Muccioli, L - Giovannino Guareschi

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Muccioli, L - Giovannino Guareschi
Muccioli, L.
GEYSER ADOLESCENZIALE INTORNO AL BUON GIOVANNINO GUARESCHI,
di L. Muccioli
da «La Voce di Romagna», 17 novembre 2008, p. 25
Se il mio capo scoprisse questo soporifero broglio di onanismo, probabilmente mi
spedirebbe con una bella pedata a riordinare l’archivio. Perché egli, da vecchia faina del
giornalismo rionale, non sopporta quando in un articolo la notizia non è inscritta nelle
prime due righe, e l’autore tergiversa nel compiere il suo dovere. Figuratevi, quindi, cosa
potrebbe accadere se questo pezzo gli capitasse sotto gli occhi. Qui di seguito, infatti, non
viene enunciata alcun tipo di novità. Niente di niente. Di nuovo, sotto il sole, c’è che un
diciottenne megalomane – che poi sarebbe colui che scrive – ha deciso di sprecare qualche
quintale di inchiostro per commentare un autore italiano di quelli già propinati in mille
salse diverse. Il sopracitato diciottenne ha intenzione – udite, udite popolo – di fornire a
voi tutti il suo prezioso punto di vista su Giovannino Guareschi. Già la cosa, presentata in
questo modo, dovrebbe essere sufficiente a farvi correre verso le vostre trincee, per
mettervi al sicuro dalla profusione di idiozie che questo gayser adolescente si prepara ad
eruttare. Un diciottenne che commenta il “Baffo”? C’è da morire di risate. L’annuncio
suona così spassoso e goffo che qualcuno per diletto potrebbe anche continuare a
leggermi. E’ bene, dunque, mettervi in guardia. Il tribunale dovrebbe almeno
concedermi un attenuante per il misfatto che mi accingo a compiere. Del resto era
inevitabile che venissi su con il pallino del “Mondo piccolo”. Quand’ ero un tenero
virgulto, e i miei nonni facevano le veci dei genitori, ricordo che ogni giovedì il rito
prevedeva di piazzarsi davanti al televisore per assistere agli sceneggiati di Fernandel e
Gino Cervi, con il nostro bravo mastello di piselli da sgranellare a portata di mano. Mio
nonno si divertiva un mondo. Conosceva a memoria tutte le battute, ma ogni volta doveva
tenersi la pancia dal ridere. Io adesso non mi ricordo bene, ma a sette/otto anni non è che
di sindaci rossi e preti reazionari ne capissi molto. Eppure, lo stesso, sorridevo. Perché si
trattava di storie semplici, e meno male un’idea vaga di quello che era l’intreccio riuscivo
a farmela. Poi, stanco dei film, passai alla carta stampata. Di libri di Guareschi ne
possedevo un intero scaffale. Il suo viso, bonario con quei baffoni lucidi, mi ispirava
simpatia. Li lessi tutto d’un fiato. Proprio in quel periodo, che iniziavo ad avvicinarmi ai
vari il “Il destino si chiama Clotilde” e “Il compagno Don Camillo”, a scuola ricevevo i
grandi della letteratura italiana dritti nei denti. Bella ricompensa, per tutto l’impegno che
ci mettevo, farmi demolire l’arcata superiore dal canto dieci del Paradiso o da Atlante e il
suo stramaledetto castello. Con Guareschi il rapporto era diverso. Lui non veniva lì, con il
simbolismo figurale ad affossarmi il morale. Lui mi coccolava come se fossi il suo amante,
mi parlava in maniera mielosa, sincopata, con parole che per capirle non dovevo
necessariamente far fumare le meningi. Eravamo proprio una bella coppia. Allora mi
chiesi se un giorno avrei potuto leggere le zuffe di Peppone e di Don Camillo anche fra i
banchi di scuola. Illuso. Alla mia timida domanda, per poco la prof non mi sghignazzò in
faccia. Guareschi? Favolette per bambini! Smarrito, andai a sfogliare le ultime pagine
della mia antologia di letterature italiana e mi accorsi, con grande stupore, che non vi era
alcun accenno al buon Giovannino, neppure ai suoi morbidi baffoni da sceriffo. Com’era
possibile? Si citava Sanguinetti, Morante, Camilleri, Pavese, Cassola, Silone. Tutti grossi
calibri, ma ai quali Guareschi non aveva nulla da invidiare. Forse, pensai, quello
scapestrato di Giovannino non stava simpatico a molta gente. D’altronde – ma questa è
sola la fiacca considerazione che partorii dal mio ventre inesperto e sprovveduto – egli si
fece odiare, e parecchio, dalla sinistra per quella faccenda delle tre narici, e allo stesso
tempo anche dall’altra fazione per via di certe sue scaramucce con De Gasperi. Ma era
plausibile, in ogni caso, che nessuno riconoscesse il suo importante contributo? Fui preso
da una grande irrequietezza e mi fiondai sul web a indagare. Wikipedia sosteneva che,
con 20 milioni di copie, Guareschi fosse lo scrittore italiano più venduto nel mondo. Ciò
significa, per capirci, che se andiamo da un californiano e gli chiediamo di Andrea
Sperelli sicuramente farà spallucce e ci indicherà il più vicino ristorante italiano, mentre è
più probabile che egli sappia dirci qualcosa su Peppone che, per abbattere l’aereo della
Dc, tira fuori un mortaio dal fienile. Quelle 20 milioni di copie non sono forse il giusto
tributo per aggiudicarsi una vetrina sulle pagine di ogni antologia? Qualcuno potrebbe
obiettare che, se ragioniamo così, allora è lecito alzare la sbarra anche a Moccia e dedicare
a Step un piedistallo a fianco di Zeno Cosini e di Jacopo Ortis. Il valore di Guareschi,
però, non sta nel fatto che abbai sbancato le classifiche di vendita. Le sue storie valgono
perché sono riuscite a calamitare la mia attenzione, quella di un diciottenne, il quale con
tutte gli appetiti da soddisfare non dovrebbe neppure avere il tempo, o meglio diciamo
che non dovrebbe essere così addormentato, da lasciarsi sprofondare nelle cronache di
un’epoca dimenticata, quando ancora in giro per le strade si vedevano solo biciclette col
parafango a penzoloni e i preti di campagna si facevano aria con panche di legno. Perché
le sue storie riescono ancora, dopo tutti questi anni, ad appassionare mio nonno, il quale
a settant’anni suonati non può certo essere biasimato se decide spontaneamente di
lasciarsi assalire da una certa nostalgia ombrosa, di quelle che fanno scivolare una stilla
colma di ricordi lungo la guancia: una sola però. E quando uno scrittore riesce a mettere
d’accordo vecchio e giovani, meriterebbe perlomeno uno specchietto riassuntivo in fondo
all’ultimo paragrafo del libro. Anche noi, che veniamo dalla campagna e mangiamo la
piadina con le erbe cotte, che nel nostro vocabolario abbiamo massimo massimo duecento
parole e che le alterne vicende delle umane genti e le magnifiche sorti e progressive proprio non
riusciamo a capirle, anche noi abbiamo diritto alla nostra letteratura.