LA GIORNATA DI UN CONTADINO -racconto di

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LA GIORNATA DI UN CONTADINO -racconto di
LA GIORNATA DI UN CONTADINO
-racconto di Giuseppe Aprile
Nelle sue mani la zappa pesava un quintale. Si era alzato di malavoglia. Avrebbe dormito fino a
mezzogiorno se non fosse stato per quella chiamata della moglie che si era prefissa di ricordargli
che il sole avrebbe ingiallito le piantine lasciate con le radici nell’acqua, fuori al balcone, ove non
le avesse piantate subito, al fresco del primo mattino. Che stanchezza e che noia quella mattina! Si
stiracchiava già nel letto dove presagiva che il sangue sarebbe rimasto senza scorrere
normalmente nelle sue vene sicuramente ingrossate. Era da tempo che pensava di avere smarrito
la via della giovinezza. Non aveva che cinquanta anni e gli pareva di averne settanta. Ogni giorno
era un incubo. Spesso si appoggiava con il mento sul manico della zappa parata in verticale;
chiudeva gli occhi e pensava di avvicinarsi sempre più alla sua vecchiaia che sentiva come una
dannazione; che lo inseguiva per portarselo via dai suoi giorni. Giorgio faticava anche ad alzare in
su la lama della zappa. Quando la scendeva, anzi, era come se prendesse una discesa e riposava; si
rianimava per un attimo. La terra non riusciva a vederla tutta zappata. La vedeva, permanente
tappeto di gramigna, e stentava ad andare avanti per far crescere lo spazio marrone delle zolle
voltate e rivoltate per fare i solchi e seminare l’orto. Guardava il cielo e invocava il riposo;
comunque la fine di quel suo calvario di zappatore e ortolano, mentre altri suoi coetanei avevano
studiato o imparato un mestiere di artigiano. “Compare, siete pentito di fare il contadino?” gli
diceva un suo caro amico. “Non ho scelto questa vita, è stato naturale vista la mia famiglia. E
nessuno può negare che la terra è una brutta bestia! Non c’è lavoro più pesante di quello del
contadino” chiudeva. E ricordava e pensava spesso quanto in giro si diceva che quello di emigrante
e minatore fosse peggiore. Che portava anche a vivere freddamente la solitudine della miniera e
del paese straniero, senza i suoi amici e i suoi conoscenti paesani. Quella mattinata l’aveva vissuta
come una delle peggiori che gli capitavano. “Una giornata non in sì”per come venivano definite le
giornate per le quali veniva facile prevedere una sorta di brutti presentimenti. Anche se poi non
sarebbe accaduto nulla di male. Ma si sa che il contadino non ha grandi e frequenti motivi di
piacere o di normali e felici stati d’animo. La fatica che lo aspetta e le tribolazioni continue sono lo
scenario sentimentale della sua quotidianità. E quando avviene una prospettiva di cose
maggiormente pesanti e tristi, il giorno e le notti diventano pesi, motivi di foschi sentimenti duri a
sopportare. C’è nell’animo del contadino una sorta di tristezza permanente, cui s’è abituato fino al
punto di non notarla più. È assegnato, sa di non avere diritto a sorridere, a gioire: Se vede
sorridere altri, si domanda se sono impazziti. “Di che si deve ridere in questa vita?” diceva tra sé.
Lui non sapeva di potere essere felice. Nei suoi giorni non balenava l’idea della contentezza
assoluta. Non faceva parte delle sue aspirazioni l’essere gioioso. Il contadino sembrava votato ad
una vita di sacrificio. Le gioie erano per gli altri, per i fortunati che avevano avuto la possibilità e la
capacità di evitare il sacrificio del lavoro sulla terra.
Accade che tanta vita da contadini viene poi paragonata ad una vita diversa. Perché i figli dei
contadini difficilmente continuano la vita dei padri, ora che la società s’è sviluppata in modo tale
che la campagna è rimasta quasi totalmente esclusa anche dal pensiero quotidiano della gente,
tanto è stata dura e difficile. I figli dei contadini ad un certo punto hanno avuto aperta la via della
diversa condizione. Sono diventati studenti, emigrati, operai dell’industria, persone che non
stanno più sulla dura e avara terra dei propri padri. Molte persone rimpiangono, alla lunga, la vita
dei campi. Avviene quando si incontrano le difficoltà della vita di città, tra i mondi di altra gente
con altre esperienze, con altre abitudini. Altre persone, invece, pensano che non tornerebbero alla
vita di campagna per nessuna ragione. E ricordano coma un calvario il tempo della vita passata;
quando la mattina, con il freddo e con io sole cocente, comunque, si apprestavano ad affrontare la
giornata che non presentava nulla di buono e costringeva ad un duro lavoro tra terra e alberi, erba
e ortaggi, uliveti e querceti. Solitari. Non passano mai le ore sulla terra. Si tratta di una sorta di
solitudine assai atroce e infelice. Aggravate dal poco raccolto, dalla poco riuscita attività di
coltivazione, dalla natura che spesso punisce indipendentemente dal come s’è lavorato e dalla
volontà e capacità precisa di operare come coltivatore. Quando il raccolto è abbondante e buono, i
sacrifici si ritengono compensati. La bontà e la qualità del raccolto fanno dimenticare il sudore
sofferto e il dolore delle spalle dovuto al menare la zappa senza sosta o, magari, la stanchezza di
ore interminabili, nella solitudine più atroce e lunga. È quando si fatica, si suda, si soffre
fisicamente ed il raccolto è, poi, misero e scadente che avvengono o dolori, come dicono i
contadini delle nostre annate passate. Quando uno lavora e non ricava abbastanza, arriva lo
sconforto e si vorrebbe andare via, lontano, fuori dal mondo e si pensano i luoghi di altri mondi, di
altri continenti e si fantastica anche se, quasi sempre, non si spera tanto in evasioni di vita. Il
contadino è rassegnato, vive sapendo che la sua vita non è modificabile. Si rassegna al peggio e
vive di speranza per le annate successive. Mio padre amava la terra. Vi si recava con molto piacere
e aveva grandi soddisfazioni. Non si lamentava mai. Almeno, noi figli, questo capivamo e
pensavamo. A volte immaginavamo pure che la sofferenza eventuale che c’era, mio padre la
poteva nascondere, come una madre nasconde il suo dolore sotto un sorriso per come diceva la
poesia indimenticabile di Edmondo De Amicis dal titolo “A mia madre”. Dall’ora in cui parte per la
campagna a quella del suo ritorno, il contadino ha a che fare con il cielo, la terra, la pioggia, il sole,
il giorno, la sera, il sudore, il belare delle pecore, il raglio dell’asino, il canto degli uccelli, lo sfilare
delle lucertole e di qualche rara serpe. E poi l’acqua che scorre proveniente dal fiume dove viene
raccolta e poi divisa da un addetto alla divisione in ore, per tutti gli orti da irrigare. Il contadino
non leggeva i giornali per vedere le previsioni del tempo, non aveva conoscenza diversa che ciò
che leggeva nella natura, nel cielo, alla luce della propria esperienza. Non parliamo della sera,
dopo il rientro dalla campagna. La cena sempre è un momento di festa ma i dolori della fatica
quotidiana non sono evitabili. E non fanno hanno tregua. La cena e un po’ di tempo alla luce fioca
della lanterna ad olio. La luce elettrica è cosa dei tempi assai remoti. Tutti ricordiamo quando non
c’era la luce elettrica. Tempo non molto lontano. Si tratta dei primi anni cinquanta, quindi anni
vicini a noi; che ricordiamo tranquillamente e li commentiamo, e facciamo il paragone tra allora ed
ora che le strade sono tutte illuminate a giorno e nelle case non si conosce più l’oscurità della
notte. Le nostre vecchie più negli anni ricordano quei tempi solitamente per farci capire quanto la
vita di oggi è piena di comodità e ci ha tolto dalle atrocità di una volta. E bisognava accudire gli
animali prima di andare a letto. Mia madre diceva, quasi per abitudine, a mio padre, la sera tardi:
“ Lo hai messo a posto il cavallo?”: Metterlo a posto significava avergli pulito lo spazio tra i piedi,
un rettangolo di selciato che gli era stato costruito come una specie di letto che a sera veniva
cosparso di paglia in modo che si potesse anche coricare un pochino senza stare con la carne
direttamente in terra bagnata da orina, quando nella notte la faceva. Mia madre sembrava
impicciona per quanto diceva quando una cosa e quando un’altra mio padre. Non ne parliamo
quando faceva le raccomandazioni sulle attività all’orto. C’era da raccogliere ortaggi? Hai fatto
questo ? Hai fatto quello? Ti sei ricordato di chiudere il cancella una volta uscito? Che c’era il
pericolo che entrassero gli animali e si mangiassero tutti i cavoli e le lattughe senza che lasciassero
niente! Se entrano gli animali, dentro l’orto, fanno una strage e non resta poi niente. Era
impossibile lasciare il cancello aperto, sulla strada da dove passavano tutti e soprattutto gli animali
di Banconaro che avrebbero fatto strage di ogni ben di Dio. Ed il padrone, il pecoraio, non avrebbe
avuto interesse a guardarli. Avrebbe fatto bel volentieri a meno di stare attento e tante volte li
lasciava mangiare quello che trovavano, fingendo di non accorgersi: Salvo, poi, a dire: “ Per la
miseria! Hanno fatto danni!” e, dopo che avevano mangiato il più possibile, li avrebbe diretti per
altra via. Ogni anno c’era qualcuno che si doveva lamentare perché in un dato periodo capre,
pecore, buoi entravano nell’orto e danneggiavano la coltivazione. E nessuno mai andava dai
carabinieri perché il rischio era che di più rischiavano danni. Il rimedio era di chiudersi il più
possibile la terra coltivata e salvaguardare l’orto con un cancello ben messo e chiuso con un
lucchetto. Nessuno avrebbe aperto perchè una cosa è poter fare finta che gli animali erano sfuggiti
al suo controllo, altro sarebbe stato provocare lui il rubare aprendo il cancello. Non avrebbe
potuto invocare disattenzione! E prendersela con gli animali! Mio nonno, invece, al contrario di
mio padre, amava furiosamente il suo lavoro e la sua produzione e ci pensava in tempo a
salvaguardare l’orto. Manteneva un recinto difensivo di filo spinato e avvolto in una selva di piante
spinose, di erbe adatte proprio a fare da siepe invalicabile e fitta. Ogni pezzo di terra dentro la
quale faceva l’orto, mio nonno la salvaguardava per bene circondandola di protezione. Mio nonno
voleva apparire più saggio, più esperto, meno disponibile a farsi prendere per i fondelli da parte di
chi non ci pensava due volte a distruggere un orto, pur di fare di ogni cosa coltivata pascolo per le
sue bestie. A lui non lo imbrogliava nessuno. Era stato in america, aveva un’altra mentalità; più
abituata ad affrontare le cattiverie della gente e le furberie degli altri. In tutto il fare dei contadini
trovi ragioni di saggezza e di grandi esperienze di vita. Il contadino, solitamente, ha una sola via
vitale. Sta davanti alla natura con i suoi problemi e da essa ricava tutto per svolgere la sua
esistenza. Imparando dalla scuola del passato e utilizzando la sua stessa naturale capacità di capire
e fare. Niente scuola nel senso stretto del termine. La sua scuola è la vita e la tradizione che legge
nel cuore delle attività del popolo e delle famiglie del proprio ambiente.
Giuseppe Aprile