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FOGLI D'AUTUNNO S Massimo Bosco – Frammenti © 2016 - Massimo Bosco Proprietà letteraria riservata. Tutti i diritti riservati in tutto il mondo. Prima edizione, novembre 2016 Massimo Bosco Frammenti FOGLI D'AUTUNNO S INDICE 5 Introduzione 15 Corpi interrotti 25 Il signore dei vermi 29 La stanza dei bambini 35 La torre del cimitero 45 Il morto 49 Il treno 61 Una non storia sull'Amore, il Vuoto e il Buio 67 La tradizione del Balek in Epîstäfth 73 Un estratto dal Libro delle Duecento Verità 85 Un dialogo tra Nulla e Nessuno 89 Man Dragora 93 Proprio in quel momento una piccola stella fece capolino tra le fronde dell'albero 101 Una cena al Papadonprich 113 Escape 119 Non s'è padroni 123 Quid est Veritas, Claudia? 125 Il gnomo dei funghi caprini 133 Luysä 147 Il palumbro 153 L'elisir di corta vita 161 Moby Lick – ovvero, La balena nella scrittura di scena in un teatrare improvvisato nel cesso 165 Un miracolo sconosciuto 173 Un sogno 177 Una venuta di Ishtar 183 Il viaggio di ritorno 187 Una spremuta di Satanacchia 211 Resoconto rinvenuto tra le pagine di un libro 219 Da un antico manoscritto rinvenuto a Gôgne sur la Mére Pagina lasciata intenzionalmente vuota introduzione Un'introduzione? No di certo! Che la creatività debba necessariamente essere in relazione con l'eccellenza è un'idea che è stata portata avanti nel corso del tempo per le ragioni più disparate e che, nel secolo scorso, ha raggiunto livelli addirittura esasperanti. Un'idea che, tra l'altro, si è fatta via via sempre più ruffiana in ragione di un profitto economico che con la creatività, il pensiero e l'arte non ha nulla a che vedere. La rivoluzione informatica e l'accesso alla rete hanno cominciato a scardinare il “mito del successo” così come lo si è sempre inteso finora. Questo a vantaggio di uno spazio ideale condiviso, ricco di contenuti e accessibile a tutti, che promette di essere un potenziale serbatoio dal quale potrebbero scaturire i capolavori di domani. Quando nei primi anni novanta cominciai a battere lettere sulla tastiera di un home computer non avrei mai potuto immaginare come sarebbe cambiato il mondo nel corso di pochi decenni. I computer oggi sono ovunque e sono diventati degli strumenti eccezionali, ormai insostituibili, in tutte le attività legate alla creatività. Chiunque oggi può avere in casa uno studio 5 di registrazione, una postazione per il montaggio video e gli strumenti più avanzati per l'editing delle immagini. Tutto a portata di mano, tutto a costi accessibili. Grazie a questi mezzi è oggi possibile dare sfogo, in maniera più completa, a quell'impulso creativo che – anche se non sempre destinato a raggiunge i livelli più alti – rimane una necessità e un bisogno fondamentale per l'essere umano. Inoltre non è più nemmeno necessario cercare di “farcela” per vedere la propria opera pubblicata e distribuita: si fotta l'eccellenza! Questi nuovi potentissimi mezzi stanno infatti cambiando, per sempre, il modo d'intendere i processi legati alle opere creative e alla loro diffusione. Succede, di questi tempi, che una persona sia in grado di scrivere, editare e stampare il proprio libro senza nemmeno muoversi da casa. È semplicemente meraviglioso. Ma una cosa bisogna dirla. L'autore autoprodotto incontra tutta una serie di inconvenienti che non sono sempre semplici da affrontare: morto e sepolto l'editore chi si prenderà cura di cose come l'introduzione, le note biografiche, etc.? Nessuno. E nessuno è un tipo piuttosto taciturno. Si potrebbe pensare di optare per un conoscente compiacente, ma questo non accade quasi mai. Come fare, dunque? L'autore se le scrive da solo. E così facendo, l'auto-prodotto, spesso si lascia prendere la mano e ci racconta le meraviglie della sua vita, di come abbia conseguito questo o quel titolo di studio, di quanto siano stati buoni con lui i suoi parenti, dei suoi gatti, etc. Il tutto rigorosamente in terza persona e come se stesse raccontando le mirabolanti imprese del capitano Cook. Inoltre, sovente, non è impossibile 6 scorgere tra le righe indizi che lasciano intendere al lettore che l'autore sia persino un fottutissimo genio. Ovviamente incompreso. Quando poi il “terzapersonista” comincia a delineare i contorni della propria opera per la quarta di copertina (o altre parti descrittive accessorie), lì cominciano i dolori quelli veri. La categoria qui si suddivide in due sotto-categorie distinte: quelli che confondono il lettore con il delirio introspettivo – dal quale si evince che le idee sono poche e piuttosto confuse – e quelli che invece Dante li fa una sega! Insomma: scriversi l'introduzione da soli nel tentativo di creare un contenitore che sia esteticamente credibile è una cosa da cani. Si corre il rischio di abbaiare, e una scimmia senza coda che abbaia è inutilmente ridicola. Vedendo il desolante vuoto all'inizio del libro mi sono chiesto se questa mia opera – ovviamente suprema – avesse bisogno di un'introduzione. Un'introduzione? No di certo! A dire il vero non c'era bisogno nemmeno del libro, se proprio vogliamo dirlo. Ma un'introduzione? Che vuoi introdurre? Lui, il libro, s'è fatto da per sé, come dicono in quel di Rimini. Quindi niente introduzione. Ma se ci fosse stata ci avrei tenuto a precisare da qualche parte quanto segue. Se si è disposti ad accettare che i grandi, gli immortali, quelli che stanno nell' Olimpo, corrispondono al mito, si faccia lo sforzo di accogliere la volgare possibilità che i piccoli, gli sconosciuti, quelli che stanno infognati in un merdoso quartiere popolare, 7 corrispondano al cesso. Fatto proprio l'assioma, dunque, l'eventuale lettore terrà bene a mente che questo libro è una raccolta di frammenti senza pretese, scritti nella maggior parte dei casi proprio lì, in quello spazio che intercorre tra il pasto e il rotolone bianco. Ciò detto si spera che chi legge possa trovarvici almeno un pensiero, una suggestione, o anche solo una parola sulla quale fantasticare per un attimo. Sono convinto da tempo che la vita sia un'illusione e che la realtà non esista e, investigando con attenzione le opere immortali della letteratura, sono giunto alla conclusione che, probabilmente, solo i presupposti narrativi peculiari del genere horror e del grottesco permettano di dire la verità. Benché lo scrivere di Kafka – ad esempio – sia... strano? Demenziale? No: kafkiano, la sua scrittura è l'unica a essere conforme alla descrizione delle vicissitudini – del di dentro e del di fuori – che caratterizzano l'esperienza umana. L'horror e il grottesco si contrappongono al meraviglioso contenitore del grande romanzo classico che, seppur esteticamente ricco, non serba mai al suo interno fatti riconducibili alla reale esperienza dell'individuo; ne smentiscono quindi le illusioni, destinate a essere per sempre perdute. Essendomi trovato a dover lasciar scorrere le parole in modo spontaneo – senza intenti e senza troppa premeditazione – queste hanno autonomamente preso la strada del macabro, del grottesco e dell'ironia demenziale. E, se è vero che il risultato potrebbe ricordare il parlare biascicato e inconsistente dell'ubriaco, si tenga presente che certe cose si possono dire solo con la mente confusa dai fumi dell'alcool. 8 Un eventuale “qualcuno” potrebbe pensare: “sì, ma... duecento pagine?”. Già. Quando ho deciso di raccogliere in un unico volume tutta la produzione della stanza da bagno me ne sono meravigliato anch'io. Questo non può che suggerire che, se è vero che non è dato aver certezza della bontà dell'opera, quello che di certo si evince è che questa abbondanza grida a gran voce che l'autore non può che essere – e il lettore non ne dubiti – un gran cagone. E con questo anche le note biografiche sono al completo. Racconti scritti nel cesso da un ubriaco, quindi. Bene. Ed è opportuno condividerli con il mondo? Credo di sì. Del resto la decisione di concretizzare materialmente ciò che di creativo c'è in noi comprende per forza di cose una quantità innumerevole di persone; nemmeno il più ipocrita degli autori potrebbe negare che l'opera prende forma nel mondo materiale perché altri occhi la vedano e altre mani l'accarezzino. Non si danza mai da soli e, come dice Lovecraft, “nessuno danza da sobrio, a meno che non si tratti di un pazzo”. Le pagine che seguono sono quindi un invito. Un invito alla compagnia, all'ubriachezza e al non-pensare. Massimo Bosco 9 Pagina lasciata intenzionalmente vuota “Nessuno danza da sobrio. A meno che non si tratti di un pazzo.” – H.P. Lovecraft Pagina lasciata intenzionalmente vuota Massimo Bosco FRAMMENTI Pagina lasciata intenzionalmente vuota corpi interrotti Quando Sarah riuscì finalmente ad aprire gli occhi rimase perplessa. Sapeva di essere stata imprigionata nel peggior incubo della sua vita, aveva lottato per tornare alla luce, aveva lottato per svegliarsi ma c'era qualcosa che non andava. Per prima cosa riusciva a malapena a tenere le palpebre aperte: erano come incollate tra loro e sentiva un dolore pungente al bulbo oculare ogni volta che tentava di guardare il mondo di fuori. E poi era buio. Intorno a lei era tutto stranamente buio, silenzioso e alieno. Quella non era la sua camera da letto e questo la spaventava molto. Anche perché non riusciva a ricordare niente se 15 non di aver dormito tanto e di essere stata imprigionata nel vuoto eterno di un sonno senza sogni, dove la sua coscienza aveva lottato disperatamente per poter tornare al mondo reale. Ma la cosa di gran lunga peggiore era che non riusciva ad avere coscienza del suo corpo. Non lo sentiva, non... non riusciva a capire dov’era! Poi d’improvviso le palpebre si fecero di nuovo pesanti. Lottò a lungo per tenerle aperte ma alla fine dovette arrendersi e sprofondò nuovamente in quello strano sonno, mentre intorno a lei il buio e il silenzio continuavano ad abbracciare l’intero reparto di terapia intensiva dell’ospedale. *** Buio. Una. Due. Dieci, cento, mille mani cominciarono a battere sul vetro della finestra della camera da letto. Mani anonime a cui non corrispondeva un’identità. Mani senza corpi, mani di morti che dal buio della notte cercavano di entrare dentro per avere la loro vendetta sulla vita. Il tenente John J. Patatini si svegliò urlando. “Oddio, quando finirà? Ancora questo incubo…”, pensò mentre il sudore rigava la sua faccia grondando copioso dalla fronte. Ne aveva viste tante durante il suo trentennale servizio nella 16 squadra omicidi, ma una cosa così non sarebbe di certo mai riuscito nemmeno a immaginarla. Tante e tante volte aveva desiderato di non essere mai stato assegnato a quel caso. Era sempre vivo in lui il ricordo della sera in cui fu chiamato sulla scena del primo delitto del pianista. Lo shock che aveva provato nel vedere quel corpo non l’aveva mai più abbandonato. Quell’immagine era sempre davanti ai suoi occhi e, in particolar modo la notte, il ricordo prendeva vita e le forme e i colori pulsavano, lasciando intravedere nuovi orrori e nuove paure. Il pianista era un soprannome fin troppo elegante per un serial killer così spietato. Quello che faceva alle sue vittime era qualcosa di mai visto. Operava il pianista. Creava. Modificava i corpi delle vittime! Modellava su di loro forme da incubo che dimostravano lo sfacelo di una mente che, di umano, non aveva niente. E, per qualche ragione, le mani dovevano essergli di troppo nella realizzazione delle sue opere: a tutte le vittime erano state amputate e si trattava delle uniche parti del corpo che, sistematicamente, non venivano mai ritrovate. Le mani: per questo i giornali lo soprannominarono “il pianista”. Il tenente Patatini aveva pensato più volte di abbandonare il caso, ma in qualche modo era sempre riuscito a trovare la forza di andare avanti, se non altro per le vittime. Ora, finalmente, dopo 17 cinque anni di atroci omicidi c’era stata una svolta inaspettata. Un sopravvissuto, quella che sarebbe dovuta essere la ventiquattresima vittima: Sarah Scammell. *** Luce. Per chiunque altro quella era la solita mattina grigio-verdognola con le strade sovraffollate di macchine, ragazzini che andavano a scuola e uomini in doppio petto che correvano a passo lungo verso il loro posto di lavoro. Ma Patatini sapeva che non sarebbe stata una giornata qualunque. I giornali ancora non sapevano nulla, ovviamente. Questo garantiva quella libertà di movimento, e quella tranquillità interiore, necessarie per riuscire a fare il punto della situazione a mente lucida e condurre l’investigazione nel migliore dei modi. L’SMS di Johnsson diceva: “Sarah Scammell si è risvegliata dal coma”. Era una giornata speciale, e lui era uno dei pochi a saperlo. Durante il tragitto in macchina verso l’ospedale Patatini rimase in silenzio tutto il tempo. Johnsson, che era alla guida, ogni tanto gli buttava un’occhiata di traverso ma lui rimaneva immobile 18 con lo sguardo perso verso l’infinito. Era teso. Tesissimo. E proprio l’apparente assenza di segnali esterni lasciava intuire che la sua ansia era alle stelle. Qui si sarebbe giocata tutta la sua carriera, e lui lo sapeva benissimo. Sarebbe potuto essere un enorme fallimento oppure l’occasione della sua vita, sia a livello professionale sia per ridare la pace alle povere vittime che, da anni, tormentavano i suoi sogni implorando giustizia, battendo le loro mani di morto sul vetro della sua camera da letto. La partita a scacchi era dunque arrivata alla fine e ci sarebbe stato un solo vincitore. Di questo ne era certo Patatini. E invece no. Le cose non andarono affatto come aveva sperato, e nemmeno come non aveva sperato. Quando finalmente entrò nella stanza della povera donna fu subito colto da un brivido di terrore. Qualcosa era incredibilmente sbagliato. Era peggio delle altre volte; molto peggio. Sebbene coperto dal lenzuolo, quel corpo suggeriva forme che l’essere umano non dovrebbe mai scorgere; perché non erano umane, così come non poteva essere umano il suo creatore. E poi lei, a differenza di tutte le altre vittime era viva, e questo aggiungeva un qualcosa d'innaturale in quella situazione che trasmetteva un forte senso di morte. Era tutto estremamente drammatico e difficile da metabolizzare a livello psichico. Patatini poteva sentire la tensione corrergli lungo 19 le braccia, le gambe e la spina dorsale. Gli sembrava quasi di sentirne l’odore, mischiato a quello orribile dell’ospedale: un miasma morboso di pelle sporca, malata e impomatata. Si avvicinò al letto: Sarah aveva gli occhi chiusi, sembrava dormire ancora. Patatini rimase immobile per un po’, poi decise di guardare sotto il lenzuolo. Lo sollevò lentamente, fino a scoprire tutto il corpo e la visione, quella visione!, si mostrò ai suoi occhi. Si portò una mano alla bocca per non urlare. Le braccia erano state asportate e ricucite al contrario, una al posto dell’altra. Se ne stavano lì con il gomito piegato quasi a novanta gradi ma dalla parte sbagliata. Ovviamente le mani erano state amputate e, al loro posto, erano stati impiantati dei prolungamenti ossei. Sembrava uno di quei lunghi insetti filiformi con gli arti superiori sproporzionati rispetto al resto del corpo. Successivamente fu stabilito che si trattava delle ossa delle gambe, tibia e perone per la precisione; erano state asportate, lavorate e adattate per essere impiantate negli avambracci. Le gambe, dal ginocchio in giù, non c’erano più, e la parte superiore era stata storpiata in tal modo da tenerle in posizione sempre aperta. Un prolungamento di carne univa la parte esterna della coscia ai fianchi, come la membrana delle ali di un pipistrello. E poi… poi c’era la cosa peggiore di tutte: le dita. Tante, tantissime dita che il pianista aveva 20 pazientemente collezionato in quegli anni, e che ora facevano bella mostra di sé spuntando dal tronco della donna, dove erano state impiantate a centinaia! Patatini sentì che la follia si stava impossessando della sua mente. Cominciò a ridere in modo isterico. Cose del genere le aveva viste solo di sfuggita nei film horror di serie B. Proprio per questo la sua coscienza gli diceva che quella era sì una visione così estrema da poter essere considerata ridicola persino da un autore horror degno di questo nome ma, allo stesso tempo, era cosciente che quello che stava vedendo era reale, e questo creava una frattura insanabile nella sua mente. Ciò che non sarebbe dovuto essere e ciò che invece era manifesto davanti ai suoi occhi non avrebbero dovuto condividere lo stesso spazio e lo stesso tempo. Quella cosa non avrebbe dovuto essere lì, sotto i raggi del sole del buon Dio. Quello che avvenne dopo fu una questione di pochi secondi. Mentre lui era paralizzato dal terrore e sull’orlo dell’isteria Sarah aprì leggermente gli occhi. Sebbene non fosse in grado di aprire completamene le palpebre quello che riuscì a vedere, complice la testa sollevata verso il corpo dai cuscini, fu sufficiente. Il corpo interrotto, che la notte prima non riusciva a sentire e a localizzare, era ora davanti a lei. Vide 21 quell’abominio e vide che era attaccato a lei. Vide che quella cosa era lei! Dalla sua bocca orribilmente mutilata, nella quale il maniaco aveva impiantato delle lunghe zanne ricavate da altro materiale osseo prelevato dalle gambe, uscì un urlo che nessun orecchio umano dovrebbe mai sentire. Patatini rimase paralizzato dal terrore. Ebbe l’impressione che il suo cuore avesse smesso di battere e, per alcuni interminabili secondi, la vista gli mancò. Quando tornò a vedere fu anche peggio: davanti ai suoi occhi quel corpo si dimenava in un modo osceno, seguendo linee e disegni anatomici che potevano appartenere solo all’inferno. E mentre quella cosa mostruosa continuava a gridare a delle tonalità bestiali, dimenando verso l’esterno la lingua divisa a metà come quella di un rettile, centinaia di dita si muovevano, dritte sull’addome della donna, come campanellini magici che sembravano volerlo invitare a seguirli verso l’abisso da dove quell’orrore era venuto. Fu un attimo. La mano di John Patatini scivolò lungo il fianco. Un istante dopo la canna della pistola cominciò a sputare fuoco in direzione della vittima che ora, purtroppo, incarnava l’essenza del male più oscuro che si possa immaginare. Tutto ciò che di più spaventoso poteva esserci stato nella mente del pianista viveva ora nella sua creazione più mostruosa: il suo male aveva preso forma per 22 incarnarsi nelle sue opere; attraverso queste aveva tentato di volta in volta di liberarsene, aveva cercato di lasciarlo scivolare verso l’esterno. Voleva allontanarlo da sé. E forse, questa volta, era riuscito per davvero nel suo intento. La canna della pistola fumava ancora. Quella cosa che una volta era stata Sarah Scammell se ne stava lì, immobile, con la faccia spappolata da mezzo caricatore: aveva finalmente smesso di urlare. Patatini sentì di aver fatto la cosa giusta, sapeva che il suo era stato un gesto di pietà e redenzione. Sapeva che quella era l'unica cosa possibile. Un istante dopo girò la canna della pistola verso sé stesso e fece fuoco. Quello fu l’ultimo crimine commesso dal pianista. 23 Pagina lasciata intenzionalmente vuota il signore dei vermi Fu come riemergere da un’interminabile apnea. Gli addominali si contrassero in uno spasmo dolorosissimo e, mentre a bocca aperta tirava su tutta l’aria che poteva, si ritrovò seduta con le natiche sul pavimento gelido. Gli occhi erano spalancati dal terrore, la bocca contorta in una smorfia orribile; le mutandine bagnate: si era pisciata addosso. “Mi hanno tagliato la gola, mi hanno tagliato la gola!”. Lo pensava più forte che poteva, ma dalla sua bocca riusciva a emettere solo qualche suono gutturale. I suoi polmoni risucchiavano grandi quantità d’aria, alimentati da degli spasmi compulsivi che non era in grado di controllare. 25 “Mi hanno tagliato la gola, e mo che faccio? E perché non sono morta? Perché non muoio!?”. Mentre formulava questi pensieri in preda all’agitazione un luccichio colpì il suo occhio. La punta di un enorme coltello abbandonato sul divano piangeva lacrime di sangue che correvano veloci lungo la lama scintillante. Per terra c'era una grossa pozza di sangue. Tracce di lotta. Poco oltre segni di trascinamento. Le sembrò di ricordare qualcosa, immagini confuse e sfuocate. Si alzò senza spostare lo sguardo dal divano rosso e dal coltello ancora più rosso. Si alzò e andò verso il divano, e mentre osservava meglio la lama un altro flash attraversò la sua mente, che lentamente si stava riprendendo dallo shock. Spostò lo sguardo verso il sangue e portò istintivamente le mani alla bocca. Seguì poi con gli occhi le due scie che partivano dalla pozza, lasciò quindi scivolare lentamente le mani sulla gola, la tastò e rise. I soliti problemi notturni, il solito incubo: la sua gola andava benone. Era quella di lui che invece non andava affatto bene! E mentre osservava il corpo alla fine della scia di sangue la risata divenne prima isterica, poi liberatoria e infine satanica. La vista della testa mozzata adagiata sul tavolo da pranzo le fece tornare d’improvviso la memoria. “Bastardi!”. Aveva fatto bene, dopotutto era giusto così, si disse: finalmente poteva essere di nuovo libera. Sarebbe stata di nuovo giovane, 26 ancora una volta. Doveva solo sbarazzarsi di quello che rimaneva di quell’imbroglione che le aveva portato via tutto. E dei capelli bianchi. Doveva sbarazzarsi anche di quelli. Fece il punto della situazione e prese una decisione: avrebbe finito di tagliare il resto del corpo come già aveva fatto con la testa. E infatti così fece, con metodo, dedizione e impegno. Ci fu poi un bagno purificatore nella vasca. Strappò via anche i capelli bianchi che riuscì a trovare. A mani nude. Il rituale funzionò: dentro di sé sentì di aver perso almeno dieci anni. Postò qualche selfie su internet. Un brivido le accarezzò l’inguine quando vide che quasi in tempo reale l’americano aveva messo “mi piace” alle sue foto. La gioia divenne per un attimo isteria perché sentì che qualcosa le sfuggiva, che la realtà che avrebbe voluto intorno a sé non poteva essere subito lì a portata di mano. Poi venne la tristezza. Rimase con lo sguardo fisso verso un punto indefinito e una voce nella sua testa le parlò: era quella di sua zia. La voce di sua zia che quando aveva ancora sedici anni le diceva preoccupata: “Quanti sono Samantha? Promettimi che la smetterai. Queste povere creature Samantha… Devi fare più attenzione quando…”. Ma ritornò presto in sé: aveva del lavoro da compiere. Decise di sotterrare il mostro vicino a dove aveva sepolto gli altri due la sera prima: quello piccolo e quello 27 più piccolo ancora. I bambini insomma. Sei e quattro anni. Stipò in qualche modo tutti i pezzi dentro la buca e poi la ricoprì. Per un attimo pensò che se solo l’americano fosse stato lì con lei sarebbe stato più facile. Ma filò tutto liscio comunque: nessuno l’aveva mai cercata, e questa volta non sarebbe stata diversa dalle altre. Era sempre andata bene. Il signore dei vermi, benedetto, avrebbe fatto il resto. Le avide radici degli alberi, forse, anche di più. 28 la stanza dei bambini Quando io e mio marito decidemmo di comprare la casa sulla collina la scelta fu motivata soprattutto dalle nostre limitate possibilità economiche. Ci sarebbero state tante buone ragioni per non comprarla: si trovava in un luogo abbastanza isolato; benché fosse di costruzione recente non dava l'impressione di essere una casa costruita secondo tutti i crismi; per accedere a qualsiasi tipo di servizio era necessario spostarsi con la macchina. Ma la casa in sé non era poi così male, e volendo cercare delle motivazioni positive sull'opportunità di vivere in quel luogo le si poteva trovare esattamente dove qualsiasi considerazione 29 negativa aveva avuto origine: sarebbe stato rilassante vivere in quel luogo lontano dalla città; eravamo a contatto con la natura; potevamo godere del bellissimo lago che si trovava a poche miglia di distanza. E poi la casa era grande e, soprattutto, costava dannatamente poco. Passammo i primi sei mesi a sistemarla a dovere. Scegliemmo con cura l'arredamento per ogni singola stanza, i colori delle pareti, decidemmo la disposizione delle camere. Solo la stanza dei bambini rimase vuota: il compito di decidere come dovesse essere arredata spettava a me. Per me questa era una cosa molto importante. Mio marito lo sapeva e io l'ho sempre amato per quel suo modo sottile di comprendere e assecondare le mie necessità. Anche in quell'occasione mi lasciò fare. Avevo ovviamente scelto quella zona della casa, l'arredamento, il materiale dei mobili e tutti gli oggetti e i tendaggi, in modo tale che l'ambiente fosse salutare per i bambini. In particolare mi spaventava l'idea dell'umidità che, a quanto pare, non aveva risparmiato le altre stanze. Erano presenti infatti delle evidenti infiltrazioni che formavano delle orribili macchie di muffa sui muri. Per questa ragione li feci trattare con una vernice specifica. Mi assicurai anche che la temperatura fosse sempre costante: ai bambini facevano male gli sbalzi termici; era una cosa che 30 dovevo scongiurare ad ogni costo. A quanto pare riuscii egregiamente nel mio intento. In capo a tre settimane avevo finito di sistemare ogni cosa a dovere e la stanza dei bambini era finalmente pronta. Era perfetta, così come l'avevo immaginata la prima volta tanto tempo prima. Era esattamente come doveva essere. Dopo un periodo passato con noi in camera da letto li trasferimmo nella loro stanza. Era tutto perfetto e io, finalmente, mi sentivo felice. Mi sorpresi persino a pensare che dopotutto quella casa non era stata una cattiva scelta. Piano piano stavo imparando ad amare quel luogo. Mi sentivo realizzata come madre e forse, per la prima volta nella mia vita, anche come donna. Sentivo che dopo tante difficoltà potevo finalmente abbandonarmi alla felicità. All'improvviso però si presentò un problema inaspettato: i ragni. Erano dappertutto. Si potrebbe tranquillamente dire che la camera dei bambini ne fosse infestata! Quando per la prima volta notai le infinite trame delle loro ragnatele, nell'angolo della stanza meno esposto alla luce del sole, mi venne quasi un colpo. I ragni sono brutti, schifosi e pelosi. Ma sono anche degli abili ingegneri: freddi, calcolatori, intelligenti e velocissimi nel realizzare i loro progetti. Infatti più ragnatele toglievo più ne trovavo. Ogni giorno, ogni santo giorno, nella stanza dei bambini c'erano 31 una, due, dieci nuove ragnatele. E se in principio la cosa era limitata agli angoli più nascosti, ben presto i ragni allargarono il loro dominio su tutta la stanza: mensole, giocattoli, libri; persino tra le zampe del cavallo a dondolo ne trovai una, gigantesca e costruita in capo a una notte. Diventò ben presto un'ossessione per me: ogni mattina andavo a controllare e ogni mattina potevo solo constatare, con orrore, che l'opera dei ragni continuava senza sosta. Avevo già avuto problemi con i ragni anche nelle altre case, ma mai così. Sviluppai ben presto una specie di sesto senso e cominciai ad avere l'impressione che qualcosa strisciasse nel cuore della notte. Strisciava sui pavimenti, sui muri, sui mobili. E poi sentivo chiaramente quel ticchettio. Il ticchettio delle loro zampe sul parquet, sulle pareti, sui vetri delle finestre che scalavano per arrivare fino al soffitto, per tessere e tessere ancora e senza sosta. Erano i ragni, a centinaia, forse migliaia. Lavoravano come dei pazzi, forsennatamente. Filavano le loro trame e tramavano senza sosta il loro odio contro di me. Minacciavano la mia felicità bisbigliando cose oscene nella notte, mi accusavano, mi incolpavano. Mi legavano coi loro fili argentati, tenendomi prigioniera di ricordi che potevo vedere riflessi nell'oscura profondità di quegli occhi neri, che otto alla volta tutto vedono e tutto sanno. Alla fine cedetti psicologicamente ed ebbi un 32 crollo emotivo e nervoso. Mi mancarono le forze. Fui costretta a letto per molto tempo: presa da una febbre misteriosa che mi pungeva fin dentro al cervello non potevo più alzarmi. Non potevo più distruggere l'opera di quegli orribili esseri che immobilizzando la loro preda la congelano nel tempo; la avvolgono con il loro filo appiccicoso che tutto trattiene, trasformandola nella rappresentazione di colpe antiche come l'uomo. E questo è il motivo per cui, alla fine, hanno vinto loro. Quella mattina aprii la porta della stanza dei bambini, i miei bambini. L'umidità aveva rovinato molte delle cuciture, soprattutto intorno al collo e sui polsi. Le ragnatele erano su di loro e come dei bianchi sudari li ricoprivano completamente. Erano nei loro nasini belli, nelle loro piccole orecchie, fin dentro le loro bocche. Persino sulle loro labbra un po' appassite dal tempo ma ancora belle, dottore, e che da ormai tredici anni non smettevano di ridere perché io, la loro mamma, avevo donato loro l'eterno sorriso quando dopo l'incidente con il coltello avevo deciso di imbalsamarli! 33 Pagina lasciata intenzionalmente vuota la torre del cimitero Era indubbiamente una di quelle tranquille sere di... ho avuto l'impressione di sentire un suono. Proprio fuori dalla mia porta, come se qualcosa grattasse... Ad ogni modo: era una di quelle tranquille sere di metà giugno, dicevo. Una di quelle in cui un leggero venticello si alza da oltre il fiume a mitigare il caldo afoso provocato da un'incessante giornata di sole. Fu in quel momento che John Barrymore, giovane medico di Ilkeston, figlio del compianto reverendo Barrymore, si ritrovò senza sapere bene come a passeggiare lungo il muro di pietre del vecchio cimitero di Derby. 35 Adesso non è di certo il caso di annoiare il lettore ricordando le innumerevoli storie legate a questo singolare luogo... come ad esempio quella dei bambini. In pieno inverno venivano visti giocare a rincorrersi con indosso solo delle sottili tuniche bianche. Una volta scorti rimanevano immobili con lo sguardo fisso sul testimone oculare di turno che, con sua grande sorpresa, non poteva far altro che constatare come il bianco di quelle tuniche pareva confondersi con quello della neve (o della nebbia!), fino a diventare un tutt'uno con essa. Infine ne veniva completamente assorbito fino a sparire, senza lasciare traccia alcuna né delle tuniche, né dei bambini. Oppure la storia della simpatica vecchina con il cesto di vimini che, con fare cordiale, rivolgeva un saluto all'ignaro passante inclinando leggermente la testa al suo indirizzo. Questi non poteva far altro che strabuzzare gli occhi nel vederla proseguire il suo cammino all'interno di una delle torrette che sorgevano ai quattro angoli del cimitero. Passando letteralmente attraverso le mura lasciava cadere a terra il cesto di vimini con il suo innominabile contenuto che, a quel punto, veniva svelato al malcapitato testimone. Ma, appunto, queste sono altre storie, infarcite tra l'altro di tutti quei fronzoli suggeriti dalla diceria popolare e dalla superstizione che non possono che indurci a dubitare fortemente sulla 36 loro veridicità. Ma il resoconto del dottor Barrymore, così come è giunto fino a noi, è sicuramente un'altra cosa. Se non altro per la stima e la credibilità che vengono attribuite a questo gentiluomo. Egli era solito andare alla ricerca di antichi luoghi caratteristici che potessero trasmettergli quella piacevole sensazione che gli veniva dal contatto con tutto ciò che era antico. Quella sera, dopo un lungo peregrinare, si ritrovò appunto nei pressi del cimitero di Derby. Fu subito attratto dalle torrette poste ai quattro lati del campo santo e dal vecchio muro di cinta, visibile anche in lontananza. Costeggiò per un breve tratto una parte del muro in pietra parzialmente ricoperto dal muschio; si fermò quindi per un attimo ad osservare l'inusuale merlatura della torre sud, poi proseguì il suo cammino fino ad arrivare al vecchio cancello in ferro battuto. Diede un'occhiata dentro al cimitero e non poté fare a meno di notare tutta una serie di vecchie lapidi consumate dal tempo le cui iscrizioni erano di sicuro interesse per un amante delle antichità come lui. Spinse il vecchio cancello per entrare a dare un'occhiata all'interno. Si diresse verso quelle vecchie lapidi che avevano destato la sua curiosità, ma ben presto la sua attenzione fu attratta da qualcosa di decisamente inusuale: il suo sguardo si posò ancora una volta 37 verso la torre sud. Da una piccola apertura che fungeva da finestra sembrava provenire un'insolita luce. Pareva decisamente la luce flebile e tremolante di una candela e, inoltre, la porta che dava accesso alla torre sembrava leggermente socchiusa. Il dottore si avvicinò lentamente alla torre. Cercò di sbirciare dentro dalla finestra ma questa era troppo in alto, così andò verso la porta che, in effetti, era socchiusa. Attraverso l'apertura ebbe la conferma che all'interno la torre era illuminata; allungò la mano per aprire la porta ma per qualche ragione si sentì obbligato a bussare. Dopotutto, pensò, poteva benissimo succedere che la torre venisse usata come una sorta di capanno porta attrezzi dal guardiano del cimitero. Poteva altresì accadere che questi si trovasse al suo interno proprio in quel momento. Quindi bussò e ribussò una seconda volta per sicurezza, senza però ottenere alcuna risposta. Spinse allora la porta e in punta di piedi entrò dentro. Si ritrovò in un ambiente spoglio, freddo e buio eccetto per quell'angolo rischiarato dalla luce della candela che, come poté constatare, era infissa su una bugia a “chiodo” posata su un vecchio tavolo in legno massiccio. Si guardò intorno e, a mano a mano che i suoi occhi si abituavano all'oscurità, notò con suo grande stupore che al lato opposto rispetto alla tavola di legno c'era una specie di catafalco sul 38 quale poggiava, aperta, una vecchia cassa da morto. Per un attimo ebbe un sussulto poi si ricordò di essere un medico, un uomo di scienza e un intellettuale e, dopo essersi sistemato il panciotto con un vigoroso strattone, riprese il suo contegno. Cercò di scorgere qualche altro particolare negli angoli più nascosti di quella stanza umida e ammuffita quando l'occhio gli cadde nuovamente sulla vecchia tavola in legno massiccio. Sopra solo ora poteva vederlo - c'era appoggiato un antico manoscritto arrotolato! Possibile? L'afferrò e lo esaminò velocemente poi, d'istinto, ruppe il sigillo che lo chiudeva e lo srotolò. Fece giusto in tempo a vedere che la vecchia pergamena sembrava redatta in inglese antico quando un rumore improvviso, amplificato per cento volte dall'eco presente nella vecchia torre, lo fece letteralmente saltare dallo spavento! Si voltò verso la porta e vide davanti a sé la sagoma di un uomo gigantesco con la mano davanti alla bocca dalla quale, un attimo prima, era esploso quell'inaspettato colpo di tosse. Superato lo spavento per quella presenza inattesa, il povero dottore – persona educatissima e degna – si sentì in terribile imbarazzo. Capì immediatamente che il nuovo ospite doveva per forza di cose essere il “padrone di casa”. Forse il guardiano del cimitero, pensò, o 39 forse il proprietario della torre, che evidentemente veniva ancora utilizzata come tomba di famiglia. – “Buonasera, sono il dottor Barrymore di Ilkeston. Le chiedo scusa per l'intrusione...”, disse scrutando con incertezza il volto dell'uomo, appena illuminato dalla debole luce della candela. “Stavo visitando il cimitero quando ho notato che la porta della torre era aperta e mi sono permesso di entrare”. L'uomo, quell'uomo gigantesco, non disse una parola. Distolse lo sguardo dal dottore e mosse qualche passo, lento ma sicuro, in direzione dell'antico tavolo. – “Oh, questo è suo immagino”, disse il dottore allungando la mano nella quale stringeva ancora il manoscritto. L'uomo si voltò, lo guardò e annuì con un gesto del capo. Ora che si trovava vicino alla luce della candela l'aspetto dell'ospite silenzioso era ben visibile. Il dottore non poté fare a meno di notare come gli abiti che indossava risultassero fuori moda da almeno qualche centinaio di anni. Ma la cosa che lo colpì maggiormente era il pallore di quel volto incorniciato da una folta barba bianca. Era un uomo di statura imponente, con delle spalle molto larghe e un portamento austero ma con un nonsoché di regale. – “Non si preoccupi, dottore”, disse finalmente l'uomo. “Capisco benissimo e la prego di non 40 sentirsi in imbarazzo”. Il dottore si sentì finalmente sollevato e, aldilà dell'aspetto severo, poté constatare che il suo ospite era una persona posata e per bene e così osò chiedere, con le cautele richieste dalla buona educazione, quale fosse il suo nome. – “Davvero non mi conoscete?”, disse l'uomo sollevando appena le folte sopracciglia grigie in segno di stupore. “Credevo che aveste già dato un'occhiata a quel vecchio manoscritto...”. Il dottore, incuriosito, srotolò nuovamente la pergamena e la esaminò con più cura avvicinando a sé la candela per vedere meglio. Dopo un'attenta analisi constatò che il vecchio manoscritto, redatto in effetti in inglese antico, era un documento ufficiale del governo che portava in calce il sigillo reale di sua maestà la Regina in persona. Lo stupore del dottore fu immenso: – “Questo documento è antichissimo!” – “Si, lo è”, disse l'uomo. Il dottore proseguì la lettura e ben presto si rese conto che si trattava della sentenza con la quale sir William Parker, ammiraglio della flotta reale inglese, venne condannato all'incarceramento a vita con l'accusa di alto tradimento. Il suo stupore aumentava sempre di più, e non di meno la sua 41 incredulità data l'importanza storica del documento che teneva tra le mani. Il manoscritto continuava descrivendo le due pene accessorie che dovevano essere inflitte all'ammiraglio Parker: la pubblica gogna e la lettera “T” marchiata sul braccio come simbolo d'infamia per il suo tradimento. Il dottore stringeva ancora fra le mani quel prezioso documento quando si ricordò che il suo ospite gliel'aveva indicato alla sua richiesta di sapere il suo nome. Alzò la testa verso l'uomo misterioso e sorrise: – “Suvvia, non vorrà farmi credere che lei è l'ammiraglio Parker?”. L'ospite annuì con un segno del capo. “Ma è ridicolo!” – disse il dottore. L'uomo divenne buio in volto al ché il dottore aggiunse: “Bene, allora me lo dimostri!”. L'ospite tirò lentamente su la manica del suo abito e girò l'avambraccio verso l'esterno. Era ben visibile un tatuaggio. Il tatuaggio con il simbolo dell'infamia: la lettera “T” di traditore! – “Ma non è possibile!”, disse il dottore con un sorriso incerto dipinto sul volto. “Se lei fosse l'ammiraglio Parker significherebbe o che lei è un pluricentenario oppure che è un fantasma. Sono un medico e le posso garantire che i fantasmi non esistono e che un uomo morto è un uomo morto! 42 O vuole forse farmi credere che i morti parlano?”, aggiunse in tono ironico. – “Assolutamente!”, disse l'uomo, “E le assicuro, caro dottore, che non è detto – oh, non è per niente detto! – che un morto non possa persino mordere!”. Dopo aver pronunciato queste parole saltò sul catafalco con fare deciso e si distese in quella che doveva dunque essere la sua bara. Prima di tirare a sé il coperchio con decisione guardò dritto negli occhi il dottor Barrymore e, con un tono intimamente ironico aggiunse: – “Non è detto che un morto non possa mordere, dottore, anche se diversamente da prima questa volta, forse, le risparmierò la dimostrazione pratica...”. Il giovane dottore fece giusto in tempo a sentire il tonfo sordo del coperchio della bara che si richiudeva davanti ai suoi occhi, prima di cadere svenuto a terra. 43 Pagina lasciata intenzionalmente vuota il morto Il terrore e la paura che provai quando il morto irrigidì la sua mano, come in un estremo saluto da un gelido altrove che da sempre terrorizza e fa gelare il sangue ai vivi, fu secondo solo alla pelosa sorpresa che ne seguì. Un piccolo ragno, nero come la notte, si fece strada attraverso le sue labbra viola. Liberatosi dalla sua improbabile tana fece qualche movimento trascurabile. Andò poi a posarsi sul mento del morto e se ne stette lì immobile, come una parola indecifrabile e impronunciabile che, nell’attimo estremo, si incarna e scivola fuori come un rivolo di bava, a completare segretamente la ragnatela confusa della vita. 45 “Cosa hai visto signor morto? Cosa ti fa freddo?” – pensai. “È il nulla che da forma a ciò che ci ostiniamo a chiamare tutto? È la notte eterna?”. L’odore dell’ammoniaca, al quale non sarei mai riuscito ad abituarmi – almeno questo è quello che pensavo allora –, mi pungeva le narici e si faceva strada fin dentro al cervello. Girai il cadavere. “Hai visto iddio? Il Diavolo ha chiesto conto dei tuoi debiti?” – inutile: non me l’avrebbe mai detto e lo sapevo. E se l’avesse fatto sarebbe stata un’ignobile menzogna, una storia grottesca ed esagerata di quelle che raccontano i marinai: la sua pelle tatuata aveva infatti parlato per lui e l’aveva tradito. Ma tra storie di mare, passioni e ammonimenti, la pelle del morto mi comunicò un ultimo mistero. Per chissà quale motivo la mia attenzione fu attratta da un tatuaggio insignificante sulla sua spalla sinistra. Non aveva nulla di speciale, non era colorato come gli altri, ma nella sua essenzialità risultava ermetico. Una lettera. “È dunque questo il segno del Diavolo, morto? È a lui che hai consegnato l'anima quando la corda s’è stretta intorno al tuo collo?”. Lo rigirai ancora una volta e preparai gli strumenti. Stavo per lasciare il campo della speculazione per tornare a essere ciò che veramente ero: un uomo di scienza. Iniziava, ancora una volta, la mia fredda analisi nei 46 segreti del corpo umano. Ma la consapevolezza che c’era qualcosa che non avrei mai potuto sezionare con il bisturi, tagliare con la forbice, od osservare con gli strumenti ottici, mi dava un senso d'impotenza ed estremo imbarazzo. Non avrei mai saputo a quali ricordi era associato quel tatuaggio; non avrei mai saputo a quale ideale, a quale città o a quale persona era appartenuta quell'iniziale. Soprattutto non avrei mai saputo quante volte il suo cuore aveva battuto di passione, se avesse vibrato di nostalgia per la sua terra lontana o quanto avesse amato quella donna con tutta la sua anima. In verità ero divenuto cosciente del fatto che tanto più scavavo dentro quel corpo, quanto più lo facevo a pezzetti, tanto meno avrei saputo. Iniziai ad incidere il torace mentre il mio occhio, fuori dal mio controllo, continuava a fissarsi sulla lettera S. Quello che imparai quella volta è che tutto ciò che possiamo sapere è che non possiamo sapere tutto. 47 Pagina lasciata intenzionalmente vuota il treno Il treno scivolò senza intoppi nella galleria e, mentre veniva morbidamente inghiottito da quelle calde tenebre, sputacchiò una spumosa nuvola di vapore bianco come la neve. Aveva decisamente avuto ragione il capotreno Digson: non era stato difficile, e non c'era stato proprio nulla da temere. Fino a quel giorno non avevo mai avuto a che fare con nessun treno; ne avevo sempre avuto un po' paura. Ma adesso che avevo superato la mia prima galleria non vedevo l'ora di ripetere quell'esperienza il più presto possibile. Mi piaceva quella sensazione di calcolato mistero che si prova nel buio del tunnel. E mi piaceva l'improvviso sbalzo di temperatura che gela per un attimo il volto, non appena la locomotiva penetra l'umida montagna. E poi c'era 49 quella sensazione di appiccicaticcio che ti rimane addosso, che tira la pelle della faccia come una carezza paterna, decisa ma carica di rassicurante affetto. – “Quando ci sarà la prossima galleria, capotreno Digson?”, chiesi. – “Dunque, vediamo Miss Arch. Abbiamo appena superato Brighton. La prossima sarà quella prima di Hove, tra circa quindici minuti.” Bene. Nell'attesa finii di scrivere e rileggere alcune cartoline. Una era indirizzata al signor Dungworth, un bel giovanotto che all'epoca – lo confesso! – mi piaceva non poco e all'indirizzo del quale molte passerotte cinguettavano felici. Ma allora ero molto timida e non osai mai neppure pensare di potergli piacere. Solo molti anni dopo, grazie alle confidenze di Miss Talback, venni a sapere che anche lui provava un certo interesse nei miei confronti. Ma tant'è: per qualche ragione lui non si risolse mai nel dichiararsi e finì per sposare una certa miss Penelope Penslow. Da allora non lo rividi mai più. Stavo giusto finendo di inumidire il francobollo per la cartolina del signor Hermann Krapp di Lipsia quando la porta dello scompartimento si aprì all'improvviso: era il capotreno Digson che mi avvisava che eravamo prossimi ad attraversare la galleria di Hove. 50 Tutta eccitata lasciai lì le mie cose e uscii dallo scompartimento. Mi recai verso il finestrino di servizio vicino alla toilette che il signor Digson, molto gentilmente, mi aveva riservato. Osservavo l'enorme locomotiva che curvava mentre, come la volta prima, veniva inghiottita da quel buco nero, spalancato verso il cielo come un'orrida bocca che nasconde profondi segreti e innominabili misteri. Ma questa volta il mio corpo venne attraversato da uno strano brivido, e per qualche ragione mi ritrovai in preda al panico. Non appena il nostro scompartimento fu inghiottito dal buio avvertii un terribile bruciore. Ebbi difficoltà a respirare e per un attimo mi sentii mancare. Il signor Digson mi toccò sulla spalla e, proprio mentre stavo per voltarmi, notai che il treno stava decelerando. – “Signor Digson, sento uno strano bruciore. Quando c'è qualcosa che non va me lo sento sulla pelle!”. – “Miss Arch, disse Digson pallido in volto, avete ragione: temo che abbiamo sbagliato galleria!”. – “Oh, mio buon Dio! Come è potuto accadere? Lei mi aveva assicurato che non c'era nessun pericolo.” – “Credo sia stato un malfunzionamento allo scambio. Ma questo non lo possiamo ancora sapere con certezza.” 51 Ormai il panico si era impossessato di me. Eravamo intrappolati nelle tenebre di quella galleria: la galleria sbagliata! Avevo osato giocare con il buio ed ero stata ripagata nel giusto modo. Avrei voluto scappare all'esterno urlando, ma riuscii in qualche modo a trattenermi: nessun gentiluomo si sarebbe azzardato a sposarmi, se fossi morta investita da un treno merci proveniente dalla direzione opposta! Mi sentivo mancare, ero sempre più a corto d'aria. Il signor Digson scattò come una volpe nel tentativo di raggiungere la locomotiva il più presto possibile, ed io rimasi sola. finale 1, Liala Persi definitivamente i sensi. Quando mi risvegliai ero distesa su una panchina alla stazione di Hove e un giovanotto stava tentando – con successo, devo dire! – di farmi riprendere con i sali. Mi informò che il macchinista era riuscito a manovrare il treno in retromarcia e ad imboccare la galleria giusta dopo aver azionato lo scambio manualmente. Il giovane si prodigava quanto più poteva nel fornire dettagli sull'accaduto, ma ormai io non lo sentivo più... vedevo solo quel volto bellissimo e fiero, quegli occhi verdi che riflettevano i riflessi del sole e le sue labbra sensuali e dolci che mi invitavano ad assaporare nuovi sapori. Mi tirai su a sedere e 52 lui, dopo essersi educatamente scusato, si presentò: era il dottor John Barrymore. Un dottore! Ma all'epoca non ci feci caso: i miei occhi erano fissi su quelle labbra rosse e stranamente carnose che parevano sapere di buono. Un attimo dopo le nostre bocche erano incollate l'una all'altra, fuse in un caldo bacio di passione e amore. Una sensazione mai provata prima in vita mia attraversò il mio corpo e mi fece tremare fin dentro l'anima. John se ne accorse e mi strinse forte tra le sue braccia. – “Signorina Arch. Elizabeth... Io vi amo!” – “Oh, John!”, sospirai. – “Oh!” – “Allora è vero, l'amore esiste, il colpo di fulmine esiste John. Vi conosco solo ora ma è come se il mio cuore fosse sempre appartenuto a voi e a voi soltanto!”. John, il mio John, mi guardò. I suoi occhi erano carichi di emozione ma non mancò di trovare una certa risolutezza e, dopo essersi schiarito la voce ebbe l'ardire di chiedermi di sposarlo! Lì così su due piedi! Ancora un po' e sarei svenuta un'altra volta tra le sue braccia. Ovviamente dissi subito di sì. Non ci pensai nemmeno per un attimo perché quello che la ragione si rifiutava di comprendere era stampato a chiare lettere nella mia anima e nel mio cuore. 53 Non mi preoccupai di come avrei potuto dirlo ai miei genitori al mio rientro a Rosewood Mansion. Non pensai affatto ad Albert, al quale già da tempo avevo concesso di corteggiarmi. Non pensai nemmeno alla gente che ci stava intorno in quel momento e non pensai alla mia reputazione. Dissi solo di sì perché inconsciamente, quel giorno, il mio cuore aveva capito che ci sono treni che passano una sola volta nella vita: non bisogna temere di prenderli e viaggiarli. Se mai il nostro treno avesse imboccato una galleria sbagliata ne sarebbe comunque valsa la pena. Insieme avremmo trovato il modo di correggere la direzione per continuare a viaggiare. Insieme. Mano nella mano. Io e John, il mio John. L'amore della mia vita. finale 2, Lovecraft Per un attimo fui scossa da uno strano capogiro ed ebbi la sensazione di essere osservata. Un velo nero, più nero del buio della galleria, più nero della notte più buia che fossi in grado di ricordare, un velo nero e minaccioso si posò sui miei occhi stanchi e la mia mente – già provata per la forte scossa di paura che aveva insidiato i miei nervi – alla fine cedette. O almeno questo è ciò che sono portata a credere perché in verità, ancora oggi, non mi è chiaro se ciò che avvenne sia stato il 54 venefico frutto di una mente sconvolta dal delirio o se sia successo realmente. Non è molto ciò che so, ma quel che so basta e avanza. Precipitai in uno strano sonno senza sogni costellato di incredibili visioni di titaniche colonne di granito nero, decorate con segni che nessuna mente umana avrebbe mai potuto concepire. Immensi gradini di marmo bianco striato di verde, le cui dimensioni escludevano l'utilizzo a qualsiasi piede umano, conducevano lo sguardo verso antichissimi templi dove venivano venerate divinità dementi e senza forma e la cui costruzione risaliva a milioni di anni prima della venuta dell'uomo. La mia mente cosciente, ciò che fino ad allora ero stata abituata a chiamare “io”, era sveglia e presente, ma allo stesso tempo con un altro tipo di vista, con “altri occhi”, potevo vedere in modo nitido e distinto le forme alienanti e degenerate di un'architettura folle che rispondeva a regole geometriche non euclidee. La vastità di quegli spazi, la monumentale grandezza che andava oltre ogni immaginazione, la totale assenza di ciò che poteva essere identificato come razionale e riconducibile alla dimensione psichica umana, il suono continuo di qualcosa che viscidamente strisciava e bisbigliava da dietro i monoliti purpurei, crearono in me un senso di disagio e alienazione che paralizzò il mio cervello e fece tremare i miei nervi. 55 Mentre ero testimone di queste folli allucinazioni che via via prendevano forma nella mia mente, potevo allo stesso tempo vedere, in maniera distinta, il vagone del treno che, di tanto in tanto, veniva illuminato da dei misteriosi bagliori di cui non sapevo determinare la provenienza. In lontananza cominciai a udire il suono malefico di mille flauti stonati al quale presto si unì il rullare di osceni tamburi. Con gli occhi della mente fui ricondotta alle mostruose colonne, agli infiniti gradoni e a quei templi di orrore e perversione verso i quali una processione di indigeni di aspetto negroide e deforme si dirigeva intonando canti perversi e folli: “Ph'nglui mglw'nafhmglw'nafh wgah'nagl! Iä! Iä! Sỹm Škathoth Fhtagn!” Di fronte ai miei occhi mille piedi ai quali erano state amputate tre dita danzavano in preda al delirio dei tamburi e dei flauti del nero capro dei boschi. Schioccavano sul marmo, saltavano, strisciavano, si univano in coreografie schizofreniche per poi dissolversi nel caos della frenesia e del delirio. Correvano lungo le traversine di onice che portavano all'altare e camminavano lungo il corridoio del vagone ferroviario! Una voce terribile, la voce di mille anime dannate e perdute, risuonò e fece tremare le 56 ciclopiche colonne; scosse la galleria e fece scricchiolare gli impiantiti di legno del treno muovendo un'ondata di aria gelida e fetida: “Il cancello! Sym Škathoth è il cancello. Sym Škathoth è il cancello e la chiave del cancello! Sym Škathoth è colui che attraversa il cancello!”. I tamburi raggiunsero allora il culmine del crescendo mentre i flauti, maledetti, fischiavano in una cacofonia di suoni indemoniati. La voce di mille negri degenerati e dementi rispose istericamente al richiamo demoniaco intonando all'unisono un grido bestiale: “Mhe kha-tso sukh hyami! Iä! Iä! Sym Škathoth!” Ero ormai in preda ad un delirio maniacale: i miei occhi sbarrati fissavano il buio corridoio del treno e allo stesso tempo l'ignobile tempio verso il quale, orde di cultisti folli, rivolgevano le loro lugubri litanie. Pensavo di aver raggiunto il culmine della follia. Ma non era così. Mentre i negri intonavano ancora una volta i loro canti dementi, i tamburi e i flauti ripresero a suonare in modo lascivo; fu allora che lo vidi. Una cosa schifosa e viscida cominciò a strisciare fuori dal colonnato del tempio: un enorme tentacolo 57 osceno che culminava in una protuberanza rossa sulla quale erano presenti due fessure che vomitavano, senza sosta, una bava bianca e gelatinosa! Un boato fece eco all'apparizione: “Iä! Iä! Sym Škathoth! Sym Škathoth ph'nglui fhtagn!!!” Proprio in quel momento sentii qualcosa strisciare nel buio della galleria. Sentii un orribile odore di pesce marcio e il suono di mille piedi che si muovevano furtivamente nelle tenebre. Provai di nuovo la sensazione di essere osservata. Mi voltai lentamente verso il finestrino aperto alle mie spalle e uno di quei misteriosi bagliori infernali illuminò quell'abominio! Fu allora che gridai a squarciagola e, infine, persi definitivamente i sensi. Il dottor Templeton, che ancora mi ha in cura presso la clinica per malattie mentali di Hanwell, è incline a sostenere che l'intera serie di eventi che ho qui descritto sia il risultato di uno stato allucinatorio causato dallo stress emotivo che ho provato nel momento in cui mi sono trovata bloccata nella galleria. Tutta una serie di puerili supposizioni psicanalitiche e un esaurimento nervoso preesistente avrebbero aggravato, a suo parere, l'intensità dei sintomi allucinatori. Ma 58 quello che il dottor Templeton non sa è che quando mi risveglio dal sonno artificiale indotto dai sonniferi, le mia braccia e le mie gambe hanno spesso uno strano colorito cianotico e sono puntellate da strani segni circolari simili a ventose. E, nelle notti senza vento e senza luna, è possibile sentire qualcosa che striscia e bisbiglia nella notte. È allora che i pazzi, i maniaci e gli assassini del manicomio cominciano a gridare e a maciullarsi la carne con coltelli o altri oggetti appuntiti. È un orrore cosmico senza nome che induce alla follia e al delirio e che porta con sé un orribile odore di pesce e alghe in decomposizione. Un abominio eterno, demente e senza forma che ha attraversato i cancelli dello spazio e del tempo; un enorme tentacolo osceno che culmina in una protuberanza rossa dalla quale due fessure vomitano, senza sosta, una bava bianca e gelatinosa e che mi spia furtivamente da dietro il vetro della finestra! 59 Pagina lasciata intenzionalmente vuota una non storia sull’amore, il vuoto e il buio Ah, l’amore, l’amore: maledetto bastardo! Zoppa d’una carogna, mongolo, sgorbio, guercio, stronzo, piscione e cagone! Merda d’uccello, cianuro a fiale, fiera di fiele, orrida vescica, purulenta ferita, verme di tomba! Nutria di fogna, ascesso anale, inutile vomito, zoccola putrefatta d’un sangue marcio: strappami gli occhi! Sguish, sguish! Ora va un po’ meglio, solo non vedo niente. Il sangue è lo stesso ma fa marmellata. Troppo buono! Lo zoppo mi fa tip tap, tip tap, tip tap. È tutta un’allegria: ìa, ìa, bù! L’uccelletto pigola dolci melodie: e se mi caga fino 61 a coprirmi di merda non me ne avvedo. Sono cieco! L’avessi saputo prima, un pochino prima, queste palline gelatinose me le sarei cavate già al primo torna conto: senza sconto! Eppure... qui, proprio qui sul mio cuore di mammo sento un buco, una ferita profonda che mi duole. Ma… che c’è? Un manico! Ah, tutto a posto: un coltello puntuto m’ha trapassato lo sterno. Lo tolgo, passo la lingua sulla lama. Qualcosa scivola veloce nella mia bocca, forse un verme; per me è solo un’altra caramella superpippo: le zampette a frizzy-pazzy mi solleticano la gola. Mando giù, tutto intero: possa tu trovare casa nel profondo delle mie budella, figlio mio. Un giorno tutto questo orrore sarà tuo, e io te lo lascio con sadico piacere! Una temibile infezione intestinale. Conati di vomito. Spesso vomitavo con tale violenza che non potevo contenere la merda e il piscio nel mio corpo marcio. Fu così che avvenne il parto: una lunga salsiccia sgusciò fuori dal mio corpo. L’allattai come potei e lei, lui… la cosa rosicchiava la mia carne. Quando le zanne affilate come becchi di pappagallo arrivarono a ticchettare sulle mie costole, ormai scoperte e infestate di larve di mosca, arrivò il momento dello svezzamento. Ma ne voleva ancora, sempre di più!, come tutti gli infanti. Dovetti usare il DDT per tenerlo lontano. 62 Sebbene fosse una serpe gelatinosa si dimostrò da subito un figlio attento, educato e intelligente. A due mesi già recitava l’alfabeto runico a menadito e componeva i primi nefasti oracoli. A tre mesi aveva imparato tutta l’oscena dottrina dei culti necrofili a memoria. A tre mesi e mezzo iniziò a bestemmiare in antico babilonese e in kundu, un misterioso dialetto pre-accadico. Con il corpo ridotto a brandelli, cieco e con addosso ogni sorta di parassita che si cibava delle mie carni putrefatte, gli cucii qualcosa. Considerato il sangue che scorreva copioso decisi che il colore dovesse essere il rosso. Ci infilai un dito e stabilii che poteva assomigliare a un cappello. Per vermi, ovviamente. Glielo misi su quella specie di protuberanza a forma di patata che doveva essere la testa. Lo fissai con una decisa martellata e un chiodo arrugginito. Per sicurezza. E gli diedi come nome Bestia Immonda. Ma gli abitanti del paese, recitando le loro preghiere e i loro scongiuri, si riferivano a lui con l’appellativo di Cappuccetto Rosso. Divenne il suo nome mitologico e, con un po’ di orgoglio, mi adattai a chiamarlo così anch'io. Era pur sempre mio figlio. Il mio virus purulento. Il mio aborto osceno. Un giorno, con gli unici due monconi di dente che mi erano rimasti e la lingua amputata da un morso di topo, lo chiamai: 63 – “Cappuccetto! Cappuccetto Rosso! La tua nonna è tanto, tanto ammalata: ha il cancro al cervello. Ormai le sta uscendo anche dalle orecchie e dagli occhi. Povera bestia. Portale questa medicina: un cesto di P–08 Parabellum! E cartucce. E proiettili! E colpi in canna: dopo starà meglio.” – “Certamente mamma. Va bene mamma.” – “Ma, mi raccomando, non passare per il bosco: ci sono i formichieri assassini, affamati di orridi vermi come te! E i sacerdoti esorcisti del Nazareno!”. – “Certamente mamma. Va bene mamma.” – “Verme schifoso, bavoso e lurido: grazie a Pan gli occhi me li sono cavati ancor prima che tu fossi anche solo un vago incubo nella testa di Belzebù; grazie a Satana le sanguisughe hanno fatto i loro nidi nelle mie cavità oculari, cibandosi dei filamenti viscosi che penzolavano dalle mie vuote orbite. Grazie all’abominio nero hanno proliferato, così ch'io non corra il rischio di vederti mai, mio schifoso, strisciante figlio! Ma… C’è sempre un ma… Quanto sei obbediente! Ora vai: la nonna sarà in preda a terribili convulsioni, deliri e crisi epilettiche!” – “Si mamma. E se incontro il lupo, mamma?” 64 – “Mangialo. Divoralo dall’interno. Come hai fatto con quel cucciolo di cerbiatto che ti donai per la notte di Valpurga. Il lupo non è diverso. Cambia solo il colore.” – “E la focaccia?” Lo colpii senza pietà con una clava spezza ossa. – “Eccola la focaccia. T’è piaciuta? Ne vuoi ancora?” – “Ancora, ancora!”, disse lui in preda all’eccitazione. – “Dopo! Prima vai a portare soccorso alla nonna: e se non riesce da sola ammazzala tu! Vai, corri, striscia putrida anguilla!” Swiiiiishisshwish! Scomparì in mezzo ai cespugli di rovo, in un attimo, come un incubo strisciante nella notte. Non lo rividi mai più. Non seppi mai che cosa avvenne. Se avesse incontrato gli abitanti del villaggio inferociti: stupidi, sozzi, ignoranti e superstiziosi! O se fosse diventato una facile preda per qualche schifoso uccello di palude ghiotto di lombrichi. Avessi avuto ancora gli occhi forse una lacrima l’avrei pianta. 65 Ah, l’amore, l’amore: una vera maledizione. Nella sua variante mammona poi! I figli, si sa, anche senza braccia nè gambe, sebbene con un solo orrido occhio giallo in mezzo a una testa deforme, i figli be'… fanno sempre piangere le loro mamme! Un giorno partono per il mondo e ci rimangono: secchi. Sul bordo di un’autostrada a tre corsie o su una stradina di campagna, ad offrire il loro viscido spettacolo ai ciclisti di passaggio. E a noi cosa rimane? Ferite lacerate, squarci potentissimi sempre aperti, cicatrici infette da cui filtra l’infinito: immenso, eterno, nero, vuoto e senza significati e consolazioni. Ma, sebbene così alieno alla nostra visione antropocentrica dell’universo, sebbene privo di legami estetici ed emotivi, questo vuoto, questa oscurità, ci sussurra qualcosa. E, in notti come questa, notti funestate dai vapori chimici della colla, sembra quasi di sentirlo parlare. Sembra quasi che ti accarezzi e dica: – “Sono la notte. Vogliamo essere amici?” 66 la tradizione del balek in epîstäfth Superato il fiume Dervïsh e le titaniche colonne di Nümâ e Kalëth, lungo le sponde del lago detto Synthia a sei giorni di marcia dal villaggio di Aynesh, nelle fredde giornate di autunno è possibile, per il viaggiatore più coraggioso e audace, raggiungere la città di Epîstäfth. Sono osservati con rigore e dedizione ad Epîstäfth i culti di Edrön e Kartika, le divinità del Ricordo e della Volontà e – per una serie di motivi che non è compito di questo modesto narratore elencare e descrivere – tra le tante celebrazioni e costumi collaterali, questi avevano dato origine anche alla tradizione detta “balek” o “Dichiarazione della Somma Ragione”. Questa consisteva in una sorta di dichiarazione finale espressa in pochi versi e 67 scritta dall'individuo che era prossimo alla morte; una specie di epitaffio ma avente la funzione di rendere noto quale fosse stato lo scopo, il senso ultimo del vivere del morituro. Chi moriva senza lasciare un balekj (questo il nome che veniva dato alla frase e alla targa sulla quale veniva impressa), in genere le persone sole al mondo, i carcerati o chi era troppo distante persino dal più basso dei gradini della scala sociale, veniva inumato in una tomba quasi anonima e il suo balekj era “Nðktis Ørkåth Môrthî”, una frase religiosa generica che – molto approssimativamente – significava qualcosa tipo “scivolato nella notte negli sconfinati giardini della morte”. La tradizione del balek veniva presa con molta serietà dagli abitanti di Epîstäfth, ma non mancavano certo esempi di sottile ironia, arguta filosofia e pungente satira. Specie sulle tombe di personaggi illustri – soprattutto poeti, scrittori, artisti in genere o comunque individui che già in vita avevano dimostrato una certa eccentricità – non era impossibile trovarne degli esempi. Questi erano tollerati come delle curiosità ma rappresentavano comunque delle eccezioni. Come ad esempio il balekj scanzonato e irriverente del 68 celebre amatore e avventuriero Anthem Sakanova: “Lo scopo: lo scopo della mia vita. O forse solo ora lo scopro? Tanto bene tanto poco L'importante è che m'aggodo di codesto novo giogo! 'ché quel che piacer non da non lo noto: mi ci ammollo e non m'è sodo.” C'era poi il balekj di Sawor Redrum, vignettista satirico ed appassionato di enigmistica; era lui che, sotto lo pseudonimo di Zak, curava la pagina delle parole sfalsate e dei rebus su L'Informatore Sagace, uno dei giornali più diffusi in Epîstäfth. Il suo balekj consisteva in una strana formula che comprendeva lettere, composizioni numeriche e strani disegni che facevano riferimento a formule geometriche sconosciute: 69 Nessuno era stato in grado di decifrarlo per anni. Qualcuno aveva persino insinuato che dovesse trattarsi di un rebus senza senso e irrisolvibile. Insomma: un'ultima burla di Sawor che, tra le altre cose, era conosciuto anche per i suoi celebri scherzi. Infine però un giovane studente di meta-semantica dell'Università Fricozoika risolse l'enigma: “Vorrei fare un gioco con te, ma temo che sia appena finito.” Questo diceva il balekj di Sawor Redrum. Tutto qua. Ovviamente furono in molti a rimanerne delusi. Ma questo è normale: è sempre così quando si crea una grande aspettativa. Ma non vorrei che il lettore fosse tratto in inganno da questi esempi: come ho detto prima la Dichiarazione della Somma Ragione era una tradizione rispettata e seria. Gli esempi appena citati costituiscono delle eccezioni, sia nel contenuto che nella forma. C'è da precisare una cosa importante. Lo scopo del balekj non era quello di descrivere quale fosse stata la volontà e i desideri dell'individuo durante la sua vita; la tradizione del balek prevedeva che l'individuo si rendesse consapevole di quale fosse 70 stata la sua reale funzione nell'ingranaggio dell'esistenza, a prescindere dai suoi personali desideri ed ambizioni. Il balek costituiva per molti un motivo importante per meditare sui sottili meccanismi della vita e, secondo altri, poteva addirittura essere considerato come un punto di accesso verso alcune profonde verità nascoste alla coscienza ordinaria. Alcuni sostenevano che la meditazione sul balek portava in superficie formepensiero basate su potentissimi archetipi collegati con l'inconscio collettivo; supponevano che esistesse la remota possibilità di poterle sfruttare in modo che queste garantissero l'accesso a stati di coscienza diversi da quelli conosciuti. Fu proprio meditando sui pensieri ispirati da un antico balekj che la giovane Thula varcò i cancelli di Hulyék che – se l'esploratore dello spirito ha la tenacia sufficiente per perseverare nel duro cammino – introducono al sentiero che conduce verso le porte dell'infinito. In concomitanza con il suo primo viaggio oltre i cancelli di Hulyék, al suo risveglio Thula si tirò su a sedere in una piccola pozza di sangue e divenne quindi donna e sacerdotessa in una volta sola. I sacerdoti magìky, che già alla nascita ne avevano predetto il destino, vennero a prenderla all'ora terza. Deposero sulla sua testa un velo viola che le 71 copriva anche il viso e lo fissarono con una coroncina di alloro. Quindi la portarono al tempio mentre Nuit, gloriosa, ricurva e scintillante di stelle, abbracciava dall'alto, con estremo amore, Epîstäfth e il mondo tutto. 72 un estratto dal libro delle duecento verità “L'energia fluiva nel suo corpo come un inaspettato incidente nucleare al limitare di una foresta carica di ignari alberi, che si apprestano a sperimentare gli incerti vantaggi di un terremoto molecolare; pronti a succhiare e addizionare nuovi elementi capaci di trasformare, per sempre, il corso degli eventi così come lo si è sempre inteso. Tutto questo mentre ad un ignaro osservatore esterno tutto sarebbe apparso sempre simile a sé stesso, così come sempre era stato sin dalla prima incerta alba del genere umano. Lenta ma potente, invisibile e rigeneratrice, questa nuova forza si faceva strada nelle sue ossa, nei suoi muscoli e nelle fibre; si faceva strada nel sistema nervoso e attraverso l'intricato dedalo di vene e arterie. I cultisti cominciarono ad intonare le loro oscure 73 litanie mentre il gran sacerdote, spalancate le braccia, recitava la formula del Ritorno del Re: Siano aperte le porte del Cielo, le catene sono state tolte dalle porte del Tempio. La casa è aperta al suo padrone! Tu che non perisci, tu che non ti annulli. Il tuo Nome dura tra la gente, il tuo Nome si manifesta tra gli dei. Accetta questa offerta: è l'offerta del Re, è l'offerta di Anubis: mille pani, mille brocche di zytum, mille buoi, mille oche per la tua Potenza vitale. Passa la porta del cielo perché tu hai la conoscenza Passa la porta del cielo e ritorna tra noi Amunathon! La forza vitale cominciò a scorrere sempre più forte e, raggiunta la testa, riempì il suo essere di una consapevolezza nuova e terribile: in lui c'era ancora energia, in lui era il respiro, fresco, potente e divino. Era vivo, ancora una volta! Un sussulto e 74 un impercettibile gemito precedettero una forte scossa che fece tremare tutto il corpo. La sacerdotessa accarezzò per l'ultima volta il sacro membro con le sue calde labbra carnose e, chiudendo dolcemente gli occhi, deglutì il divino nettare che fluiva copioso. Proprio in quel momento gli occhi della mummia, finalmente, si spalancarono. – “Bentornato tra noi, o grande Amunathon!”, disse a voce alta e con tono solenne il gran sacerdote. “Io, Heru, sacerdote di Anubi e Nuit, rasato, depilato e circonciso, vestito di puro lino e versato per i misteri; rifuggito il contatto con qualsiasi donna nel mio servizio al tempio come prescritto, do il benvenuto a te, re meraviglioso e vittorioso!” A questo punto la gran sacerdotessa alzò in alto il disco d'oro sul quale era inciso l'occhio scintillante di Ra, quindi lo percosse con una clava tempestata di lapislazzuli: un suono acuto, nel quale era possibile distinguere un ampio ventaglio di armonici, risuonò in tutta la sala esagonale del Grande Tempio del Mistero di Tebe. – “Oh, che mal di testa!”, disse Amunathon. “Che razza di lingua sto parlando?”. Il gran sacerdote, la sacerdotessa e i cultisti tutti rimasero un po' perplessi. Già da tempo si era discusso su come sarebbe stato il primo contatto ma, 75 ovviamente, nessuno era stato in grado di dirlo con certezza. C'erano tra gli adepti dell'ordine due scuole di pensiero: la prima, quella dei credenti più ortodossi (che dava maggior rilievo alla componente spirituale dei misteri) credeva fermamente che il primo contatto sarebbe avvenuto come descritto negli antichi papiri dove erano riportate tutte le formule magiche per il risveglio della mummia. Queste descrivevano un discorso diretto tra il risvegliato e il gran sacerdote simile a un copione cinematografico. La seconda scuola di pensiero prediligeva una concezione più dinamica che non escludeva dal patrimonio ereditato dagli antichi le più importanti scoperte dell'epoca moderna; secondo questi i dialoghi riportati negli antichi papiri dovevano essere considerati come delle approssimazioni, delle linee guida su come condurre il primo dialogo e niente più. Ma, a onor del vero, la risposta del faraone al solenne discorso di benvenuto suonò strana sia agli uni che agli altri, anche se i secondi avevano messo in considerazione che l'utilizzo del VSRT avrebbe potuto comportare degli effetti insoliti (VSRT era l'acronimo per Vocal Synthesizer & Realtime Translator; si trattava di un sintetizzatore vocale e traduttore in tempo reale che era stato installato nel cervello biomeccanoide del re, e che gli avrebbe permesso – una volta risvegliato dal 76 suo sonno millenario – di parlare qualsiasi lingua tra quelle installate, cioè una, per il momento). Superata la sorpresa iniziale Heru, il gran sacerdote, riprese il controllo di sé e della situazione. Ormai sapeva che i dialoghi previsti dall'invocazione, così come erano stati descritti e come ci si sarebbe aspettato che fossero da più di seimila anni, non sarebbero serviti a niente. Continuò quindi senza seguire il protocollo, tanto non avrebbe avuto senso. – “La lingua che stai parlando, o mio re, si chiama zingarello-marocchino.” – “Ah!”, disse il faraone, “che buffo nome... non so perché mi fa ridere.” Il gran sacerdote cercò con lo sguardo tra i cultisti. Mustafà Said, capo del settore neuroinformatico K.E.B.A.B., alzò il cappuccio e suggerì che le variabili introdotte per favorire l'assorbimento di informazioni nel cervello artificiale – come ad esempio informazioni relative al passato recente che ora erano obsolete, nozioni di cultura minore e l'emulazione dei comuni meccanismi di riflesso condizionato – potevano avere degli effetti di questo tipo sulla risposta psicologica, anche a causa del tessuto neurale che doveva ancora imprimersi di nozioni di prima mano. Tutto questo lo sintetizzò con una parola: 77 “rodaggio”. Il gran sacerdote fece segno con la testa come per dire “ho capito”. – “Oh, mio re”, proseguì Heru, “la gioia che ti accompagna allieta anche me e tutti i miei confratelli qui presenti”. – “Zingarello-marocchino hai detto... non ho mai saputo dell'esistenza di questa lingua”, disse pensieroso Amunathon. – “É perché non esisteva ancora seimila anni fa, mio re.”, replicò il gran sacerdote. – “Come hai detto che ti chiami?” – “Il mio nome è Heru” – “Bene Heru, fammi il punto della situazione zxcbnzxcrrr”. Mustafa Said si avvicino velocemente al rack che conteneva il complesso sistema informatico dal quale era possibile gestire in remoto il VSRT e, dopo aver girato alcune manopole e basculato una leva, fece segno che ora era tutto a posto. – “Che è successo ragazzi?”, chiese il re. – “C'è stato un piccolo problema nella “magia” che ti permette di parlare correttamente la nostra lingua. Ma il sacerdote che ha operato questa magia – e qui indicò in direzione di Mustafa Said – ha subito provveduto a sistemare tutto”. Il re 78 guardò Mustafa Said e poi rivolse nuovamente lo sguardo verso Heru: – “Raccontami di questa magia, Heru”. – “Certamente mio re”, rispose lui. – “Ma ti prego: fammi prima un breve sunto della situazione, come ti stavo chiedendo poco fa. Cosa è capitato in tutto questo tempo? Dove ci troviamo ora?”. – “Sono capitate innumerevoli cose, mio re. L'uomo ha operato miracoli e magie che prima erano impossibili da realizzare e anche solo da immaginare. Ci fu un tempo in cui la terra bagnata e nutrita dal sacro fiume era il centro del mondo. Quel tempo, il tuo, ad un certo punto finì e ci furono nuovi re, nuovi regni, nuove terre e persino nuovi dei. L'eresia di Amarna si diffuse nel mondo intero a causa di quel gruppo di schiavi che tentarono con successo la fuga, gli ebrei, e così i vecchi dei vennero dimenticati. L'uomo fu inghiottito nelle tenebre dell'ombra proiettata dal suo dio unico, onnipotente, onnisciente e invisibile. L'uomo divenne una pecora paurosa e ignorante.” – “Beee!”, interruppe il faraone. 79 – “Sì... quella... - gli fece eco, un po' perplesso Heru - Una pecora ignorante, dicevo. Ma la scintilla primigenia di Thoth non aveva mai smesso di ardere: attraversò prima i secoli e poi i millenni. Gli uomini lo chiamarono in tanti modi diversi: Prometeo, Hermes, Mercurio; raccontarono la sua storia in tanti modi differenti, dipingendolo con i colori più disparati e descrivendo le trame più intricate. Ma la forza generatrice di Thoth, la sua essenza, rimase sempre la stessa e, ad un certo punto, fu riscoperta da un manipolo di pensatori audaci che ebbero l'ardire di scardinare l'ordine costituito. Andarono contro i pregiudizi morali e spirituali del loro tempo e, questi, furono i primi timidi raggi di una sfolgorante aurora dorata che investì il mondo di una luce bianca e pura.” “Aummm” fecero in coro tutti i cultisti. Heru proseguì: – “Ma l'uomo aveva ormai dimenticato i vecchi dei e non fu capace di controllare il potere della luce. La conoscenza rese l'uomo presuntuoso e la sua natura mortale – alla costante ricerca di un eterno immortale irraggiungibile e che, da sempre, gli è negato – lo rese autodistruttivo. Ci fu un lunghissimo periodo dove alle guerre succedettero la carestie e alle carestie nuove guerre, e così via per molto tempo ancora. I falsi dei delle religioni 80 monoteiste, che già avevano condotto alla rovina l'antico Egitto ai tempi di Akhenaton, stavano ora conducendo alla rovina il mondo intero.” – “Chi erano questi falsi dei?”, chiese il faraone. – “I falsi dei delle religioni monoteiste erano le diverse facce di un unico falso dio il cui nome faceva rima con “io”, e che non era altro che la manifestazione della bestialità dell'uomo e il suo desiderio di farsi dio a sua volta. Un dio assassino e suicida che ammazzava sé stesso.” – “Prosegui”, disse Amunathon che mentre ascoltava prestando estrema attenzione assumeva uno sguardo sempre più intelligente. – “Ma come avvenne all'epoca in cui l'uomo riscoprì la luce, ancora una volta, ci fu un cambiamento importante che ristabilì l'equilibrio. Un gruppo di uomini riscoprì gli antichi riti, riconobbe il valore dell'Illuminismo e ne capì gli errori compiuti. L'uomo comprese che Scienza e Religione erano le due colonne portanti dello stesso tempio: destinate a ergersi parallele senza mai potersi incontrare, ma entrambe indispensabili per garantirne l'equilibrio. È così che venne ristabilito l'ordine.” – “Dove ci troviamo ora?”, chiese il faraone. – “Questo è il Grande Tempio del Mistero di Tebe, il centro della città capitale del mondo: 81 Chauamigu.” – “Non conosco questa città”, disse il faraone perplesso. “Il colore della vostra pelle e i lineamenti dei vostri volti mi sono vagamente familiari. Siete voi di discendenza egizia?” – “Non esattamente, mio re. Nei tempi bui che seguirono all'Illuminismo ci furono molte rivoluzioni e molte terre furono vinte e perse dagli eserciti di tutto il mondo. Ma un esercito silenzioso stava cominciando la propria lunga e pacifica marcia, verso il futuro che oggi noi chiamiamo Glorioso Presente e sul quale tu, Amunathon, ti appresti a regnare. Forte del proprio numero, il popolo marocchino si diffuse nel mondo insieme agli eredi di Atlantide, ovvero i detentori dell'unica divina verità: gli zingari. In un primo momento conquistammo pacificamente i territori a nord del Mediterraneo e, dove Annibale con gli elefanti e la forza bruta aveva fallito noi – complici del fatto che le donne di quel popolo di briganti, ladri e pastori avevano ormai perso ogni interesse per il sesso e il loro seno, ormai secco, aveva smesso di allattare – ci insediammo pacificamente e ci moltiplicammo come lo scarabeo sacro, dal cui seme per ogni goccia ne nascono altri otto. Il popolo di Atlantide intanto divenne nostro alleato. Le nostre donne conobbero i loro uomini e ne goderono. I nostri 82 uomini conobbero le loro donne e ne trassero una discreta gioia.” – “Quella di prima era una di loro?”, chiese il faraone inarcando il sopracciglio. – “No, mio re. Cioè non lo so. Qua siamo tutti un po' e un po'. Quella di prima era Pastrunia, la gran sacerdotessa. Ma permettimi di proseguire...” – “Prosegui pure Heru, mio nobile sacerdote”, disse il re facendo un cenno di assenso con la mano. – “Mentre il mondo cadeva in rovina, sotto i colpi delle armi strette nelle mani dei falsi profeti ispirati dai falsi dei, noi marocchini e zingari diventavamo un unico popolo. Il nostro seme plurifecondante, unito alla conoscenza degli antichi dei del popolo di Atlantide, fece sì che ci diffondessimo per tutto il mondo mentre il resto del mondo periva, in nome di una pace che l'amore tace.” – “Mi sei anche poeta?”, fece il faraone sorpreso. – “No no, è stato un caso... or dunque: scavammo le rovine di quella palafitta che era il mondo dei falsi dei e stabilimmo fondamenta profonde e stabili. Rinominammo il pianeta Terra e lo chiamammo Zumbabamba. Ci fu quindi un nuovo Illuminismo controbilanciato dall'antico 83 culto dei misteri e finalmente, ora, il trono di Osiride è stato ristabilito.” A queste parole tutti i cultisti si inchinarono solennemente. Pastrunia, la gran sacerdotessa, dopo essere andata via fece nuovamente il suo ingresso nella sala esagonale. In testa portava la corona scintillante di Amon-Ra, nelle mani lo scettro del comando. Il faraone, che ora aveva riacquistato piena consapevolezza, si levò in piedi. I cultisti lasciarono cadere le proprie tonache e, mentre Amunathon benediceva l'inizio del suo nuovo regno, l'orgia sacra ebbe inizio. Il seme zingarello-marocchino si mischiò a quello divino del faraone e la sacerdotessa ne ricevette in abbondanza. Da questa sacra unione, da questo sacro rito, per intercessione degli dei, nacque il primo esemplare della nuova razza umana, il successore dell'homo sapiens-sapiens: Thulek-el-Salam, il primo Homo Androgynoslurp. Fu così, figli miei, che tutto ebbe veramente inizio.” *** Completata la lettura di queste parole Erasmium Alambikkius, grande ermete superior del monastero dei Porci Spini, chiuse il pesante Libro delle Duecento Verità, e il buio scivolò morbido come la seta su tutta la sala. 84 un dialogo tra nulla e nessuno – “Che cos'è la vecchiezza?”, chiese Nulla. Nessuno rimase in silenzio per pochi interminabili secondi, poi inspirò brevemente e disse: – “Siamo noi. Noi che col tempo abbiamo imparato a non sapere niente e di questo niente sapere ci veliamo di una vaga parvenza di saggezza che lascia quasi intendere che noi, invece, si sappia. Questa, figlia mia, è la vecchiezza. La vecchiezza è la scorza dura che si contrappone alla 85 carne viva della rassegnazione e che, con il passare del tempo, diventa decrepitezza.” – “È dunque meglio la rassegnazione?” Un topo in fuga fece traballare i ferri per il camino che produssero un suono acuto che come un diapason, e in totale accordo con il crepitare della legna, diede il la alla risposta di Nessuno: – “No di certo. La rassegnazione è una ferita aperta, sempre dolorante e sanguinolenta. È il nido dove gli insetti più disgustosi depongono le loro uova. È un banchetto per le larve. Chi si rassegna muore presto e spesso in preda al delirio indotto dalle promesse di un sogno mancato dove, ad esempio, lei è eternamente giovane ad aspettarlo, in una visione di felicità che non corrisponde già più da molto al vero sentire interiore. Chi si rassegna è un morto che cammina e quindi muore due volte.” – “Allora è di certo meglio la decrepitezza!” – “Nemmeno. La decrepitezza conduce presto alla malattia e quindi anch'essa alla morte. Malato e decrepito l'uomo osserva l'io e il mio disfarsi giorno dopo giorno, osserva le particelle staccarsi dal suo e dagli altri corpi come coriandoli; da questa visione ne ha dolori e da questi dolori altre visioni. Visioni di antichi sogni perduti dove, ad esempio, lei gli promette amore eterno ma, dalla 86 tomba in cui ella giace da tempo, dimentica di chiamare la sua voce o a lui tornare, anche solo sotto forma di spettro. E da questo dolore ne ha sempre più decrepitezza e malattia.” – “Cosa è dunque meglio?”, chiese perplessa Nulla a Nessuno. Nessuno, ripensando a quella volta in cui un gingillo di vanità tra le mani di una prostituta di Rénnes aveva per sbaglio riflesso l'immagine del suo occhio sinistro, aprì piano le labbra sottili. La lingua si sollevò fino a toccare i denti incisivi superiori e poi quelli inferiori. Per due volte. Da questo movimento, attraverso l'aria soffiata dai polmoni, una parola vibrò nell'aria e spaventò molto Tutto che, segretamente, aveva origliato la conversazione attraverso la porta: – “Niente.” 87 Pagina lasciata intenzionalmente vuota man dragora Una voce profonda e decisa si insinuava tra le immagini e le seduzioni di quello strano sogno. Mentre i vizi capitali sfilavano uno ad uno, morbidamente adagiati nelle maglie di altre colpe accessorie – ma non meno facili e goderecce, quindi pericolose – quella voce recitava, lenta, funebre, grave. Ma nel brillare delle luci di una sera che prometteva passione, nelle voci di donne scarlatte di Babilonia (ora divenute rispettabili madri di 89 figli di puttana intenti a pianificare scempi che – vinta l'ipocrisia di una morale dalla quale l'uomo si era emancipato da tempo – la società accoglieva e premiava), nel riecheggiare di suoni antichi come le profondità più buie delle nere foreste del nord Europa che ora, inevitabilmente – e forse finalmente –, avevano conquistato il mondo e ne rigeneravano il sangue, in mezzo a tutto questo lui, quella voce, pur udendola non la sentiva. Eppure c'era; ma si confondeva nel rumore di sottofondo delle strade e nel boato dell'esplosione delle fondamenta della sua stessa coscienza che, ora, aveva deciso di disconoscere perché ormai aliena e fuori luogo in quel nuovo mondo di sogno. Era una proiezione onirica di qualcosa che si annidava dentro di lui e lo sapeva benissimo, ne era pienamente cosciente, nonostante stesse dormendo. Ma, paradossalmente e al contrario di quanto succede ad altri, aveva deciso in piena coscienza – quindi colpevolmente – di partecipare e seguirne gli sviluppi proprio quando gli elementi irrazionali che contraddistinguono il sogno avevano cominciato a fare la loro comparsa. In altre parole, inutile girarci intorno, doveva essersi detto che se la mente venendo meno a sé stessa produceva suggestioni e, al tempo stesso, la coscienza era presente, avrebbe potuto approfittarsene e trarne beneficio: doveva solo fingere al cospetto dei personaggi che avrebbero 90 popolato il sogno e assecondare gli eventi che, guarda un po’, sin da principio parevano volgere a suo favore. Fu così che cominciò a fingere non solo estrema attenzione, ma persino di capire benissimo a cosa alludesse quello strano tipo che gli si avvicinò. Parlava di un gran movimento di soldi in previsione di notevoli eventi mondani a cui lui avrebbe dovuto – non si sa perché – presiedere nei giorni a venire. Un saggio e potente drago, però, brontolava il segreto di cui era custode e che teneva ben stretto al suo cuore: piantato lì, come una radice impossibile da sradicare. E il segreto era la voce che, in sottofondo, continuava a rombare, mandando ammonimenti dalle profondità della terra sotto forma di lenti ma decisi tremori. Ma lui quella voce, pur udendola, non la sentiva. 91 Pagina lasciata intenzionalmente vuota proprio in quel momento una piccola stella fece capolino tra le fronde dell'albero a Simona, per sempre. Ci sono dei momenti eterni ed immensi che non si vedono, ma ci sono. In quel momento la pellicola ha appena scartato un frame, la penna dello scrittore ha scarabocchiato una virgola, la mano del pianista ha esitato un attimo di troppo su una pausa; e allora per chi non sa vedere oltre quel momento non esiste, quel fatto non è un fatto, nulla s'è compiuto. Ma non è così. Tra un frame e l'altro, dietro quella virgola, in quella pausa, in quel maledetto spazio tra le righe molto spesso c'è la storia stessa e i significati sono solo una cornice 93 che, maldestramente, cerca di imitare le fessure di una tapparella che prova a bloccare la visuale, che confonde il quadro nel suo insieme, ma che non può fermare la luce del sole che c'è dietro. Non fatevi ingannare da questi segni che chiamiamo lettere, non credeteci mai troppo; guardate bene dietro. Osservate con attenzione oltre. Proprio in quel momento una piccola stella fece capolino tra le fronde dell'albero; è così che inizia, la fine. Il vento girandolò qua e là un foglietto di carta e un grosso gatto strusciò il suo muso sulla panchina. La panchina, quella di fronte al Ponte delle Sirenette. Era lì che ogni sabato, di solito nel pomeriggio intorno alle quattro o alle cinque, era solito sedersi il poeta-musicista. Lo vidi per la prima volta in un umido ma stranamente soleggiato sabato di settembre; lo notai subito per il pallore e per il fastidio che sembrava provare per la luce del sole. Lo soprannominai così perché sin dalla prima volta che lo vidi portava con sé un libro e doveva per forza essere un libro di poesie, sulle quali meditare avidamente. Perché altrimenti non mi spiego come mai fosse sempre lo stesso libro. Solo in alcune occasioni – specie all'inizio – lo vidi tenere in mano qualcosa di diverso; degli spartiti, della carta da musica. Per quella settimana lo chiamai “il musicista”, ma poi tornò ancora con quel libro di poesie. Nel dubbio rimase “poetamusicista” e stop; e gli è andata pure bene. 94 Stava lì ed aspettava; o comunque sembrava che aspettasse qualcuno. Lo dedussi sin dalla prima volta che lo vidi da come ogni tanto si guardava intorno, a volte persino in modo un po' circospetto, o così pareva. All'inizio sembrò essere una storia interessante, specie perché ero curioso di vedere chi fosse la persona che sembrava attendere. Ma non arrivò nessuno il primo giorno. E lo stesso accadde la settimana dopo. Ma lui aspettava, di questo ne sono certo, ho occhio per queste cose: passo tutto il mio tempo qui da anni, da decenni! Ho imparato a riconoscere le persone e sono pur sempre un drago, verde, ma pur sempre un drago! Ho occhio per queste cose. La terza settimana, ancora di sabato: sempre lì. Cominciai ad annoiarmi un po' perché in verità sembrava non succedere nulla; ma ero certo che qualcosa sarebbe successo, lo sapevo. Succedeva sempre qualcosa. Nel complesso però, anche se la cosa sembrava andare per le lunghe, osservarlo era sempre un'esperienza interessante: non smetteva mai di esibirsi in strane smorfie facciali che erano impossibili da decodificare perché totalmente immotivate e senza senso. Per esempio alla quarta settimana mi prese quasi un accidente: in quel momento non c'era nessuno, solo lui ed io. Silenzio totale. Ero concentratissimo sulla copertina, non ero ancora riuscito a scoprire il titolo del libro che teneva con sé, vedevo solo dei 95 segni neri in campo bianco (presumibilmente un'illustrazione) e una scritta piccolissima su una banda azzurrognola. Ecco, ero concentrato su quella banda azzurra, proprio in zen totale, quando all'improvviso lui fa uno scatto con le mani e alza la testa in alto. Ma così: all'improvviso scrutava con gli occhi stretti tra i rami dell'albero di fronte. Cosa? Quando? Dove? Mi chiesi... Niente, ah, ah!: non succedeva niente e non c'era proprio niente da vedere; era una di quelle sue stramberie “psico-cinetiche”. Guardava con attenzione qualcosa che solo lui vedeva, vallo a sapere. Un pazzo probabilmente; anzi sicuramente era un pazzo. La quinta settimana si diede per malato. Quella dopo arrivò in ritardo e quella dopo ancora se ne andò via prima del solito. Ma manteneva sempre una certa costanza. Una volta lo vidi stranamente sereno – di solito era sempre accigliato – e un'altra volta ancora era chiaramente nervoso e spazientito: fumava più di quanto fumasse di solito, e fumava tanto! Dopo innumerevoli settimane venne il giorno dei giorni, non me lo dimenticherò mai: sheer heart attack, ah, ah! Ad un certo punto questo, senza dire niente, prende e si alza... E viene dritto verso di me! Ah, ah! No dico: me lo vedo che mi viene incontro, convinto! Io ero concentratissimo sulla copertina del libro ma lui è un po' di sghiscio e io c'ho lo zampillo 96 che mi copre un po' la visuale, cazzo! Oh, lo stronzo: non mi infila un dito in bocca e prova a bermi dal naso!? Che coglione: s'è pure schizzato in faccia! Va be': prova ad asciugarsi vicino all'occhio, dice “cazzo” guardandosi intorno per vedere la figura di merda che ha fatto, eventuali testimoni... Nulla, non c'è nessuno: gli è andata bene! Oh, la copertina! Niente, 'sto libro se lo girava e rigirava nelle mani, poi all'improvviso si volta e torna al suo posto. Va be' quella è stata l'occasione d'oro mancata: non ebbi mai più modo di poter osservare il libro così da vicino. Che poi, boh?: sto libro ogni tanto lo chiudeva e se lo pettinava ah, ah... non so cosa facesse, passava le dita sul dorso in un modo strano come per rifargli la piega. No, aveva chiaramente qualcosa che non andava. Come dicevo prima fu in rare occasioni che lo vidi senza il libro misterioso – ce l'ho ancora qui per non aver mai saputo quel titolo – tra cui il giorno che arrivò con il fiore. No, dico: sono rimasto così! Dopo quella del poeta-musicista unpo'-tutto-un-po'-niente – o quel che era – ci furono ovviamente molte altre storie. Ma questa è la fine di quella storia; quella che sembrava non aver avuto un finale certo, definito e che invece secondo me non aveva avuto... un inizio. Vallo a capire cosa facesse lì su quella panchina ogni 97 sabato alla stessa ora. Ma se questo mo mi si presenta con 'sto fiore, allora no, non ho capito nulla di niente. Avevo fatto mille supposizioni: dallo spacciatore in su; e all'improvviso mi arriva “innamorato” con un fiore? Non esiste. Facile pure, coglione com'era, che era riuscito a farsi convincere a comprare il fiore da un cingalese ah, ah. No davvero, non lo so, non ho idea, mi arrendo... può essere qualunque cosa, qualunque storia; o magari non c'è proprio nessuna storia dietro al tizio e così il tutto finì per confondersi nel sogno del rosso sonno di un fiore. Una rosa, che prima di baciare per la prima ed ultima volta le gelide labbra della notte, sgocciolò una grossa lacrima che subito si fece ghiaccio. È così che finì. Il vento girandolò qua e là un foglietto di carta spiegazzato e un grosso, rosso, gatto cominciò a strusciare il suo muso sulla panchina. Il poetamusicista sembrò non accorgersi del gatto e guardando di fronte a sé si tirò su in piedi, di scatto, come sempre. Proprio in quel momento una piccola stella fece capolino tra le fronde dell'albero e, per un attimo immenso, lungo lo spazio di un niente, mentre il poeta se ne andava la luce di quella stella baciò quella goccia che la rosa abbandonata sulla panchina aveva deciso di piangere e che, in quel non-tempo, probabilmente pensò persino di essere un rubino. Da quel pensiero, nell'attimo di quell'illusione, nacquero 98 forse altre stelle, altri pianeti, intere galassie e forse anche altri universi. Anzi ne sono sicuro: altri spazi infiniti ed eterni ed altri tempi dei quali nessuno seppe mai nulla. Nemmeno il poeta – o quel che diavolo era – seppe mai nulla. Nemmeno di quell'immagine, di quell'incredibile fotografia impressa in quella gocciolina congelata in quel tempo e nella quale lui compariva di spalle mentre se ne andava via per non fare mai più ritorno. Ma c'era. Anzi, c'è. Per sempre. Io ne sono testimone. Io l'ho vista! 99 Pagina lasciata intenzionalmente vuota una cena al papadonprich Quella sera la compagna Petruskâ Oncheladäva era bellissima. E questo è un grosso problema. Infatti nonostante i capelli nerissimi raccolti in quel modo così singolare che mettevano in mostra quel suo magnifico collo così esile e bianco che invitava al morso, nonostante quei suoi piccoli seni – a ventosa o cipolla che dir si voglia – che era impossibile non notare (specie nelle fredde serate d'ottobre), nonostante quel suo nasino così grazioso che conferiva al suo volto un non so che di dolce e misterioso allo stesso tempo, nonostante fosse seduta al tavolo vicino al mio e io quella sera 101 mi sentissi bellissimo – con la testa tutta leccata come un esemplare da primo premio alla mostra canina del palazzo Serenova –, nonostante tutto ciò, e molto altro ancora, non è di lei che dovrò parlare. Infatti, mentre ancora ero intento ad ammirare la bella Petruskâ – che sembrava aver notato la mia presenza e che per la prima volta lanciava inequivocabili segnali di interesse all'indirizzo del sottoscritto – una voce, quella voce!, rovinò per sempre ogni mio proposito amoroso. – “Compagno Malmostovich! Sei proprio tu?” Si voltarono tutti al suono squillante di quella voce che, senza troppa fatica, era in grado di sovrastare l'orchestra del Papadonprich, uno dei ristoranti più raffinati e ricercati di tutta San Kristoburgo. Con estremo imbarazzo finsi un mezzo sorriso e salutai l'ingombrante e imbarazzante presenza del compagno Ivanolenko Bujardovich. Lo invitai a sedere con un ampio gesto della mano. Mentre osservavo Petruskâ che si alzava e si allontanava dal suo tavolo per non farvi mai più ritorno, Ivanolenko s'era già bello che seduto sulla sedia di fianco alla mia. Con il braccio alzato e un sorriso da orecchio a orecchio (contornato da quei suoi grossi baffoni neri), cercava di attirare l'attenzione del cameriere. 102 – “Bene compagno Ivanolenko, anche tu al Papadonprich questa sera? Una cena d'affari?”. – “Oh, no compagno Malmostovich. Niente affari 'sta sera. Basta affari, per carità! Durante tutta la settimana ho lavorato come un cane alla redazione dell'Istoriya. Per giunta il capo redattore mi ha dato tormento perché non si riusciva a tagliare fuori dalla foto del comizio Alessaja Alessajova. Sai... l'“amica” del consigliere Tarallòvich. Ma vedo che tu già mi hai capito, eh eh!” Strizzò l'occhio e io annuii. Adesso la verità è questa: non me ne importava proprio nulla. Ma dovevo sopportarlo per forza. Si da il caso che il compagno Ivanolenko Bujardovic fosse sposato con Ivanka Alessandréevskij, pro-segretaria del vice direttore dell'Ufficio Alloggi Pubblici. Per una serie di bizzarre vicende che avevano avuto come filo conduttore il chiacchiericcio pettegolo e puttanesco di certe signore, era venuto a conoscenza del fatto che avevo elargito una lauta mancia nella gara per l'assegnazione dei bilocali sulla via Casabellaja. Mi toccava essere gentile con lui, insomma. – “Ah, interessante. Avete poi risolto?”, dissi fingendo interesse mentre giocherellavo con un grissino. 103 – “Oh be', sì. Alla fine ho ordinato dei nuovi stencil da un catalogo francese che mi era passato per le mani alcuni mesi fa e che, in quanto a realismo, sono qualcosa di eccezionale. Ho quindi sovrimpresso sul negativo una grossa mano che regge una coppa di champagne, coprendo così il volto della signorina Alessaja. Credimi: la foto nell'insieme è un'autentica opera d'arte! Dovresti vederla compagno Malmostovich!”. – “Sì, certamente...”, dissi. – “Considera che sarà pubblicata in prima pagina sull'Istoriya di sabato...” – “Non mancherò”, aggiunsi. Grazie al cielo arrivò il cameriere con il mio piatto di popporoppo ad interrompere quella situazione noiosa ed imbarazzante. Niente, non era proprio serata: il contorno di fagiolini e melograno non aveva il luccichio tipico della cottura al burro. – “E tu come mai qui, Dorian? Posso chiamarti Dorian, vero?” – “Certamente. Mah, nulla di che compagno. Anche io dopo una lunga settimana di lavoro ho deciso di regalarmi una serata di svago”. – “Ah già, come va al cinematografo?”. – “Tutto bene. Anche se ultimamente sono arrivati quindici nuovi film di produzione estera e 104 ho avuto un gran da fare con la supervisione e la censura”. – “Beh, se non altro ti vedi un sacco di bei film gratis Dorian, non è vero? Ah, ah, ah!”. Si allungo verso di me e mi strinse il collo in una morsa poderosa. Poi cominciò a strattonarmi come se fossimo ad un raduno di vecchi reduci ubriachi. – “Ma guarda com'è bello il mio amico Dorian Malmostovich”, disse tirandomi i baveri della giacca. “Che eleganza, che raffinatezza! Anche le scarpe: quelle che vanno di gran moda in Belgio!”. – “Come diavolo hai fatto a vedermi le scarpe compagno Ivan?”, dissi senza riuscire a nascondere il mio stupore. I miei piedi infatti si trovavano sotto il tavolo, nascosti da una lunga tovaglia che arrivava quasi fino al pavimento. – “Ah beh, Dorian”, disse lui un po' imbarazzato. “È una specie di tic nervoso, una fissazione diciamo”. Mi guardò in modo strano e, per la prima volta da quando lo conoscevo, sentii che il compagno Bujardovich aveva qualcosa di interessante da raccontare. – “Sentiamo, di che si tratta Ivanolenko? Una qualche specie di strana depravazione?”, dissi. – “Oh, no! Nulla del genere Dorian, nulla del genere”, mi rassicurò lui. 105 – “E allora che?”, dissi io cercando di fargli vuotare il sacco. – “Ti spiego subito. Tutto ebbe inizio quando il direttore Karriolòvich mi chiese di partecipare a una cena. Si trattava di un evento sociale, «probabilmente una cosa noiosa», disse lui. Beh, sta di fatto che era stato spedito un invito anche alla redazione dell'Istoriya. Il direttore mi supplicò di andarci io visto che lui era molto impegnato in faccende personali. Mi pare fosse quello il periodo in cui la sua vecchia nonnina era molto malata e lui le portava le focaccine. Va be' ma questa è un'altra storia...”. – “Infatti”, dissi io. “Ti prego continua Ivan”. – “Certo Dorian. Beh ecco, ci pensai un attimo e mi dissi: «ma sì, dopotutto si tratta solo di una cena. Gratis per giunta!». E diedi così il mio assenso”. – “E...”, dissi io impaziente. – “Un attimo di pazienza Dorian, un attimo di pazienza, ora ti dico tutto. La cena era stata data da Dragan Polijandrovic, il famoso commerciante di pesce. Sono sicuro che ne avrai sentito parlare...”. Mi guardò con lo sguardo di traverso e con un certo imbarazzo mentre si arrotolava nervosamente il fazzoletto tra le dita. 106 – “Oh, suvvia Ivan, non crederai a queste sciocchezze!”. – “Oh beh, Dorian!”, fece lui, “lo sai che io sono una persona con i piedi per terra, non sono un sempliciotto e men che meno uno superstizioso...” Lo interruppi subito: – “La storia secondo la quale Dragan Polijandrovic avrebbe venduto la sua anima al diavolo in cambio del successo economico è la cosa più bislacca che si sia mai sentita. Suvvia Ivan! Un pescatore che vende l'anima al diavolo. E per cosa? Per pescare più pesci? Non potrebbe mai succedere nemmeno nella peggiore delle pellicole che mi passano tra le mani ogni giorno!”. – “Lo so Dorian, lo so. Ma ascolta quello che ho da dirti: mi recai alla cena e, di tanto in tanto, mi capitava di pensare a questa stupida storiella che gira da tempo. Ma la cosa mi faceva solo ridere, ovviamente. Finché non è capitato ciò che nessuno si sarebbe aspettato...”. – “Cioè?” – “Cioè nel bel mezzo della serata qualcuno osò tirare fuori l'argomento!” – “Intendi dire..?” – “Esatto: non ricordo chi, non ricordo come, ma qualcuno osò chiedere a Dragan in persona se 107 quella storia sul patto con il diavolo fosse vera!” – “E poi?” – “Fu molto imbarazzante! Il silenzio cadde nella sala e – sarà stata la suggestione, sarà stato il vino – ebbi persino l'impressione che la luce delle candele si fosse d'improvviso affievolita...”. – “Oh, suvvia...”. Lo guardai divertito. – “Qualcuno parlò e cercò di sdrammatizzare – continuò Ivan – ma fu subito interrotto da Dragan Polijandrovic. Per tutta la cena, e anche in quel momento, non aveva mai mutato quella sua strana espressione di tristezza mista a disgusto.” – “E cosa fece?”. – “Parlò. Disse: «La cosa non mi offende. So che gira questa voce; così come so che le persone si nutrono di superstizioni; così come so che le persone vedono come se avessero un velo davanti agli occhi quando si trovano davanti a ciò che non capiscono». Questo disse.” – “E dopo?” – “A quel punto Dorian, ti prego di credermi, Dragan aggiunse: «così come so – con certezza assoluta! – che qualunque persona che dovesse essere tentata dal portare a termine un contratto di quel tipo commetterebbe un errore terribile!». – “E allora? Che c'è di strano?” 108 – “Beh, Dorian: è il modo come l'ha detto! Come se avesse voluto lasciar intendere che lui lo sapeva per davvero cosa succede a fare un patto con il diavolo! E poi successe che nel momento in cui finì di pronunciare queste parole, le finestre della sala si spalancarono. Un vento di una forza inaudita spense tutte le candele e fece volare per aria piatti e bicchieri. Potevo vedere chiaramente la sua silhouette che si stagliava di fronte alla finestra aperta. Si alzò in piedi e si diresse verso la porta della sala e andò via. Adesso, e ti giuro che è vero, ci fu una cosa che mi fece accapponare la pelle. A me e a tutti i presenti: il suono dei suoi passi. Era chiaramente, distintamente, il suono degli zoccoli di una qualche creatura infernale! Qualcosa tipo un caprone, o che so...” – “Ma per favore Ivan! Questa storia non ha senso!”. – “Dorian! Te lo giuro sui miei nove figli!”, tuonò lui. “Non so se si trattò di uno scherzo ben orchestrato o cosa, ma quello che ti ho raccontato è esattamente quello che è successo.” – “E quindi Ivan? Mi vuoi forse dire che il signor Polijandrovic ha fatto un patto con il diavolo? Che esso stesso è il diavolo? Cosa?”. – “Ma non lo so Dorian, non lo so!”, disse lui spazientito. “Ma ti posso garantire che non ho mai avuto così tanta paura in vita mia!”. 109 – “Devo ammettere però che è una storia interessante Ivan”, dissi. – “Certo Dorian. E come ti dicevo prima da allora mi è rimasta questa specie di fissazione. Non posso fare a meno di osservare i piedi delle persone, specie quando sono sedute al tavolo. Inconsciamente mi rassicura vedere che sono piedi umani e non quelli di un qualche diavolo venuto dall'inferno. Mi fa sentire al sicuro.” – “Ah, ah, ah!”, lo interruppi io non riuscendo a trattenere il riso. “Povero Ivanolenko!”. – “Beh sì, capisco che faccia un po' ridere. Ma sai?”, disse mentre il suo umore giocoso e burbero riprendeva nuovamente il sopravvento, “la cosa ha anche una sua utilità, diciamo.” – “Cosa intendi dire?”, chiesi incuriosito. – “Nel tempo sono riuscito ad imparare molte cose sulle persone. Semplicemente osservando il tipo di scarpa che indossano. Non sono riuscito forse poco fa ad indovinare che le tue scarpe sono di provenienza belga?”. – “Già, è vero!”, ammisi. – “Beh le scarpe dicono molto di una persona, Dorian. E ti assicuro che sono infallibile. Ad esempio vedi quel tizio laggiù?”. – “Mmm, sì...” 110 – “Quello è un beccamorto: solo i becchini hanno quel tipo di scarpa con il tacco così alto e la suola ricurva verso l'alto.” – “E quindi?”, dissi con un velo di incertezza. – “Eh, niente. Era giusto per darti una dimostrazione pratica”, replicò il compagno Ivanolenko. “Insomma Dorian, ho questo dono e... ad esempio quella signorina che era qui prima! Te la ricordi?”. Mi venne un colpo: parlava di Petruskâ! – “Certo! Ti prego dimmi...”, dissi cercando di fingere disinteresse. – “Eh, niente Dorian: indossava la calzatura tipica della via Petralojava.” – “E allora?”. – “È una mignotta!” Ingoiai l'ultimo boccone di storione con la pelle, le lische e tutto il resto. 111 Pagina lasciata intenzionalmente vuota escape Ad Achille e Giovanni Judica Cordiglia, pionieri del radioascolto dello spazio, curiosi, sognatori e fratelli; ai giochi d'infanzia e alla fantasia. All'alba del terzo giorno ci rendemmo immediatamente conto che i danni subiti nella battaglia della notte precedente erano molto più gravi di quanto credevamo, e compromettevano la nostra situazione più di quanto avevamo pensato. Il mio primo ufficiale, e unico membro sopravvissuto dell'equipaggio, riepilogò in breve – e con un tono decisamente formale che però si addiceva perfettamente, ahimè!, alla situazione – la nostra condizione attuale: – “Capitano: siamo fottuti!” 113 – “Qual è lo stato della nave, ufficiale?” – “Il timone è mezzo distrutto e abbiamo perso una parte dell'ala destra; c'è anche una grave falla nella parte inferiore dello scafo. Il problema principale resta comunque il sistema di puntamento ottico che è stato danneggiato in modo irreparabile.” Asciugai distrattamente una goccia di sudore che, scivolando dalla mia tempia, attraversò rapidamente il mio volto sconvolto dalla stanchezza. – “Non siamo in grado di puntare le coordinate astrali per il salto nella curvatura?” – “Esatto capitano. Inoltre l'alimentazione del sistema di schermatura dei radar è andata...” – “Siamo scoperti?” – “Già. Se dovessimo abbandonare questo nascondiglio di fortuna per tentare di penetrare l'atmosfera saremmo un bersaglio fin troppo facile per la flotta di Astharte.” Avevamo peccato di presunzione. Memori delle gloriose imprese delle forze di terra, di mare e di spazio del nostro impero millenario, eravamo arrivati al punto di ignorare le più elementari misure di sicurezza. Inutilmente spavaldi e con la 114 discutibile speranza di poter raccontare quella battaglia ai figli dei nostri figli, eravamo partiti a bordo della nostra modesta nave di Classe Gamma alla volta del pianeta Astharte. Sarebbe dovuta essere una cosa semplice come per l'annessione del pianeta Hoobertröt. Avremmo dovuto incontrare un'orda di cavernicoli festanti pronti ad accoglierci come degli dei. Trovammo invece un'intera flotta di navi spaziali armate fino ai denti che non ci fece nemmeno la cortesia di rispondere ai segnali del nostro transponder tattico, o il favore sacrosanto di intimarci almeno un ordine di arresto. Grazie alla potenza di fuoco, allo schiacciante vantaggio numerico e all'incredibile ferocia esponenzialmente superiore alla nostra, ebbero subito la meglio. Nel giro di poco l'Übershaft-S3 precipitò verso l'atmosfera del pianeta nemico e, superato inaspettatamente lo strato più denso della fotosfera, iniziò la sua rovinosa caduta verso il suolo ostile. Nel silenzio più totale, e accompagnata da una scia pirotecnica di fumo e scintille colorate, la nave impattò in una zona caratterizzata dalla presenza di un'imponente foresta di thetifogli. Questo fu evidentemente l'unico evento fortunato di tutta l'impresa visto che ci consentì di rimanere nascosti, almeno per la notte. Ma con la luce del giorno sarebbe stata solo 115 questione di tempo prima che il nemico si rendesse conto della nostra posizione; era quindi necessario muoversi il più in fretta possibile. Non solo adesso sapevo cosa si provava a trovarsi dalla parte del topo ma, per la prima volta nella mia vita, sentivo tutto il peso del mio ruolo di capitano. “Il sistema elettronico artificiale di bordo?” di intelligenza “L'assistente virtuale A.I. Thoring non risponde a nessun tentativo di input, capitano.” “Provi a riavviare il sistema in modalità S.U., ufficiale.” Il tenente Dew aprì uno scompartimento di fianco alla cloche secondaria. Ne tirò fuori una chiavetta U.S.B. che infilò in una fessura che si apriva tra l'elenco telefonico di Milano e le Pagine Gialle. Per un attimo rimasi perplesso ma ritornai subito in me non appena Dew cominciò a fare rapporto sulla situazione: “Sta caricando. In meno di trenta secondi il sistema entrerà in modalità provvisoria. Ecco, vedo il logo di win...” A questo punto la rabbia si impossessò di me: “Siamo nel duemilacinquecento! Secondo te nel duemilacinquecento...” 116 Proprio in quel momento, mentre il mio primo ufficiale serrava con forza nel pugno la cornetta dell'iperfono (dalla quale si accingeva a lanciare un ultimo e disperato S.O.S. e che, senza alcun ombra di dubbio, aveva la forma di un barattolo di yogurt), una voce stridula di donna riecheggiò nella cabina di pilotaggio interrompendoci: “Achille! Giovanni! Smettetela di giocare: è pronta la cena.” Dopo un respiro di rassegnazione la mamma aggiunse, sottovoce: “Ce l'hanno proprio nella testa questo spazio...” 117 Pagina lasciata intenzionalmente vuota non s’è padroni Il punto è questo: non s’è padroni di niente, nemmeno di quello che diciamo essere nostro. Ad esempio: c’era una volta una penna... no. Un giorno un uomo d’affari... neanche. Forse così: era di martedì o forse mercoledì, pioveva e tuonava così forte da convertirsi al cristianesimo e… no, non va bene. Ad ogni modo il fatto è questo: La penna Parker scivolò dal taschino sul quale era ricamata una grossa lettera G, e andò a tuffarsi dritta dentro un tombino nel quale l’acqua 119 piovana scorreva veloce lungo il canale di scolo. La forza di gravità la attirò a sé facendola coricare esattamente nella direzione verso la quale l’acqua scorreva, e la corsa ebbe inizio. La penna schizzò a tutta velocità davanti al muso di un topo di fogna, per poi continuare la sua corsa verso via Roma, in direzione del municipio di Casal Pizzardone. No, no, non è così. La penna cadde dal taschino e si infilò dentro il tombino, appunto. Poi iniziò la sua corsa lungo il canale artificiale in direzione sud, verso Time Square. Schizzò a tutta velocità davanti al muso di un coccodrillo – ecco! – poi attraversò in lungo tutta la Quarantaseiesima Strada, passando sotto i piedi di migliaia di cittadini ignari che si recavano a scuola, al lavoro, etc. Sbucò fuori non si sa come nei pressi di un parco pubblico dove, poche ore dopo, fu raccolta da un netturbino. No. La penna venne sputacchiata verso la superficie e uscì fuori nei pressi di una cittadina chiamata Crystal. Incredibilmente aveva percorso centinaia di miglia in direzione nord, attraversando quasi tutto il New England. Venne raccolta non da un netturbino, bensì da un pescatore di aragoste che quando l’ebbe tra le mani esclamò: “Oh! Una penna Parker”. È evidente che ricordo male. Non era un pescatore. Fu una ragazzina a trovarla, Emily Whirter, e quando la prese in mano la 120 studiò per qualche secondo prima di leggere la scritta ormai rovinata: Darker. “Interessante! Una penna Darker”, pensò. Quel nome le piaceva e così decise di tenerla con sé. Fece persino in tempo a scrivere un’intera pagina sul suo “diario-libro delle ombre”, con quella penna, prima di perderla il giorno dopo sui banchi di scuola. In verità non la perse. Semplicemente un suo compagno di scuola la lasciò “scivolare” dentro il suo zaino mentre passava vicino al suo banco. Arrivato a casa fece il punto della situazione sul bottino della giornata e decise che il fumetto di spider–man rubato a Eddy era più interessante. Prese dunque la penna Parker, o Darker che dir si voglia, e la lanciò sbadatamente su un tavolino vicino agli elenchi telefonici. La penna passò lì tutta la notte indisturbata fino al mattino dopo, quando il signor Hatman la prese per appuntarsi un numero di telefono. Era terribilmente in ritardo per il suo volo, quindi infilò istintivamente la penna nel taschino della camicia e scappò di casa. L’uomo che sedeva vicino a lui sull’aereo tirò fuori delle carte. Anche lui era in viaggio per affari. Ma, a differenza del signor Hatman, il suo era un viaggio di ritorno: verso New York, verso casa. Si frugò nelle tasche e si rese conto di aver 121 perso la sua penna. Chiese al suo vicino di posto, il signor Hatman, se per caso non ne avesse una. Hatman infilò la mano nel taschino e un attimo dopo gli porse la sua penna Parker, quella presa vicino agli elenchi telefonici sul tavolino di casa. L’uomo la osservò in modo strano e mentre allungò la mano sinistra per prenderla con la destra tastò ancora una volta il taschino della giacca, sul quale era impressa una grossa lettera G. Ora, dunque: non s’è padroni di niente. Tenetelo a mente. 122 quid est veritas, claudia? Non-triste vagavo sentieri umidi di colori, dipinti di pioggia e sconosciuti al noioso cerchio del tempo umano. Arrampicavano la collina voltando ora a destra ora a sinistra, dolcemente sinuosi, e senza mai rivelare l’orizzonte dello spazio a cui non appartenevano. Una porta squarciò gli alberi. Il camminare incerto, tra i fili d’erba che inghiottivano qua e là la stradina, rallentò alla sorpresa di questa nuova. 123 Avrebbe dunque potuto esserci qualcosa oltre. Forse non è il sogno l’ultimo approdo. Attraverserò quel passaggio. Vedrò il luccichio di troppe stelle svanire. Vedrò i colori delicati, d'olio abilmente schiacciato sulla tela in vece del sole; li vedrò farsi buio. Il buio sarà stato fatto vuoto. Il vuoto lo si avrebbe voluto fare morbidoniente, prima del momento in cui vagherà un tempo, tremolando al calore del bitume il riflesso dell’illusione prima, nella quale questo incedere stanco avrà avuto inizio in un passato nel quale affogo ora la coscienza. Sai tu, degli inganni della parola? E delle geometrie, li sai? Eppure un tempo, prima del grande equivoco del nascere, eri in quello stesso buio. E non c’erano etichette per le cose, e non c’erano nemmeno quelle: le cose. Non c’eri nemmeno tu; ma eri. Sai cosa se ne fa il buio eterno dell’universo di questo sole? E delle coniugazioni verbali? Sai tu? 124 il gnomo dei funghi caprini La ricerca della felicità non aveva mai prodotto così cattivi frutti per il signor Arcibaldus Scancanelli come quella volta in cui, per puro caso, si imbatté in uno gnomo dei funghi caprini. Innanzitutto c’è da precisare una cosa: non vi salti in mente di cercare notizie a proposito dei funghi caprini: non ne trovereste nemmeno nei più dettagliati trattati di fungologia conosciuti; secondo: non vi salti in mente di mettervi alla ricerca del fungo caprino! Anche qualora vi riuscisse di trovarne uno – il che è assai improbabile – sarebbe un’esperienza che nessun 125 umano si augurerebbe di provare: si da il caso che il fungo caprino, anche detto “capperino”, abbia un pessimo sapore. A dire il vero è amaro come il veleno e lascia sulla lingua una sensazione di pelo di gatto. È inoltre salatissimo con un retrogusto di aceto di cipolla ma, per qualche strano motivo, piace molto alle capre selvatiche. Da qui il nome di fungo caprino. Bene, vi ho avvisati. Or dunque: questo signor Arcibaldus del quale mi accingo a raccontare era famoso nel paese dove abitava (Serpentara Mordazia o qualcosa di simile) per le sue modeste qualità di fisarmonicista. A dire il vero non era proprio un granché come suonatore di fisarmonica, anzi c’era chi diceva che non fosse poi così bravo. Qualcuno persino lo derideva. Anzi a dire il vero tutti si facevano beffe di lui quando suonava la sua fisarmonica. Insomma: era un cane! Benché avesse coltivato la passione per la fisarmonica sin da bambino non era mai riuscito a raggiungere dei risultati apprezzabili. Un esempio: ai primordi della sua carriera hobbistica il nostro, pieno di ardore, ebbe l’ardire di proporsi per suonare ad un matrimonio, quello tra sua cugina Sigiscalca e il signorino Wilfred Schioppatrombelli: fu un disastro. Vuoi l’inesperienza, vuoi l’emozione, la fisarmonica di Arcibaldus iniziò a soffiare una marcia funebre a ritmo di foxtrot! Inoltre: per qualche oscura ragione lo strumento (stonato) non ne voleva 126 sapere di stare zitto. Continuò ad emettere suoni lugubri e pungenti fino a quando lo sposo non pronunciò il fatidico “No!”. Poi saltò in sella alla sua motoretta e se ne tornò a casa incarpiato nero. La cugina non glielo perdonò mai, inutile dirlo. Altro esempio: la gara annuale per fisarmonica della Sagra del Ranocchio. Per dieci anni consecutivi il povero Arcibaldus arrivò sempre diciassettesimo, ovvero ultimo. Tranne nel millenovecentosettantapulci quando arrivò sedicesimo, ma solo perché uno era rimasto a casa col mordillo gallico. Insomma il povero Arcibaldus ce la metteva tutta ma più si impegnava più gli veniva male! Esempio: il re maggiore non lo sapeva fare perché aveva le dita troppo cicciotte e quindi gli si incastrava sempre il sullice tra il la bemolle e il la. A volte il dito rimaneva proprio incastrato incastrato e doveva quindi chiedere aiuto a qualcuno per essere liberato. E va be’. Altro esempio: il fa maggiore suonava come un fa minore; quello minore come quello maggiore. Il do diesis era un re bemolle aumentato settima. La sua scala musicale, inoltre, comprendeva una misteriosa ottava nota e faceva più o meno così: Do, re, mi, fa, sol, la, si, blaaah! Questa nota, che chiameremo appunto blah, aveva delle proprietà sonore molto particolari: 127 ricordava il suono di un fischio di naso soffiato in un citofono. Se suonata alle ottave più alte produceva la rottura delle bottigliette di succo di frutta alla pesca. Alle ottave più basse sembrava istigare gli abitanti del paese a comportamenti lupoidi. Chi vi parla ha ragione di credere che ci fosse un non so che di geniale nel signor Arcibaldus Scancanelli ma, appunto, non so cosa potesse essere. Bene. Si fa per dire. Alla vigilia della Festa di Primavera dell’anno prima di quello appena passato, Arcibaldus si recò alle prove per i musicisti. Anche quell’anno in occasione della festa di primavera si sarebbe tenuto il ballo delle debuttanti, durante il quale tutte le giovani fanciulle del paese avrebbero fatto il loro ingresso ufficiale… nel paese. Era una festa molto sentita per varie ragioni e, visti i precedenti nelle passate edizioni, Arcibaldus fu cacciato via non appena si presentò per l’audizione. Non gli diedero nemmeno la possibilità di suonare il brano che aveva composto per l’occasione: “La Marcia dei Polpastrelli”. Qualcuno lo minacciò addirittura col pugno alzato se solo avesse osato provare: “Guai a te se solo osi provare!”. Poverino! Be’ è triste da dire ma Arcibaldus pianse. Pianse tanto. E cominciò a camminare da solo, senza una meta. E più camminava e più 128 piangeva, e più piangeva più camminava. Si interruppe giusto un attimo quando incrociò uno strano individuo a un bivio, un giovane molto elegante con un una camicia da gran galà a bordo di uno strano cavallo meccanico a sbalzo radente. Il giovane prima di prendere il sentiero a sinistra lo apostrofò dicendogli: “ahah! Pista nonno! La Festa dei Sarcofanti è dall’altra parte!”. Si sentì vecchio e inutile: e pianse ancora di più. È imbarazzante lo so, ma è proprio ciò che avvenne. Poi, all’improvviso, senza sapere bene come si rese conto di trovarsi nel mezzo di una radura. “Dunque vediamo – pensò – al bivio sono andato a destra, il bosco dei Lunghi Ciuffi è a sinistra… dove mi trovo? Mi sono forse perso? Ma chi se ne importa... me ne starò qui e intonerò un allegro assolo con la mia fisarmonica”. Una voce severa ma cordiale interruppe i suoi pensieri: – – – – – “Per la carità!” “Chi è? Chi ha parlato?” “Sono io, Caffio!” “Caffio?” “Caffio Peo, sì: il gnomo dei funghi caprini” Arcibaldus si guardò intorno e dopo averlo cercato in lungo e in largo finalmente lo vide: sdraiato comodamente su un tozzo fungo a macchie gialle e rosse c’era uno gnomo! Un vero e 129 proprio gnomo con la barba lunga lunga, i calzoncini rossi alla zuava, il gilet di pelle di capriolo e una grossa pipa fumante dalla quale usciva uno strano odore. E il cappello! Maremma fattucchiera me ne stavo dimenticando: un enorme cappello rosso con un campanellino d’oro proprio sulla punta! – “Non hai mai te, letto di me, nelle fiabe dei bambini?”, disse lo gnomo. – “No”, rispose Arcibaldus. – “Allora me le racconto tutte e settecento a te!” – “No, no, le ho lette… giuro!” – “Ah, ok…”, rispose il nano poco convinto. “Sicuro non fosse Devil Gnomo?” – “Non so...”, disse Arcibaldus frastornato e ancora incredulo per quella bizzarra apparizione. – “Va be’, fammi fare il mio lavoro: sono Caffio Peo, il gnomo dei funghi caprini…” – “Si dice lo gnomo…”, lo interruppe Arcibaldus che, oltre a suonare la fisarmonica per hobby, era anche professore di lingue ermetiche presso l’Accademia del Saput Hell. – “Eeeh, amico mio: marchi male!”, disse lo gnomo, “Lascia correre e ascolta che non posso stare tutta notte su 'sto fungo. Allora…” 130 Arcibaldus fece un gesto come per scusarsi e ascoltò attentamente. Caffio Peo continuò: – “Aaaallora: sono Caffio Peo, il gnomo dei funghi caprini, e sono tre! Vivo nei pressi dei funghi caprini e di norma mi faccio burla dei passanti: gli tiro i sassetti sulla capoccella e gli do la direzione sbajata quando mi chiedono da che parte andare. Esempio: se devono andare per di qua ji dico di andare per di là, se devono andare per di là ji dico di andare per di sú, e via discorrendo. Te capì?” – “Si!”, rispose Arcibaldus. – “Adesso, senza tirarla troppo per le lunghe, il fatto è questo. Punto primo: di norma, ripeto: di norma!, quando faccio ji scherzi sto sempre ben nascosto per non farmi vede'. Punto secondo: vuole la regola che quel gran furbacchione che dovesse riuscire a vedermi, guarda un po’, guarda un po’...” – “Può esprimere interruppe Arcibaldus. un desiderio!?”, lo – “No: se ne va dritto all’inferno!”, disse lo gnomo. Arcibaldus tirò un terribile grido mentre l’orribile gnomo gli saltava alla gola con le zanne di fuori tutte ricoperte di sangue e miele. Una 131 terribile litania cominciò a levarsi nella notte e, come in un’oscura sinfonia del demonio, tutti i lupi mannari risposero in coro al grido demoniaco di: – “redruuum!”. MORALE: Quindi bambini mi raccomando: non parlate mai con gli sconosciuti! 132 luysä «All'alba del tredicesimo giorno superati i monti Nonosär, il fiume Nonvailà e i possenti ed eterni ghiacciai del Tornalí, giungemmo ai confini conosciuti della Terra del Nonpiuê. Un mare immenso, un oceano senza nome, si estendeva di fronte a noi, infinito ed eterno. Come descritto nelle Cronache Galassie le titaniche statue di Rajne, Hydra e Shakty si ergevano, superbe, ai lati del golfo del Tunonê, silenziosi testimoni di Impermanenza, Moto e Cambiamento. Guardai con soddisfazione Galef, l'ermete reggente dell'eremo dei Cinque Petali che aveva benedetto e accompagnato la nostra spedizione ai 133 confini del Sapere. Mi rispose con un cenno del capo poi fissò lo sguardo verso l'infinito e disse, citando il Libro dei Saturnini: – “Non è del superbo, non è del sapiente la verità dei Cinque Petali. Solo a colui che varcherà i confini di Paura e Restrizione gli dei concederanno di salire sul nobile vascello alato che spezza le onde impetuose del mare chiamato Conoscenza, per approdare nel regno del Luysä”. Allungò poi il braccio con il dito sullice che puntava verso lo zenit per farlo ricadere un attimo dopo in direzione di una piccola caletta in fondo ad un temibile strapiombo. Guardai con attenzione: una piccola barchetta di legno fradicio che cadeva letteralmente a pezzi era ancorata ad un piccolo molo che versava nelle stesse condizioni. C'erano anche le ali, una da una parte, una dall'altra, dipinte con una qualche vernice ormai scrostata. Sulla prua dell'imbarcazione, se così la si poteva chiamare, era inciso il sacro nome del natante in caratteri citrullici: Përdiqua. – “Ma Galef – dissi – cade a pezzi!”. Galef mi guardò con uno sguardo di rimprovero. – “Cosa ti ho appena detto Garolfo Patafraskio della tribù dei Sulfanelli? Solo chi varcherà i confini di Paura e Restrizione!”. – “Sì, ma io mi aspettavo qualcosa di più sontuoso, qualcosa di più... meglio!”. 134 Non l'avessi mai detto! Il volto del vecchio Galef si tramutò in una maschera di rabbia. Soffiò così forte che una nuvola di fumo settembrino usci dalle sue narici. Alzò il bastone versò l'alto invocando Hydra e Tothomut e un tuono impetuoso fece scricchiolare tutte le mie ossa, giù giù fino all'ultimo dito del mio irsuto piede. – “Anni e anni di duro lavoro e di preparazione e ancora cadi vittima della stupidità e del pensar leggero! – tuonò Galef – Non devi guardare le apparenze: la forza di quella barca, la sua capacità di varcare questo mare sconfinato dipendono solo da te! Così come la buona riuscita dell'impresa. Non è forse stato detto che solo il più coraggioso vi riuscirà? Non è forse scritto che solo il prescelto, facendo di sé stesso un faro nella notte, riuscirà a trovare la direzione?”. – “É vero Galef. Hai ragione”, dissi. – “Allora forza: siamo giunti fin qui, ora manca solo l'ultimo passo, quello decisivo. Incamminiamoci!”. Diedi ordine al resto del seguito di aspettare lì sul promontorio. Io e Galef partimmo in direzione della caletta. Per un po' camminammo lungo un sentiero scosceso e sdrucciolevole ma praticabile. Ma dopo nemmeno dieci minuti di cammino dovemmo fermarci: il sentiero finiva esattamente dove cominciava lo strapiombo. 135 – “Come facciamo ora per proseguire Galef?” Il vecchio saggio cominciò a passarsi la mano sulla lunga barba bianca. Stava pensando. Faceva sempre così quando pensava e di solito la cosa produceva buoni frutti. – “Ci sono!”, disse. “Ricordi i semi di biancofiore che ti ho detto di portare?” – “Si!” – “Bene: li useremo per invocare le ninfe palustri. Usando i semi di biancofiore come merce di scambio le convinceremo a prestarci i loro capelli e li useremo come corda per calarci di sotto!” – “Galef...”, lo interruppi. – “Che c'è Garolfo?”, disse lui con uno sguardo un po' perso. – “Al quarto giorno, preso dalla fame, ho pescato nella sacca e scambiandoli per semi di zucca me li sono mangiati.” Galef si diede una pacca sulla faccia e disse: – “Va bene, allora facciamo così: invocherò lo spirito dell'aquila pellegrina e le chiederemo un passaggio sulle sue possenti ali. Ma mi raccomando: dovrai essere scaltro perché dovremo prenderla al volo!” – “Va bene Galef!” 136 Allora Galef chiuse gli occhi, si concentrò e recitò la formula magica del Pilastro di Zoth, che faceva più o meno così: Ohmtà, Ohmtà Shà! Ohmtà, Ohmtà Ia! Olla sù, Olla giù, Lalla-là, lalla-là là! Rimase per un attimo fermo con le braccia alzate verso il cielo. Aspettammo un pochetto, ma non accadde nulla. Ci guardammo perplessi poi ci voltammo in direzione di una radura poco più in là dalla quale sentimmo provenire dei rumori. Vedemmo una cosa scivolare giù da un albero che presto cominciò a dirigersi verso di noi, correndo veloce in mezzo alla folta erba frollina. Ci guardammo ancora con stupore non avendo la minima idea di cosa stesse succedendo, quello che era certo è che non si trattava di certo di un'aquila. Infatti, all'improvviso, dal manto d'erba spuntò fuori un esserino piccolo piccolo: uno gnomo! – “Signori buongiorno, scusate il ritardo! Sono Caffio Peo, il gnomo dei funghi caprini. Chiedo scusa ma ero occupato in una certa faccenda con un tizio e la sua fisarmonica.” Galef si passò la mano sulla fronte: 137 – “Avrò mica sbagliato formula?” – “Non so signore, io ho ricevuto la chiamata e mi sono mobilitato il più in fretta possibile”, disse lo gnomo, “prego dite pure!” – “Oh, va be', vada per lo gnomo”, disse Galef. “Caffio Peo, so che voi gnomi dei funghi caprini siete famosi per giocare brutti scherzi, ti avverto...” – “Oh no, signore”, lo interruppe lui. “In primis quello lo facciamo solo per hobby; in secundis è vietato fare scherzi sul lavoro e si da il caso che io ora stia lavorando; e in terzis nessuno gnomo si sognerebbe mai di fare uno scherzo a un ermete magister come voi.” Galef fece una smorfia di assenso e soddisfazione e diede una carezza sulla capoccella dello gnomo, facendo tintinnare per un attimo il campanellino dorato che stava sul suo cappello. – “Amico gnomo, Caffio Peo!, abbiamo bisogno del tuo aiuto! Dobbiamo assolutamente raggiungere quella caletta laggiù dove c'è quella barchetta. Ma non sappiamo come fare perché lo strapiombo ci ostacola e in questa terra di confine i miei poteri sono molto limitati”. – “Non vi è problema alcuno”, rispose Caffio Peo. “La soluzione sta in quel boschetto laggiù: ci sono degli alberi amici miei chiamati bonzigonzi che hanno delle grosse grosse foglie. Adesso si da 138 il caso che grazie a questa mia polverina magica – e qui cominciò a frugarsi nelle tasche – posso aumentare il potere fluttuante delle foglie di bonzigonzi rallentandone la caduta. Ora: posizionandole una alla volta possiamo creare una specie di scala con la quale discendere giù, giù, giù fino a quella vostra graziosa barchetta...” – “Ma è geniale Caffio Peo!”, disse Galef. “Presto allora: andiamo dagli alberi bonzigonzi!” Ci incamminammo dunque verso il boschetto che si trovava a... uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, stop! Otto passi più in là e in soli due secondi e mezzo arrivammo. – “Ehilà, amici bonzigonzi!”, disse Caffio Peo rivolto agli alberi. – “Ehilà brutto nano, ancora tu?”, rispose un grosso bonzogonzo. “L'ultima volta che ti s'è visto da queste parti...” L'albero non fece in tempo a finire la frase che Caffio Peo gli saltò addosso al grido di “Redrum!”. Un attimo dopo il povero albero bonzogonzo era tutto ignudo come una canocchia, spogliato completamente delle sue foglie! – “Mi scusino lor signori ma non è il momento per lunghe e fastidiose discussioni”, tagliò corto lo gnomo. “Poi ci accordiamo dopo con l'alberello. Suvvia di corsa che c'ho un'altra chiamata, giornata piena oggi!” 139 – “Ma 'ste chiamate dove t'arrivano?”, dissi incuriosito. – “Qui!” rispose Caffio Peo sollevandosi il cappello sotto il quale c'era un grosso telefono a gettoni. – “Posso fare una telefonata?”, dissi. – “No scherzi? É solo per lavoro questo”, disse lui. Ci dirigemmo di corsa verso lo strapiombo. Caffio Peo ci diede le grosse foglie di bonzigonzi e poi tirò fuori dalla tasca una strana fialetta viola: – “Ecco la polvere magica, amici!” – “Bene, che si fa adesso?”, disse Galef. – “Eh niente: adesso io la cospargo sulle foglie in questa maniera... vedete?” – “Eh... si!” – “Ecco fatto! Adesso il potere fluttuante delle foglie è prolungato. Guardate voi stessi.” Lo gnomo prese una foglia e la lanciò delicatamente verso il vuoto: questa, magicamente, se ne stava sospesa in mezzo all'aria! Caffio Peo ci saltò sopra e disse: – “Adesso basterà metterne una un poco più in basso e poi saltarci sopra... poi un'altra e un'altra ancora e così via, finché non arriverete giù, giù, giù alla vostra barchetta!”. Io e Galef eravamo felici! Ringraziammo Caffio Peo e cominciammo la nostra discesa verso la 140 barchetta. Giunti a metà strada però cominciammo ad essere colpiti da dei sassetti che piovevano dall'alto. Alzammo lo sguardo: – “Amici scusate, è più forte di me!”, disse il nanerottolo. “Sono Caffio Peo, il gnomo dei funghi caprini. Di norma mi faccio burla dei passanti e gli tiro i sassetti sulla capoccella!” – “Avevi detto che gli gnomi caprini non fanno scherzi sul lavoro e non fanno scherzi agli ermeti magister!”, disse Galef indignato. – “Mentivo signore! Redruuum!” Dopo aver pronunciato il temibile grido Caffio Peo tirò su un grosso masso dieci volte, ma che dico dieci?, cento volte più grande di lui e minacciò di tirarcelo! Se fossimo stati colpiti da quell'immenso macigno saremmo precipitati senza dubbio verso la morte! Ma proprio in quel momento sentimmo un verso inconfondibile: era quello dell'aquila pellegrina che era stata invocata da Galef! L'aquila afferrò Caffio Peo per la giacchetta e lo trascinò via con sé, salvandoci da quel terribile pericolo! Continuammo la discesa e finalmente arrivammo al molo dove la barchetta Përdiqua era ormeggiata. – “Garolfo”, disse Galef in tono solenne, “Ora comincia il tuo viaggio verso il regno di Luysä!” 141 – “Ma Galef”, risposi io, “e tu come farai a tornare indietro adesso?” – “Ah, hai ragione”, disse lui, “non ci avevo pensato... oh, be' non è un problema: ho ancora i miei poteri acquatici... mi tramuterò in un grosso e possente pesce e in capo a tre giorni sarò a casa sano e salvo!” – “Sei il miglior ermete magister e mago che io abbia mai conosciuto, Galef!”, dissi pieno di orgoglio. In quel momento una lacrima si staccò dal mio occhio. Galef l'afferrò al volo e questa si trasformò in un cristallo. – “Conserva questa lacrima di cristallo Garolfo, non so perché ma sento che ti tornerà utile!”. – “Sarà sicuramente così”, dissi commosso, “prenditi cura di te Galef e mi raccomando: se durante il viaggio di ritorno dovesse venirti fame non mangiare niente vicino alla riva: potrebbe essere l'esca di qualche pescatore!”. – “Giusto, non avevo pensato nemmeno a questo... be', ciao amico mio! È ora che tu parta”. – “Ciao Galef, maestro sapiente! Porterò a compimento la missione, tornerò vincitore con la fiaccola della conoscenza e con essa illumineremo il mondo di una luce nuova!” 142 – “Che gli dei siano con te Garolfo Patafraskio della tribù dei Sulfanelli! Vai!”. Salii finalmente sulla barchetta. Adesso, se questa storia fosse stata scritta da un vero scrittore, e sottolineo vero!, come minimo la barchetta si sarebbe dovuta trasformare in un imponente vascello alato tutto d'oro. Se non altro come ricompensa per aver superato la paura di salire su quella bagnarola, dimostrando così la mia fede nel sacro libro dei Saturnini. Invece, siccome 'sta storia è stata scritta da uno che perde tempo a scrivere prima di addormentarsi: niente. La barchetta rimase un pezzo di legno marcio e cigolante in mezzo all'acqua e la mia paura era tanta. Ma tanta! Guardavo il mare di fronte a me e guardavo la barchetta. Ma poi trovai il coraggio dentro di me e capii che era giusto andare avanti. Dopo trecentosettantadue giorni di navigazione mi trovo ancora a bordo di Përdiqua. Ho conosciuto il temuto Palumbro dei sette mari che mi ha insegnato i segreti di Paura e ho navigato lungo le secche di Restrizione dove ho imparato a sopportare i miei limiti; ho fatto tappa su uno strano isolotto disabitato dove in una piccola capanna ho lasciato in dono la mia lacrima di cristallo; gli dei del luogo mi hanno dato in cambio un remo magico che mi ha permesso di imparare a 143 navigare meglio. Con una bussola trovata su uno scoglio abitato solo da trichechi ho imparato a navigare grazie ai punti cardinali, e con uno strano strumento rinvenuto nel relitto di una nave pirata ho imparato a calcolare l'orizzonte nautico. Mi sono dovuto ingegnare per scoprire nuovi metodi di pesca visto che le mie razioni di cibo sono finite presto; ho scoperto come raccogliere la condensa che si forma durante le prime ore dell'alba e a trasformarla in acqua potabile. Non ho idea di quanto durerà il mio viaggio verso il regno di Luysä. Non so nemmeno bene dove si trovi, ma ogni giorno che passa sento di essere più forte, nei muscoli, nelle ossa, nelle mani, nelle gambe e, soprattutto, dentro di me. Ho avuto la percezione di me stesso, ho scoperto di essere una persona: per la prima volta ho imparato qualcosa e l'ho imparato grazie ai miei sforzi. Non so quando arriverò a destinazione, ma ogni giorno che passa imparo sempre nuove cose e questo mi rende felice e speranzoso.» *** – “E questo è tutto magister.” – “Non c'è scritto altro sulla pergamena?” – “No.” – “E dove avete detto di aver ritrovato la barca abbandonata?” 144 – “Sugli scogli alla foce del fiume Scorrelà, poco oltre il precipizio del Saltaben.” – “Capisco...” – “La missione del reggente Galef è quindi fallita, pensate che sia il caso...?” – “No. Penso che sarà necessario rileggere attentamente il resoconto di Garolfo e meditare ancora sui misteri del regno di Luysä, per capire meglio come mai, ad oggi, nessuno è mai tornato indietro per raccontare cosa ha trovato alla fine del suo viaggio”. Detto questo Gondh, l'ermete reggente dell'eremo dei Cinque Petali, chiuse il Libro dei Saturnini che era aperto alla pagina settecentosettantasette. Soffiò sulla candela e le tenebre avvolsero tutto. 145 Pagina lasciata intenzionalmente vuota il palumbro All’alba del ventunesimo giorno eravamo stremati dalla fame. Le nostre membra erano lacerate e bruciate dal sale. Le nostre menti erano distrutte dalla consapevolezza di una morte certa in mezzo al nulla del mare infinito sopra uno scoglio aguzzo che, forse per capriccio, qualche dio malevolo ci aveva concesso come ultimo baluardo delle nostre tristi vite. Il terribile mostro degli abissi girava intorno al nostro scoglio come una trottola mortale. Non lo vedevamo ma sapevamo che c’era. Nelle nostre preghiere, tra una sillaba e l’altra, in ogni singolo 147 istante lui era sempre lì in agguato. Potevamo sentirlo nel rumore dell’onda che si infrangeva sullo scoglio, nel rombo gonfio di bolle che di tanto in tanto faceva tremare le nostre ossa; intuivamo la sua presenza dal comportamento degli uccelli che ci giravano attorno, nei loro versi scomposti e spaventati. Ma, soprattutto, lo sentivamo sotto la pelle e lungo la schiena, fin dentro le ossa e giù, giù, fino agli spazi più inaccessibili dell’animo umano. Il suo nome era Palumbro e uno alla volta, lentamente, molto lentamente, ci stava trascinando giù verso l’inferno che, fino ad allora, avevamo immaginato come un fuoco eterno e che ora sapevamo essere un abisso insondabile di acqua e mistero. Aveva ingoiato praticamente tutto: l’albero maestro della nave, le vele, barili e barilotti: sia quelli dei liquori, sia quelli della polvere da sparo. Poi ancora: casse, cassoni, letti, mobili, il tavolo della sala da pranzo del capitano; il pranzo del capitano; il capitano. Non aveva risparmiato nemmeno spazzolini, tubetti di dentifricio, saponette, schiume da barba, il barbiere di bordo. Non aveva avuto pietà per il cuoco di bordo e tutta la dispensa della cucina: duecento chili di fette biscottate, tremila barattoli di marmellata alle prugne, lecca lecca, ghiaccioli, patate fritte e patate crude con la buccia e con tutto, due tonnellate di pane alle olive, cinquantasette 148 aringhe, duecento polli arrosto, trecento litri di latte della Lola, seicento tonnellate di maccaroni al sugo e seicento tonnellate di maccaroni al burro; sale quanto basta. Non sazio ingurgitò cento chili di insalata, settantanove porzioni di zuppa inglese, duecento tiramisù, sessanta budini, tutte le razioni di gelato. In quel viaggio inoltre dovevamo trasportare il Circo del Kentucky fino a Boston. Inutile dire che in un sol boccone il terribile mostro ingoiò dieci elefanti, due giraffe, sei leoni, sette gazzelle e quindici pagliacci! Ero lì assorto a fare la lista di tutto ciò che era andato perduto quando all’improvviso il palumbro alzò la sua gigantesca coda gialla. Un’onda immensa e possente si sollevò e andò a sbattere con indicibile violenza sulla roccia calcarea. Tutti gli uomini che si trovavano aggrappati da quel lato dello scoglio volarono per aria. La bestia infernale apri la sua immensa bocca e in un solo colpo li inghiottì tutti. E anche un sottomarino di passaggio. In un impeto di coraggio afferrai la mia lancia e la scagliai con forza verso la creatura apocalittica: “Restituiscimi le mie cose mostro, ti sei mangiato tutto! Anche i birilli, le macchinine e i mattoncini di legno!”. La lancia lo colpì dritto sul naso e, con soddisfazione, notai che la mia sortita aveva prodotto un qualche effetto perché sentii chiaramente una specie di brontolio sommesso 149 seguito da un suono gutturale tipo “ahi!”. A quel punto avvenne qualcosa di imprevisto. Mi parve come di sentire un fischio in lontananza… Sì! Era proprio un fischio! Aguzzai la vista e, anche se i miei occhi venivano colpiti incessantemente dagli schizzi delle onde che si infrangevano sullo scoglio, vidi chiaramente la sagoma di un uomo a cavallo. Cavallo marino, ma pur sempre cavallo. Un ippocalippo. Insomma: una specie di cavallo marino ma più grande, con la criniera più folta e indubbiamente più giallo. Senza nessuna possibilità di errore più bello! In sella al nobile destriero vi era lui, proprio lui: Jerry Lee Lewis che fischiava allegramente le note di Good Golly miss Molly come se nulla fosse. Strizzò l’occhio, allungò la mano e mi trasse in salvo tirandomi su sulla sella intrecciata di alghe marine e fili di cozze. Non so cosa ne sia stato dei miei compagni, se il palumbro li abbia ingoiati tutti o se anche loro, come me, abbiano avuto la fortuna di essere tratti in salvo da vecchie glorie del rock’n’roll. Quel che è certo e che ancora oggi – nonostante mi trovi al sicuro qui nella mia modesta ma confortevole casa sull’albero – nelle giornate più cupe, quando i tuoni rombano forte forte e i lampi illuminano il cielo e il temporale fa paura paura mi viene in 150 mente il terribile e giallo e gigantesco e affamato palumbro dei sette mari! E mi cago addosso! MORALE: Quindi bambini dall’acqua, eh! 151 mi raccomando: lontani Pagina lasciata intenzionalmente vuota l'elisir di corta vita Prima che l’alba inondasse il settimo giorno di sventura e abominio con i suoi tristi raggi verdi, Apolomiek l’alchimista era già in piedi da un bel pezzo. A dire il vero aveva passato tutta la notte a lavorare al suo athanor nei pressi del laboratorio vicino al lago Olijev, come ormai faceva da sette notti a quella parte. Ma quella fu la notte decisiva: alle ore quattro e ventisette minuti del giorno lunatico 33 del mese Piovoso nell’anno sacro della Salamandra Verde 1786, Apolomiek l’alchimista errante, figlio del rabbino Ytzak Ruben gran sacerdote dell’Arembràh, portò a compimento la 153 sua Superior Opera: l’elisir di lunga vita era stato distillato con successo! Come previsto dalla jeratika ne diede annuncio facendo suonare la tromba a manovella installata sulla torretta della sinagria locale. Ma quello fu l’unico precetto che osservò; ma di questo diremo più tardi, cioè tra un po’, ovvero dopo. Inutile dire che… be’ è inutile quindi non lo dirò, ma di lì a poco tutti quanti si radunarono presso la porticina dell’umile laboratorio del più improbabile alchimista di tutta la contea Rabatzia. In prima fila i principali membri del consiglio Paulis locale, il rabbino Albino, il gran Tesoriere della Cesta, e tutto il Gran Consiglio dei Mastri Alchemici al completo! Questo è ciò che avvenne secondo la cronaca di Mastro don Abelardo così come ci è pervenuta in forma manoscritta, etc. etc.: Mentre tutti ancora si chiedevano e si meravigliavano di come fosse stato possibile che un tale idiota fosse stato in grado di compiere quell’opera suprema, la porticina del laboratorio si aprì senza preavviso. Ne uscì dapprima Penelope, il gatto giallo di Apolomiek e poi un signore, distinto, con lunghi capelli neri, vestito in modo elegante... – “Che mi venga un caz… Ma quello è Apolomiek! Il vecchio, decrepito Apolomiek!” 154 Il satanasso evidentemente s’era già bel che ciucciato tutto l’elisir. Aveva tagliato corto, risparmiando ore e ore di lunghe discussioni sinaptike di fronte al gran sinedrio episcolare, optando invece per un’immediata dimostrazione pratica. – “Da non credere…” – “Com’è ringiovanito!” – “Che vigore in quelle braccia…” – “Apolomiek!”, disse Arcipalkorliev Parlyiamantrovjich, gran gerarca del consiglio Nibelungo dell’ordine della Stella di Kuntz, “Sei proprio tu Apolomiek?” – “Tu chi sei?” – “Sono Arcipalkorliev Parlyiamantrovjich, gran gerarca del consiglio Nibelungo dell’ordine della Stella di Kuntz… tuo padre…” Tutti fissavano risposta. increduli aspettando una – “Ha! Ebbene si, sono io!”, tuonò Apolomiek buttando fuori il petto. “Ho bevuto l’elisir, sono ringiovanito! La morte mi fa un baffo! La malattia me ne fa un altro! Sicché con questi due bei baffoni che ora mi ritrovo me ne andrò di corsa al teatro del varietà, dove magari potrò raccogliere persino l’interesse di una sgraziata ballerina di seconda fila, o che so? Una 155 bella damigella di altri tempi, attempata ma graziosa seppur grinzosa! Ma di certo non me ne starò più qui, ad annoiarmi con voi!”. Ciò detto inforcò un cavallo meccanico a sbalzo radente di sua invenzione e fece del suo meglio per sparire velocemente all’orizzonte. A scatti alterni. Tutti i presenti erano indignati: questo non era affatto previsto dal Canone Magnum! – “Che venga informata subito l’Assemblea dei sette saggi!”, gridò il rabbino Albino. “Questa insolenza verrà punita a caro prezzo!” Intanto Apolomiek proseguiva la sua intrepida corsa verso la gioventù ritrovata e che prometteva di perdurare in eterno. Era passata meno di mezz’ora da quando aveva ingurgitato tutto l’elisir e più il tempo passava più sentiva la forza crescere in lui. E più la forza cresceva più si sentiva giovane. Arrivato a un bivio disse tra sé e sé: “Sì, ci sono due percorsi che posso seguire ma alla lunga c’è sempre tempo per cambiare strada”, e puntò verso sinistra, in direzione del bosco dei Lunghi Ciuffi. Era stata una decisione saggia? O una decisione presa a cuor leggero? Come ebbe a dire due secoli più tardi Filemone da Dragostea nelle sue Cronache Fittizie, quella piccola e insignificante decisione, dettata forse dal caso forse incoraggiata da oscure divinità rupestri che amavano 156 determinare il fato un po’ per noia un po’ per diletto, ebbe ad alimentare circostanze di notevole spessore che determinarono la Storia così come la conosciamo ancor oggi. Inutile dire che la diatriba tra i sostenitori della tesi di Filemone e i seguaci della teoria Astaryana – che contrapponeva una ragione di tipo causale alla subalternità del caso, dei sé e dei perché – incendiò la discussione in ambito accademico per molto tempo. Ma questi sono elementi che, seppur contraddistinti da un notevole spessore, esulano dalla cronaca degli eventi che questo modesto scrivano si propone di illustrare. Or bene: Apolomiek abbandonò il suo cavallo meccanico che così bene l’aveva servito ma che ora non riusciva a proseguire la corsa su quel percorso così accidentato. La selva si faceva sempre più fitta e oscura e improvvisamente tutto cominciò a sembrargli più grande e minaccioso. Spropositatamente grande, a dire il vero… “Ma che succede?”, disse mentre osservava le maniche della sua camicia da gran galà che diventavano sempre più grandi a vista d'occhio. Le parole gli morirono sulle labbra: la sua voce! Non era più la voce di un vecchio e non era più la voce del baldo giovine che era stato negli ultimi trenta minuti: era la voce di un bambino! Un bambino di circa novedieci anni. Estrasse veloce da una tasca segreta di sua invenzione uno specchio segreto di sua 157 invenzione capace di fissare l’immagine e conservarla in una memoria artificiale di sua invenzione. Ne ricavò un ritratto del suo volto e inorridì! Vide sé stesso così come s’era visto una volta nello specchio d’acqua vicino alla contrada del Passero Solitario, mentre giocava a nascondarello con gli altri bambini, tanti, tanti anni prima. – “Sterco di bue! Sterco di pucca! Cosa può essere andato storto?”. Mentre diceva queste parole venne interrotto da una voce roca, grave, monotona e per niente amichevole: – “Bel bambino, cosa ci fai da solo nel bosco? E perché imprechi?”. Un brivido d’Argento attraversò la schiena dell’ormai piccolo Apolomiek, alchimista alla corte di re Renolfo II, vice Paulis di Suburbia e gran Saltimbanco della Sagra del Porcospino. – “Se questo è il bosco dei Lunghi Ciuffi corre il rischio che questa sia…”. Si voltò di scatto per guardare in faccia il suo destino e terminò la frase con un “ueeé!”. Il neonato Apolomiek ebbe la conferma alle sue paure proprio mentre finiva dritto dritto dentro il grosso sacco nero, nero, nero e senza fondo della strega Ursubalda de’ Catenacci! 158 La mano scheletrica, bubbosa e dalle lunghe lunghe unghie affilate della strega tirò la corda. Il sacco con sopra disegnato un teschio di sciacallo si chiuse e nessuno, in tutto il borgo di Castelfonzetti e nelle contee adiacenti, seppe mai più nulla del piccolo Apolomiek, che entrò nel bosco e non fece mai più ritorno! MORALE: Quindi bambini mi raccomando: lontani dal bosco, eh! 159 Pagina lasciata intenzionalmente vuota moby lick ovvero La balena nella scrittura di scena in un teatrare improvvisato nel cesso. Et cetera, et cetera, gli scampoli, le bricioline, et cetera, le rimanenze delle unghie che mi smangiucchio... É sempre un avanzare senza possibilità di fermarsi un attimo, che fatica, che tragedia! E quello che non avanza mi avanza, et cetera, mollichine di pane, sparse qua e là. Che me ne faccio io delle mollichine? Dove me le metto? Loro avanzano e io avanzo verso il tritacarne nefario e insaziabile che mi attende – anche a me! anche a me! – alla fine di questo scomodo avanzare. Quel che si tralascia resta. Quel che resta, muore. 161 Signori: la réclame! Mollichine secche per uccelli stanchi: accorrete numerosi! E così pensando camminavo pallido e assorto, affamato, assetato lungo la strada martoriata dalle granate della contraerea amica. Solitario, disgiunto da sempre dai miei cari sconosciuti, orfano!, decisi di imbarcarmi, un po' per noia, un po' per diletto, su quella graaande nave baleniera. Et cetera, et cetera, et cetera, sì: ma quanto era brutto quel gigante di un indigeno! Non mi avanzò nemmeno un pochino che sia un pochetto di coraggio quando lo vidi con quella sua grossa spada e le teste mummificate et cetera, et cetera. Ma diventammo amici, se così si può dire; se si vuole essere sinceri era un bravo diavolo di un cannibale. Et cetera, et cetera! Così fantasticando sulle balene in un baleno saltai sul natante. Com'era misterioso il capitano! Uuuh non diceva una parola, guardava che la sapeva lunga, camminava tac-tac con la gamba di legno, e fissava l'orizzonte... ah, la sapeva lunga lui! Non una parola, non uno starnuto! Et cetera, et cetera! Sorbimmo, sorbimmo, ma giunti alla fine dell'attenta analisi del possente manuale di 162 ittiologia oceanica - povero lui! Poveri tutti! qualcuno abbozzò un risucchio e la balena bianca ve li trascinò dentro tutti: tutti giù per terra! Ah, come la sapeva lunga il capitano! Et cetera, et cetera! Glù, glù, glù. Et cetera, et cetera! Avanzano pezzini di nave e pezzini di omini, gambe e braccia e nasi di marinai. Qui un orecchio, lì un ginocchio. Che pasticcio! Et cetera, et cetera, et cetera. Ma io la tenevo stretta alla lenza! La balena si arrotolava e io la srotolavo, lei si baltava e io la ribaltavo; zigzagava e io la rimettevo in riga. Ma finì lo spago e alla fine l'enorme pesce – et cetera, et cetera – riuscì a liberarsi e scappò via. Ma qualcosa rimase appeso alla lenza, qualcosa di orribile che dal profondo della pancia del mistero più oscuro delle insondabili profondità marine, et cetera et cetera, era rimasto imprigionato nell'amo: un orribile burattino di legno marcio e scolorito. E per di più bugiardo! e, anche se non della peggior specie, con delle gambette talmente fini e corte da non poter nuotare né a delfino, né a ragno, né a ranocchio. E con un naso: oh, quel naso! Non mi si chieda per favore e per cortesia di ricordare quell'orribile, lungo e osceno naso da bugiardone traditore. Il pesce spada se ne stette alla larga per paura di rimanerci infilzato. Questo vi dico e questo vi basti! 163 Eppure vi era in lui un non so che di umano, sebbene l'embrione della restrizione morale non fosse ancora sufficientemente sviluppato da poter partorire un “saggio consiglio disinteressato”, o un'opinione pappagalla. Mi raccontò storie bugiarde ma piacevoli di fatine e asinelli e tonni parlanti e quanto più lo ascoltavo tanto più gli credevo; e grilli per la testa, giganti barbuti, e luoghi di piacere che non avrei mai osato immaginare. E la bugia era così bella e ben ricamata, e l'assortimento di minchiate, gatti e volpi così fine, che mi ci addormentai in un sogno 'sì tanto bello che non ebbi il coraggio di porgli fine al limitar del gallo. Et cetera, et cetera. Mi risvegliò infine mamma Rachele; oh, com'era bella!, io non l'ebbi mai conosciuta e ne fui commosso. Quasi quasi pensai che avrei potuto piangere: scivolava spedita di popp'al vento in cerca dei suoi figli, di qua e di là, in lungo e in largo. In testa un lungo bompresso a cornone per infilarli tutti. Ma ritrovò solo un orfano. Me medesimo. Bagnato di sale e con la testa piena di bugie, al limitar dell'ultime gocce di un malmostoso mare. 164 un miracolo sconosciuto “Se solo io potessi praticare un foro su questo pavimento lurido e trapassarlo... fino ad attraversare l'appartamento del piano di sotto. E poi la camera da letto della signora Irma, magari bucandole il materasso, passandole fra le cosce... E poi proseguire fino alla portineria, alla cantina, attraversando la testa di un ratto per bucare poi le tubature della fogna dove la merda e il piscio dell'umanità scorre verso il mare e le nuvole. Se io potessi praticare questo foro immaginario che corre diritto e senza sosta attraversando tutto, 165 questi non avrebbe mai fine! Ne sono certo. E attraverserebbe oceani di pietra, via via sempre più dura, e nubi di gas e mari di lava; trafiggerebbe il cuore della terra spezzandolo a metà. E senza tornare indietro ripercorrerebbe a ritroso tutto il suo percorso fino ad emergere nuovamente dall'altra parte del pianeta. Se io potessi... Cosa ci troverei dall'altra parte della terra, esattamente nel punto opposto a dove sono ora?” Nel momento in cui questo pensiero fu formulato, Anne Nicole Smith stava dritta in piedi di fronte alla parete della sua camera da letto. Era nuda e si protendeva verso l'alto sulla punta dei suoi piedi callosi nel tentativo di piantare nel muro un chiodo. Doveva forse appenderci un quadro? È irrilevante. Non è questo il punto. Sia ben chiaro: Anne Nicole Smith condivideva con la celebre e sfortunata modella soltanto il nome. Inutile sprecare tempo a cercare le parole: non voglio annoiare il lettore spiegando chi io sia e perché non abbia voglia di dilungarmi troppo, basti sapere che di tempo ne ho poco e questo è quanto. Quindi, per farla breve: era brutta. Era bassa, tozza, le gambe erano rovinate dalla cellulite, aveva una pancia da bevitore di birra e i seni grossi e molli che gli arrivavano fino all'ombelico o quasi. Il volto era orribilmente 166 corroso dall'acne e un nasone a patata gigantesco costituiva su quel suo faccione tondo un elemento estraneo persino a qualsiasi canone di bruttezza. La natura, il caso, o quel dio all'indirizzo del quale Anne lanciava interminabili bestemmie, non erano stati clementi con lei e lei non faceva nulla per correggere la fortuna: infatti era anche volutamente antipatica e, segretamente, covava un grande odio e un grande rancore per quel mondo degli uomini al quale non assomigliava in nessun modo, né dentro né fuori. Se ne stava dunque in pedi nuda, dicevo. Il punto è che questo non è un film, ok, ma se un ipotetico regista avesse fatto un primo piano sulla schiena di Anne e, lentamente, fosse sceso sempre più in basso, ad un certo punto la visuale si sarebbe fermata esattamente in mezzo alle sue grosse natiche. Dopo pochi istanti sarebbe risultato evidente a chiunque che il nuovo soggetto sarebbe stato un punto oscuro là in mezzo. Ora, non si sa esattamente come sia potuto accadere; certamente se si fosse fatto un po' bocca e avesse detto apertamente la sua le cose sarebbero state più facili. Ma non andò così e quindi non si sa come sia accaduto. Ma quel che è certo è che da lì, proprio da lì, scaturì un pensiero – quel pensiero! – e su questo non ci piove perché io ne sono stato testimone: “Se solo io potessi praticare un foro su questo pavimento lurido e trapassarlo”, etc. etc. 167 L'ho riportato fedelmente così com'è giunto presso la mia ragione. Il lettore non ne dubiti. C'è una cosa importante da dire: poco prima che questo pensiero prendesse forma e si facesse spazio nell'etere, l'ambiente circostante era pesantemente inquinato da due suoni: quello del martello che Anne Nicole stava usando per cercare inutilmente di piantare quel chiodo nel muro e quello, ancor più fastidioso, della televisione. Da dove io mi trovavo potevo vedere bene le immagini, dal momento che la TV si trovava a meno di un metro di distanza da Anne. Era sintonizzata sulla R.U.C. News. Dallo studio il giornalista stava passando la linea a un'inviato dell'emittente in Italia. Una delle notizie della settimana, forse la più importante, era l'imminente crollo della torre di Pisa: per secoli tutti avevano dato per scontato che quella bizzarria architettonica sarebbe rimasta lì in eterno per compiacere i turisti, ma quando tre o quattro giorni prima si cominciarono ad avere i primi inaspettati scricchiolii, seguiti dalla caduta di alcuni degli elementi portanti, fu chiaro che non sarebbe stato così. I sopralluoghi degli esperti, venuti da diverse parti del mondo, non fecero altro che confermare che la situazione era grave e che un evento catastrofico era ormai prossimo. Così accadde che quel giorno era il giorno, come stabilito dai tecnici. Le televisioni di mezzo mondo 168 erano presenti sul luogo e gli occhi di milioni di persone fissavano la torre che, di tanto in tanto, dava delle leggere scosse che lasciavano cadere abbondanti quantità di polvere e pure qualche detrito. Segretamente tutti, specialmente i giornalisti, speravano che la torre cadesse “adesso”. “No adesso”. “Adesso!”. “Ma quando cade?”. I collegamenti con gli inviati erano frequentissimi. Uno dei momenti di maggior eccitazione lo si ebbe alle ore dieci e trentaquattro minuti, ora di Roma, quando dopo una forte scossa una delle colonne del quarto anello precipitò al suolo dopo essersi avvitata quasi due volte in aria. In quell'istante furono tutti sicuri che il momento fosse ormai arrivato. Ma dopo aver sbuffato un paio di nuvolette di fumo, la torre tornò nel suo immutato silenzio e, addirittura, smise di produrre nuovi segnali per trenta interminabili minuti. Un colpo di martello. Silenzio. Un altro colpo di martello e poi di nuovo l'inviato della R.U.C. News. La torre aveva ripreso a tremare, sdrucciolare e levare polvere. Questa volta erano cadute tre colonne: una dal quarto anello e due dal secondo. Appena la diretta dall'Italia fu a pieno schermo sul monitor il mondo intero vide la bandiera rosso-crociata, simbolo della città, staccarsi e precipitare al suolo. Quella scena, così teatrale, sembrava indicare che ormai era davvero 169 giunto il momento. Altri tremori. Sempre più forti, sempre più frequenti. Sempre più colonne si staccavano schiantandosi con fragore su quelle che le avevano precedute. Diverse crepe comparvero alla base della torre. Poi ci fu quel pensiero. “ Se solo io potessi praticare un foro su questo pavimento lurido e trapassarlo...”. Io c'ero, l'ho sentito. E non so se sia stata una coincidenza, o se si sia trattato di tutta l'immane forza vitale che Anne Nicole Smith aveva trattenuto durante la sua esistenza, ma quel pensiero fu così forte, così intenso, che riuscii a visualizzare per davvero quella forza, quell'energia sotto forma di un potentissimo raggio verde che attraversava il pavimento. Invase l'appartamento della signora Irma, la portineria, la cantina, e le tubature. Continuò a scavare in linea retta attraverso i vari strati della terra, attraversò chilometri e chilometri di granito, nubi di gas, immense onde di fuoco e poi cominciò la sua risalita. Ma proprio mentre stavo per immaginare il punto di uscita di questa assurda e improbabile corsa attraverso il pianeta, la mia attenzione fu attratta nuovamente dalla voce dell'inviato della R.U.C. News che, attraverso l'altoparlante della televisione, gracidava come una checca. In una frazione di secondo pensai che forse c'eravamo: forse la torre stava crollando per davvero, adesso. 170 E invece no. Quello che accadde fu ancora più stupefacente: dopo un fortissimo scossone al quale seguì la caduta di numerose colonne e una nuvola immensa di polvere alta quanto la torre tutta, questa si mosse; sì, si mosse. Ma non cadde. In principio tutti i testimoni, sia quelli presenti sul luogo sia quelli che seguivano l'evento da casa, ebbero un attimo di smarrimento e pensarono di avere le traveggole o di essere stati ingannati dalla lunga attesa. Ma si resero subito conto che era proprio così: la torre di Pisa si stava raddrizzando. Si, proprio così... molti probabilmente ancora lo ricordano. Quanto c'è voluto? Non saprei esattamente, ma la cosa è stata molto rapida; forse poco più di cinque minuti. Sta di fatto che, a cose fatte (chiunque le avesse fatte, s'intende!) tutti poterono vedere con estremo stupore e incredulità la torre di Pisa dritta in piedi, così come Diotisalvi l'aveva immaginata e così come non era mai stata. Ecco, fu così che accadde. Ora ricordo che ci furono quelli che parlarono di un segnale che indicava l'imminente fine del mondo e ci furono altri che giurarono di aver visto una mano invisibile che, mentre il sole vorticava nel cielo, aveva raddrizzato la torre. Ma io ho la presunzione di sapere come siano andate per davvero le cose. Per quanto possa sembrare ridicolo credo che per davvero quel pensiero scaturito dal posto più improbabile, eppure così carico di energia 171 positiva, di pura voglia d'essere, di scoprire... quel pensiero credo che abbia determinato il corso degli eventi che contraddistinsero quella strana giornata. Mi rendo conto che è difficile crederlo, tanto più se a raccontarlo sono io (in codice morse – tra l'altro – a uno scribacchino compiacente che mi sta facendo la grazia di trascrivere i miei segnali luminosi... go figure! Spero non faccia troppi errori). Ma anche se ormai le batterie sono quasi scariche i miei ricordi sono nitidi. Ricordo tutto come se fosse stato ieri. Così come ricordo il mio stupore quando scoprii, per puro caso, che se si potesse praticare un foro su questo pavimento e trapassarlo, fino ad arrivare dall'altra parte del mondo, il punto di uscita corrisponderebbe esattamente alla verticale della torre di Pisa. E non solo: successivamente scoprii anche che... oh, le batterie. Sono finite! Meno male che Duracell dura di più. Merdacell, fan... cu... 172 un sogno Camminavo rapace in un buio inartificiale amplificato da ombre monumentali, specchio di antiche glorie, segrete trame e indicibili paure. La grossa balena bianca, con la sua ombra, copriva tutto ciò che può essere definito “tanto” nel minuscolo spazio subito dopo il duomo, per andare verso una Piazza Fontana che in verità non c'era. Lì, in quel punto, qualcosa che non era un sole illuminava di un discreto grigiore il nientetutto-tutto nel quale strane forme di un colore ambrato si muovevano disinvolte, e 173 apparentemente senza senso, senza controllo di sé stesse. Topi. Meravigliosi e disgustosi topi caramellati di un luccichio non più di fogna ma da alta pasticceria! Schifosi per le colpe dei loro antenati, che segretamente si annidano in un subconscio umano mai ben troppo esplorato, e al contempo divini nella loro liquida perfezione. Alcuni più grandi, altri più piccoli; taluni forse appena nati per osmosi. Questi moderni topi erano perfetti nella loro totale inutilità in una natura che non era stata capace di tenergli il passo, e che ancora produceva ombre di chiese millenarie nelle quali loro, come storditi, non trovavano pane per denti ormai inesistenti, scivolando senza né peso né senso qua e là, come per dar retta al ricordo di un istinto di contatto-desiderio-presa ormai estinto. Mi chiesi se dovessi averne paura. Capii solo che mi spaventava il controllo che non potevo avere sui loro movimenti. Non è la peste che ci ha reso il topo nemico e che ci porta per istinto a restringere i nostri arti verso noi stessi, verso l'interno, e a stringerci le mani sugli organi genitali. È la consapevolezza di non essere padroni della vita che scivola, sgocciola via dai nostri corpi, in ogni momento, per cambiare forma, per essere altra vita; fine a sé stessa, oltre l'erronea convinzione dell'Io che cerchiamo di ritenere in noi come l'istinto di chiudere l'uretra per non 174 pisciarci addosso. E il “terrore” – o qualunque sia il termine più opportuno per descrivere questa condizione emotiva – che deriva dalla consapevolezza che tutto ciò che abbiamo è un'errata, suprema e divina convinzione, è la paura del topo. Questo è quello che pensai mentre mi muovevo in direzione di una Piazza Fontana finalmente rasa al suolo dai secoli passati, mai più futuri, con i topi di goloso caramello alle mie spalle. 175 Pagina lasciata intenzionalmente vuota una venuta di ishtar Venne la mezzanotte e non ci fu nessun rumore di passi sulla ghiaia. Venne la mezzanotte e niente ruppe il silenzio angoscioso. Venne la mezzanotte e nessuno bussò alla porta. E mentre la lancetta dei secondi spingeva quella dei minuti affondandola sempre più nel nuovo giorno, l’ombra di quella triste consapevolezza si faceva sempre più lunga nel cuore di Silvia: lei non era venuta. Ci aveva creduto con tutta sé stessa e, ora, si sentiva una stupida per essersi illusa che quel bacio, così profondo, sensuale e proibito, forse non era stato ispirato da verità nascoste che l’alcool della festa di capodanno aveva aiutato a emergere in superficie. 177 Finalmente si era sentita sé stessa: completa, bella, perfetta. Finalmente libera da lui, da quella promessa che aveva accettato con poca convinzione in un momento in cui aveva pensato di essere troppo vecchia e non realizzata. Ma non era mai stata veramente felice, e tanto meno realizzata. Non si sentiva una moglie, non si sentiva pronta per essere madre e, a dire il vero, non lo desiderava nemmeno: il peso di tutto ciò che non aveva vissuto negli anni della sua prima giovinezza, di tutto ciò che le era stato negato e che si era negata assecondando la depressione, diventava sempre più insopportabile e insostenibile. Voleva solo riavere la sua libertà e rimpossessarsi della sua vita. No, lei non era venuta, ma questo l’aiutò a capire come quel piccolo gesto, quell’attimo così breve ma intenso, avesse acceso una spia dentro di lei che l’avvertiva e l’ammoniva severamente: non era troppo tardi. Non era troppo vecchia: avrebbe varcato il cancello della felicità, una volta per tutte. Fu così che, per la prima volta in vita sua, decise di non torturarsi la mente con la solita catena infinita di pensieri colpevoli e castranti e, preso il flauto di bambù e il libro rosso sul quale c’erano scritte suggestioni indicibili, usci da quella casa per non farvi mai più ritorno. Non sarebbe stato per niente facile sparire, lui l’avrebbe cercata. Si sarebbe dovuta nascondere, avrebbe dovuto 178 inventarsi una nuova vita e avrebbe dovuto cercare di farlo nel migliore dei modi. Ma a lei ora tutto questo non interessava affatto. L’unica cosa che sapeva era che desiderava qualcosa di nuovo, glielo diceva il suo cuore, la sua pancia e anche quella strana sensazione di bagnato alla quale non aveva mai fatto veramente caso, e che le vicissitudini della condizione umana l’avevano obbligata a vedere come un effetto collaterale della sua capacità riproduttiva. Ma la sua consapevolezza ora era diversa: il suo corpo parlava direttamente alla sua anima in una lingua sconosciuta, e vibrava di quel godimento che solo chi si è liberato dall’inganno delle parole può indovinare. Insomma: consapevole che la felicità poteva ancora essere a portata di mano, e inondata dalla certezza che l’universo intero si era condensato in quel piacevole languore qualche centimetro al di sotto dell'ombelico, Silvia si sentì libera. Con un pugno di spiccioli appallottolati nella tasca dei jeans si recò alla stazione. Ma non fece nemmeno in tempo a guardare il tabellone degli orari perché all'eco del suo passo indeciso, amplificato dal gelido vuoto di quei muri di marmo, rispose la camminata lenta e senza meta di Simona. Silvia rimase sgomenta non sapendo bene come comportarsi. Si sentì quasi mancare e nell’oblio 179 che sembrò precedere lo svenimento ebbe visioni di strane forme colorate che la inseguivano, la circondavano saltellando irriverenti, dileggiandola e sfidandola a duello. Ma sapeva che era solo la manifestazione di pensieri repressi da migliaia di anni e, con pazienza, li osservò svanire. Le cose, in verità, andarono meglio di quanto si sarebbe potuta aspettare perché nessuna delle due, per fortuna, osò aprire bocca. Si presero solo per mano, e andarono via. Lei non era venuta, è vero, ma solo perché non ne aveva avuto il coraggio e, alla fine, si erano trovate lo stesso; e da lì in poi fu solo un sogno dai contorni incerti e dai colori sfumati di una delicatezza unica e sapiente. Successivamente Silvia appuntò con mano tremante quanto segue sul suo diario: «Le sue labbra delicate scivolarono come un desiderio infuocato sul mio collo mentre la sua mano, dolce e affusolata, delineava contorni della mia femminilità che non avevo mai saputo di avere. Quando quel caldo bacio oltrepassò la pulsante linea di confine del mio ombelico, per raggiungere la zona proibita dove il mio vulcano di passione sprigionava la lava più calda minacciando lapilli incandescenti, provai senza convinzione a porre fine a quel paradiso di sensazioni: “Oh, 180 Simona! Cosa mi fai? Aspetta!”. Ma ormai era troppo tardi: una lingua di fuoco scese dentro di me, potente e liberatrice come lo Spirito Santo e inattesa come un tuono in mezzo alla campagna in una giornata di primavera. Fu allora che in maniera del tutto spontanea una grossa goccia ambrata, dolce come il miele, scivolò lungo il mio inguine e, all’improvviso, le porte di Babilonia si spalancarono, in attesa che Ishtar facesse la sua entrata trionfale.» 181 Pagina lasciata intenzionalmente vuota il viaggio di ritorno A Semolina piaceva molto il suo razzo: era lungo e scintillante e dava l'impressione di poter arrivare ovunque, fino ai luoghi più oscuri e profondi della galassia. Amava la sua forma così slanciata e aerodinamica. Per non parlare dell'ultimo stadio: appuntito come il pungiglione di un'ape sempre punta a pungere, di quel color rosso così accesso che ispirava allegria, come le angurie d'estate. E poi c'era la scritta USA che le trasmetteva un immenso e immediato senso di libertà, invitandola a provare nuove esperienze. Voleva esplorare le profondità dello spazio e viaggiare. E voleva farlo con lui. 183 Preparò i bagagli in fretta e in furia e salì a bordo. Non era stato difficile: era bastata una chiacchierata molto informale e qualche complimento ben assestato per assicurarsi la sua simpatia. Nemmeno mezz'ora dopo era a bordo del razzo, comodamente seduta in cabina di pilotaggio e pronta a partire. I due grossi motori ovoidali cominciarono a scaldarsi sulla rampa di lancio. Tremarono, sbuffarono, divennero due immense palle infuocate e, finalmente, sprigionarono la spinta che fece sollevare il razzo. Prima lentamente, poi in maniera più decisa, il razzo cominciò ad alzarsi sull'attenti come un obbediente soldatino proiettato verso la sua missione. Solo che Lassy una missione non ce l'aveva. Lui era una specie di hippy dello spazio. Gironzolava più o meno a casaccio per pianeti e, di tanto in tanto, si fermava da qualche parte per fare rifornimenti, per revisionare il motore, o per chiedere informazioni per sapere da che parte doveva andare. Ma questo succedeva raramente: di solito preferiva rimettersi alle infinite possibilità offerte dal caso. – “E questa a cosa serve?”, disse ancora Semolina dopo aver indagato le funzioni di almeno una dozzina tra leve e pulsanti. 184 – “Prova un po'!”, rispose lui in tono cordiale strizzando leggermente l'occhio. Semolina tirò la leva ma non successe apparentemente nulla. Ci fu solo un leggero flip flop laterale, ma nulla di che. Lui le fece notare che doveva manipolarla procedendo con un deciso movimento basculante, avanti e indietro. Così fece. Con suo grande stupore Semolina vide uscire qualcosa dalla punta del razzo. – “Cos'è quella?”, chiese. – “È la sbarra!”, rispose il suo bel capitano con un certo orgoglio. – “La sbarra, sì... ma a che serve?”, replicò ancora Semolina un po' perplessa. – “Questa sbarra color limone – spiegò lui – serve per accalappiare le robe, prendere campioni, etc. Ma la si può usare per fare tante cose... Pensa che sul pianeta Riga una volta l'ho usata persino per pescare! Rin, rin, rin”. – “Zio com'è bello quando ride! – pensò lei. Ha quel modo così particolare di ridere: «rin, rin, rin». E le sue labbra... succose come un'albicocca sciroppata! I suoi denti: così bianchi, come dei fagioli cannellini... tutti e quattro, non gliene manca nemmeno uno! Quelle orecchie così piccole e aggraziate come due tortellini... e i suoi occhi: così sensuali e profondi, di un nero amarena 185 che ispira dolcezza e aspra fermezza allo stesso tempo”. Era ormai chiaro che lei era cotta di lui. Lo desiderava. La sua fronte era madida di sudore e, di lì a poco, cominciò a sgocciolare da tutte le parti. Grondava letteralmente di piacere e alla fine non poté più resistere: spalancò le zampe posteriori e da dolce fiore si fece pianta carnivora. Ingoiò la sua testa in un sol boccone mentre con l'altra lingua, quella della bocca, si leccava i baffi dal piacere. In un attimo divorò tutto: albicocca sciroppata, cannellini, tortellini, ciliegia amarena... E sopratutto quel meraviglioso succo rosso che si faceva strada dentro di lei e che, avidamente, succhiava con infinita goduria in un orgasmo di piacere compulsivo. Mentre lui ancora urlava – perlopiù cose incomprensibili che producevano un suono ovattato dentro quel vuoto sordo – con un colpo di reni secco e deciso lei serrò le labbra e gli mozzò la testa. Questa, per un attimo, continuò ad urlare. Il terrore di lui vibrò all'unisono con il piacere di lei, nel suo ventre, nelle sue viscere colpevoli, nel caldo sicuro di un viaggio di ritorno all'amore primordiale e materno che, non a tutti gli amanti, è concesso di avere. 186 una spremuta di satanacchia I Pro-loco Gôgne sur la Mére è un ridente paesino sul versante occidentale della Bretagna. Contraddistinto da una cinta di mura medioevali – che fiere hanno resistito alla prova dei secoli tumultuosi –, nel corso del tempo è stato teatro d'innumerevoli fatti di apparente minore importanza che hanno tuttavia determinato il corso degli eventi in quell'intricata e a volte confusa trama che lo studioso è solito chiamare Storia. E dove c'è la storia ci sono anche i personaggi e Gôgne sur la Mére vanta di aver dato 187 i natali, di aver ospitato e di essere stata testimone nei modi più disparati, della presenza dei più illustri condottieri e delle dame più belle. Tuttavia la targa commemorativa che è stata appesa alla sala principale della pro-loco non celebra nessun principe o re, ma due dei più curiosi personaggi ai quali la cittadina ebbe l'onore di dare ospitalità. Complice il presidente in carica – stretto amico dei due – e il clamore suscitato dagli eventi (che a breve andremo a raccontare), il mezzo busto dedicato alla fugace visita di Garibaldi fu fatto sparire in gran fretta per fare posto alle cangianti parole dedicate all'ingegno di messer Rambleon e del signor Süssberg. II Prologo La signora De Lafontaine era intenta a pelare le patate, quando uno scricchiolio di ruote sulla ghiaia annunciò l'arrivo del messo postale. Diede una veloce sbirciata attraverso le tende della minuscola finestrella del cucinino, mentre con uno strofinaccio si puliva velocemente le mani. “Din, don, dan! Madame Ivette: la posta!”, annunciò una voce cordiale e carica di brio. “Ah, sempre di buon umore voi, mio caro”, disse la donna. 188 “Certamente mia dolce Ivette. La vita è un dono prezioso e bisogna essere capaci di goderne appieno”. “La vita è uno schifo mio caro Philippe. Lo pensereste anche voi se foste costretto a essere lo schiavo di un ricco pazzo, confinato giorno e notte in questo cucinino puzzolente infestato da cimici e ratti!”. “Oh, suvvia non dite così!”, fece il postino un po' sorpreso. “Alla nostra età sappiamo bene quali sono le regole non scritte della vita: dobbiamo essere in grado di saper cogliere la bellezza e la gioia in tutte le cose, specie quelle piccole...” “Sarà Philippe, sarà... Ma io quell'uomo lo odio. Lo ammazzerei, persino!”, sbottò Ivette. “Ma perché mai?”, chiese sorpreso Philippe. “Certo è un po' eccentrico, a volte burbero ma, credetemi madame, so di membri della servitù che sono stati molto più sfortunati! E poi vedete? Non dev'essere un così cattivo diavolo, se c'è qualcuno che si da pena di fargli recapitare con una consegna speciale un dono come questo!”. Così dicendo Philippe mostrò a madame De Lafontaine un pacco di discrete dimensioni, elegantemente avvolto in carta pompadour color beige. “Di cosa si tratta?”, disse madame Ivette mettendo da parte i suoi pensieri. 189 “Un pacco per messer Rambleon proveniente dall'Italia. Da parte del signor Süssberg, vedete? É stato spedito ieri sera con servizio espresso. La spedizione non sarà costata meno di dieci-dodici denari!”. “Cosa mai potrebbe essere?”. “Così a occhio e croce direi una specialità culinaria, guardate...” – disse il postino indicando il marchio che compariva proprio vicino agli eleganti nastrini di chiffon rosa – “Questo è il marchio della bottega che ha confezionato il pacco. Il mio italiano è sufficientemente buono per capire che deve trattarsi di un pastificio!”. “Ah, bene! Vedete? Altro lavoro per me!”, rispose Ivette fingendo irritazione. “Suvvia se si tratta di alimenti ho il dovere e l'ordine di aprire il pacco!”. Tirò fuori da sotto il tavolo un grosso coltello da cucina con il quale liberò il misterioso pacco dai nastri che lo tenevano chiuso. Con il fare pratico che contraddistingue il lavoratore esperto tolse anche la carta, e in un attimo aprì la scatola. “Tortellini! Che vi avevo detto?”, disse Philippe. Ivette lo guardò dritto nelle palle degli occhi e con un tono decisamente ironico disse: “Che vi avevo detto? Altro lavoro per me!”. 190 III Breve storia del Satanacchia Allora: alla fine del '700 inizi dell'800, all'epoca in cui Parigi era la capitale del mondo, quando una donna aveva un amante – di solito un baldo ragazzotto ben più giovane in rapporto due a uno – ed era particolarmente provata dalle ristrettezze imposte dalla vita coniugale, questa, recandosi in farmacia, si faceva preparare una certa mistura che le veniva poi consegnata in una boccetta color viola. Questo elegante gingillo, agghindato con un fiocchetto rosso tenuto fermo da una goccia di ceralacca, nascondeva al suo interno un temibile segreto. Tra le più frequentate botteghe dove era possibile reperire questo infausto composto spiccavano la farmacia del dr. Champillon e la Drogheria Dupont sulla Rue du Moine. Viste le intenzioni, quest'ultima era spesso preferita alla prima perché isolata dalle principali strade e ben nascosta sotto un colonnato scarsamente illuminato, anche nelle migliori giornate estive. L'oscurità favoriva, come sempre, un certo anonimato. Per le stesse ragioni per cui era preferita dalle une, questa bottega era però evitata dalle altre che, per evitare di arrischiarsi per quelle oscure e malfamate stradine, le preferivano quindi la prima. 191 Ora: poniamo il caso che il preparato in questione fosse la versione moderna – destinata alle signore appartenenti alle classi più agiate – di un'antica pozione che, se debitamente miscelata con olio di oliva e salvia, funzionava come base per un potentissimo veleno inodore, incolore e insapore; immaginiamo che fosse diffusa da molto tempo tra il popolo, la gente comune... voilà! A questo punto basterebbe aggiungere che era anche detta Satanacchia o l'“ammazzatopi” e al lettore non resterebbe che sfogliare un qualunque vecchio erbario per ricavarne la ricetta in tutte le sue più comuni varianti – compresa ovviamente quella diffusa nella zona di Lylle che prevedeva un utilizzo spropositato di grano Carlotta fermentato in sostituzione al farro. Ma tant'è: il risultato era sempre lo stesso medesimo sin dai tempi di Luigi IX (cioè a quando è attestato l'inizio del suo utilizzo in questa forma): nessuno s'era mai lamentato per la variazione nell'ingrediente, né tra le cuoche, né tra i commensali. Originariamente l'ammazzatopi era stato impiegato con successo per sterminare i ratti durante l'epidemia di peste che aveva reclamato decine di migliaia di vite a cavallo tra il quattordicesimo e il quindicesimo secolo. Da qui il nome. Il suo secondo più diffuso appellativo, Satanacchia, se l'era meritato in quanto sin da quando fece la sua comparsa era stato impiegato 192 dai più scaltri assassini, pretendenti al trono, ignobili puttane e traditori di tutta Francia. In lui avevano trovato un diabolico ed efficace alleato per portare a compimento i loro crimini. Tra le vittime più illustri ci furono il principe Filippo di Champagna e il Conte d'Erlétte. Il caso di quest'ultimo fu ricordato per molto tempo per i raccapriccianti dettagli relativi alle torture inflitte alla domestica, che aveva offerto alla contessa la sua colpevole complicità, e la cui confessione (tardiva ma ricca di prove e dettagli scandalosi) garantì una pena esemplare alla nobildonna e l'incarceramento a vita nella torre d'Eustâche per la servetta compiacente. That's it! Ecco quindi a grandi linee la storia del temibile veleno che, al di là di qualsiasi ragionevole previsione, finì per accompagnare erroneamente i pensieri di Gustave Theodore Rambleon, proconsole di Avalacchia e primo gran maestro del Coro della Sacra Confraternita dei Pellegrini Erranti di Gôgne sur la Mére. Mentre osservava un piatto di tortellini di Bologna cucinati alla cacciatora – per la precisione – e ricevuti in dono da Bertrand De Süssberg, primo consigliere dell'arciduca de la Papardelle, Magister Superior dei territori de La Rochelle e Flichétte. Perché erroneamente? Questo lo si vedrà dopo. 193 IV I fatti Occorre a questo punto delineare brevemente una descrizione di messer Rambleon, per far sì che anche il lettore più dotato sul piano della scaltrezza intellettuale non sia tratto in inganno dalla cronaca degli eventi che ebbero luogo quella sera a Palazzo Champeliér. Occorre scongiurare a tutti i costi che il nostro protagonista venga scambiato per un provincialotto qualsiasi o, che so?, per una persona non particolarmente sveglia. Au contraire! Messer Rambleon – uomo posato ed educato, benché dotato di una certa eccentricità che lo rendeva antipatico ad alcuni e suscitava una certa indifferenza in altri – era un vero asso del ragionamento analitico o, come lo chiamava lui, l'arte dell'addizione. Sosteneva Rambleon che qualsiasi ragionamento logico poteva portare alla soluzione di una data questione solo se a questo si applicava un semplice schema matematico che aveva come base l'addizione. In sostanza il ragionamento doveva articolarsi in vari passaggi ai quali si aggiungeva, di volta in volta, un elemento nuovo in serie di tre e poi due elementi nuovi per un singolo passaggio; poi, di nuovo, un elemento per tre passaggi e così 194 via. Questo procedimento logico sembrava funzionare sempre e si era dimostrato apparentemente infallibile in più occasioni. Era stato utilizzato anche nella soluzione di alcune vicende criminose che erano venute all'attenzione della Gendarmerie Royale e, per il suo prezioso contributo, il proconsole ricevette persino delle onorificenze. O almeno questo è quanto sosteneva Rambleon. I suoi detrattori infatti non mancavano mai di mettere in dubbio le mirabolanti avventure di cui era solito vantarsi. Ma, a onor del vero, occorre dire che nel pittoresco paese di Gôgne sur la Mére esisteva più di un circolo nel quale si radunavano intellettuali e appassionati di scienza che si dilettavano con enigmi scientifici e matematici di ogni sorta. Si potrebbe tranquillamente dire che il ragionamento logico fosse una vera a propria moda all'epoca, e a Gôgne sur la Mére aveva preso particolarmente piede. Ecco perché le critiche che venivano mosse a Rambleon non dovrebbero essere prese troppo in considerazione: l'invidia è uno dei principali sospettati se si tratta di capire le ragioni di queste critiche, tanto più se si tiene conto del fatto che messer Rambleon – scapolo per scelta, grande appassionato di arte e fine conoscitore di qualsiasi impresa militare dell'Impero sin dai tempi di Carlo Magno – era una delle migliori menti in circolazione. L'unico 195 capace di rivaleggiare con lui era il consigliere dell'Arciduca, Bertrand De Süssberg. E i due rivaleggiavano eccome! La loro era una partita sempre aperta. Diversamente da quanto avveniva nei circoli durante le sfide regolari, dove la prova veniva sottoposta allo sfidante in maniera “ufficiale”, e fornendo gli elementi necessari per poter iniziare l'investigazione, tra Rambleon e Süssberg esisteva una sorta di tacito accordo in base al quale qualsiasi interazione da parte dell'altro era l'inizio di una nuova prova. Non veniva nemmeno specificato quale fosse la prova, perché capire in cosa consistesse faceva parte della sfida stessa e, inoltre, molto spesso questo era assolutamente necessario per potersi salvare la pelle. Infatti il livello della sfida tra i due era talmente alto, e la rispettiva sicurezza nelle proprie doti intuitive così spropositata, che i due non avevano nessun problema a mettere a rischio le rispettive vite, né vedevano nella cosa una reale minaccia o un motivo per indovinare intenzioni criminose da parte dell'altro. Era normale amministrazione per loro, diciamo. E questo ci riporta al piatto di tortellini alla cacciatora che quella sera madame Ivette De Lafontaine servì a messer Rambleon. Già da tempo il nostro sospettava l'inizio di una nuova prova. A dire il vero ne era certo, anche se 196 fino ad allora non era ancora riuscito a mettere insieme con certezza assoluta tutti gli indizi che, tuttavia, non erano passati inosservati. Sin da quando Süssberg aveva annunciato il suo viaggio alla volta dell'Italia – durante il quale avrebbe accompagnato l'arciduca durante le consultazioni ufficiali in vista dell'imminente Conferenza di Praga – messer Rambleon aveva tenuto alta la guardia. Il primo incontestabile indizio fu una cartolina proveniente da Salerno. Sul fronte vi era riprodotto un grazioso acquarello con alcune casette colorate, sul retro l'elegante calligrafia di Süssberg che porgeva i suoi saluti in un italiano quasi impeccabile. A questa seguì una seconda cartolina; questa volta Süssberg era a Taranto. La cartolina riproduceva una veduta della città dalla quale, ancora una volta, si porgevano i migliori saluti etc. etc. Fu poi la volta della cartolina da Napoli, che ritraeva il bellissimo golfo con il vulcano sullo sfondo, e poi ancora quella da Chiavari. Rambleon ovviamente sapeva che tutto si giocava sulle cartoline, ma mettendo insieme le immagini che riproducevano non era stato in grado di indovinarne il senso. Anche l'analisi della calligrafia, e la ricerca di possibili anagrammi nascosti nelle frasi, non aveva prodotto nessun risultato apprezzabile. In effetti era riuscito ad indovinare un messaggio in codice nascosto tra i saluti, questi però si era rivelato essere un 197 meschino tentativo di depistaggio da parte di Süssberg. Lo scopo era ovviamente quello di far perdere tempo e preziose energie a messer Rambleon (per la cronaca il messaggio criptato diceva testualmente: “Complimenti mi hai trovato, firmato Messaggio Criptato”). Fu solo quando ricevette la cartolina da Chiavari che qualcosa si accese nella testa di messer Rambleon. Quando poi al suo ritorno a casa si vide servire quel piatto di tortellini di Bologna il cerchio si chiuse e dichiarò a sé stesso che l'enigma era stato risolto! “Ivette per cortesia aggiunga un posto a tavola. Fra non molto avremo un ospite”, ordinò in tono trionfale. La signora De Lafontaine rimase un attimo perplessa ma non fece in tempo a pronunciare nemmeno una parola. La grossa campana in ottone abilmente cesellata con immagini di draghi ed elfi trillò allegramente. Spezzando il monotono silenzio di Palazzo Champeliér annunciò l'arrivo del nuovo ospite. La serie di due colpi ripetuti per tre volte in modo molto rapido non poteva trarre in inganno: la porta si aprì e un euforico più che mai Bertrand De Süssberg fece il suo ingresso all'interno della magione. Questi stette un attimo fermo come se fosse in attesa di un segno e poi attaccò a parlare: 198 “Oh, oh, mio caro amico! Questo silenzio mi bisbiglia nell'orecchio che...”. Ma fu subito interrotto da un suono acuto e sgradevolissimo: Bwhuaaa–bwhuaaa!!! “Cosa? Come? sgomento Süssberg. possibile!” La trompétte?”, disse “Non è assolutamente “E invece si, mon ami: l'enigma è stato risolto!”, gli fece eco la voce trionfante di messer Rambleon. Si da il caso che ognuno di loro avesse adottato un particolare segnale per rimarcare trionfalmente che era giunto con successo alla soluzione dell'enigma sottoposto. Nel caso di Rambleon il segnale che ne annunciava la vittoria era una vecchia trombetta arrugginita e stonata alla quale era tuttavia molto affezionato. Era appartenuta, pare, al generale De-Foe in persona ed era uno dei pezzi forti della sua collezione di reperti storici. “Ognuno combatte le proprie battaglie con le armi che la Provvidenza gli ha fornito. Il generale De-Foe celebrava la vittoria della spada con questa trombetta ed io, Rambleon, allo stesso modo celebro la vittoria della ragione!” ; così era solito dire il proconsole prima di iniziare uno dei suoi interminabili discorsi sull'analisi logica. Ma non divaghiamo... 199 Con il volto in preda ad un'espressione mista a incredulità e rabbia, Süssberg si fece strada verso la sala da pranzo dove Rambleon l'attendeva. Madame Ivette, poveretta, seguiva tutto questo senza proferire nemmeno una parola e, mentre ancora teneva in mano il pesante cappotto del signor Süssberg, si chiedeva – com'è giusto che sia – che cosa fosse la stramberia alla quale stava assistendo. Süssberg irruppe nella sala da pranzo e, con sua grande sorpresa, vi trovò messer Rambleon seduto a tavola che con fare elegante degustava i suoi tortellini. Per un attimo un ghigno malefico comparve sul volto di Süssberg; ma fu solo un attimo perché il fare sicuro di Rambleon gli lasciava intendere che la vecchia volpe doveva saperla lunga. “Benvenuto, mio caro amico. Accomodatevi pure...”, disse Rambleon facendo segno verso il posto vicino al suo che la signora De Lafontaine aveva preparato poco prima. Süssberg si sedette obbediente al suo posto, ansioso di sentire la soluzione dell'enigma. Questa volta Rambleon doveva aver superato veramente sé stesso: non solo aveva vinto la sfida ma addirittura, con fare tronfio, portava la forchetta alla bocca dimostrando di gradire superiormente quella pietanza... avvelenata! 200 “Forse avete chiesto a madame Ivette di mostrarvi la boccetta?” “Quale boccetta?”, rispose Rambleon. “La boccetta col veleno, mio buon amico. Era inclusa con la confezione di tortellini. Ho lasciato all'interno un biglietto dove istruivo madame su come versarlo sui tortellini non appena questi fossero stati pronti per essere serviti; l'ho spacciato come un ingrediente segreto della ricetta originale, insomma.” “Non ne so proprio nulla”, disse Rambleon un po' scocciato. “Ma vi assicuro”, proseguì, “che sarebbe altresì scortese da parte vostra se rifiutaste di unirvi a me a questa prelibata cena.” Così dicendo servì un'abbondante porzione di tortellini nel piatto di Süssberg che, con estrema attenzione, seguiva ogni suo movimento. “Oh, non abbiate paura Süssberg”, disse l'ospite sorridendo, “vi assicuro che sono assolutamente innocui adesso. Nel mentre che Ivette si recava alla porta ho provveduto a condirli con un altro ingrediente speciale: l'antidoto!” “Diavolo di un Rambleon!”, esclamò Süssberg. “Avanti raccontatemi tutto.” Rambleon ghignò di gusto mentre Süssberg si portava la forchetta alla bocca. 201 “Sono davvero ottimi!”, disse questi. “Senza dubbio!”, confermò Rambleon che, mentre riempiva generosamente il bicchiere del suo ospite attaccò con la spiegazione: “Ovviamente in un primo momento pensai che la natura e gli indizi della prova fossero contenuti nelle illustrazioni delle cartoline. Niente di più sbagliato. Ho spostato quindi la mia attenzione sui messaggi di saluto scritti di vostro pugno sulle stesse ma, come voi ben sapete, senza nessun risultato utile. A parte quel vostro ridicolo crittogramma che mi ha fatto solo perdere tempo, s'intende. Molte grazie!”. “Non c'è di che”, disse Süssberg inchinando ironicamente il capo mentre ingoiava l'ennesimo boccone di tortellini. “Ah, davvero ottimi!”, sospirò. “Invero amico mio! E la mano di Ivette non poteva che impreziosire questo piccolo gioiello della gastronomia”. “Già. Ma la prego continui pure proconsole.” Rambleon portò il fazzoletto alle labbra e poi proseguì: “Arrivati alla terza cartolina, quella da Napoli, ero ancora in alto mare; ma quando ricevetti quella da Chiavari finalmente capii: le 202 città! I nomi delle città.” “Ah, vecchio diavolo!”, disse Süssberg con voce roca. “Ma certo! Come potevo essere stato così stupido? Confesso che la geografia non è il mio forte e men che meno ho dimestichezza con quelle terre così lontane dove lo splendore di Roma ha lasciato il posto al banditismo e alla pastorizia! Ma una veloce consultazione dell'Atlante du Relieu mi ha confermato che c'era qualcosa fuori posto. Salerno, Taranto, Napoli, Chiavari... quale razza di ubriaco poteva aver compiuto un giro simile e perché? Per un attimo pensai che forse alcune fossero state recapitate in ritardo, ma verificando il timbro postale potei appurare che l'ordine era proprio questo. Bene: il nome delle città, mi concentrai su quello. Era chiaro che i nomi delle città nascondevano un messaggio.” – Süssberg annuì con un cenno della mano. “E allora”, continuò il proconsole, “capii immediatamente tutto. Quando questa sera tornando a casa madame Ivette mi ha informato che per cena ci sarebbero stati questi ottimi tortellini ricevuti in omaggio da voi, non ho fatto altro che avere la conferma definitiva: la prova consisteva nell'indovinare il nome di una temibile pozione, la quale poi, sarebbe stata usata per avvelenare la pietanza che noi stiamo or ora consumando!” 203 “Fenomenale Rambleon”, disse sbalordito il signor Süssberg. “Cosicché poi avete recuperato il giusto antidoto e l'avete versato nei tortellini, annullando così gli effetti del veleno. Devo confessare che questa volta avete davvero superato voi stesso. Non era semplice! Complimenti amico mio”. Rambleon, sempre più fiero di sé, si alzo in piedi col calice in mano e, dopo aver appoggiato il braccio alla mensola del camino, spiegò: “SA-lerno, TA-ranto, NA-poli, CHIA-vari... SA-TA-NA-CHIA: Satanacchia, l'ammazzatopi! Era così evidente!”. A questo punto Süssberg si bloccò con la forchetta a mezz'aria: “Sa... Satanacchia..?” “Si, Satanacchia!”, disse Rambleon. “Un vero diavolo di veleno. Ah, ah!”. “Ma no, stupido idiota! Era: sa-LE-rno, taRA-nto, na-PO-li, chia-VA-ri: Lerapova! Ogni seconda sillaba. Ho adottato il metodo DeeKelly!”. “Lerapova...?”, ripeté serio Rambleon, mentre fissando lo sguardo verso l'infinito accarezzava il bordo del bicchiere. “Si idiota! Lerapova: lo «schioppacosacchi», il più potente veleno di tutta Madre Russia...” 204 I due si guardarono un'ultima volta prima di essere imprigionati nell'improvvisa paralisi che la lerapova provoca un attimo prima del collasso cerebrale. Negli occhi dell'uno c'era lo sgomento, negli occhi disillusi dell'altro l'incredulità e, senza che ci fosse bisogno di dirlo, seppero di aver perso tutti e due. V Epilogo Madame Ivette de Lafontaine entrò nella sala da pranzo a passo spedito. I piccoli passi ravvicinati che contraddistinguevano la sua camminata avevano un qualcosa di comico, sopratutto se si tiene conto del fatto che il suo didietro, stranamente paffuto e rivolto all'insù, accompagnava ogni suo gesto con un curioso movimento che ricordava in parte la gelatina, in parte il burattinare buffo di un impertinente pupazzo grassoccio. Si mise tra il signor Süssberg e messer Rambleon, che ancora stava appoggiato alla mensola del camino con il bicchiere di Chateau Lafite in mano. Mentre sparecchiava metodicamente la tavola rivolse lo sguardo prima a uno e poi all'altro e infine disse: 205 “In ogni caso, signori, l'antidoto non avrebbe funzionato lo stesso.” Tirò su il candeliere e con grande eleganza soffiò sulle candele spegnendole una alla volta, come in un lento ed inesorabile conto alla rovescia. “Arsenico miei cari. Banalissimo arsenico, la cui aggravante non solo avrebbe reso vano l'utilizzo di qualsiasi antidoto ma ha fatto sì che le vostre brillanti menti – e qui assunse un tono diabolicamente ironico – potessero rimanere vive e vegete, imprigionate nei vostri corpi paralizzati. Se non altro finché le risorse vitali non saranno terminate ma – grazie al cielo – per un tempo sufficientemente lungo per potervi rivelare l'inganno nel quale vi ho tratti e del quale adesso vi ho messi a parte.” Il terrore negli occhi di Rambleon e Süssberg è quanto di più atroce si possa immaginare: il loro ingegno era stato tratto in inganno da una misera cameriera. Questa consapevolezza, per loro, era anche peggio della morte stessa! VI Postilla La signora De Lafontaine non fu mai perseguita per il suo crimine. In verità mai nessuno ne seppe 206 nulla. Tornò al paese natio dove grazie ai risparmi di una vita, messi faticosamente da parte, rimise in sesto la casa di famiglia. Vi si stabilì definitivamente e lì rimase fino alla fine dei suoi giorni, vivendo una vita monotona ma felice, in compagnia dei suoi tre gatti. VII Epitaffio Un bambino vestito di stracci teneva le sue manine strette ai pilastri arrugginiti del cancello, mentre osservava con attenzione due strane luci violacee che ondeggiavano all'interno del Cimitero de La Papétte. “Fuochi fatui!”, pensò. Doveva trattarsi di fuochi fatui come aveva sentito raccontare dai ragazzi più grandi. Si considerò fortunato ad averne potuto vedere non uno ma addirittura due. Si mise in attesa aspettando l'evolversi degli eventi, ma quando cominciò ad udire addirittura delle voci scappò via terrorizzato invocando la mamma. “Qui giace messer Rambleon: da lui l'intelletto temette di essere vinto, ora che egli non c'è più teme di non sopravvivergli”. “Ma che razza... ma cosa vuol dire? È ignobile!” 207 “Ha! E cosa dovrei dire io!?”, rispose Süssberg ondeggiando indispettito mentre il suo fiammeggiare prendeva una colorazione rossastra. “Oh, suvvia Süssberg! Il vostro epitaffio è semplice ma dignitoso”, disse Rambleon. “Non lo credo affatto!”, sbottò Süssberg. “È un meschino plagio dell'epitaffio di Schiaparelli!” “Non mi pare poco! Ma il mio? É così... così... volgare! Pacchiano oserei dire!”. “Oh, ma guardate Rambleon”, lo interruppe Süssberg, “arriva il generale!”. “Oh, bene! Questa sera oserò chiedergli come andarono veramente i fatti sul campo di battaglia a La-Fayette”, disse l'ex proconsole pieno di entusiasmo (che manifestò con un'improvvisa spruzzata di verde che gli illuminò la fiamma come quella sul cappello dei soldatini a guardia del Famedio). Le due fiammelle si mossero lentamente e con fare incerto in direzione dell'ossario. “Crede che anche noi un giorno potremmo avere un aspetto più concreto come il Generale, mio caro Süssberg? Con la spada e tutto il resto...” “Non ne ho idea. Non sono certo di conoscere ancora bene come funzionino le cose ora che siamo... così. In questa nuova condizione insomma”. 208 “Morti!”, disse secco Rambleon. “Non siamo morti amico mio. Pensiamo e comunichiamo ancora. È solo una condizione... differente, ecco.” “Si, non lo metto in dubbio. Ma secondo i criteri rispetto ai quali siamo sempre stati abituati a pensare noi siamo morti. Fermo restando che i misteri dell'aldilà – dei quali io e lei pian piano stiamo scoprendo la natura – sono un fatto incerto per i viventi, si capisce...”. “Beh, io trovo che da questa esperienza potremo trarne tante nozioni utili per ampliare la nostra conoscenza”, osservò Süssberg. “Poco cambia... sempre morti siamo!” “Ma mio caro Rambleon, sarà bene abituarsi all'idea. Non credo ci sia data molta scelta”, rifletté Süssberg. “E poi sa che le dico? A me questa nuova condizione non è che mi dispiaccia, dopotutto.” “Si, ma tutto questo fiammeggiare... mi da noia! E poi mi sento così impacciato”. Le due fiammelle si fermarono per un attimo, in silenzio, come se stessero rispettivamente riflettendo su problemi esistenziali nuovi di zecca e del tutto sconosciuti ai viventi. La verità è che in loro era presente la consapevolezza di essere stati 209 imbrogliati due volte: una da madame De Lafontaine e l'altra da una natura capricciosa, variabile e lunatica, che non aveva dato loro nemmeno il tempo di risolvere i grandi enigmi della vita che già gli metteva sotto il naso quelli della morte. Ma per fortuna quel triste silenzio fu rotto dal loro nuovo amico e mentore: - “Oh, oh, buonasera signori!”, disse con tono cordiale il generale mentre dalla bocca tirava avidamente un grosso sigaro che, pian piano, cominciava ad accendersi grazie a Rambleon che prestava il suo passivo aiuto come un improvvisato accendisigari. Felici di poter ascoltare le parole di quel nobile vecchio eroe, i fuochi fatui si illuminarono ad intermittenza di tutti i colori dell'iride mentre seguivano il fantasma del Generale giù nell'ossario. Intanto una fitta nebbia si alzò rapidamente dal mare. Abbracciò delicatamente il cimitero e, mentre un colpo di vento spense i due lampioni di fronte al cancello, la luna si affacciò per un attimo dalle nubi, dando la buonanotte al piccolo paese di Gôgne sur la Mére, che ora poteva finalmente dormire sereno. 210 resoconto rinvenuto tra le pagine di un libro Dal diario di messer Rambleon. Gôgne sur la Mére, 25 Settembre 1889 Il giorno ventitré del mese di settembre 1899 io, Gustave Theodore Rambleon, mi trovavo presso la Biblioteca Imperiale di Sarprech a svolgere, come di consueto, il mio lavoro di ricerca sui funghi alpini. Mentre consultavo un antico volume trovai custodite in esso alcune carte. Mi apparve chiaro sin da subito che si trattava delle pagine strappate di un diario. Riporto di seguito quello che vi era scritto, avvisando sin da subito il lettore che la narrazione è priva di un inizio e anche di una fine 211 visto che, per l'appunto, si trattava solo di alcune pagine di quello che pareva essere un resoconto ben più ampio. Ne riporto il contenuto in quanto si tratta di materiale bizzarro che sicuramente stimolerà la fantasia di alcuni e la curiosità di altri. Se non altro perché ad oggi non è ancora dato sapere a quale spedizione marittima siano riferiti i fatti in esso contenuti, né il vero nome delle località citate, visto che non risultano su nessuna mappa. *** Resoconto rinvenuto tra le pagine di un libro. «[...] Al terzo giorno di navigazione approdammo ad uno scoglio in mezzo al mare detto Rauco o Isola dei Grampi. Il capitano Albion si guardò misteriosamente attorno e poi disse che sì: doveva essere proprio quello il luogo in cui si trovava prigioniera la principessa Shila. Evviva!, finalmente l'avremmo salvata. Ma dopo innumerevoli giorni di navigazione eravamo stremati dalla fame e dalla sete; le nostre misere provviste infatti erano finite da un pezzo. Sfortunatamente non c'erano fonti alle quali abbeverarsi su Rauco ma, fortunatamente, c'era un temporale in vista. 212 Piovve. Riempimmo le nostre borracce e ci dissetammo in abbondanza. Ma la fame continuava a svuotarci delle nostre forze e il nostro animo, attimo dopo attimo, diventava sempre più sottile e fragile. Mentre esploravamo quell'arido scoglio più di un uomo fu preso dallo sconforto: qualcuno pianse pensando alla famiglia che non avrebbe mai più rivisto, qualcun altro si lasciò andare a una vera e propria crisi isterica, subito messa a tacere a suon di schiaffoni dal capitano Albion in persona. Sapevamo che la principessa doveva trovarsi lì da qualche parte e questo ci rendeva estremamente felici, ma eravamo terribilmente preoccupati perché la verità era che con cinque giorni di navigazione non saremmo stati in grado di ritornare al nostro porto, viste le condizioni. Non avremmo nemmeno potuto provvedere al sostentamento della principessa. Potevamo solo sperare di cacciare o pescare qualcosa prima di ripartire ma non avevamo più con noi le nostre armi o altri utensili: tutto era andato perduto quando eravamo stati sorpresi da un temibile et burrascoso uragano. La situazione, insomma, era molto critica: eravamo lì per prestare soccorso ma ne avevamo bisogno a nostra volta. Ma avevamo promesso di salvare la principessa e avremmo cercato di farlo a tutti i costi, anche se la fame ci tagliava da dentro. Come avremmo voluto 213 affondare i denti dentro un bel cosciotto d'agnello! Anche se non lo dava a vedere il capitano era molto preoccupato. Avevo imparato a leggere la sua mimica facciale negli anni passati insieme per mare e ora i tratti del suo viso gridavano a gran voce “salcha garga!” che, tradotto dal gerlanovalentino significava approssimativamente: “maledizione infausta!”. Dopo un'interminabile ricerca il giovane Bartholomew Malamais indicò al resto della spedizione un punto in mezzo ad alcuni massi non dissimile dal resto del limitatissimo territorio di quello sperduto scoglio in mezzo all'oceano. Ma aguzzando la vista era possibile scorgervi una rientranza. Ci recammo presso il luogo indicato dal giovane marinaio e potemmo vedere che si trattava del minuscolo ingresso di una grotta di discrete dimensioni. Al rumore dei nostri stivali fece eco un suono che pareva avere delle caratteristiche umane. Un singulto! Un uomo collassò privo di forze. La fame stava per fare una nuova vittima. Albion si fece strada nella grotta con una torcia e noi lo seguimmo ma subito egli ci intimò di aspettarlo lì. Ci guardammo negli occhi e ubbidimmo. Sentivamo i passi lontani del capitano che si faceva strada nei meandri della grotta. Mentre 214 aspettavamo un uomo caricò la sua pipa con della sterpaglia secca trovata lì per terra. Un altro tirò fuori un ritratto della principessa Shila. Ci mettemmo tutti attorno a lui perché fra noi molti, compreso il sottoscritto, non l'avevano mai veduta. Rimasi, come molti, un po' perplesso. Era grassa. Molto grassa. Non era per niente quella leggiadra creatura della quale tutti parlavano. Aveva qualcosa di terribilmente sgraziato, persino disgraziato, oserei dire. I suoi lineamenti disegnavano, senza nessuna ombra di dubbio, le fattezze di una persona che poteva essere definita, senza troppi giri di parole, brutta! Non nascondo che pensando a tutta la fatica che avevamo fatto, per un attimo la mia mente mi suggerì un pensiero del quale mi vergognai profondamente. Ma quali che fossero le nostre parole e i nostri dubbi furono ben presto interrotti da un suono proveniente dalle viscere della terra: un urlo! O almeno così parve a molti di noi. Possibile? Eravamo incerti: forse si era trattato del verso di qualche animale. Ma a tutti noi era sembrato proprio il grido improvviso e disperato di una donna in pericolo. Seguirono vari rumori confusi. Poi sentimmo dei colpi di pietra e infine il rumore distinto di una pesante spada che affondava la sua lama in qualcosa di morbido. Era 215 Filindilarda, la spada del capitano; su questo non ci potevano essere dubbi. Il vice secondo mozzo portò la mano vicino alla bocca e gridò in direzione delle tenebre: “Cosa succede capitano? Stiamo venendo in vostro soccorso!”. Ma subito la voce possente e rauca di Albion gli fece eco: “Non muovetevi! É un ordine! Va tutto bene, sto risalendo.” Da lì a poco udimmo i passi del capitano che si dirigeva verso di noi. Lo vedemmo arrancare con un grosso fagotto tenuto insieme alla bella meglio. Eravamo tutti stupiti e lo fummo ancora di più quando lo buttò a terrà davanti a noi: “La principessa non c'era ma al suo posto ho trovato questa specie di maiale selvatico”, disse. “Finalmente potremo nutrirci miei uomini! Philibert: accendi il fuoco!”, ordinò. Rimanemmo tutti in silenzio finché l'arcicommodoro Filinberg non iniziò a parlare: “Che pelle liscia questo maiale capitano... Così curata.” Albion ci guardò tutti e pronunciò le seguenti parole: “Temo che la principessa ormai sia perduta. Abbiamo fatto del nostro meglio, uomini. Non ci resta che nutrirci e sperare che questo ben di dio ci basti per riattraversare l'immenso unt eterno oceano al quale abbiamo sacrificato le nostre forze e le nostre speranze”. 216 Sembrava come se ognuno di noi fosse cosciente di una verità che non osava, non poteva e, in fondo, non voleva pronunciare. Tacemmo. Philibert accese il fuoco e ognuno di noi aiutò a radunare i pezzi della bestia appena macellata da Albion. Di tanto in tanto qualcuno fissava il suo sguardo su questo o quel dettaglio anatomico facendo finta di stupirsi di fronte a quelle forme così rosee e un po' troppo delicate per un maiale selvatico. Mangiammo abbondantemente e con gusto quell'ottima carne. Che io ricordi in tutta la mia vita non ho mai mangiato carne di maiale o di nessun altro animale così buona. Fu un pasto che, senza ironia, definirei regale. Il giorno dopo Gustave Peyotte […]» *** Qui si interrompe, ahimè, questa bizzarra cronaca. Ora non so dire se si tratti di una storia vera o piuttosto del delirio di qualche alienato. Sta di fatto che tutto questo sembra suggerire alla mia mente una serie indeterminata di pensieri. Ma non è di certo compito di un modesto curioso come me approfondire eventuali pensieri sull'etica, la morale e le meccaniche della mente umana in situazioni di estremo bisogno. 217 Mi limiterò a dire che... oh! Madame Ivette mi chiama. É pronta la cena. Tortellini di Bologna con retrogusto di satanacchia. Si preannuncia un serata divertente, pare! – G.T. Rambleon 218 da un antico manoscritto rinvenuto a gôgne sur la mére Trascrizione ad opera del professor Jean Philippe Lippe della facoltà di promantica comparata dell’Università di San Kristoburgo. Procedeva mistica in coro a fila indiana nostrana processione di donnole nere. Vincendo antiche partite alle paure, vedove venendo vedevo tutte intoppate a palombare, ma di boccaglio carenti. Avrei osato chiedere? Si lo feci: “Di dove il fiato vi viene? Di dove l’aere prendete, lo mesto canto ‘sì forte a salmodiare?” – “Si respira alla bisogna”, una voce di streghevolezza acuta disse. “Si sugge l’anime nella 219 notte!”, puttanesca la seconda, della prima compara, rincarò ghignando. – “Ha, haha, hahaha” di coral’ S.S.-teutonicoinno fecero tutte in malevola associazione! “Noi vedove si succhia mariti e più spesso di quanto non lo si creda anche ben più d’uno!”. – “E se di mariti la carenza è troppa, d’altri omi si sugge trippa!”, proseguì pro-rompend’il silenzio un’altra. – “Uauauà!”, lo diabolico riso di bocche sbauscianti verdi liquami, sdentate ma di canini dotate, l’oculo indiabolato, non poco terrorizzommi. Li brividi sulla schiena a grattarola fin sullo cervello come mille ragnoli arrampicommisi: ah! No! Nevermore! Fuggemmi rapidevole di terror alimentato che il pensier m’è tardo al ricordare. 'Si tanto cagommi di paura all’orizzonte rosso sul tristo far del crepuscolo dusk, che’l raziocinio fece sciopero strike e piombato in un buio darko svenetti e più nulla ricordamnibus. Or quando ch’io la ragion in teschio mio riebbi avuta, presto imparai che lo stanzün dello ‘spedale ospitava me medesimo e lo corpo mio, allo quale cura et attenzione fu data non in quantità minore, bensì superiormente eccelsa. Durante la scappatoia da codelle orride vedove sbauscianti mi 220 si disse che il mio piedarello fu tratto in difetto et io cadetti in un fossato ricolmo di acqua. Quello acquitrino stagnante fu di me salvezza e causa di qualche male. La crapa, seppur ben ragionante di raziocinio novo, potea esser girovoltata solo al lato destriero, poiché lo collo mi fu in difetto a manca. Ma sebbene lo piedarello et lo collo doloranti che mi furono fubbi fortunato a non cagionarmi un ramo in un oculo o, che so?, la mort’impersona. Quindi era andata, sia beninteso, alquanto bene. Acclimatato che mi fui a codesto luogo che ben lieto fossi di trovarmici-in, un passo zoppo annunciommi la venuta del gentil omo che si prese cura dello corpo mio malconcio. – “Mio buon amico finalmente avete ripreso conoscenza! Sono l’arcidoktor Harcibald von Foëhn, master superior di questo ‘spedale, nonchè gran reggente dell’abbazia dei Sakri Skalzi qui sul monte. Lassù! Vede?”, disse indicando qualcosa fuori dalla finestra. – “Sssine...”, repliconzi me medesimo con poca convinzione. – “Ahah, che sciocco ch'io mi sia!”, disse l’arcidoktor indovinando la mia perplessità. “È notte ed è chiaro che un forestiero come voi che non conosce la zona non è avvezzo a scorgere le lanternine poste alle finestre dell’abbazia. Ma non perdiamo tempo. Sarò sincero con voi mio caro 221 amico: potevate finire male con quella brutta caduta. Ma per fortuna vostra avete riportato solo uno stortamento del piedarello destro e un ammaccamento agli ossicini del collo. Nulla di che insomma, anche se le vostre condizioni iniziali mi avevano fatto pensare a una situazione ben più grave. Eravate infatti preda di una terribile febbre e nel delirio più totale andavate raccontando cose assurde alle quali, sarò sincero, non ho voluto dare ascolto in quanto ridicole e stupide. Cretine, dai. Ad ogni modo data la situazione e in qualità di gran reggente dell’abbazia, vista l’apparente prossimità al regno della morte che contraddistingueva la condizione medica di voi stesso medesimo, ho voluto ascoltare le roche preghiere della vostra fidanzata. Quindi per evitarle il disonore in caso di vostra morte, e nel pieno rispetto delle regole della cavalleria, vi ho dichiarato marito e moglie. Coi poteri conferitimi può baciare la sposa. Auguri.” – “Ma, aspettate: quale sposa arcidoktor?” L’arcidoktor, che nel frattempo si era alzato dalla sedia a dondolino e stava andando nuovamente via, si girò e fece marcia indietro. Si avvicinò e allungandosi verso di me prese la mia testa fra le sue mani. Ci fu uno scatto violentissimo della noce del capocollo: traaack! 222 – “Qvesta sposa! Ja!?”, disse von Foëhn girando il mio collo dall’altra parte. Non feci in tempo a gridare perché il terrore più atroce e inconcepibile per qualsiasi essere umano si impossessò di me. Mentre l’arcidoktor gridava istericamente “può baciare la sposa, può baciare la sposa!” prima di intonare un allegro yodel fuori luogo, un’orribile vedova, nera e ricoperta tutta quant’a testa fasciata, mi fissava coi suoi occhi diabolici! E proprio mentre stavo per trovare la forza per liberare un ultimo estremo grido: plop! Un boccaglio nella mia bocca inserito mi fu e attraverso la plastichina trasparente di quel tubo potei vedere chiaramente la mia anima che veniva risucchiata in direzione di quel sozzo, orrido, nero pozzo senza fondo che era la bocca della vedova e dal quale decine, centinaia, migliaia di mariti trapassati, gridavano: “Aiutooo!” 223 Pagina lasciata intenzionalmente vuota INDICE 5 Introduzione 15 Corpi interrotti 25 Il signore dei vermi 29 La stanza dei bambini 35 La torre del cimitero 45 Il morto 49 Il treno 61 Una non storia sull’Amore, il Vuoto e il Buio 67 La tradizione del Balek in Epîstäfth 73 Un estratto dal Libro delle Duecento Verità 85 Un dialogo tra Nulla e Nessuno 89 Man Dragora 93 Proprio in quel momento una piccola stella fece capolino tra le fronde dell'albero 101 Una cena al Papadonprich 113 Escape 119 Non s’è padroni 123 Quid est Veritas, Claudia? 125 Il gnomo dei funghi caprini 133 Luysä 147 Il palumbro 153 L'elisir di corta vita 161 Moby Lick – ovvero, La balena nella scrittura di scena in un teatrare improvvisato nel cesso. 165 Un miracolo sconosciuto 173 Un sogno 177 Una venuta di Ishtar 183 Il viaggio di ritorno 187 Una spremuta di Satanacchia 211 Resoconto rinvenuto tra le pagine di un libro 219 Da un antico manoscritto rinvenuto a Gôgne sur la Mére Pagina lasciata intenzionalmente vuota