venerdì 22 aprile 2011

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venerdì 22 aprile 2011
Federazione Italiana Bancari e Assicurativi
via Modena, 5 – 00184 Roma – tel. 06-4746351 / fax 06-4746136
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sito web: www.fiba.it
Aderente alla UNI (Union Network International), alla CES (Confederazione Europea dei Sindacati) e alla CISL Internazionale
RASSEGNA STAMPA
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Rassegna Stampa del giorno 22 Aprile 2011
Comunicato di informazione a cura della Federazione Italiana Bancari e Assicurativi
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UN AFORISMA AL GIORNO
a cura di “eater communications”
“
un rapido oblio
è il secondo sudario
dei morti!
”
(La Marteine)
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Fiat sale ancora nella Chrysler
Marchionne: pronti al controllo
Il Lingotto anticipa il rimborso del prestito Usa. Elkann: tappa storica
MILANO — «Abbiamo scelto di stringere i tempi il più possibile per accelerare la nascita di un gruppo unico» . E anche perché d’ora in avanti il prezzo sarebbe potuto solo salire. Dettaglio non secondario, ma non la vera sostanza della mossa che Fiat ha annunciato ieri: entro giugno, Chrysler restituirà
fino all’ultimo cent i 7,4 miliardi di prestiti ottenuti da Stati Uniti e Canada e il Lingotto, «contestualmente» , eserciterà «per intero» e con un anticipo di due anni la call option sul 16%. Salirà al 46%. Pagherà, per farlo, 1,268 miliardi di dollari. Equivalgono a 860 milioni di euro, o poco più, e saranno tutto quanto Torino dovrà tirar fuori per raggiungere la maggioranza. Cosa che avverrà «entro fine anno»
: anche l’ultimo 5%«gratis» (o meglio, in cambio di tecnologie e lavoro) arriverà prima delle scadenze
ipotizzate all’inizio del salvataggio. Sono i contorni finanziari dell’operazione, i termini dell’intesa
sull’esercizio dell’opzione raggiunta l’altra sera tra Chrysler, Fiat e gli altri azionisti del gruppo Usa,
ossia governi e sindacati americani e canadesi. Il timing non è casuale: ci ha lavorato a tappe forzate,
Sergio Marchionne, perché la valutazione è legata a parametri di bilancio che, assorbito il picco della
crisi europea, per Fiat difficilmente potranno essere più bassi e dunque favorevoli. È perciò che ha
puntato a chiudere subito dopo la prima trimestrale 2011. E ha trovato Detroit d’accordo. Come commenta lui: «Sarebbe stato improprio chiederci di pagare un sovrapprezzo per qualcosa che abbiamo
contribuito a ristrutturare e riposizionare sul mercato» . Come ribadisce il Tesoro Usa: «Oggi ci avviciniamo di un passo all’uscita dei contribuenti dall’investimento in Chrysler» . La portata
dell’operazione, che avverrà attraverso un aumento di capitale riservato e consentirà al Lingotto di
consolidare Auburn Hills «forse anche prima del 51%» , va però molto al di là degli aspetti finanziari.
Sì, Fitch mette sotto osservazione il rating Fiat. Ma la Borsa che festeggia con un botto del
4,5%fotografa ben altro. Le aspettative. E la svolta tutta industriale che ora si profila. Quando John Elkann, il presidente, parla di «tappa storica, una bellissima giornata per noi e per l’Italia» , parla da azionista che, con la probabile fusione, scenderà dal 30%al 20-22%: ma sarà sempre di gran lunga il
primo socio di «un gruppo più forte, con una gamma completa, presente su tutti i mercati del mondo,
capace di competere con chiunque» e che continuerà ad avere «il pieno sostegno mio e della mia famiglia» . E Marchionne, che da due anni si divide tra Torino e Detroit, può finalmente presentare «il passo fondamentale verso il completamento di quel grande disegno di integrazione che porterà a una casa
automobilistica globale» . Non si cura — ieri meno del solito— di Cgil, Fiom, sinistra antagonista che
parlano di «americanizzazione Fiat» anche nel giorno in cui è Fiat, a comprare all’estero. Per polemiche e nuovi scontri ci sarà tempo, fin troppo presto. Ora, alla svolta-chiave di quello che per Maurizio
Sacconi è «un percorso virtuoso» , può dare la prima prova tangibile del «sogno da cui è nata questa
alleanza: dar vita a un costruttore mondiale, con tecnologie all’avanguardia, efficiente e competitivo,
determinato a posizionarsi tra i leader e ad assicurare a tutte le nostre persone un futuro più sicuro» .
C’è un po’d’enfasi, ma ci sta. Poi, dura lo spazio di un comunicato: da ieri è di nuovo negli Usa. Lavoro as usual.
R. Po.
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E Sarkozy fa l’industriale:
premi di produzione automatici
«Un bonus obbligatorio di mille euro in busta paga»
PARIGI— Tra il 2004 e il 2010, i dipendenti delle società quotate alla Borsa di Parigi hanno conosciuto un aumento dello stipendio dell’8%. Nello stesso periodo, i dividendi agli azionisti sono aumentati
del 110%. Nasce da questa disparità, oltre che dalle mega retribuzioni e le liquidazioni d’oro dei
manager, la misura decisa dal presidente Nicolas Sarkozy: le aziende con più di 50 lavoratori, che sono
in attivo e pagano dividendi, saranno obbligate per legge a versare premi salariali ai dipendenti. «Tengo molto alla condivisione della ricchezza — ha detto il presidente in visita agli operai di una fabbrica
nelle Ardenne — , è una questione di giustizia. Ritengo normale che i salariati e gli operai, ai quali tanti
sacrifici sono stati chiesti durante la crisi, possano anche loro beneficiare della ripresa» . Una misura
che riguarda circa otto milioni di lavoratori e che è stata criticata da più parti appena il ministro del bilancio François Baroin ha cominciato a parlare, nei giorni scorsi, di un «bonus obbligatorio di mille euro» per i dipendenti delle aziende in attivo. Sempre più spesso in disaccordo con la politica del governo, la presidente del Medef (la Confindustria francese) Laurence Parisot si è detta «stupefatta» da una
proposta «incomprensibile» . Gli imprenditori sostengono che spetta al management scegliere se distribuire gli attivi con dividendi e premi salariali, o dedicarli a nuovi investimenti. La sinistra, per esempio con l’economista Thomas Piketty, parla di «fumo negli occhi» , di una misura demagogica in
vista delle elezioni della primavera 2012. L’accusa di strumentalità non potrà che accompagnare Sarkozy a ogni sua mossa, di qui al voto: dall’intervento in Libia all’economia, alle decisioni sugli immigrati, ogni sua parola è giudicata sempre un disperato tentativo di riconquistare il consenso — stando
ai sondaggi— ormai perduto. In particolare, Sarkozy aveva fatto del «potere d’acquisto» della classe
media uno dei cavalli di battaglia della sua precedente campagna elettorale nel 2007, alla quale sono
seguiti pochi risultati concreti. Questa proposta viene giudicata un tentativo in extremis di mantenere
le promesse. Ma il presidente risponde alle critiche: «Vedo issarsi davanti a me i muri della conservazione e dell’immobilismo, a sinistra perché avrebbero voluto farlo loro e non l’hanno mai fatto, a destra perché è troppo, al centro perché non è ancora abbastanza» . Il governo vuole che il bonus ai dipendenti — la cifra di mille euro per adesso non è confermata— venga versato già nel corso di
quest’anno, e premerà perché il Parlamento approvi la legge prima dell’estate. Tra i tanti scontenti, anche 5,2 milioni di funzionari pubblici: i loro stipendi sono congelati, e i premi salariali non li riguardano.
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Rischio Grecia:
in Italia 6 miliardi di bond
Ai risparmiatori 700 milioni. L’uscita delle banche dai titoli di Atene
MILANO— Negli ultimi nove mesi del 2010, mentre le banche italiane si liberavano dei titoli di Stato
greci, i piccoli risparmiatori hanno fatto il pieno. Gli istituti hanno venduto molti dei loro «Sirtakibond» , ma nel frattempo gli investitori fai-da-te hanno aumentato l’esposizione in modo significativo.
Una tendenza contraria anche a quella dei fondi comuni venduti in Italia, che da mesi stanno scaricando sul mercato molto del rischio Grecia che avevano. Le elaborazioni del «Corriere della Sera» sulla
base di dati istituzionali fotografano la situazione con chiarezza. Al 31 marzo 2010 risultavano nei bilanci delle banche e delle assicurazioni italiane titoli di Stato greci per un valore nominale di 7,068 miliardi di euro. Il mondo del risparmio, fatto di piccoli investitori fai-da-te, ne aveva invece in portafoglio 532 milioni. Avanti veloce e a fine 2010 la situazione è già molto diversa: banche e assicurazioni
italiane hanno tagliato la loro esposizione su Atene a quota 4,5 miliardi, mentre invece i piccoli risparmiatori l’hanno aumentata. In nove mesi, i titoli di Stato ellenici direttamente in mano al pubblico
in Italia sono saliti di 168 milioni a un totale di 700 milioni. Peraltro fra giugno e dicembre 2010 anche
i fondi comuni hanno ridotto il peso di Atene di circa 400 milioni. L’Italia è dunque entrata nel 2011
con poco meno di sei miliardi di titoli greci distribuiti fra banche, aziende e privati. Ma mentre gli investitori professionali prendevano le distanze, le famiglie italiane per qualche motivo si sono fatte carico di quel rischio. Difficile capire cosa sia successo, in questa vicenda che riaccende i riflettori sulla
difficoltà della tutela del risparmio. Molti piccoli risparmiatori saranno stati attratti dagli alti rendimenti (presunti) e dalle garanzie offerte al massimo livello in Europa -Angela Merkel a Berlino, Nicolas
Sarkozy a Parigi -che l’euro sarebbe stato difeso. Molti hanno preso per certo un salvataggio di Atene.
Resta però da capire se le banche italiane abbiano trasferito parte dei loro titoli greci ai clienti, incoraggiandoli a comprare o almeno evitando di metterli in guardia. Di certo oggi la dinamica del debito
greco, i prezzi dei bond e i problemi politici in Europa rendono l’insolvenza plausibile. Potrebbe avvenire con un rinvio delle scadenze di rimborso, o con un taglio al valore dei titoli. Ma è comunque
un’ipotesi così realistica, che Goldman Sachs ha già fatto i conti. Ai dati degli ultimi giorni, le banche
elleniche sono esposte al rischio sovrano del proprio Paese per 60 miliardi e il loro capitale rischia di
finire spazzato via. Le banche tedesche invece sono esposte per 18,7 miliardi sulla Grecia e per 43 sui
tre Paesi più a rischio (Irlanda e Portogallo inclusi). La posizione degli istituti italiani si è invece ridotta ancora, con 1,7 miliardi di titoli greci e 2,3 miliardi totali se si aggiungono Dublino e Lisbona. Secondo le stime di Goldman, anche alcuni istituti del “nucleo duro”europeo rischiano qualcosa in caso
di ristrutturazioni del debito in Grecia, Irlanda e Portogallo. La tedesca Hypo RE ha un’esposizione
complessiva sui tre Paesi da 21,9 miliardi, Bnp Paribas di 7,3 miliardi (buona parte con Sirtaki-bond
per la banca che controlla Bnl) e Société Générale rischia su 3,2 miliardi. Intesa Sanpaolo e Unicredit
hanno entrambe una posizione ridotta a 1,1 miliardo ciascuna.
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«Con questo greggio
ancora aumenti per elettricità e gas»
MILANO — Nuovi aumenti in vista per le bollette di luce e gas? Possibile, forse anche probabile. «Se
continuano le tensioni internazionali sui prezzi del petrolio, che anche oggi era sopra i 120 dollari al
barile, certamente dobbiamo aspettarci nuovi rialzi» . Lo ha detto ieri il presidente dell’Autorità per
l’energia, Guido Bortoni, a «Sky Tg24» . Molto dipenderà «dalla permanenza e dall’intensità delle
tensioni internazionali» , ha puntualizzato, ma certamente l’Italia «è uno dei Paesi più esposti alle tensioni sui mercati petroliferi, tensioni che si riverberano immediatamente sui prezzi dell’energia» . Il
prossimo aggiornamento delle tariffe scatterà a partire dal primo luglio, tre mesi dopo un round che è
stato al rialzo tanto per l’elettricità quanto per il gas: all’inizio del mese l’Authority ha stabilito un rincaro dei prezzi di riferimento del 3,9%per la luce e del 2%per il gas con un aumento di oltre 37 euro a
famiglia. Bortoni ha poi consigliato di approfittare del libero mercato: scegliendo il fornitore di elettricità con la migliore offerta, si possono risparmiare «decine di euro l’anno» , su una spesa complessiva
di 450 euro.
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Draghi: fuori dalla recessione
più lentamente degli altri Paesi
Tremonti: i conti non sono messi male, tendenza ad autopenalizzarci
ROMA -Mentre aumentano le quotazioni per la candidatura di Mario Draghi al vertice della Banca
centrale europea, il governatore torna a insistere sulla crescita, «che non è un esercizio retorico» , come
elemento chiave per il futuro del nostro Paese. In un convegno a Palazzo Koch su "Europa 2020, quali
riforme strutturali per l’Italia", Draghi si mostra molto preoccupato sulla «lentezza dell’uscita dalla recessione» , sul volume del debito pubblico «salito in tre anni di 15 punti di Pil» , sulle scarse prospettive per i giovani. I motivi di questo allarme, annota, sono «gli stessi di cinque anni fa nelle mie prime
Considerazioni finali» . A distanza di pochi giorni dall’approvazione del Piano nazionale per le riforme e dai decreti a favore di Parmalat, le parole di Draghi non sembrano in armonia con l’azione di governo. Alcune ore prima il ministro del Tesoro Giulio Tremonti, parlando all’assemblea dei geometri,
aveva espresso una posizione più ottimistica notando che «sui conti pubblici non siamo messi così male anche se gli italiani hanno la tendenza ad autopenalizzarsi» . Pur riconoscendo al governo la tenuta
dei conti pubblici con un «deficit nettamente inferiore al valore medio dell’area, anche grazie alla solidità finanziaria delle famiglie e al sistema bancario» , Draghi continua la sua amara analisi notando che
«i governi e i parlamenti nazionali sono i legittimi depositari delle scelte politiche rilevanti» , mentre
l’intervento comunitario può spronarli ma non sostituirli. «Dobbiamo essere consapevoli che sui punti
deboli dell’economia non ci sono scorciatoie» avverte riferendosi alle spese in ricerca e sviluppo -che
devono essere fatte dalle imprese e non con sussidi pubblici -, all’aumento della povertà, alla scarsa
competitività del sistema produttivo. In quest’ultimo passaggio, pur senza citare il caso Lactalis, il governator e o s s e r v a c h e «l a competitività delle imprese non si accresce con sostegni a difesa della
concorrenza» ma adottando «una attenta regolamentazione pro-competitiva» . Di queste cose è importante discutere, continua il governatore nella parte finale del suo intervento, perché si aiuta a coagulare
il consenso sulle riforme i «cui costi sono immediati e concentrati su poche categorie organizzate mentre i benefici sono distribuiti e di lenta percezione» . Da dove partire? Il governatore suggerisce di
guardare alle tante imprese dinamiche, alle amministrazioni che innovano, ai giovani con un capitale
umano di eccellenza mondiale. «Spetta a coloro che a vario titolo gestiscono la politica economica
compiere il primo passo poggiando su analisi documentate e trasparenti» . Sulle parole dell’inquilino
di Palazzo Koch si trova d’accordo anche il numero uno di Confindustria Emma Marcegaglia che da
tempo batte sul tasto della crescita. «È troppo tardi» , afferma, «tornare ai livelli di crescita del Pil del
2007 solo nel 2014» come si legge nel programma economico di governo. «Quest'anno cresceremo
probabilmente intorno all'1%, la Germania al 3%, la media europea sarà intorno all'1,8%» , conclude la
Marcegaglia. I dati sulla crescita li aveva mostrati anche Draghi proprio per aprire il suo discorso sulle
riforme. «Negli anni Ottanta l’economia italiana è cresciuta del 25%, negli anni Novanta del 16%e tra
il 2000 e il 2007, prima della crisi è cresciuta del 7%contro il 14%di eurolandia» . Nel biennio 2008-09
la crisi «ci ha tolto 6,5 punti di Pil mentre gli altri Paesi dell’area euro perdevano il 3,5%» . Un divario
che perdura anche nella fase di ripresa. Mentre in Italia si discute sulle riforme i bookmakers inglesi,
dopo l’assist pubblico del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble, danno Draghi come favorito al vertice della Bce. Ieri la sua quotazione è scesa a 1,35 da 1,60 del giorno prima.
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Merkel, lo scambio Bce
con il fondo salva-Stati
Le tensioni nella maggioranza tedesca
BERLINO— Non sarà una vita facile, quella di Angela Merkel, nemmeno nei prossimi mesi. Deve fare accettare alla coalizione di governo che guida la creazione del Meccanismo di stabilizzazione europea (Esm) che ha concordato con i Paesi dell'Eurozona (più alcuni altri). Il problema è che una parte
non insignificante della sua Unione Cdu-Csu e dei liberali, partner di governo, minacciano di votare
contro quando la questione sarà portata in parlamento, probabilmente in estate. Le manovre per placare
i dissidenti sono già iniziate e la cancelliera si muove su più tavoli: è anche per questo— dice una fonte del ministero degli Esteri — , per non irritare i deputati anti-Esm, che non si sbilancia a favore della
candidatura di Mario Draghi alla presidenza della Banca centrale europea (Bce). L'opposizione al meccanismo permanente europeo di aiuto ai Paesi in crisi, che entrerà in funzione a metà 2013, è politica e
istituzionale. Nei giorni scorsi, la Corte dei Conti tedesca ha detto al parlamento che se l'Esm passasse
come è stato progettato la Germania potrebbe dovere fare fronte a esborsi superiori a quelli previsti
(190 miliardi, dei quali 21,7 in contanti e il resto in garanzie). Ciò perché, in caso di necessità, l'Esm
potrebbe chiedere ai Paesi che lo compongono altro denaro: Berlino sarebbe obbligata a pagare senza
possibilità per il Bundestag (il parlamento) di intervenire. Alcuni deputati ritengono questo procedimento incostituzionale e pretendono che sia cambiato. Ieri, un deputato della Cdu esperto di finanze
pubbliche, Klaus-Peter Willsch, ha detto a un quotidiano che i dissidenti pronti a bocciare l'Esm sono
30-40 nella Cdu più una dozzina tra i liberali. Essendo la maggioranza del governo al Bundestag di 20
seggi, potrebbero mettere in crisi l'unità della coalizione. Il provvedimento, infatti, con ogni probabilità
passerebbe ugualmente, perché le opposizioni socialdemocratica e verde dovrebbero votarlo. Per Frau
Merkel sarebbe però una sfiducia difficile da sopportare sul piano politico, su una materia così importante. Le manovre per fare rientrare la ribellione, dunque, sono già in corso. L'arma più forte in mano
alla cancelliera, cioè lo spettro di una crisi se perdesse per strada la maggioranza, può essere usata ma
è anche la più rischiosa. Per ora, la signora Merkel cerca di convincere gli scettici e quindi evita di
provocare ulteriori tensioni e proteste in qualche modo nazionaliste. Per esempio non prende posizione
a favore del governatore Draghi per la presidenza della Bce, a fine ottobre, quando Jean-Claude Trichet lascerà l'incarico. Il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble ha lasciato trapelare il suo appoggio al candidato italiano e questo è stato letto come un modo per vedere quali reazioni ci sarebbero state tra i deputati della maggioranza di governo. Per ora, nessuno ha alzato le barricate. In una situazione
in movimento, però, è presto per avere certezze.
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CartaSì in utile,
i clienti a quota 6,5 milioni
MILANO— Via libera degli azionisti al bilancio di CartaSi. L’assemblea dei soci, sotto la presidenza
di Michele Stacca, ha approvato i conti 2010: un anno che si è chiuso con un utile netto pari a 45,5 milioni di euro (contro 71,7 milioni del 2009, valore che aveva beneficiato di componenti straordinarie
per 26,4 milioni), un margine operativo lordo aumentato dell’8,6%a 67,8 milioni e un risultato operativo in crescita del 3,1%a 63,1 milioni. Sostanzialmente stabile il fatturato a quota 313 milioni.
L’assemblea ha inoltre deliberato di distribuire ai soci un dividendo unitario di 38 centesimi per azione
ordinaria, per un valore complessivo 22,5 milioni di euro. CartaSi (che fa parte del Gruppo Icbpi) ha
confermato la leadership nazionale con 6,5 milioni di titolari di carte e 600.000 nuove emissioni nel
corso dell’esercizio. A fine 2010 si registrano volumi di speso con carta di credito pari a un valore di
25 miliardi di euro. Valori in crescita per quanto riguarda lo speso medio per carta: un importo salito
dell’1,8%passando da 3.780 a 3.850 euro
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di Federico De Rossa
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Unicredit, il test degli azionisti
Alt alla vendita di Pioneer. Il rebus del socio libico per l’assemblea
MILANO — Unicredit fa dietrofront su Pioneer. La società di asset management, per la quale erano
state raccolte nei mesi scorsi manifestazioni di interesse, resterà sotto il cappello di Piazza Cordusio.
La decisione è stata ufficializzata ieri al termine di una giornata ricca di appuntamenti per la banca milanese, che in vista del consiglio convocato per il 28 aprile e dell’assemblea che si terrà il giorno successivo, ha riunito i comitati interni. Mercoledì al board verrà illustrata la relazione della Vigilanza di
Banca d’Italia sull’ispezione effettuata in Unicredit. Sull’esito non è filtrato nulla. Si è saputo, tuttavia,
che la Banca d’Italia avrebbe chiesto un supplemento di informazioni sulla cessione a Poste Italiane di
Mcc, da cui dovrebbe nascere la Banca del Mezzogiorno. La richiesta allunga i tempi per
l’autorizzazione, che era attesa per fine marzo. Quella che si aprirà lunedì sarà una settimana importante per l’amministratore delegato Federico Ghizzoni. L’appuntamento con il consiglio, ma ancora di più
con l’assemblea, la prima per Ghizzoni nella veste di amministratore delegato, potrebbero fare chiarezza sulle intenzioni della banca circa un eventuale di un rafforzamento patrimoniale. Sia il presidente
Dieter Rampl sia Ghizzoni finora hanno smentito le ipotesi circolate sul mercato di un aumento di capitale allo studio. E’anche vero che negli ultimi due anni e mezzo la banca milanese ha chiesto quasi 7
miliardi ai soci, e quindi potrebbe non essere così semplice far digerire alle Fondazioni un altro aumento di capitale. La scorsa settimana c’è stato un vertice tra Rampl e i presidenti delle Fondazioni
Crt, Cariverona, Cassamarca, Banco di Sicilia. Vista la soluzione scelta da Intesa, Mps e Bpm, che
hanno accompagnato l’annuncio di aumento di capitale con un nuovo piano strategico e la promessa di
dividendi stabili, se non in crescita, anche Piazza Cordusio, nel caso, farebbe lo stesso. Ma c’è un altro
tema che per Unicredit è cruciale, guardando alle strategie future: il ruolo dei soci libici. Bisognerà intanto vedere se qualcuno da Tripoli si presenterà giovedì in assemblea. Il problema, però, riguarda soprattutto la partecipazione all’eventuale ricapitalizzazione. La Libyan Investment Authority e la Central Bank of Libya, che hanno il 7,1%della banca, non possono sottoscriverlo avendo i beni congelati.
Su questo tema, ha scritto il Financial Times, ci sarebbe stato un confronto in Banca d’Italia che avrebbe portato alla decisione di rinviare la riflessione sul nuovo piano e sull’eventuale aumento a dopo
l’estate, sperando che per allora la situazione in Libia si sia chiarita.
Rassegna Stampa del giorno 22 Aprile 2011
Comunicato di informazione a cura della Federazione Italiana Bancari e Assicurativi
Tribunale di Roma - Registro della stampa n. 73/2007
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Fiat accelera e sale al 46% di Chrysler
1,2 miliardi per il 16%, il titolo vola
Fitch minaccia di tagliare il rating. Industrial torna all´utile
TORINO - Fiat salirà al 46 per cento di Chrysler entro la fine del secondo trimestre 2011. A un anno
esatto dal lancio di Fabbrica Italia, Sergio Marchionne accelera e annuncia «l´accordo con i soci di
Chrysler». Eserciterà l´opzione per l´acquisto di nuove azioni (la "Incremental equity call option") contestualmente al rimborso integrale «nel secondo trimestre 2011 del debito di Chrysler verso i governi
statunitense e canadese». Il comunicato del Lingotto precisa che «il prezzo complessivo per
l´esercizio della call option (l´opzione, appunto) sarà di 1.268 milioni di dollari Usa». A questi prezzi
Chrysler varrebbe oggi poco meno di 7 miliardi di dollari. Ma è plausibile che una volta quotata in
Borsa il suo valore sia destinato a salire di molto.
L´annuncio di Torino fa impennare il titolo a Piazza Affari dove a fine giornata si registrerà un balzo
del 4,49 per cento a 6,87 euro, il secondo significativo avanzamento dopo quello dell´altro ieri in concomitanza con la diffusione della trimestrale. L´unica nota negativa nella giornata di Fiat spa è
l´annuncio che Fitch metterà sotto osservazione il titolo di Torino per un possibile downgrade (un declassamento). Non è la prima volta che le agenzie di rating storcono la bocca di fronte alla scalata di
Detroit ritenendo che l´esborso di Fiat possa incidere negativamente sui conti del gruppo: «Non ci saranno effetti sui target per il 2011», ha risposto ieri Marchionne agli analisti. Oggi per Fitch il rating a
breve di Fiat è "B" mentre quello a medio lungo termine è "BB+".
La mossa di Marchionne ha riaperto le polemiche sul futuro della Fiat in Italia. Il ministro del Lavoro
Maurizio Sacconi ha giudicato «una via virtuosa» quella imboccata dall´ad di Torino e ha aggiunto
che Fiat «è un player italiano che comunque rimane radicato in Italia». Il responsabile lavoro del Pd
Stefano Fassina appare meno ottimista: «Ci auguriamo che Marchionne metta nella realizzazione del
piano industriale lo stesso interesse e ottenga lo stesso successo che ha nelle iniziative finanziarie».
Le reazioni sindacali riflettono le tensioni riesplose in questi giorni sul contratto della ex Bertone, che il
Lingotto vuole simile a quelli di Mirafiori e Pomigliano. «La salita in Chrysler - dice Susanna Camusso,
leader della Cgil - è la conferma dello spostamento del baricentro della Fiat verso gli Stati Uniti» mentre per Raffaele Bonanni (Cisl) «alla ex Bertone la Cgil crea problemi perché continua a guardare indietro».
Ieri al Lingotto si è riunito il cda della Fiat Industrial per la prima trimestrale dopo la separazione dalla
Fiat Spa. La società che produce macchine agricole (Cnh) e camion (Iveco) ha migliorato i conti rispetto allo stesso periodo del 2009 con un utile netto di 114 milioni (che si confronta con una perdita
di 34 nel 2010) e ricavi per 5,3 miliardi, in crescita del 19 per cento. Industrial ha confermato i target
del 2011 creando così qualche malumore in Borsa che ha pesantemente punito il titolo (-3,45 per
cento a 9,8 euro). «Non è mai accaduto che nel primo trimestre aumentassimo i target», ha commentato Marchionne in conference call. L´ad ha anche precisato che non è allo studio alcuna alleanza tra
Iveco e la divisione camion della Daimler: «Sia chiaro: tutto il chiasso che c´è intorno a Daimler e Iveco è creato da Daimler».
(p. g.)
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di PAOLO GRISERI
La quotazione
“Assurdo non andare all’integrazione”
Marchionne annuncia il nuovo salto
Così Torino primo azionista a Detroit. Sede, New York in pole
La scelta tra Italia e Usa dipende dalla capacità dei diversi mercati di attrarre capitali
Decideremo insieme al fondo Veba quando sarà il momento giusto per la quotazione in Borsa
TORINO - Un´operazione da 8,6 miliardi di dollari (6 miliardi di euro) per diventare entro il 30 giugno il
primo azionista di Chrysler. Questo è il senso dell´annuncio fatto ieri da Sergio Marchionne. Il Lingotto
infatti sborserà 1,26 miliardi di dollari (circa 900 milioni di euro) per acquistare con un aumento di capitale riservato una quota di Chrysler che, calcolata la diluizione, farà salire la Fiat dall´attuale 30 al
46% del capitale di Detroit. Contestualmente gli altri soci diluiranno la loro attuale quota. Il Veba, il
fondo pensionistico dei sindacati, scenderà dall´attuale 59,2% al 45,6, il Tesoro Usa dall´8,6 al 6,5 e il
governo canadese dal 2,6 al 2%. Al termine dell´operazione annunciata ieri dunque Fiat sarà il primo
azionista della casa americana. Questo spiega perché, rispondendo alle domande degli analisti, Marchionne ha dichiarato che «dovremo consolidare Chrysler in Fiat avendo acquisito il controllo della
società». Ma l´onta di essere una controllata di Fiat, durerà poco per gli americani: «Sarebbe assurdo
non andare all´integrazione», ha detto ieri Marchionne annunciando, di fatto, la futura fusione delle
due società.
Per arrivare al 46% «entro il secondo trimestre», Fiat dovrà restituire il debito contratto con i governi
americano e canadese ai tempi del fallimento della casa di Detroit. Una restituzione che verrà dalle
casse di Chrysler e non da Torino. Usciranno in questo modo 7,4 miliardi di dollari prestati da un pool
di banche con cui Marchionne ha ricontrattato i debiti abbassando i tassi di interesse «da usura»
(come aveva detto l´ad) accettati a suo tempo. Di questi circa sei miliardi di dollari andranno al Tesoro
americano e il resto al governo canadese. Al termine dell´operazione rimarrà ancora in mano al Tesoro Usa il 6,5%. Già nei giorni scorsi Marchionne aveva anticipato che la Fiat potrebbe anche rilevare
la quota rimanente di Obama, salendo oltre il 57% e liberando il presidente dall´imbarazzo di avere
quote di denaro pubblico parcheggiate in società private all´inizio della campagna per la rielezione a
fine 2012. In autunno, quando la Fiat sarà riuscita a far approvare in Usa la produzione di un´auto ecologica, in grado di percorrere 16 Km con un litro di benzina (si parla di un modello a marchio Dodge), arriverà l´ultimo 5% che manca a raggiungere la maggioranza della casa di Detroit. Tra pochi
mesi dunque l´ad del Lingotto dovrà affrontare due nodi: quando quotare in Borsa la nuova Chrysler e
dove stabilire la sede legale del nuovo gruppo. Al primo quesito Marchionne finora non ha risposto:
«Decideremo insieme al fondo Veba quando è il momento giusto», ha detto ieri agli analisti. Non bisogna dimenticare che il fondo pensioni del sindacato Usa vende le sue quote con l´obiettivo di fare
cassa e pagare così i trattamenti pensionistici degli ex dipendenti. Sul secondo punto, quello della
sede legale, Marchionne ha lasciato intendere da tempo che «la scelta dipende dalla capacità dei diversi mercati di attrarre capitali». Un modo per dire che quasi certamente la sede legale sarà a New
York essendo evidente la sproporzione tra la capacità di attrazione di Wall Street e quella di Piazza
Affari.
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di SALVATORE TRO
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Il presidente del Lingotto rivendica il sostegno all´azione di Marchionne . L’ad non ha
ancora esercitato le stock option
Elkann: “La mia soddisfazione più grande”
Ma resta l’incognita sull’assetto azionario
Gli Agnelli hanno ormai messo in conto la diluizione della loro quota nel nuovo gruppo
TORINO - «Una tappa storica per Fiat e Chrysler, per noi motivo di orgoglio e soddisfazione». Il presidente del Lingotto, John Elkann, prova ancora una volta a sfuggire al tormentone sul trasferimento
della sede Fiat da Torino a Detroit che, col passare dei giorni, va assumendo sempre di più i contorni
di una mossa scontata, scritta a chiare lettere negli accordi come quello di ieri. Al punto da non essere neppure smentita dal Lingotto che, al massimo, la ricolloca nel tempo, senza escluderla ma provando solo a spiegarla diversamente rispetto alla versione corrente a Torino e in Italia. Come dire
che, in un´economia globalizzata, non c´è niente di strano se un colosso industriale strutturato in
blocchi continentali - Europa, America, Asia - è governato da una plancia di comando diversa da quella del passato.
«Nel corso degli ultimi anni Fiat e Chrysler hanno saputo lavorare fianco a fianco, con rispetto reciproco» commenta il presidente Elkann, spiegando che questo spirito di collaborazione, che diventerà
ancora più forte con l´accordo di ieri, è stato possibile grazie al contributo di quanti lavorano in Fiat e
al sostegno che lui e la sua famiglia hanno dato a Marchionne dal 2004 a oggi, anche in termini finanziari. Un messaggio che va interpretato come un disco verde dell´azionista di controllo Fiat alle scelte
che Marchionne si appresta a fare andando verso l´ormai più che annunciata fusione Torino-Detroit.
Sarà infatti questa l´ultima e la più importante tappa che di un processo che ieri ha aggiunto un nuovo
capitolo definito da John Elkann «la più grande soddisfazione professionale da quando lavoro».
A questo punto sembra del tutto acquisito il fatto che gli Agnelli abbiano messo in conto la diluizione
della loro quota nella nuova società. Il presidente di Fiat lo ha anche più volte ammesso, spiegando
che non è un problema dal momento che in quel caso si finirà per avere una quota ridotta rispetto al
30 per cento di oggi ma in una società il cui valore sarà più del doppio rispetto a quello dell´attuale
Fiat. Un´operazione che per gli eredi dell´Avvocato sembra compensare ampiamente il «sacrificio»
della perdita della storica centralità torinese che, in sintonia con Marchionne, loro preferiscono leggere come un bilanciamento tra Italia e Stati Uniti da parte di un gruppo egualmente attivo nei due Paesi.
Non c´è ancora una data per questo passaggio finale, ma se si deve misurare il percorso col metro
delle accelerazioni impresse da Marchionne forse non si dovrà aspettare molto. E a quel punto si capirà meglio anche il ruolo che avrà lo stratega sinora in condominio tra Torino e Auburn Hills. Time lo
ha collocato tra le cento persone più influenti del mondo e anche questo, ma non solo, potrebbe far
pensare a una sua posizione nuova, per così dire meno manageriale e più da azionista. Se ne parla
da tempo ma sinora senza riscontro anche perché lui non ha mai incoraggiato l´ipotesi di
un´aspirazione del genere. Che, a giudicare da quanto si è visto negli ultimi vent´anni, è stata la tentazione di più di un suo predecessore.
Marchionne ora ha come obiettivo il 51 per cento di Chrysler e lo vuole raggiungere, come ha ripetuto
ieri, entro quest´anno. E´ convinto che avrebbe «poco senso» non integrare le attività di Fiat e
Chrysler e che «l´integrazione a livello operativo è più importante di quella legale». La mette giù in
termini tecnici con un´insistenza che enfatizza il suo ruolo di manager e fa passare in secondo piano
l´ipotesi ventilata da qualche parte di un utilizzo delle stock option in suo possesso nella conquista del
controllo di Chrysler. Forse perché più e meglio di altri egli sa che le stok option, peraltro mai esercitate, possono valere meno di un risultato che lui può conseguire per altre strade.
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di ROBERTO PETRIIN
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Federalismo,
arriva una nuova stangata
Previsti rincari fino al 600 % per i passaggi di proprietà
Nel decreto del governo forti aumenti per l’
Ipt: è l’
Imposta per la trascrizione al Pra
ROMA - Stangata federalista per gli automobilisti italiani. Dopo lo sblocco delle addizionali comunali
Irpef e l´introduzione della tassa di soggiorno, il decreto legge sul federalismo fiscale regionale e provinciale, approvato in via definitiva il 31 marzo dal Consiglio dei ministri, riserva una amara sorpresa
per chi comprerà una autovettura: prima dell´estate scatteranno salati rincari dell´Imposta provinciale
di trascrizione, quella che si paga sui passaggi di proprietà delle autovetture nuove e usate. Rincari
che arriveranno, in alcuni casi, fino 600% delle attuali tariffe.
La sorpresa è contenuta all´articolo 13 (Tributi connessi al trasporto su gomma), comma 5-bis del decreto che sta per uscire sulla Gazzetta Ufficiale. Il decreto dovrà essere oggetto solo di un ulteriore
provvedimento attuativo da parte del ministero dell´Economia che entro fine maggio farà scattare gli
aumenti.
Il testo abolisce il vantaggio fiscale che gli automobilisti hanno oggi quando acquistano un veicolo
nuovo o usato da un concessionario: attualmente chi compra un´auto da un soggetto Iva, un concessionario o un salonista, paga semplicemente l´Imposta provinciale di trascrizione (in sigla l´Ipt) in cifra
fissa. Varia, a seconda delle province, da 151 a 196 euro ed è indipendente dai kilowatt dell´auto acquistata.
Diverso, e più oneroso, è attualmente il trattamento per chi compra un´auto da un privato che non è
soggetto all´Iva. Chi segue questa strada (si tratta soltanto del 10 per cento delle transazioni) è tenuto
a pagare l´Ipt in modo proporzionale. Se l´auto è sotto i 54 kw (è il caso, ad esempio, di una Fiat
Panda) paga 196 euro. Ma se la potenza massima cresce, allora la tassa provinciale sale proporzionalmente fino ad arrivare a prevedere - per un passaggio di proprietà di una Bmw X6, ad esempio ben 1.026 euro di imposta.
Tra circa un mese le cose cambieranno e l´aggravio previsto per chi compra da un privato si allargherà anche a coloro che compreranno auto nuove o usate da un concessionario o da un salonista. Con
la nuova norma, i compratori dovranno prepararsi a sborsare molto di più di quanto contano di spendere oggi. Solo le piccole utilitarie sotto i 54 kw si salveranno; per le altre auto gli aumenti saranno
stratosferici: si andrà, ad esempio, da oltre il 100 per cento per cento in più di Ipt per una Golf Volkswagen, al 423 per cento di una Mercedes Classe Cls, fino al 683 per cento per i fortunati che possono permettersi una Ferrari California. Al di là delle macchine più costose, la gran massa degli aumenti colpirà le medie cilindrate con aumenti che raggiungeranno il 100 per cento. Nel mirino anche
le piccole imprese di trasporto: rincari del 300 per cento per gli autocarri oltre gli 80 quintali.
Per le Province, di cui molti auspicano l´abolizione, arrivano così nuove risorse: gli aumenti della Ipt
dovrebbero consentire di incamerare circa 300-400 milioni che si sommeranno ai circa 3 miliardi che
le Province, tra l´imposta sulla Rc auto e Ipt, spremono dall´automobilista. Mentre Tremonti ieri ha
annunciato all´Associazione dei Geometri l´arrivo di una semplificazione della Scia (Segnalazione
certificata di inizio attività).
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di GIOVANNI PONSS
Vertice al Tesoro su Parmalat
ma la cordata stenta a decollare
Banche e aziende defilate. Bankitalia: no a freni al mercato
Potrebbe essere decisivo il vertice italo-francese in programma subito dopo Pasqua
MILANO - Una stoccata dal governatore della Banca d´Italia, Mario Draghi, una dall´ambasciatore
francese Jean Marc de la Sabliere, e una riunione con le banche per la vicenda Parmalat. Come se
non bastasse la fronda interna al governo, ieri sono arrivati segnali poco incoraggianti per il ministro
dell´Economia, Giulio Tremonti, intento da settimane a trovare una soluzione che impedisca ai francesi di Lactalis di impossessarsi dell´azienda parmense guidata da Enrico Bondi. Probabilmente sarà
decisivo il vertice italo francese in programma il 26 aprile, appena dopo Pasqua, in cui verranno discussi un po´ tutti i temi caldi di queste settimane, dall´intervento in Libia agli immigrati nordafricani
fino ai dossier economici come appunto Parmalat, Edison, Mediobanca, Fondiaria-Sai.
Intanto però c´è da registrare la posizione di Draghi: «In Italia una maggiore competitività del sistema
produttivo non può essere ottenuta con sostegni e difese dalla concorrenza: richiede un´attenta regolamentazione pro-competitiva dei mercati, ben disegnata e sorvegliata da regolatori indipendenti». Insomma il decreto promosso da Tremonti che allunga i tempi per le assemblee non sembra la soluzione preferita da Bankitalia così come dagli stessi francesi. De la Sabliere ha invocato il rispetto delle
norme europee per le materie economiche che riguardano Italia e Francia. «Abbiamo regole europee
e queste regole devono essere rispettate», ha detto l´ambasciatore a proposito del caso Parmalat. «Il
mercato è unico: per la crescita dell´Europa e delle nostre imprese vanno rispettate le norme Ue. Il
principio fondamentale è la libertà di investimento». Peccato che ogni volta qualche azienda italiana
abbia tentato di conquistare un pezzo pregiato d´Oltralpe, il governo sia sceso in campo con le corazzate. Basti ricordare quando l´Enel, qualche anno fa, voleva lanciare l´Opa sulla Suez: il governo ha
imposto a Gaz de France di respingere l´attacco degli italiani e così è stato. Dunque a poco vale ricordare, come ha fatto de la Sabliere ieri, che la legge anti-scalate francese «si applica ai settori da
cui può esserci un danno per la difesa, la sicurezza o l´ordine della Francia, in nessun caso si applica
a settori come l´agro-alimentare». L´assalto della Pepsi su Danone, azienda alimentare francese, è
stato respinto proprio grazie a questa legge, appellandosi al fatto che Danone controllava una società
di casinò che rientrava nei settori strategici.
Regole a parte il problema più stringente per Tremonti è l´inconsistenza della cordata italiana che dovrebbe scendere in campo per acquistare la Parmalat. Ieri sul tema si è svolto un faccia a faccia al
ministero tra Tremonti e i rappresentanti delle banche, Corrado Passera e Piergiorgio Peluso, presente anche Giuseppe Guzzetti in rappresentanza delle Fondazioni azioniste del 30% della Cassa Depositi e Prestiti. Purtroppo per il momento gli unici soldi sicuri messi sul piatto sono proprio i 500 milioni
della Cdp, che dovrebbero rappresentare un terzo di una torta da 1,5 miliardi a cui dovevano contribuire le banche e un socio industriale forte. Ma quest´ultimo non sembra palesarsi - la Granarolo potrebbe entrare nella partita solo in un secondo momento - e le banche in questo periodo hanno il
braccino corto. Si vedrà nei prossimi giorni se Tremonti, Passera e Guzzetti riusciranno a venire a
capo della complessa matassa o se alla fine prevarrà un accordo politico ad ampio raggio.
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Profitti Morgan Stanley giù del 45%. General Electric a gonfie vele
Pioneer aumenta utili e ricavi
e Unicredit non la vende più
MILANO - Dopo le ripetute indiscrezioni, ieri è arrivato anche il suggello dell´ufficialità: Pioneer non si
vende più. Con una nota infatti Unicredit ha reso noto che a seguito di un´analisi approfondita dei benefici legati alle varie opzioni strategiche per la propria società di asset management, la banca ha deciso che «la migliore soluzione strategica per Pioneer investments è la crescita organica, anche alla
luce dell´evoluzione del mercato negli ultimi dodici mesi». In particolare gli utili e i ricavi di Pioneer
sono aumentati del 13% rispetto a quelli del 2009 e le masse in gestione sono cresciute da 176 miliardi di euro di fine 2009 a 187 miliardi di euro a fine 2010.
Conti in flessione invece per Morgan Stanley, che archivia il primo trimestre con un utile netto in calo
del 45%, a 736 milioni di dollari e ricavi in diminuzione del 12%, a 7,6 miliardi. I risultati tuttavia sono
stati meno brutti delle stime medie degli analisti, soprattutto grazie alle entrate legate al segmento del
reddito fisso, tanto che in Borsa il titolo ha segnato un rialzo nell´ordine dell´1,5%. Ieri la società, che
fa parte del nutrito plotoncino di gruppi che a Wall Street renderà noti i risultati del trimestre entro il fine settimana, ha annunciato anche un accordo con Mitsubishi UFJ Financial per la conversione di 7,8
miliardi di dollari di azioni privilegiate in mano alla banca giapponese, in titoli ordinari. Con questa operazione Mitsubishi UFJ Financial sale al 22,4% del capitale ordinario di Morgan Stanley che, dal
canto suo, elimina il pagamento di un forte dividendo. La conversioni in azioni ordinarie «è la mossa
giusta sia per Morgan Stanley sia per Mitsubishi ed è la prova della forza della nostra relazione unica», ha commentato l´amministratore delegato James Gorman.
A gonfie vele i risultati di General Electric che nel primo trimestre ha registrato un balzo dell´utile netto
dell´80 per cento, a 3,36 miliardi di dollari, decisamente sopra le attese.
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di ROBERTO MANIIA
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Draghi: “Italia lenta nella ripresa”
Il governatore a un passo dalla Bce: manca l’ultimo ok della Merkel
Via Nazionale: troppe tasse, pochi investimenti e la popolazione invecchia
ROMA - L´Italia arranca «lentamente» nell´uscita dalla recessione. Più degli altri paesi europei, appesantita - com´è - dai suoi problemi strutturali: alta tassazione, basso livello degli investimenti, progressivo invecchiamento della popolazione. E c´è da «preoccuparsi» - ha detto ieri il governatore della
Banca d´Italia, Mario Draghi, nel suo intervento ad un convegno sugli obiettivi di Europa 2020 - perché «una crescita stentata alla lunga spegne il talento innovativo di un´economia; deprime le aspirazioni; prelude al regresso; preoccupa particolarmente in un paese come il nostro, su cui pesano
un´evoluzione demografica sfavorevole e un alto debito pubblico».
Un´analisi che in buona parte ricalca quella recente del Bollettino economico di Via Nazionale e che
chiede alla politica di non limitarsi a un controllo per quanto apprezzabile dei conti pubblici. Serve di
più per raggiungere prima del 2014 i livelli di crescita pre crisi. Serve il coraggio delle riforme cercando il consenso anche attraverso - ha detto il governatore - «analisi documentate e trasparenti».
Draghi, dunque, è tornato a parlare mentre si avvicina il rush finale per la corsa alla presidenza della
Banca centrale europea (Bce). La nomina è prevista per il 24 giugno al vertice dei capi di Stato e di
governo europei ma la scelta potrebbe arrivare già con la riunione dell´Eurogruppo in programma il 16
giugno.
Draghi è in pole position per la successione al francese Jean Claude Trichet e non ha praticamente
alternative. Ieri lo ha scritto anche il Financial Times con una corrispondenza da Berlino. Perché è in
Germania che si gioca la partita dopo che Axel Weber ha annunciato che alla fine di questo mese lascerà la guida della Bundesbank per tornare all´università, tirandosi fuori dalla gara per l´Eurotower. Il
ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble (personalità di grande peso nello scenario politico
tedesco) si è, seppure informalmente, schierato per Draghi. La Cancelliera Angela Merkel, assai attenta agli equilibri politici domestici, prima di esporsi sta aspettando di capire se dovessero emergere
pregiudizi nell´opinione pubblica tedesca su un italiano al vertice della Bce. Va aggiunto, però, che,
una volta caduta l´opzione tedesca, se si dovesse puntare su un candidato di uno dei paesi piccoli del
nord (Lussemburgo, Olanda o Finlandia) si comprometterebbero gli equilibri nel board di Francoforte.
Ed è interessante che un mini-sondaggio sul sito del Wall Street Journal segnalava ieri che quasi l´86
% dei votanti è a favore dell´italiano Mario Draghi.
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di EUGENIO OCCOR
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L’economista Nouriel Roubini ridimensiona l´emergenza innescata da Standard & Poor´s
“L’America ha le spalle larghe saprà
reagire all’allarme debito”
Non esiste sul pianeta una destinazione più sicura per i patrimoni che quella degli Stati Uniti
ROMA - «L´allarme di Standard & Poor’
s sul debito Usa non deve indurre a conclusioni precipitose: si
è parlato di una possibile rivolta dei mercati finanziari contro gli Stati Uniti, ma non è verosimile. Non
c´è sul pianeta destinazione più sicura per i patrimoni che l´America, e qualsiasi eventuale impatto
negativo sui mercati sarà transitorio». Nouriel Roubini ha assistito attonito al roadshow televisivo del
ministro Geithner per rassicurare i cittadini e scende in campo nell´inusuale veste di difensore
dell´America: «Il Paese è sopravvissuto a guerre mondiali e locali, a depressioni e crisi spaventose,
senza mai avviare misure drammatiche né redistribuzioni arbitrarie o distruzioni di ricchezza, né cadere nell´iperinflazione. E senza modificare la propria forma di governo democratica, una delle più antiche del mondo». L´economista che il 7 settembre 2006 gelò l´assise dell´Fmi prevedendo una crisi
«come se ne vedono una volta nella vita» causata proprio dall´America con i suoi eccessi immobiliari
e finanziari, getta adesso acqua sul fuoco.
Lei ha sostenuto la politica keynesiana dell´amministrazione, non crede che ci sia da pagare il
conto?
«Per tagliare il deficit che provoca il debito serve uno sforzo di leadership di Obama e di volontà condivisa del Congresso. Il presidente è prudente nel tagliare previdenza e sanità e cerca, ricorrendo
perfino ai social network, di far passare il messaggio che bisogna alzare le tasse. I repubblicani sono
chiusi su questo fronte. Servono entrambi gli interventi: tagliare le spese, salite in tre anni dal 20 al
25% del Pil, ma con un debito di 14mila miliardi anche aumentare le entrate, scese dal 20 al 15, tassando non solo le società e i ricchi come vuole Obama, bensì la middle class».
Come accoglieranno gli americani quest´idea?
«Serve cautela per non reinnescare la recessione ma se oggi la scommessa nella fiducia dei mercati
per rifinanziarsi è a vincita certa, non sarà così in eterno. Vanno cercate risorse in imposte indirette
come l´Iva, la tassa sulle vendite, la carbon tax, i prelievi sulla benzina».
L’Economist scrive che S&P’s ha annunciato con gran fanfara quello che era ovvio per i mercati da mesi. Niente di nuovo?
«Da un anno avvertivo che si avvicinava il livello di guardia. Però l´America paradossalmente trae beneficio dall´idiosincrasia verso il rischio che si sta diffondendo appunto perché resta il posto più affidabile: il mercato dei bond si riprenderà presto e i tassi scenderanno. Andrà trovato un equilibrio con i
tassi della Fed, che Bernanke rialzerà fra breve, su livelli più alti degli attuali perché l´inflazione è
spinta dalle materie prime. La crisi del 2008 partì non solo da Lehman ma dal greggio a 150 dollari».
Perfino i cinesi sono venuti a farvi lezioni di economia...
«Farebbero bene a guardarsi in casa: avendo ritardato ad alzare i tassi saranno costretti a manovre
brutali che incideranno sulla crescita. Quanto al sistema americano, la finanza pubblica, a differenza
degli altri paesi industrializzati, è gestibile: non è impossibile restaurare l´equilibrio in breve senza
traumatici aggiustamenti fiscali né pesanti conseguenze. Sul lungo termine occorre qualcosa di più
strutturale per i crescenti impegni di sicurezza sociale. Ora è urgente trovare un compromesso al
Congresso fra le proposte di Obama, la Simpson-Bowles, il Ryan Plan dei repubblicani, il piano bipartisan della Gang of Six...Bisogna ridurre il deficit di 4-5mila miliardi in dieci anni: l´importante è fare
qualcosa subito senza aspettare le presidenziali del 2012».
Rassegna Stampa del giorno 22 Aprile 2011
Comunicato di informazione a cura della Federazione Italiana Bancari e Assicurativi
Tribunale di Roma - Registro della stampa n. 73/2007
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Il reportage
Ippodromi, isole, aziende di Stato
così la Grecia svende i suoi gioielli
Il governo cerca 50 miliardi per evitare la bancarotta
Nella Capitale, decine di negozi chiusi con i cartelli “affittasi”bruciati dal sole
Su YouTube il documentario Debtocracy spiega chi ha depredato il Paese ellenico
ATENE - Il futuro della Grecia (e forse quello dell´euro) è in mano a un po´ di purosangue, ai numeri
del Lotto e all´azzurro da sogno dell´Egeo. «Meglio così. Conoscendo i nostri politici, mi fido di più dei
cavalli», scherza Stavros Petsitis, fantino di pochi chili e tante primavere, studiando sotto una pioggia
sottile i puledri in allenamento sulla pista di Markopoulo, due passi dall´aeroporto di Atene. E´ stato
già accontentato. Sommersa da 325 miliardi di debiti e finita nel tritacarne della speculazione, la Grecia ha deciso di giocare l´ultima carta per salvarsi dal crac: i saldi di Stato. Il governo di George Papandreou ha appeso il cartello "Vendesi" su tutti i gioielli di famiglia: ippodromi e scommesse ippiche,
ma pure le ricchissime lotterie nazionali, i monopoli di gas, luce e telefono e una valanga di terreni
pubblici, spiagge e isole comprese. Obiettivo: raccogliere 50 miliardi entro il 2015 di cui ha bisogno
come il pane per pagare i creditori e dribblare la bancarotta.
«Alternative non ce ne sono - dice Dimitris Daskalopoulos, numero uno della Confindustria greca - . È
l´ultimo treno per evitare il baratro». Basterà? I mercati sono più tranchant dell´Oracolo di Delfi: no. La
coperta dei 110 miliardi di aiuti garantiti ad Atene da Ue e Fmi, dicono, è troppo corta. L´economia è
al palo (-3% nel 2011), la disoccupazione è salita al 15%, i tassi sui titoli di Stato a due anni sono al
20%. Questione di settimane o al massimo di mesi, vaticinano. Poi la Grecia alzerà bandiera bianca e
ristrutturerà i suoi debiti, rifilando un altro elettrochoc alla traballante Unione monetaria europea.
L´esercito di Cassandre, cui si è iscritto persino il ministro alle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble,
non spaventa George Papaconstantinou, suo omologo ellenico. «Il nostro debito è sostenibile. Punto». La prova - dicono i suoi tecnici - sono le quattro paginette blu fitte fitte di tabelline presentate con
orgoglio ai potenti della terra a Davos qualche settimana fa: «Legga qua! Deficit 2010 calato del 6%,
spesa pubblica - 9,1%, entrate + 2%. Meglio degli obiettivi posti da Bruxelles e Fondo».
Può darsi. Il problema è che i greci hanno pagato un prezzo salatissimo all´austerity. E la strada per il
governo socialista, stretto tra morsi della speculazione e malcontento interno, si sta facendo sempre
più stretta. «Si guardi un po´ attorno e capirà da solo come vanno le cose», dice Vassilis Varoufakis,
accovacciato dietro una montagna di pretzel a Syntagma. Lui resiste e qualche ciambella di pan salato (prezzo 1 euro) la vende ancora. Il centro di Atene però è un calvario di saracinesche abbassate e
di cartelli "Enoikiazetai" ("Affittasi") scoloriti da mesi di sole e pioggia. «Nel 2009 prendevo 1.200 euro
al mese di stipendio per 14 mensilità - calcola Anna Varoula, insegnante di Corinto in gita con la sua
classe nella Capitale - Oggi siamo a 980 euro per 12 mesi. Senza contare che, dopo la riforma, andrò
in pensione nel 2018 invece che tra sei mesi, come speravo». Un anno fa lei era qui sotto il Parlamento con i colleghi a urlare "Klèftes, Klèftes" ("Ladri, ladri") ai deputati che votavano il taglio del 15%
alle buste paga dei dipendenti pubblici. «Ma oggi la gente ha perso la voglia di manifestare e si preoccupa solo di far quadrare i conti di casa», ammette sconsolata.
I sacrifici? Sono necessari per salvare il Paese e per sradicare le cattive abitudini e i privilegi che
l´hanno portato al collasso finanziario, è il mantra di Papandreou. A pagare, assicura il premier, non è
solo chi sta peggio: il governo ha tagliato da mille a 325 gli enti locali, tolto l´immunità parlamentare,
eliminato dall´elenco dei lavori usuranti trombettisti (a rischio presunto di reflusso gastrico) e speaker
tv (vittime della microfauna batterica nei microfoni) e varato una lenzuolata di liberalizzazioni da far
impallidire Bersani.
Il marketing però non basta più: la popolarità del Pasok - che resta il primo partito - è calata di quattro
punti al 20%. E le corporazioni, fiutata l´aria, sono partite al contrattacco. «Se lo Stato non ci paga i
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soldi che ci deve, da Pasqua non venderemo più medicine mutuabili, nemmeno quelle urgenti», è la
minaccia di Theodoros Abazoglou, numero uno dei farmacisti dell´Attica travolti dalla deregulation del
settore.
I tempi dei mercati, in effetti, faticano ad adeguarsi a quelli necessari per le riforme epocali, specie in
un Paese socialmente complesso come la Grecia. Il vero nemico di Papandreou non è l´opposizione
di destra (Nea Demokratia, rea del disastro finanziario con i suoi magheggi contabili, non guadagna
un voto nei sondaggi) e nemmeno quella di sinistra, in crescita ma polverizzata in decine di litigiosissimi nano-partiti. Il problema è il calendario. Ue e Fmi garantiranno ad Atene i soldi per far funzionare
lo Stato fino a giugno 2012. Poi il Paese, a meno di nuovi aiuti in zona Cesarini, dovrà far da sé, trovando sul mercato nei sei mesi successivi i 25 miliardi necessari per finanziare il debito. «Ce la faremo grazie alle privatizzazioni», è certo Papaconstantinou.
La speculazione lo aspetta al varco. Ma non è da sola. Su You Tube in Grecia tira moltissimo
(600mila contatti in poche settimane) "Debtocracy", video-documentario finanziato con 7.790 euro di
offerte raccolte sul web. «Un contributo per capire come è nato il buco greco e se si tratta di soldi
davvero dovuti», racconta Katerina Kitidi, uno dei due registi. Il finale rischia di essere profetico. Atene può fare come l´Ecuador nel 2007: autoridursi del 50% il debito facendo pagare il crac anche a
banche e ai finanziatori poco avveduti. Le banche centrali europee, che hanno in pancia 80 miliardi di
titoli ellenici, gli istituti francesi e tedeschi (esposti per oltre 100 miliardi) e quelli greci - destinati in
quel caso a pagare il pedaggio più alto assieme ai cittadini ellenici - tengono il fiato sospeso. Anche il
loro futuro - come quello dell´euro - è in mano ai cavalli di Stato messi all´asta da Papandreou
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La Fiba-Cisl
augura a tutti voi
una Santa Pasqua serena!!
Arrivederci a
martedì 26 Aprile
per una nuova
rassegna stampa!
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