Il lavoro del contadino - Rotary Club Arezzo Est

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Il lavoro del contadino - Rotary Club Arezzo Est
Pietro Ralli *
AI NOSTRI TEMPI
(parte 4ᵃ)
Il lavoro del contadino
Dalla sera alla mattina: gioie e dolori
Negli anni della prima metà del ‘900 la campagna ed i campi destinati all’agricoltura erano
caratterizzati da una coltivazione intensiva. Ogni podere, una famiglia mezzadrile, sempre numerosa, che dalla terra doveva ricavare quanto necessario a se stessa, con un regime di autarchia,
una forma economica chiusa. Così, per esigenze naturali, era una comunità primitiva.
Inevitabilmente il lavoro occupava tutti i giorni dell’anno e bisognava, lavorando la terra, saper coltivare di tutto e saper fare di tutto.
Il contadino si alzava molto presto, intorno alle quattro della mattina – un po’ più tardi nelle
mattine d’inverno – e andava a dormire piuttosto tardi.
Il primo, costante lavoro di ogni giorno dell’anno era la cura del bestiame, non meno di 1015 bovini, i maiali, la miccia o la cavalla, gli animali da cortile che, presi tutti insieme, davano tanto
lavoro.
Ogni pomeriggio le donne andavano ai campi per tagliare l’erba necessaria per il “segato”, il
mangiare dei bovini, per la sera ed il mattino successivo. Portate a casa grandi quantità di erbe,
andavano tagliate, unitamente al fieno, con il “segone”, un attrezzo con un grande volano e due
grandi lame faticosamente girato a mano.
All’albeggiare i muggiti delle vacche affamate si facevano sentire. Distribuito il segato nella
greppia si puliva il letto delle bestie asportando la paglia sporca dalle defecazioni e portando i rifiuti a maturare nella concimaia. Si preparava il “bearone” con acqua e biada per far bere le bestie
e si faceva nel frattempo “pocciare” i vitellini.
Il bianco candido delle vacche chianine non ammette troppo sporco. Quindi una volta alla
settimana brusca e striglia dovevano renderlo pulito. Altrettanto, sia pure in forma più ridotta, si
doveva fare alla miccia od alla cavalla.
Gli stalletti dei maiali e delle covate dei “lattoni”, prima di dare il mangiare (la “broda”), dovevano sistematicamente essere puliti, se non altro per lo sgradevole odore che emanavano.
Agli animali da cortile, da cui proveniva lo “scoccodare” delle galline che avevano fatto
l’uovo, pensavano le donne, non solo togliendo le uova fresche di giornata, ma anche spargendo il
becchime per tutti gli animali: polli, oci, nane, faraone, colombe e conigli. Bisognava anche controllare le “chiocce” che covavano tante uova finché si schiudevano i pulcini.
Tutto questo andava fatto tutti i giorni, per tutto l’anno, feste ricordate comprese, dagli
adulti. Ma anche i ragazzi venivano impegnati; in particolare dovevano accompagnare i maiali al
pascolo, la capra se c’era e le ore a ciò dedicate andavano spesso a scapito delle scuola.
Negli spazi di tempo non occupati per le più importanti coltivazioni come grano, granturco,
tabacchi, prati da fieno, troppe cose rimanevano da fare.
La coltura delle viti, intanto, richiedeva non poco lavoro, anche se distribuito in tutto l’anno.
Nei filari la vite era ‘sposata’ con il “testucchio”: intorno al suo tronco c’erano le piante mature per
l’uva bianca e l’uva nera. Tra un testucchio e l’altro c’era un notevole spazio. A sinistra e a destra
dei loro rami passavano fili di ferro ai quali venivano legati i tralci, alti da terra per lasciare libero il
terreno sottostante per le coltivazioni.
Durante l’inverno si potavano le viti e gli alberi. A inizio primavera quando il tralci tagliati
“muovevano” emettendo qualche goccia dolciastra di linfa, si piegavano e si fissavano ai fili di ferro con vinchi conciati e tagliati dalla vincaia nella stagione precedente. Quando spuntavano le prime foglie ed i piccoli grappoli di fiori, se non capitava una gelata tardiva che portava via tutto il
raccolto, si iniziavano i trattamenti contro la peronospora e la malattia dello zolfo con la bombola
del ramato sulle spalle azionata a mano con un manico.
A ottobre si coglieva l’uva, si portava alla cantina, si “pigiava” e si metteva a fermentare nel
tino. Con la svinatura si metteva nelle botti il buon vino – bianco o nero – che completava la maturazione per esser pronto per tutto l’anno a partire dall’aprile successivo1 con il vino bianco bollito
nella vinaccia, dal classico colore dorato, fresco di cantina che ristorava dai primi caldi primaverili.
Rimaneva in cantina un piccola quantità di uva bianca “scelta” messa ad appassire per il vinsanto che sarebbe stato prodotto nel periodo natalizio con perizia e pazienza tramandata da generazione a generazione.
Nel tempo libero bisognava vangare e zappare le “prode”, per seminarle battendo bene con
il rovescio della vanga la sponda esterna per evitare l’erosione delle acque piovane. Erano centinaia di metri di prode e la vangatura costava tanta fatica. Si ripulivano i fossi e le loro sponde per
consentire il buon deflusso delle acque.
A primavera ed in estate in particolare c’era anche da zappare le colture per eliminare le erbacce e per favorire il mantenimento della giusta umidità sulla terra.
Insomma c’era tanto da lavorare e siccome il tempo non bastava mai bisognava dormire poco ed alzarsi presto. Spesso i contadini si lamentavano: il lavoro è tanto ma il guadagno è poco!
Però il tanto lavoro distraeva e dava modo di non pensare ai dolori ed alle delusioni della vita.
C’erano anche dei passatempi possibili e desiderati. Tanti avrebbero desiderato andare a
caccia. La selvaggina non mancava. Ma la caccia - fucile, cartucce, tempo - era da signori: era per il
padrone ed i suoi amici. Quello che si poteva fare, abusivamente, era piazzare tante tagliole per
procacciarsi un arrostino di passerotti.
La pesca si poteva invece praticare anche se con mezzi primitivi e rudimentali. Si mettevano
le corde con gli ami, la sera, lungo la sponda del fiume e qualche pesce, quando la mattina presto
si raccattavano, ci si trovava attaccato.
Era fruttuosa e divertente la pesca con il “retacchio”, una balla di tessitura rada legata ad un
grande cerchio di legno con un lungo manico. Quando in particolare venivano forti piogge che
mettevano in piena il fiume, all’arrivo della “turbolaia” i pesci si spostavano lungo la sponda per
trovare l’acqua più pulita. A quel momento si “strascicava” il retacchio sulle sponde e si pescava
tanta bruglia e qualche pesce. La bruglia era costituita da gamberi bianchi di acqua dolce – tanti –
e piccoli pesciolini. Spesso c’era anche qualche pesce più grosso. I gamberi messi a friggere diventavano rossi ed erano una squisitezza.
Non meno divertente era andare ad acchiappare le ranocchie. Ce n’erano tante e gracidavano nelle notti stellate lungo il fiume facendo un gran concerto. Allora si partiva con il lume a carburo che emetteva una luce bianca, intensa e ben raccolta e si portava dietro una balletta di iuta. La
luce accecava la ranocchia che rimaneva immobile: si acchiappava con le mani e la si infilava nella
balletta. Se ne prendevano tante fintanto che si diceva basta. La mattina successiva venivano decapitate e sbucciate. La massaia le cucinava o fritte o rifatte nel sugo di pomodoro con un pizzico
di zenzero. Una prelibatezza!
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Non esisteva il vino novello, se non l’assaggio a Natale del vino nuovo. In quel periodo si poteva invece gustare il vino
dolce accompagnato con le castagne arrostite. Una vera specialità di cui i ragazzi andavano matti e di cui si è persa
traccia!!
Quando tutto ciò avveniva il contadino era contento e dimenticava i problemi che lo assillavano.
Inevitabilmente bisognava andare alle fiere, quella dei fiori di marzo per la festa
dell’Annunziata ed in particolare quella del Mestolo a Settembre. I giovani acquistavano il mestolo
di legno per batterlo, fortemente, sul sedere di qualche ragazza.
Gli attrezzi agricoli, tanti, venivano osservati ed ammirati dai contadini: botti, tini, caratelli,
bigoni, zappe, vanghe, falci, forbici, roncolini… C’era di tutto e quello che serviva il contadino doveva comprarlo per le esigenze del suo lavoro, anche se, purtroppo, tali spese non venivano segnate dal padrone.
I banchi esponevano tanta merce, ma i soldi non bastavano mai e comunque, alla fine, una
bella busta di brigidini ai bambini bisognava portarla. Rimaneva, in ogni caso, l’appagamento di
quello che si era visto e delle chiacchiere con tanti amici che, nell’occasione, si erano incontrati.
Il giorno dopo si andava a lavorare più volentieri.
D’inverno c’era l’usanza di andare alle “veglie”. Nella grande stalla, da una parte c’erano le
vacche e i vitelli, dall’altra una montagna di paglia che con il fiato delle bestie manteneva il caldo e
nella quale ti potevi sdraiare. Le donne facevano la calza e spettegolavano, gli uomini chiacchieravano e raccontavano i fatti loro, spesso resi mirabolanti dal clima gioioso che si creava. Le vacche
che guardavano con i loro grandi occhi i presenti sembravano ascoltare senza dare segni di fastidio.
Le veglie erano frequenti, una sera nella stalla di un mezzadro, la successiva nella stalla di un
altro. Sempre vivo il desiderio di stare insieme per passare due o tre ore di serenità, lasciando fuori il pesante fardello dei problemi di ogni famiglia e per trovare un po’ di tepore prima di andare a
dormire nelle camere fredde delle case riparandosi con pesanti coltroni e coperte di lana.
Era presente qualche volta, e molto atteso, qualcuno che ne sapeva sempre di più, oltre i
problemi della terra, ed era sempre ben accolto. Un qualcuno che si appassionava a letture importanti, un autodidatta si potrebbe dire, colto più di quello che poteva apparire. Portava con se un
librone e lo leggeva con garbo e toni giusti tanto da catturare l’attenzione di tutti i presenti.
“Stasera leggiamo una novella de ‘Le mille e una notte’. Io leggerò e voi immaginatevi di essere nella reggia ricchissima del Re di Persia. Come voi già sapete era inferocito per i tradimenti
della moglie e ogni notte voleva un’amante nuova per ucciderla la mattina dopo. Finché non incappò nella figlia del visir che si chiamava Sheherazade. Essa con tanto garbo e dolcissima voce
cominciò a raccontargli una novella che conquistò e incuriosì il Re, ma sul più bello la interruppe. Il
Re, che voleva sapere come andava a finire, rimandò al giorno dopo il supplizio della bella ragazza
e così facendo, un giorno dopo l’altro, la bella figlia del visir raccontò novelle per mille e una notte,
finché rimase incinta. Udita la fine della novella il Re, ormai innamorato, la sposò.”
Per ogni novella letta le donne si commuovevano pensando alla brutta fine della ragazza,
perdendo persino le maglie del filo di lana dai ferri e gli uomini ancora più presi dalla storia invitavano il narratore a tornare per sapere come andava a finire.
In occasione di una veglia successiva, gli ascoltatori rimanevano a bocca asciutta perché il
saggio cominciava cosi: “Stasera per cambiare leggeremo qualche capitolo dell’”Orlando Furioso”
di Ludovico Ariosto, un poema scritto in ottave. Sentiremo come l’Orlando fosse invaghito delle bella Angelica, Principessa del Katai. Quando questa, improvvisamente innamoratasi di Medoro,
scappa e si da alla fuga, il grande ed eroico paladino dimentica ogni dovere, la insegue e perdendo
il senno diventa furioso”. Le imprese compiute dall’eroe, il contesto della storia di un epoca fantastica, fanno sbarrare gli occhi ai contadini ed alle loro donne, non lesinando borbottii di stupore.
Queste serate sono rimaste indimenticabili, come indimenticabile è rimasto il ricordo del
narratore, purtroppo scomparso troppo precocemente.
Gioie e dolori si accompagnavano nel passare delle stagioni e degli anni. La nascita di un figlio era una grande gioia per la famiglia. Un uomo in più da crescere con tanti problemi, ma anche
due braccia in più per lavorare il podere. Si pregustavano da subito la festa del battesimo, della
prima comunione, del matrimonio.
Ma anche la nascita di un vitellino era una gioia, il suo buffo mettersi in piedi per la prima
volta, le leccate della madre, l’attaccarsi alle “pocce” della madre era sempre motivo per tutti di
ingenue emozioni verso il mistero della vita.
Era motivo di gioia un grande raccolto, il buon ricavo delle vendita di vitelli e maiali. La spezzatura, la salatura del maiale più grasso lasciato per il consumo dell’anno: salsicce, soprassate, salami, prosciutti, spalle, gote. Immancabilmente il vecchio nonno sentenziava “del maiale non si
butta via niente”.
Le gioie di varia natura che toccavano il cuore ed i sentimenti della famiglia si accompagnavano ai dolori ed al patire per la malattia o la morte di un figlio o di un familiare. L’abbattersi di
una forte grandinata che comprometteva il raccolto di un anno, o la morte di un vitello pronto per
il mercato che faceva perder un guadagno ritenuto ormai sicuro.
Tutto questo costellava, nel succeder degli anni, la vita della famiglia e dava anche modo di
sperimentare la comprensione e la solidarietà nel bene e nel male, delle famiglie vicine.
I primi anni ’50 nel ‘900 furono segnati da grandi accadimenti che sconvolsero la vita del
paese. Di questi avvenimenti la descrizione ed il giudizio politico spetta alla storia: tanto si è scritto
e si continua a scrivere nei libri che riempiono le biblioteche.
Di essi però si deve ricordare qui quanto pesanti furono gli effetti ed i costi, i sacrifici e le sofferenze che si produssero nelle famiglie coloniche.
Con la Prima Guerra Mondiale (1915-1918) nelle pietraie del Carso o nelle trincee umide del
Piave e in altre zone dove infuriarono le terribili battaglie, gli attacchi all’arma bianca, morirono oltre 600.000 soldati ed altre centinaia di migliaia rimasero feriti e mutilati. Una buona percentuale
di questi erano contadini. Provenienti che fossero o dalle zone condotte a mezzadria della Toscana
o, ancora più povere, del latifondo meridionale o proprietari di piccolissimi appezzamenti di terra,
erano comunque contadini.
Con lo scoppio della guerra furono richiamati alle armi giovani e adulti. Il lavoro del podere
ricadde tutto sulle spalle dei vecchi e delle donne con conseguenze gravi e pesanti. L’ansia per i
propri figli o mariti, l’attesa vana delle notizie dal fronte che non arrivavano, gli annunci drammatici di morte, segnarono la vita delle famiglie.
Quando la guerra finì, la notizia della vittoria non ripagò i guai e gli sconquassi, i dolori e i lutti che si erano prodotti. Svanirono subito le vaghe promesse di riforma per l’agricoltura fatte
quando la tumultuosa e disordinata rotta di Caporetto faceva temere fughe e diserzione dei contadini.
Anzi seguirono anni segnati da crescente confusione ed agitazione nella scena politica, dietro
le quali non mancava certamente lo zampino dei latifondisti e degli agrari. Si ebbero i prodromi del
fascismo che emergeva negli scontri fra “rossi” e “neri”, con prepotenze perfino nelle aie dei mezzadri quando nei giorni delle trebbiatura i “rossi” pretendevano di issare “la bandiera rossa” sul
“barcile” più alto del pagliaio. O quando si tentava di imporre ai contadini di interrompere il lavoro
in atto nei campi. In questi casi, indipendentemente o meno dalle idee politiche, i contadini in genere reagivano duramente rifiutando le prepotenze, anche quando il rifiuto comportava minacce e
bastonate e qualche purga con olio di ricino.
Il Fascismo – o, come si diceva, la Rivoluzione Fascista – travolse lo stato democratico e generò 20 anni di dittatura. Il clima di retorica ed esaltazione, pur tenendo conto anche degli apprezzabili interventi di bonifica, di strade e ponti era l’arma per anestetizzare il paese per la perdita
della libertà e della democrazia. Fino all’esaltazione mitica della conquista del cosiddetto Impero,
con la Guerra di Etiopia che non migliorò affatto le condizioni di vita dei contadini, per altro sollecitati, senza adesione dalle nostre parti, a trasferirsi a coltivare le terre conquistate.
Queste vicende ed il clima di esaltazione di grande potenza portarono l’Italia alla Seconda
Guerra Mondiale (1940-1945).
Proprio la insensatezza e la tragicità della guerra rivelò il terribile distacco fra le mirabolanti
illusioni di grandezza e la realtà vera del paese, povero, impreparato, senza mezzi, sia nel confronto con il più impensabile alleato, la Germania hitleriana e nazista, sia a confronto delle potenze
democratiche alleate Francia, Inghilterra, Stati Uniti d’America e la stessa Russia comunista.
Le lettere disperate dei figli dei contadini mandati a combattere e a morire nel deserto libico-egiziano, o nel gelo della steppa russa, o sui monti della Grecia, quando superavano le maglie
della censura, descrivevano quanto inadeguati nella qualità e nella quantità fossero i loro armamenti. E ancor più tristi, anche per questo, furono le notizie di morte o di prigionia.
Con l’avvicinarsi della inevitabile sconfitta, crollò il Fascismo e tragico fu il tentativo di rianimarlo con la Repubblica di Sociale, conclusasi fatalmente e come logica conseguenza nei tragici
misfatti a Piazzale Loreto.
I giovani in gran parte furono renitenti alla chiamata alle armi o fuggirono dai loro reparti e si
annidarono nelle montagne incrementando le brigate partigiane. In queste occasioni si manifestò
la grandezza semplice ed umana delle donne, delle mamme contadine che, forse inconsapevolmente, dettero una ampiezza popolare alla Resistenza.
Quando si parla della Resistenza, talvolta senza la dovuta consapevolezza, si appalesano i responsabili e generosi comportamenti delle famiglie contadine che si prodigarono per assistere giovani renitenti, giovani evasi, disertori da nascondere, dando alimenti ai fuoriusciti, rifugiati in montagna senza viveri, ricercati dai tedeschi e dai fascisti. Per i catturati c’era la fucilazione immediata.
Non mancarono atti di guerriglia e si ebbero, anche per rappresaglia, eccidi tragici con i quali furono barbaramente uccisi centinaia e centinaia di persone innocenti, decimati paesi e abitati dati alle
fiamme. Tanti furono i lavoratori delle terra vittime di queste barbarie.
Mentre questo accadeva, intensi e continui bombardamenti degli aerei alleati sulle città sui
ponti ferroviari e stradali colpivano anche qualche casa colonica seminando vittime. Gli uomini,
particolarmente nei giorni di passaggio del fronte, venivano catturati anche se vecchi e disabili, per
lavori assolutamente pericolosi, come quelli di scavare di notte, sotto il terrificante rumore dei
cingoli dei mezzi tedeschi in fuga, profonde buche nella sede stradale per minare i ponti, lasciando
all’ultimo tedesco il compito di accendere le micce di innesco.
Cosi finiva nella prima estate del ’44 la Seconda Guerra Mondiale nei territori aretini; le battaglie si fermarono sulla linea gotica, nello spartiacque dell’Appennino, terminando nell’estate
successiva con la resa incondizionata della Germania.
Si attese invano il ritorno di tanti soldati dai vari fronti: tanti furono quelli che non tornarono
più. I loro nomi sono scritti nelle lapidi poste in una parte interna delle chiese o nei modesti monumenti dei caduti eretti con le offerte dei sopravvissuti.
I primi anni del dopo guerra trovarono un Paese spossato, distrutto e umiliato davanti agli
stati vincitori. Segnatamente iniziò lo sgretolamento della mezzadria e delle famiglie coloniche.
Gli anni delle ripresa, della ricostruzione e poi dello sviluppo economico, videro la fuga dai
poderi dei giovani e l’emigrazione verso le grandi città, verso il Nord Italia. Il mestiere del contadino, segnato dal ricordo delle tante miseria ed umiliazioni, non piaceva più. Le stesse giovani don-
ne, non per dispetto, ma per ricerca di un lavoro diverso, di una nuova dignità, si rifiutavano di
sposare giovani contadini.
Possiamo ben dire che la mezzadria aveva raggiunto rapidamente il suo superamento. Rimaneva un’esperienza di lavoro e di vita dei tanti anni vissuti dagli avi, da ricordare e raccontare ai figli ed ai nipoti.
Nei primi anni ’50 del ‘900, nella famiglia mezzadrile, nella società rurale, mancò l’apprezzamento dovuto per il lavoro, la fatica, la sofferenza della donna. L’emancipazione era parola poco
conosciuta .
Parlando di questi anni è doveroso fare emergere il volto della donna, della mamma. Far
emergere qual era la sua condizione di subordinazione, di mancanza del rispetto dovuto, dei suoi
meriti infiniti, della sua insostituibilità, del suo esistere, pietra fondamentale e angolare per la coesione familiare.
La “mamma” non solo lavorava in casa e nei campi, ma discretamente sentiva, vedeva, vigilava, l’andamento della famiglia. Suo era il compito di accudire ai bisogni quotidiani del marito, dei
suoceri, degli anziani di famiglia, dei figli. Lavare, rammendare, mettere toppe ai pantaloni consunti. Fare la maglia con i ferri con il filo di lana, calzini, camiciole, maglioni. Mettere a tavola, dopo
aver servito al mattino, ad ore diverse, la colazione, e a pranzo e cena non meno di 15 persone;
con quel poco che c’era in casa, un giorno dopo l’altro, non era facile. Così come saper osservare
discretamente i comportamenti, i desideri insoddisfatti delle figlie e delle nuore, la premura dei loro buoni rapporti. La pena, nel silenzio del cuore, di vedere come i ragazzi, per il lavori ordinati dal
padre, perdevano giornate di scuola. Quando mai, pensava, ci sarà un figlio non dico laureato, ma
almeno diplomato, mentre, di fatto, la scuola accompagnava raramente alla quinta elementare,
fermandosi piuttosto alla seconda o alla terza, quando si riteneva essere sufficiente saper legger e
scrivere e far di conto.
Il dolore ed il pensiero per i figli richiamati per la guerra e, spesso, l’attesa vana per un ritorno di chi non c’era più. L’affetto e la cura da dare a chi si ammalava, non essendo raro il sopraggiungere di qualche epidemia. E una parola di conforto ai vecchi genitori, di giorno e di notte bisognosi di compagnia.
La preoccupazione di qualche imprevisto, l’incorrere in fallo di una figlia o di una nuora ed il
terrore che si potesse dare luogo a quella che era la più cinica e cattiva delle punizioni attivate da
persone che non perdonavano, la cosiddetta “scampanata”. Rendere pubblico l’errore senza misericordia, con una seminata fatta di notte per il mattino di domenica (quando tutte le donne andavano alla prima messa), di crusca, di granturco o qualche fava dall’abitazione della sciagurata agli
scalini della chiesa.
Ed era ancora la mamma l’ultima a fuggire di casa per i bombardamenti e la prima ad inventare atteggiamenti per far superare la paura ai più piccoli.
Insomma la mamma era sempre lì, per ogni evenienza, ingoiando anche lacrime amare per
non farle vedere, mentre gli uomini nella fatica del lavoro cercavano di allontanare pensieri e
preoccupazioni.
Gli uomini, nei giorni di festa, potevano sentirsi appagati per qualche ora di svago, una partita a carte, una chiacchierata con gli amici.
Per i giovani una passeggiata, se fidanzati, tenendosi per mano.
Ma per la mamma c’era sempre un dovere da compiere: andare ai cimitero a portare un fiore o accendere un lumino alla lapide di un familiare scomparso, per il marito che non c’era più, per
un figlio morto prematuramente, per i vecchi genitori.
Al cimitero, la domenica pomeriggio si incontravano le mamme e parlavano fra di loro e –
come si dice – si facevano coraggio l’una con l’altra.
E tutte insieme, con la corona in mano, pregavano con il brusio sommesso di un’antica preghiera.
Dio vi salvi anime sante
Dio vi salvi tutte quante
Siete state come noi
Saremo come voi
Un’anima sola si ha
Se si perde che sarà?
Pregate Gesù per noi
Lo pregherem per voi
A noi fateci buon viso
Aspettandoci in Paradiso
Postfazione
Perché non si smarrisca il ricordo di tanti uomini, lavoratori della terra - e contadini - vissuti tanti anni fa.
Tanta fatica li segnava, talvolta tanta amarezza, ma anche una struggente sensibilità di commuoversi dopo aver gettato il seme nel campo, al miracolo dei germogli
che crescono, che danno il frutto copioso tanto necessario per vivere.
Spesso, a tarda sera, ancor prima del meritato riposo, uscivano nel bordo del campo. Se di primavera nel ‘brillichio’ di mille e mille lucciole, per guardare verso l’alto
l’infinita bellezza del cielo stellato, indicando al bambino che tenevano per mano le
costellazioni, la via lattea, la presenza infinita del buon Dio.
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Socio del Club
Alcune immagini a ricordo dei tempi passati
La stalla
Si va far l’erba
Il governo degli animali da cortile
Galline sull’aia
Lavori sull’aia
Pausa al fienile
Si potano le viti
La nostra campagna è disseminata di filari di vite
appoggiata all’umile acero campestre (‘testucchio’)
Attrezzo per dare il ramato
Ci si disseta dando il ramato
La vendemmia
La pigiatura
Conservazione dell’uva per fare il vinsanto
A pesca di ranocchie
La Fiera del Mestolo
A veglia
Nascita di un vitellino
Si svuota del sangue il maiale appena macellato
Comincia la macellazione
Salami e salsicce per tutta la famiglia