L`esperienza del terremoto del 1997 in Umbria

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L`esperienza del terremoto del 1997 in Umbria
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L’ESPERIENZA DEL TERREMOTO DEL 1997 IN UMBRIA
Paolo Angeletti
Lo scritto che segue tratta poco di ciò che è stato fatto in Umbria per fronteggiare
l’emergenza e la ricostruzione dopo gli eventi sismici del 1997-98, ma pretende di trarne qualche insegnamento (si spera) utile per il futuro.
Vale la pena di ricordare ciò che è avvenuto risulta tuttavia doveroso. La sequenza sismica (senza entrare nella complessa distinzione fra repliche e “nuovi” eventi) ha avuto
inizio nella notte tra il 25 e il 26 settembre 1997, con un evento di magnitudo 5.6, , seguito da due eventi, il primo di magnitudo 5.8, il secondo 4.9, la mattina del 26. Successivamente si sono avuti due eventi importanti il 3 ottobre, di 5.1 ed il 7 ottobre, di 5.3
nella zona di Sellano. Infine è degna di nota la scossa del 3 aprile 1998 a Gualdo Tadino, di magnitudo 5.3.
La successione di eventi per diversi mesi ha costretto ad effettuare oltre centomila ispezioni per l’agibilità negli edifici e oltre tremila negli edifici di culto, entrambi reiterati 34 volte, a causa dei danneggiamenti o crolli conseguenti gli eventi stessi.
Il costo della ricostruzione, a tutt’oggi, per la Regione Umbria. (al 90-95%) si aggira sui
cinque-seimila milioni di euro.
Ma vediamo cosa è accaduto dopo il terremoto.
Innanzitutto un “nuovo” percorso di normativa tecnica. Ha dato il via il Dipartimento
della Protezione Civile con una serie di ordinanze (in realtà dopo il tragico evento sismico di San Giuliano di Puglia del 2002) che hanno introdotto criteri in parte già presenti (latenti) nella precedente normativa (obbligo dell’uso degli stati limite), in parte
“nuovi” (gerarchia delle resistenze) (fig.1). Successivamente il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha avviato un lungo (doveroso) processo per giungere ad una
prima stesura della normativa tecnica (nel 2005) ed una seconda (attuale) nel 2008, in
corso di approfondimento e revisione e comunque sostanzialmente in linea con i criteri
delle ordinanze precedenti. Quasi contemporaneamente il Ministero per i Beni e le Attività Culturali ha proposto delle “Linee Guida per la valutazione e riduzione del rischio
sismico del patrimonio culturale con riferimento alle norme tecniche per le costruzioni”,
poi divenute “Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri per la valutazione e la
riduzione del rischio sismico del patrimonio culturale con riferimento alle norme tecniche per le costruzioni”.
Contemporaneamente è stata sviluppata una nuova classificazione del territorio (fig. 2).
In realtà si è arrivati ad una definizione “puntuale” dell’accelerazione al suolo (‘peak
ground acceleration’ o Pga), necessaria per individuare uno spettro di progetto e a criteri
per una nuova classificazione, più o meno “importata” da tutti i governi regionali. Peccato che in molti casi non vi sia corrispondenza tra valori dell’accelerazione di progetto
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nel sito e classe sismica di appartenenza, con la conseguenza che ci si trova a progettare
con azioni diverse da quelle della zona di classificazione.
Poi una forte spinta al settore delle costruzioni (fatto ovvio) che ha portato le due regioni colpite (forse soprattutto l’Umbria, regione più piccola e meno “forte” come entrate
ordinarie) ad un rilevante sviluppo economico dopo il periodo di emergenza. Trascorso
il classico decennio di ricostruzione virtuosa, una crisi finanziaria globale ha piegato in
maniera drammatica il mondo intero, ridimensionando fortemente l’occupazione e lo
sviluppo industriale, tanto più in quelle zone regioni che avevano avuto una forte risalita
nel periodo immediatamente precedente come l’Umbria. Questa circostanza, peraltro
casuale, fa (e farà) risentire forti effetti in molti settori.
E’ bene ricordare viceversa due conseguenze “virtuose”.
La prima è che in Umbria ha preso sostanza un Centro Regionale per la Protezione Civile, con una sede principale a Foligno (fig. 3). Il centro è attivo ed ha una connotazione
particolare per la protezione dei beni culturali su scala più ampia (nazionale ed internazionale). Una sede distaccata, con un ambiente per il ricovero ed il trattamento in emergenza dei beni culturali ha sede a Spoleto.
La seconda è un ultimo tassello alla conoscenza e alla prevenzione sismica: furono avviate ricerche finalizzate (sia in Umbria sia nelle Marche) tese ad una migliore definizione del livello di protezione sismica dei beni, ad analizzare il comportamento sismico
dei sistemi urbani, a studiare sistemi innovativi per migliorare le prestazioni sismiche
degli edifici.
Ma che cosa avevano insegnato gli eventi sismici del 1997 ?
In primo luogo a non fidarsi degli interventi precedenti. L’Umbria era reduce dalle conseguenze del terremoto del 1979, fortunatamente meno disastroso e meno esteso, ma
che aveva avviato un processo di ricostruzione concettualmente virtuoso, ma con esecuzioni di interventi non sempre controllati ed efficaci (fig. 4).
Un insegnamento che gli esperti del settore conoscono bene, ma che viene spesso dimenticato in sede di programmazione, consiste nel valutare gli effetti di un evento sismico da parametri diversi (distribuzione delle repliche, profondità degli ipocentri, tipologie costruttive presenti, tessuto urbano ed economico-sociale), di cui la classica magnitudo non rende giustizia, limitandosi a rappresentare solo l’energia che viene scatenata dall’evento. Il terremoto del 1997 ha avuto effetti ben superiori a quello che la
semplice magnitudo avrebbe potuto far sospettare.
Gli interventi proposti per questa ricostruzione erano basati sul semplice concetto che
esistono poche operazioni essenziali e obbligatorie (e relativamente poco costose), soprattutto per eventi di media intensità (e relativamente frequenti), consistenti nella realizzazione dei collegamenti per le murature tradizionali (fig. 5) e nella migliore distribuzione delle tamponature per gli edifici in cemento armato(fig. 6). Tali interventi (nelle
murature, cioè la stragrande maggioranza del nostro patrimonio edilizio) sono generalmente compatibili anche con le esigenze di conservazione dei beni culturali.
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Il più grosso insegnamento, ovvio, ma tangibile, dimostrato dai fatti è stato forse avere
la certezza dell’elevato costo del recupero. E’ fatto noto da sempre che consolidare, recuperare, conservare costa più che demolire e ricostruire. Ciò ha posto in evidenza che
una ricostruzione come quella che è stata messa in campo in Umbria e Marche, con una
particolare attenzione ed incentivi premianti per la conservazione del patrimonio edilizio esistente, ha sviluppato certamente un costo maggiore per la collettività, ma a vantaggio dell’integrità del tessuto urbano e della storia dei centri (minori) presenti sul territorio. Quando si progetta ed esegue un recupero è frequente sentire l’accusa di sottovalutazione del problema stabilità, che, invece, sarebbe meglio garantito dalla nuova costruzione: nulla di più falso, visto che si possono ottenere risultati di resistenza altrettanto rilevanti. Certamente, non sempre si è vista la stessa attenzione nelle ricostruzioni
dopo terremoti in precedenza.
E’ servito a qualcosa tutto ciò ?
Sembrerebbe di no, vista l’evoluzione normativa che premia interventi molto raffinati
dal punto di vista numerico e dei calcoli di stabilità, ma troppo involuti e necessariamente contradditori nel dettaglio esecutivo. Insomma si deve badare troppo ai numeri e
si perde di vista spesso l’insieme dei problemi, negli edifici esistenti si trascura la necessità di un’analisi macroscopica dei cinematismi e meccanismi in atto, con il risultato
di dimenticare a volte le operazioni essenziali per la stabilità. Capita troppo spesso di
vedere progettazioni strutturali affidate pressoché interamente ai programmi informatici
di progettazione, necessari per lo sviluppo dei calcoli, ma inadatti per sostituirsi alle
analisi e scelte progettuali. A parte il “piccolo” particolare che i calcoli si affidano necessariamente a dati troppo spesso conosciuti in modo incerto o addirittura completamente ignoti (si pensi a i beni culturali con secoli di storia e di trasformazioni anche importanti).
Sembrerebbe di no, da un altro punto di vista, vista la scarsa attenzione che, nel terremoto de L’Aquila del 2009, è stata posta ai programmi di recupero dei centri storici (in
particolare quello del capoluogo). Naturalmente non si pone in discussione lo sforzo,
forse il primo in Italia, posto nell’esecuzione, rapidissima, di un rilevante numero di
edifici nuovi, con una protezione sismica all’avanguardia. Altrettanto impegno doveva
essere però profuso nel recupero degli edifici esistenti dei centri storici. Si tratta di una
questione di fondo, consistente nel valore della storia e della cultura (e della volontà popolare).
E infine, sembrerebbe di no, infine, se si continua a fronteggiare l’emergenza con contributi pubblici a totale fondo perduto, senza pensare ad una prevenzione (magari con
forme assicurative) che farebbe risparmiare vite umane, sacrifici e parecchi danni.
L’amarezza che si prova dopo un terremoto, per chi ne ha visti tanti, un po’ in tutto
mondo, deriva soprattutto dalla constatazione che spesso si fa fatica a trarre insegnamenti dalle esperienze precedenti e che la prevenzione non riesce ad avere la meglio
sull’improvvisazione e sulla politica d’immagine. Ma la speranza è l’ultima a morire e
si aspetta sempre che prevalga il buon senso e la logica delle cose, magari prima del
prossimo evento disastroso.
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