbligazione interiore
sono i due
protagonisti del romanzo di Hans Fallada, peraltro basato su
una storia vera, Ognuno muore solo (Sellerio): l’anziano
caporeparto Otto Quangel e sua moglie Anna mettono in
gioco la propria vita nella Germania nazista non per
motivazioni esterne ma perché sentono che debbono farlo.)
Già Kant diceva che come Dio non è autore del fatto che il
triangolo ha tre angoli, allo stesso modo non è autore delle
leggi morali, la condotta morale dipendendo piuttosto dal
rapporto dell’uomo con se stesso. Insomma, non è tanto un
problema di bontà, quanto di dignità della persona. E
quindi, direbbe la Arendt, di pensiero: “I peggiori malfattori
sono coloro che non ricordano, semplicemente perché non
hanno mai pensato e – senza ricordi – niente e nessuno può
trattenerli dal fare ciò che fanno. Per gli esseri umani,
pensare a cose passate significa muoversi nella dimensione
della profondità, mettere radici e acquisire stabilità, in
modo tale da non essere travolti da quanto accade - dallo
Zeigeist, dalla Storia, o semplicemente dalla tentazione. Il
peggior male non è dunque il male radicale, ma è un male
senza radici. E proprio perché non ha radici, questo male
non conosce limiti. Proprio per questo il male può
raggiungere vertici impensabili, macchiando il mondo
intero.”
Semmai l’insegnamento dell’uomo di Nazareth va più in
là, non si limita alla coerenza personale e alla dignità, ma a
un essere-per-gli-altri anche fino alla morte. Forse è qui, in
questa eccedenza assoluta che travalica dovere e coscienza,
in questa “sequela” di un cammino esemplare per
esuberanza d’amore, che il sentimento religioso non basta
più. Qui si gioca la fede. Ma nel senso che soltanto così
facciamo esistere Dio fra noi.
Gianandrea Piccioli