Introduzione
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Introduzione ™¦n m¾ œlphtai ¢nšlpiston oÙk ™xeur»sei, ¢nexereÚnhton ™Õn kaˆ ¥poron. Eraclito Sul celebre frammento eracliteo citato in esergo1 il dio o il destino fermò la mano di Giorgio Colli, mentre intendeva, con la consueta accuratezza e acribia, alla sua ultima fatica sulla ricostruzione filologica della sapienzialità greca2. Il testo è noto. Spesso è citato e spesso è stato sottoposto alla riflessione critica di quanti hanno cercato (e cercano) nel lógos un senso per il reale e strade di accesso alle dimensioni veritative dell’einai. E così, ancora una volta, come sovente accade in Eraclito, una intuizione icastica ed ermetica apre uno squarcio prezioso sulle “cose nascoste”, illumina una via di esplorazione per addentrarsi sui sentieri dell’essere e dà senso alla lichtung heideggeriana resa celebre dalla riflessione sull’essere e sul lógos che progressivamente lo svela. 1 «Chi non spera l’insperabile non lo scoprirà, poiché è chiuso alla ricerca, e a esso non porta nessuna strada» (ERACLITO, fr. CXIX, nella traduzione di G. COLLI). 2 COLLI G., La sapienza greca, voll. 3, Adelphi, Milano 1980, II ed. 1996. 7 Francesco Mattei L’insperabile, dunque. Ma anche l’inatteso. Così ancora Eraclito: “Se non ti aspetti l’inatteso, non lo troverai, perché è duro da ricercarsi e difficile da ottenere”3. Ma allora: perché Eraclito e Bonhoeffer? Perché questi rimandi (antichi) all’insperabile e all’inatteso? Perché paratassi di nomi e di storie, di storie dell’essere e di storie di individui che hanno pensato le cose e i loro fondamenti? Non vorrei disegnare nessi logici là dove non ci sono. Né accostare nomi freschi di storia a figure di sapienti audaci spesso interrogati lungo i secoli. Ma l’accostamento non sembra irriverente. Né per l’uno né per l’altro. Giacché l’inatteso e l’insperabile, da Eraclito posti in questione nei due frammenti, hanno giocato un ruolo rilevante nell’avventura umana e intellettuale di Bonhoeffer. E hanno occupato uno spazio non marginale nella sua ricerca intellettuale e nella tragicità della sua vicenda umana. Infatti, il giovane teologo e pastore di Breslavia che, in ancor giovane età, muore per impiccagione nel lager di Flossenbürg, era animato dal demone dell’interrogazione e della ricerca. Aveva interrogato la pagina biblica, ma aveva anche interrogato i segni dei tempi (storici). Aveva pregato il Dio della Parola e della fede, ma aveva anche cercato di scrutare i tempi cupi che gli era dato vivere. E il Dio che lo aveva “gettato” in quel tempo inumano, era lo stesso Dio che lo aveva spinto ad interpretare i testi della Rivelazione. Ed era anche lo stesso Dio che gli chiedeva di vivere in pienezza e responsabilità la sua partita esistenziale. 3 ERACLITO, fr. B 18, in DIELS-KRANZ, I presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Roma-Bari 1975, vol. I, p. 200. 8 Introduzione Sappiamo, purtroppo, come egli concluse la sua breve parabola storica in coscienza e responsabilità. Ma aveva sperato l’insperabile? Aveva atteso l’inatteso? Per Bonhoeffer, non si tratta di domande retoriche o pleonastiche. Perché in lui la speculazione pagava certo il tributo alla tradizione accademica (talvolta o sovente astratta), ma pagava anche il tributo al legame veritativo di parola e cosa, dizione e azione, lógos e einai. Un legame costringente, questo, quando non si configura come fatuo e declamatorio esercizio retorico. Un legame che vincola alla consequenzialità dell’azione e al rigore della testimonianza. Ed è ciò che ha fatto Bonhoeffer. Ha studiato, ha parlato ed ha agito. Ha testimoniato. Obbediente al lessico religioso e obbediente al legame etico della relazione parola-cosa. Ed è per questo che lo studioso che interpreta la Parola, il pastore che non esita a tornare dagli Stati Uniti per stare vicino al suo popolo nell’imminenza della guerra, l’accademico che lascia senza tentennamenti la prestigiosa cattedra per rimanere fedele ai suoi ideali religiosi, l’uomo che si ribella ad impossibili fedeltà politiche giudicate desacralizzanti e disumanizzanti, si staglia con contorni nitidi nell’orizzonte del Novecento. Senza retorica e senza enfasi, ma in verità e umana pienezza. E costituisce così un enigma, un nietzscheano “caso felice”, un’umanità realizzata (e dunque ben-educata) con cui intrattenere rapporti ermeneutici e paradigmatici. Da non abbandonare, perciò, all’insensatezza dell’oblio storico. È questo il motivo di fondo per cui lo si vuole qui rileggere. Giacché togliere un po’ di polvere dai suoi testi, e provare a interrogarli, non sembra esercizio vacuo. Sapendo, naturalmente, di percorrere strade già percorse da altri 9 Francesco Mattei e di utilizzare sentieri già tracciati. Ma, come altri, è difficile non rimanere attratti dalla lettura che egli fa dei testi sacri, dalla sua interpretazione di filosofi e teologi contemporanei, dalla radicalità e dalla duttilità con cui legge le interpretazioni tradizionali della Riforma e della teologia cattolica. Da qui nascono le innervature teoriche e pratiche che ne hanno fatto uno dei grandi testimoni della verità: verità vissuta e coerenza non declamata, ma esperita. Coerenza della parola, dell’esistenza, dell’esperienza. Detto così, potrebbe sembrare di trovarsi di fronte ad un monumento da onorare o ad un padre nobile da rispettare. Ma Bonhoeffer ha scritto, ha insegnato, ha interpretato. Ha politicamente lottato. Il che esime dalla astratta venerazione e spinge nell’agorà dialettica ed ermeneutica, ermeneutica dei suoi scritti ed ermeneutica delle sue posizioni politico-esistenziali. Perciò ha potuto scrivere Italo Mancini, conoscitore e interprete raffinato del suo pensiero: “Considero la più bella delle avventure culturali che mi sono capitate l’incontro con Bonhoeffer”4. E detto da chi ha frequentato con empatia e grande comprensione le sue pagine e i suoi frammenti, si tratta di una annotazione non banale e non scontata. Sia per la qualità intellettuale ed esistenziale di Mancini, sia per la vastità di studi e di interessi culturali di Bonhoeffer. Non banale, perciò, sempre appare l’incontro con Bonhoeffer, autore sottoposto a più riprese a studi, traduzioni, filologie ed ermeneutiche, ma sempre nitido nel modo in cui si staglia, come i presocratici nietzscheani, nel panorama travagliato Novecento. 4 GRASSI, P.G., Intervista a Italo Mancini, in “Il Nuovo Leopardi”, 35 (1990), p. 24. 10 Introduzione Che dire allora? Perché la rilevanza di Bonhoeffer al di là della sua figura mite e tragica? Un primo motivo di interesse credo risieda nell’interpretazione della crisi del Novecento. Una crisi qui osservata con la lente della riflessione teologica e della sua interrogazione sulla vita, la storia, la filosofia. La vicinanza dialettica di Bonhoeffer con la grande teologia tedesca del Novecento, – e penso a Barth, Bultmann, Tillich e alla pluriversa lezione postkantiana – e la lettura attenta e contrastiva di Nietzsche e della morte di Dio hanno depositato pensieri non marginali nell’ermeneutica della secolarizzazione operata da Bonhoeffer. E insieme hanno contribuito ad illuminare la crisi profonda della ragione e una possibilità di fuga o di rimedio ad suo depotenziamento. Il tema non è nuovo. La realtà ancora bruciante. E l’accostamento di Bonhoeffer a molte posizioni francofortesi ne restituisce in controluce, forse, la assoluta contemporaneità e l’originalità dell’analisi, pur operata per via teologico-pastorale5. Del resto, anche Horkheimer coglieva puntualmente, come lui, il dramma radicale della ragione e dichiarava che ormai siamo «ad uno stato di cose in cui la semplice parola ragione è sospettata di stare ad 5 Così Horkheimer legge la crisi: «La crisi odierna della ragione consiste fondamentalmente nel fatto che ad un certo punto il pensiero è diventato incapace di concepire un’oggettività assoluta al di là del pensiero stesso, o ha cominciato a negarla affermando che si tratta di un’illusione. Il processo si è allargato gradualmente fino ad investire il contenuto oggettivo di tutti i concetti razionali; alla fine nessuna realtà particolare può essere considerata ragionevole in sé; tutti i concetti fondamentali, svuotati del loro contenuto, hanno finito per essere solo involucri formali» (HORKHEIMER, M., Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, Einaudi, Torino 1969, p. 14). 11 Francesco Mattei indicare qualche entità mitologica». Ma così «la ragione ha liquidato se stessa in quanto strumento di comprensione etica, morale, religiosa»6, conclude amaramente Horkheimer. Da qui alla fede nella scienza il passo è stato ed è breve. E si è finito, così, col considerare «impegnativo e degno di fede soltanto ciò che si manifesta nell’ambito delle scienze», producendo, come esito necessitato, «la disperazione dell’uomo»7. Privato infatti della possibilità di pensare un fondamento, il soggetto appare senza alcun orizzonte di significato, senza un sistema di riferimento affidabile. E su queste basi Horkheimer dà voce alla convinzione, in lui reiterata, che «oggi gli uomini abbiano bisogno di dare senso alla loro vita»8. Bonhoeffer non ha intravisto questo unico destino per la ragione. Né ha sottovalutato la necessità di lavorare ad una ricerca razionale e religiosa del fondamento. Da qui nascono le sue ricerche, invero molto interessanti, sulla possibilità di far dialogare con radicalità ragione e fede: una ragione depotenziata (e lo scenario storico non poteva non indurre al pessimismo) e una fede talmente logorata da farsi fideismo e affidamento ad un Dio «tappabuchi» (Lükkenbüsser) risolutore ingenuo di tutti i problemi. E qui è facile pensare alla singolarità della strada che egli ha intrapreso all’interno della teologia luterana. Il sola gratia deve in lui necessariamente sposarsi con una concretezza storica che tanto richiama le «opere» presenti in 6 7 Ivi, p. 23. HORKHEIMER, M., Rivoluzione o libertà, Rusconi, Milano 1972, p. 39. 8 12 Ibidem. Introduzione Giacomo II, 26 (fides sine operibus mortua est) e sempre oggetto di controversia tra riformati e cattolici. Non sfuggirà, naturalmente, come tutto ciò richiami prepotentemente sulla scena il problema del soggetto. Questi sembra ora dissolversi entro un campo di impersonali individuazioni, in un universo di scienza e di tecnica in cui è venuta meno la capacità e la speranza di dare un nome al singolo e all’intero. E se una volta il fondamento metafisico garantiva radici e consistenza al soggetto, o una sua versione teologica gli assicurava l’ancoraggio ad un Dio sussistente e rassicurante, oggi, con questo scenario, come si rappresenta il soggetto? È proprio questo che mi chiedevo qualche anno addietro: “Che ne è allora dell’uomo che, nonostante tutto, continua a vivere per strade di cui non conosce più il nome? Che ne è dell’educazione (sia essa adattamento o autoeducazione), se essa consiste fondamentalmente nell’atto significante del muoversi in mezzo ad esse, nel dar loro un nome (per conoscere e orientarsi), nel costruire altre strade per altri uomini?”9. Il tema, purtroppo, è ancor oggi attuale. E attuale già era nel tempo tragico di Bonhoeffer. Ho intenzionalmente accostato qui i due problemi, soggettività e educazione, per evidenziarne ancora una volta i legami inscindibili. Ed è facile scorgerne le ragioni. Accenno soltanto a due di esse. Per un verso si vuole ribadire l’assoluta necessità di pensare i due problemi in relazione tra loro. Se così non accadesse, il soggetto oscillerebbe in uno scenario impersonale e sottoposto esclusivamente alle ten9 MATTEI, F., Prefazione a GIESECKE, H., La fine dell’educazione, a cura di F. Mattei, Anicia, Roma 1990, p. 9. 13 Francesco Mattei sioni della tecnica e della scienza. E ciò vale anche per la pedagogia (e l’educazione), da quella stessa impersonalità strutturale sottoposta ad un esclusivo ruolo di adattamento a scenari esterni ed estranei alle sue molte dimensioni. Traducendo e interpretando: se così fosse, che fine farebbe la sua libertà? Non sarebbe essa esclusivamente costretta ad un processo di adattamento a fattori strutturali esterni? Se questo è il problema, si comprende facilmente l’attualità di Bonhoeffer. Egli parla dell’ánthropos téleios10, dell’uomo intero, dell’uomo perfetto, come ha ben illustrato Gallas11 commentando l’“uomo intero” o l’“uomo perfetto” di cui dicono Paolo nella lettera agli Efesini (4,13) o Giacomo (1,4). Nella speranza, naturalmente, di sfuggire a quell’anér dípsychos che continuamente sottopone il soggetto alla scissione. Ma questa interezza va sempre conquistata. Data nella costituzione teologica della fede nell’Assoluto, il tempo storico l’ha scissa. Da qui il lavoro di formazione, l’etsi Deus non daretur12, il confronto serrato con quel Nietzsche che con lucidità ha testimoniato la scissione dell’io e la morte di Dio, il lavoro di ricomposizione nel tempo storico (il penultimo bonhoefferiano). Il resto è per Bonhoeffer residuo mitologico, già ampiamen10 «Ciò che conta per la Bibbia è sempre l’ánthropos téleios, l’uomo intero» (BONHOEFFER D., Resistenza e resa (1951), Paoline, Milano 1989, p. 422). 11 GALLAS A., Ánthropos téleios. L’itinerario di Bonhoeffer nel conflitto tra cristianesimo e modernità, Queriniana, Brescia 1995. 12 Sull’interpretazione di questa posizione mi sono già soffermato nel profilo che ho tentato di tracciare del Personalismo critico di Mario Manno. Cfr. MATTEI F. (a cura di), Itinerari filosofici in pedagogia. Dialogando con M. Manno, Anicia, Roma 2009, pp. 177 ss. 14 Introduzione te illustrato da Bultmann e qui reinterpretato con accenti molto personali. Con una evidenziazione della concretezza storica e con lo sguardo al Dio che si allontana dal mondo nella forma del Dio crocifisso. Giacché il Dio che si allontana, lascia sulle spalle dell’uomo la responsabilità del mondo e dell’uomo. Perciò ho voluto qui mettere in evidenza la responsabilità della scelta e quella parresia che ha risonanze antiche. Che ha avuto i natali nell’antica cultura greca, ma che ha trovato forma smagliante nello stoicismo maturo e consapevole di Epicuro. Come pure, ed è perciò che qui la ricordo, si è identificata con quel parlar franco che è stato il tratto distintivo del cristiano che testimoniava a viso aperto la sua fede. Ma è ora finito il tempo della testimonianza? Non sembra. L’abbandono della via logica tanto cara ad Hegel, e la scelta di una via di testimonianza – meno evidente logicamente, ma più costringente esistenzialmente – trovò il suo scaltrito interprete e rabbuiato cantore in Kierkegaard. Bonhoeffer l’ha solo ripresa e reinterpretata. Perciò qui la si ripropone come tema essenziale della vita di fede. Ma anche – perché le due cose non confliggono – come passaggio obbligato di un uomo ben educato. A suggello, in Bonhoeffer, della necessità di testimoniare (nella parola e nella vita) il legame con il Deus absconditus che si ritira dal mondo e lascia sulle spalle dell’uomo la responsabilità della terra. Non aggiungo altro. Né accenno alle sorti del Dio di Marx o del Dio di Nietzsche. E nemmeno alle sue innumerevoli morti (non raramente apparenti). Bonhoeffer è un compagno di strada prezioso ed esigente. Per chi quel Dio ha tolto dal lessico significante, ma soprattutto per coloro che quel Dio continuano a pensare ed interrogare. 15 Francesco Mattei Perciò il pastore di Breslavia rappresenta una guida sicura e rispettosa che accompagna per strade sempre più povere di viandanti. Perché il cammino è lungo e perché incerti sono i segnavia. E come Eraclito, anch’egli sembra sommessamente ammonire: “Mettendoti a viaggiare non scoprirai mai i confini dell’anima, anche se tu dovessi percorrere ogni sentiero: tanto è profondo il suo logos”13. Per parte sua, il pastore si è incamminato con lucidità e coraggio sulla strada di una personale e tragica avventura e mai ha cessato di essere testimone per gli altri. Perciò, come l’oracolo di Delfi, “non dice né nasconde, ma indica (semáinei)”14. Indica un cammino arduo e costellato di dubbi. Ma dice anche, senza alcuna ambiguità, quale sia stata la sua scelta. Che sempre è stata legata alla ragione dell’uomo e alla sua libera determinazione. Ed è questa, come da pagina socratica, la meta di ogni riuscita educazione dell’uomo, sempre in cerca dei bagliori della verità e delle dimensioni polimorfe dell’essere. 13 14 16 ERACLITO, fr. B 45, in DIELS-KRANZ, op. cit., vol. I, p. 206. ERACLITO, fr. B 93, in DIELS-KRANZ, op. cit., vol. I, p. 215.