- Risposta serramenti
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N. 01388/2016 REG.PROV.COLL. N. 02137/2015 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2137 del 2015, proposto da: - Enel Energia S.p.A. ed Enel S.p.A., in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro-tempore, rappresentate e difese dagli Avv.ti Guido Greco, Manuela Muscardini, Gherardo Carullo e Luca Griselli ed elettivamente domiciliate presso lo studio dei primi due in Milano, Piazzale Lavater n. 5; contro - l’Autorità per l’Energia Elettrica, il Gas e il Sistema Idrico, in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentata e difesa per legge dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato e domiciliata presso la sede della stessa in Milano, Via Freguglia n. 1; nei confronti di - E.On Italia, in persona del legale rappresentante pro-tempore, non costituita in giudizio; e con l'intervento di ad opponendum: - A.I.G.E.T. – Associazione Italiana di Grossisti di Energia e Trader, in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentata e difesa dagli Avv.ti Fabio Francario e Dario De Blasi ed elettivamente domiciliata in Milano, Corso Matteotti n. 1/A, presso la sede di Utopia Lab; - Energia Concorrente, in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentata e difesa dagli Avv.ti Claudia Sarrocco e Fabio Todarello ed elettivamente domiciliata presso lo studio degli stessi in Milano, Piazza Velasca n. 4; - Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa – Confartigianato – e Confederazione Generale dell’Artigianato e delle Imprese – C.N.A., in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro-tempore, rappresentate e difese dall’Avv. Anna Rita Trombetta ed elettivamente domiciliate in Milano, Via Tamagno n. 7, presso lo studio dell’Avv. Paolo Marco Caporale; per l’annullamento - in parte qua, della deliberazione dell’A.E.E.G.S.I. del 22 giugno 2015 n. 296/2015/R/Com recante “Disposizioni in merito agli obblighi di separazione funzionale (unbundling) per i settori dell’energia elettrica e del gas” pubblicata sul sito www.autorita.energia.it in data 23 giugno 2015 e del relativo Allegato A recante il “Testo integrato delle disposizioni dell’Autorità per l’Energia Elettrica il Gas ed il Sistema Idrico in merito agli obblighi di separazione (Unbundling) Funzionale per le imprese operanti nei settori dell’energia elettrica e del gas (TIUF)”. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Autorità per l’Energia Elettrica, il Gas e il Sistema Idrico; Visti gli interventi ad opponendum di A.I.G.E.T. – Associazione Italiana di Grossisti di Energia e Trader, di Energia Concorrente, della Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa – Confartigianato – e della Confederazione Generale dell’Artigianato e delle Imprese – C.N.A.; Viste le memorie difensive; Visti tutti gli atti della causa; Designato relatore il consigliere Antonio De Vita; Uditi, all’udienza pubblica del 14 aprile 2016, i difensori delle parti, come specificato nel verbale; Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue. FATTO Con ricorso notificato in data 21 settembre 2015 e depositato il 28 settembre successivo, le ricorrenti hanno impugnato, in parte qua, la deliberazione dell’A.E.E.G.S.I. del 22 giugno 2015 n. 296/2015/R/Com recante “Disposizioni in merito agli obblighi di separazione funzionale (unbundling) per i settori dell’energia elettrica e del gas” pubblicata sul sito www.autorita.energia.it in data 23 giugno 2015 e il relativo Allegato A recante il “Testo integrato delle disposizioni dell’Autorità per l’Energia Elettrica il Gas ed il Sistema Idrico in merito agli obblighi di separazione (Unbundling) Funzionale per le imprese operanti nei settori dell’energia elettrica e del gas (TIUF)”. La ricorrente Enel Energia S.p.A. è un fornitore di energia elettrica nel mercato libero ed è verticalmente integrata nel gruppo Enel S.p.A., che pure ha assunto la veste di ricorrente nella presente sede. Con la delibera del 22 giugno 2015 n. 296/2015/R/Com l’Autorità per l’Energia Elettrica, il Gas e il Sistema Idrico ha imposto, tra l’altro, l’obbligo di separazione del marchio e delle politiche di comunicazione, attraverso la dismissione dei segni distintivi dell’impresa da parte della società di distribuzione di energia elettrica, ovvero delle società esercenti la vendita, laddove esse facciano parte del medesimo gruppo o siano comunque verticalmente integrate (artt. 17.1, 17.2, 17.3 e 17.7 Allegato A alla deliberazione). In particolare è stato previsto che le politiche di comunicazione, la denominazione sociale, il marchio, la ditta, l’insegna e ogni altro elemento distintivo dell’impresa di distribuzione di energia elettrica debbano essere in uso esclusivo alla stessa e non debbano contenere alcun elemento di tipo testuale o grafico che possa essere in alcun modo ricollegato alle attività di vendita di energia elettrica svolte dall’impresa verticalmente integrata o dalle altre imprese del gruppo societario di appartenenza di questa, tali da ingenerare confusione per il pubblico (art. 17.2 e, con riferimento alle imprese che svolgono attività di vendita nei mercati al dettaglio, 17.7, allegato A alla deliberazione). Nel caso specifico le ricorrenti devono procedere anche alla separazione dei rispettivi canali informativi, degli spazi fisici e del personale (artt. 17.6 e 17.9), con un rilevante impatto sotto il profilo strutturale, organizzativo, economico e di immagine di tutta l’operazione. Assumendo l’illegittimità della deliberazione e la sua lesività, nelle parti in precedenza illustrate, le ricorrenti hanno proposto ricorso, eccependo in primo luogo il difetto di attribuzione e/o carenza di potere, la violazione dell’art. 26, comma 3, della Direttiva 2009/72/CE e la violazione per falsa applicazione degli artt. 39, 41, 43 e 45 del D. Lgs. n. 93 del 2011; la disciplina contenuta nella delibera impugnata, con riguardo agli obblighi di separazione del marchio e delle politiche di comunicazione per le imprese verticalmente integrate, sarebbe priva di fondamento normativo, come ribadito anche dal legislatore nazionale in sede di recepimento della normativa comunitaria, laddove avrebbe affidato all’Autorità soltanto poteri di vigilanza e non già di regolazione. Con una successiva censura su assume la violazione dell’art. 1 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), la violazione degli artt. 23, 41, 42 e 97 Cost. e dell’art. 52, par. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; l’assenza di un qualsivoglia potere regolatorio in capo all’Autorità in subiecta materia non potrebbe essere fronteggiata con il ricorso ai poteri impliciti, soprattutto laddove vengano compressi o fortemente limitati diritti protetti da fonti di rango costituzionale, comunitario e convenzionale, quali quelli riguardanti l’esercizio della libertà di impresa e la titolarità di beni immateriali (marchio o altri segni distintivi). Con la terza doglianza si deduce la violazione della direttiva 2009/72/CE (artt. 2 e 26), del D. Lgs. n. 79 del 1999 (art. 25 septies), del D. Lgs. n. 93 del 2011 (artt. 34, 38 e 41), dell’art. 41 Cost. e dell’art. 2497 bis del cod. civ., la contraddittorietà intrinseca della deliberazione, lo sviamento di potere e la violazione del principio di proporzionalità; la disciplina della c.d. separazione funzionale (unbundling) sarebbe finalizzata a consentire alle imprese verticalmente integrate di proseguire la propria attività con pienezza dei propri diritti e in modo del tutto trasparente, sia pure garantendo l’indipendenza del gestore del sistema di distribuzione dalle attività non connesse alla distribuzione medesima; in senso contrario, la disciplina di cui all’art. 17 dell’allegato A alla deliberazione 296/2015, si prefiggerebbe sostanzialmente l’obiettivo di vietare in maniera assoluta l’impresa verticalmente integrata nel settore elettrico. Con la quarta doglianza si deduce la violazione dell’art. 41 del D. Lgs. n. 93 del 2011 e della Direttiva europea 2009/72/CE; l’art. 41 citato si limiterebbe a vietare la confusione nelle politiche di comunicazione e di marchio delle aziende verticalmente integrate che svolgano attività nei mercati al dettaglio, non prevedendo alcun divieto di utilizzo del proprio marchio storico, mentre le disposizioni censurate nella presente sede impongono la dismissione del marchio e la separazione fisica degli spazi, del personale e dei canali informativi delle imprese che, verticalmente integrate, svolgano attività di vendita e distribuzione. Con la quinta doglianza si deducono l’eccesso di potere per violazione del principio di proporzionalità, irragionevolezza illogicità e discriminazione e lo sviamento di potere; le misure adottate dall’Autorità sarebbero manifestamente sproporzionate ed irragionevoli, non essendo necessarie e apparendo inutilmente gravose per le imprese del settore; inoltre sarebbe palesemente discriminatorio aver imposto misure più stringenti per le imprese di vendita che operano attraverso società separate, rispetto a quelle imposte alle imprese singole che svolgano attività di vendita in due mercati al dettaglio (cfr. art. 17.8 dell’Allegato A alla deliberazione impugnata). Infine si eccepisce la violazione delle norme Europee in tema di libera circolazione, artt. 49 e 56 TFUE; con l’adozione di misure che non trovano alcun referente nelle disposizioni in tema di unbundling prescritte dal legislatore europeo, l’Autorità avrebbe dato origine nel solo territorio italiano ad un regime concorrenziale difforme (e più restrittivo) di quello vigente nel resto del mercato europeo, in evidente conflitto con gli obiettivi perseguiti dalla Direttiva 2009/72/CE. In via subordinata vengono dedotti la violazione sotto altri profili degli artt. 26 della Direttiva 2009/72/CE e 39 e 41 del D. Lgs. n. 93 del 2011, la violazione della normativa nazionale ed europea in tema di marchi e segni distintivi (art. 7 del D. Lgs. n. 30 del 2005, art. 4, par. 1, del Reg. CE 207/2009, artt. 2563 e ss. c.c.), l’eccesso di potere per contraddittorietà e la violazione della normativa in materia di gruppi societari (art. 2497 bis c.c.); la determinazione impugnata avrebbe illegittimamente parificato al marchio gli altri segni distintivi, quali la ditta, l’insegna e la denominazione sociale, dotati di proprie autonome caratteristiche e finalità, estranee a quelle del marchio e, dunque, in contrasto con quanto la Direttiva avrebbe inteso prendere in considerazione. Si è costituita in giudizio l’Autorità per l’Energia Elettrica, il Gas e il Sistema Idrico, che ha chiesto il rigetto del ricorso. Sono intervenuti ad opponendum A.I.G.E.T. – Associazione Italiana di Grossisti di Energia e Trader, Energia Concorrente, la Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa – Confartigianato – e la Confederazione Generale dell’Artigianato e delle Imprese – C.N.A., che hanno chiesto il rigetto del ricorso. In prossimità dell’udienza di trattazione del merito della controversia, le parti hanno depositato memorie e documentazione a sostegno delle rispettive posizioni. Alla pubblica udienza del 14 aprile 2016, su conforme richiesta dei difensori delle parti, il ricorso è stato trattenuto in decisione. DIRITTO 1. Il ricorso non è meritevole di accoglimento. 2. Con la prima e seconda censura, da trattare congiuntamente in quanto connesse, si assume l’illegittimità dell’imposizione dell’obbligo di separazione del marchio e delle politiche di comunicazione per le imprese verticalmente integrate, attesa l’assenza di un fondamento normativo a supporto del potere esercitato dall’Autorità, come ribadito anche dal legislatore nazionale in sede di recepimento della normativa comunitaria, laddove avrebbe affidato all’Autorità soltanto poteri di vigilanza e non già di regolazione; a ciò non potrebbe sopperirsi ricorrendo ai poteri impliciti, avuto riguardo al coinvolgimento di diritti protetti da fonti di rango costituzionale, comunitario e convenzionale, quali quelli riguardanti l’esercizio della libertà di impresa e la titolarità di beni immateriali (marchio o altri segni distintivi). 2.1. Le censure sono infondate. Con riguardo al mercato dell’energia elettrica l’art. 38, comma 2, del D. Lgs. n. 93 del 2011, di attuazione delle direttive 2009/72/CE, 2009/73/CE e 2008/92/CE relative a norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica, del gas naturale e ad una procedura comunitaria sulla trasparenza dei prezzi al consumatore finale industriale di gas e di energia elettrica, stabilisce che “nel caso di gestore del sistema di distribuzione facente parte di un’impresa verticalmente integrata, lo stesso gestore non può trarre vantaggio dall’integrazione verticale per alterare la concorrenza e a tal fine: a) le politiche di comunicazione e di marchio non devono creare confusione in relazione al ramo di azienda responsabile della fornitura di energia elettrica; b) le informazioni concernenti le proprie attività, che potrebbero essere commercialmente vantaggiose, sono divulgate in modo non discriminatorio. L’Autorità per l’energia elettrica e il gas vigila sul rispetto delle disposizioni di cui al presente comma”. Tale previsione ricalca quella di cui all’art. 26, paragrafo 3, della Direttiva 2009/72/CE (relativa a norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica), che ha una formulazione identica a quella del corrispondente art. 26, paragrafo 3, della Direttiva 2009/73/CE (relativa a norme comuni per il mercato interno del gas naturale). Con riguardo ai compiti dell’Autorità, l’art. 41 (“mercati al dettaglio”) del D. Lgs. n. 93 del 2011 ha previsto che “nel caso in cui una stessa società eserciti attività di vendita al mercato libero e al mercato tutelato, l’Autorità per l’energia elettrica e il gas adotta i provvedimenti necessari affinché la stessa società non possa trarre vantaggio competitivo sia nei confronti dei clienti finali sia sotto il profilo delle valutazioni che la stessa Autorità effettua in materia di qualità del servizio, rispetto ad un assetto societario in cui le due attività siano attribuite a società distinte appartenenti ad uno stesso gruppo. L’Autorità per l’energia elettrica e il gas vigila sul rispetto delle disposizioni di cui al presente comma”. Le norme sopra riportate sono certamente idonee a fornire una solida base normativa all’art. 17 dell’Allegato A alla deliberazione n. 296/2015 (cfr. T.A.R. Lombardia, Milano, II, 27 aprile 2016, n. 815); inoltre non possono essere trascurati i principi ricavabili dalla giurisprudenza comunitaria, quali la circostanza che “la valutazione globale deve fondarsi, per quanto attiene alla somiglianza visuale, auditiva o concettuale dei marchi di cui trattasi, sull’impressione complessiva prodotta dai marchi, in considerazione, in particolare, degli elementi distintivi e dominanti dei marchi medesimi” (cfr. Corte di Giustizia, 22 settembre 1999, n. C-342/97: statuizione pressoché identica al disposto di cui all’art. 17.3 della deliberazione impugnata) e, soprattutto, al paventato “rischio di confusione”, che secondo l’orientamento del Giudice comunitario “presuppone un’identità o una somiglianza tra i prodotti o i servizi designati” (cfr. Corte di Giustizia, 29 settembre 1998, n. C39/97). L’interrelazione tra profili normativi e giurisprudenziali, che traspare nella formulazione (anche lessicale) della disposizione censurata, risulta preordinata all’effettività del disegno amministrativo, e ciò in applicazione del consolidato principio del c.d. “effetto utile” delle direttive comunitarie, puntualmente disciplinato dall’art. 4 del Trattato sull’Unione europea, secondo cui “gli Stati membri adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione”. È noto, infatti, che il mancato recepimento, o il non corretto recepimento, degli atti comunitari costituisce un motivo di legittimazione della Commissione europea a dare corso ad una procedura di infrazione (art. 258 e seguenti TFUE) nei confronti dello Stato inadempiente: il che, nel caso che riguarda l’odierno contendere, è puntualmente accaduto mediante l’avvio della procedura n. 2014/2286 sul non corretto recepimento della Direttiva 2009/72/CE e della Direttiva 2009/73/CE (c.d. terzo pacchetto energia). Le direttive del 2009, infatti, hanno evidenziato all’art. 26 la necessità di evitare che il gestore del sistema di distribuzione possa “trarre vantaggio dalla sua integrazione verticale per falsare la concorrenza”, perché tale privilegio si tradurrebbe in un rischio di confusione a tutto danno della clientela. Con la deliberazione impugnata, quindi, l’Autorità si è proposta di dettare misure concrete, conformi alla normativa comunitaria e, soprattutto, in grado di realizzare il risultato che tale normativa ha espressamente individuato (cfr. T.A.R. Lombardia, Milano, II, 27 aprile 2016, n. 815). Tale determinazione rinviene un diretto fondamento nell’art. 43 del D. Lgs. n. 93 del 2011 laddove si prevede che “l’Autorità per l’energia elettrica e il gas garantisce: (…) c) l’adempimento da parte dei gestori dei sistemi di trasmissione e distribuzione e, se necessario, dei proprietari dei sistemi, nonché di qualsiasi impresa elettrica o di gas naturale, degli obblighi derivanti dalle direttive 2009/72/CE e 2009/73/CE, dei Regolamenti 713/2009/CE, 714/2009/CE e 715/2009/CE, nonché da altre disposizioni della normativa comunitaria, ivi comprese quelle in materia di questioni transfrontaliere” (comma 2), “vigila (…) sull’applicazione delle norme che disciplinano funzioni e responsabilità dei gestori dei sistemi di trasmissione, dei gestori dei sistemi di trasporto, dei gestori dei sistemi di distribuzione, dei fornitori, dei clienti e di altri soggetti partecipanti al mercato ai sensi del regolamento (CE) n. 714/2009 e del regolamento (CE) n. 715/2009” (comma 3), cioè, rispettivamente, sul mercato dell’energia elettrica e del gas naturale e, “al fine dell’efficace svolgimento dei propri compiti, ivi compresi quelli operativi, ispettivi, di vigilanza e monitoraggio, (…) può effettuare indagini sul funzionamento dei mercati dell’energia elettrica e del gas naturale, nonché adottare e imporre i provvedimenti opportuni, necessari e proporzionati per promuovere una concorrenza effettiva e garantire il buon funzionamento dei mercati. In funzione della promozione della concorrenza, l’Autorità può in particolare adottare misure temporanee di regolazione asimmetrica” (comma 5). La base di diritto positivo delineata dalle norme sopra citate ha, quindi, legittimato l’adozione dell’impugnata deliberazione, con cui: - si è inteso porre rimedio agli scarsi risultati ottenuti dai precedenti provvedimenti, come la deliberazione del 26 ottobre 2007, n. 272 in tema di “informazioni corrette e chiare circa le modalità di erogazione del servizio di fornitura di energia elettrica, comprese le condizioni economiche o i prezzi di offerta da parte dei soggetti esercenti il servizio di maggior tutela, delle società di vendita ai clienti del mercato libero e dei soggetti che svolgono tali attività in maniera integrata”; - si è voluta dare compiutezza alla disciplina sulla separazione amministrativa e contabile di cui alla deliberazione del 18 gennaio 2007, n. 11 (espressamente richiamata nel preambolo della deliberazione n. 296/2015), che non aveva affrontato il tema della separazione tra comunicazione e marchio per la difesa della clientela dal rischio di confusione ingenerato da un’indistinta identità del ramo “fornitura” dell’impresa verticalmente integrata. A conferma della concretezza dell’impegno perseguito nella deliberazione impugnata milita il contenuto del documento di consultazione 77/2015/R/com, nel quale l’Autorità: a) ha precisato che “l’adempimento da parte dei gestori dei sistemi di distribuzione degli obblighi derivanti dalle direttive 2009/72/CE e 2009/73/CE, tra cui rientra proprio il divieto di confusione tra attività di distribuzione e vendita (…) presuppone un potere di regolazione in assenza del quale l’Autorità non può agire in maniera effettiva ed efficace al fine di assicurare l’adempimento degli obblighi posti in capo ai gestori dei sistemi di distribuzione dal decreto legislativo n. 93/11, i quali obblighi, pur vigenti dal 2011, non risultano ancora oggi rispettati dalla generalità degli operatori in maniera soddisfacente”; b) ha ribadito che “le disposizioni sulla separazione del marchio e delle politiche di comunicazione si applichino a tutte le imprese di distribuzione di energia elettrica e del gas naturale, indipendentemente dalla loro dimensione, nonché alle imprese di vendita di energia elettrica, a partire dal 1° gennaio dell’anno successivo a quello di pubblicazione del provvedimento finale”. Alla luce di quanto rilevato, l’attività di regolazione dell’AEEGSI si è indirizzata, conformemente alla disciplina di cui all’art. 2, comma 5 della legge 481/1995, “al fine di tutelare i clienti finali e di garantire mercati effettivamente concorrenziali”, e, soprattutto, mediante l’esercizio di competenze che “ricomprendono tutte le attività della relativa filiera” (T.A.R. Lombardia, Milano, II, 27 aprile 2016, n. 815). 2.2. Ciò conduce al rigetto delle prime due censure di ricorso. 3. Con la terza, quarta e quinta doglianza, da trattare congiuntamente in quanto connesse, si assume che la disciplina della c.d. separazione funzionale (unbundling), di cui all’art. 41 del D. Lgs. n. 93 del 2011, si limiterebbe a vietare la confusione nelle politiche di comunicazione e di marchio delle aziende verticalmente integrate e sarebbe finalizzata a consentire alle imprese verticalmente integrate di proseguire la propria attività con pienezza dei propri diritti e in modo del tutto trasparente, sia pure garantendo l’indipendenza del gestore del sistema di distribuzione dalle attività non connesse alla distribuzione medesima, mentre la disciplina di cui all’art. 17 dell’allegato A alla deliberazione 296/2015 si prefiggerebbe sostanzialmente l’obiettivo di vietare, in maniera assoluta, l’impresa verticalmente integrata nel settore elettrico, unitamente al divieto di utilizzo del marchio storico. 3.1. Le doglianze sono complessivamente infondate. La situazione di fatto, come ha puntualmente rappresentato l’Autorità, vede la presenza sul mercato di ‘Enel Distribuzione che svolge quale società controllata da Enel S.p.A., in virtù di concessione ministeriale, il servizio di distribuzione dell’energia elettrica tra la rete di trasmissione gestita da Terna ed i clienti finali; Enel Energia che opera nel settore della fornitura dell’energia elettrica nel c.d. mercato libero quale società verticalmente integrata del gruppo Enel; Enel Servizio Elettrico che è la società del gruppo Enel che gestisce il “servizio di maggior tutela” per l’energia elettrica nelle aree in cui Enel distribuzione esercisce il relativo servizio; A2A Energia che è la società commerciale del gruppo A2A, gruppo verticalmente integrato, che svolge, sia attività di vendita nel c.d. mercato libero, sia gestione del servizio di maggior tutela’ (cfr. pag. 8 della memoria dell’Avvocatura erariale depositata il 12 ottobre 2015). È noto che con le direttive 2003/54/CE e 2003/55/CE si è, inizialmente, provveduto a disciplinare la c.d. “separazione funzionale”, con specifico riferimento a quella giuridica e societaria, stabilendosi che la diretta ed esclusiva gestione delle attività connesse al possesso di impianti di rete sia affidata ad un gestore indipendente, in tal modo dettagliando la disciplina positiva sull’unbundling. Sul punto, va rilevato che il Consiglio di Stato, definendo le controversie sull’impugnazione della deliberazione n. 11/2007, ha evidenziato: 1) che “si tratta (…) di un sistema necessitato di iniziativa comunitaria, di cui non soltanto il risultato da raggiungere appare chiaramente individuato dalle direttive in questione, ma anche le linee fondamentali degli strumenti per raggiungerlo, onde le relative previsioni producono, e scontano, un inevitabile effetto derogatorio delle norme di diritto interno le quali, regolando gli organi e le fasi di attività societaria corrispondenti alla gestione ed alla programmazione dell’attività di impresa nei settori qui in rilievo [energia elettrica e gas naturale], si trovano ad essere recessive e cedevoli rispetto al diritto comunitario, secondo il rapporto che normalmente intercorre tra questo ed il diritto interno, e ciò per il solo fatto che le previsioni delle direttive, sufficientemente chiare e precise nei loro evidenziati riflessi operativi, siano in vigore per lo scadere del loro termine di recepimento da parte dello Stato” (sentenza, VI, 6 febbraio 2009, n. 701); 2) che “la scelta dello Stato italiano di demandare ad un organo tecnicamente qualificato dalla sua expertise nei settori di mercato rilevanti e dalla sua posizione di indipendenza funzionale, dei compiti attuativi delle direttive in questione, non impingenti in modo diretto e attuale, ma solo consequenziale, sulla disciplina civilistica interna, non influisce sulla correttezza del modulo di adempimento agli obblighi comunitari prescelto nel caso” (cfr. sentenza, VI, 6 febbraio 2009, n. 701); 3) che, pertanto, ‘lo strumento di regolazione affidata all’Autorità risulta idoneo a produrre la modificazione dell’ordinamento, se questa, come nel caso, è solo “novativa”, cioè additiva in funzione di una deroga alla disciplina societaria già prodotta dalle direttive; lo stesso strumento attuativo, in tale cornice, garantisce “trasparenza e certezza del diritto”, quantomeno in sé considerato, e costituisce, inoltre, una fonte di norme tale da assicurare il rispetto delle disposizioni cogenti previste dalle direttive medesime’ (cfr. sentenza, VI, 6 febbraio 2009, n. 701). Relativamente alla disciplina contenuta nella deliberazione odiernamente impugnata, si è, inoltre, previsto che “le attività commerciali relative all’impresa di distribuzione siano svolte tramite l’utilizzo di canali informativi, di spazi fisici e di personale distinti da quelli relativi all’attività di vendita dell’energia elettrica o del gas naturale svolti dall’impresa verticalmente integrata o dalle altre imprese del gruppo societario cui questa appartiene” (art. 17.6) e che anche “le imprese o le strutture dell’impresa che svolgono l’attività di vendita ai clienti liberi dell’energia elettrica o l’attività di vendita di energia elettrica ai clienti finali in maggior tutela assicurano che le rispettive attività commerciali nei confronti dei clienti finali siano svolte tramite l’utilizzo di canali informativi, di spazi fisici e di personale separati” (art. 17.9). Ancora una volta viene in evidenza il risultato pratico delle direttive comunitarie, vale a dire la difesa concreta dei clienti finali dal rischio di confusione tra l’attività di distribuzione e quella di fornitura e, relativamente a quest’ultima, tra il mercato libero e quello di maggior tutela. Le ricorrenti, sul punto, hanno censurato la proporzionalità delle misure (la distinzione degli spazi commerciali e del personale dedicato) che l’Autorità ha, invece, reputato coessenziali al raggiungimento dell’obiettivo posto dal legislatore europeo. Ad avviso del Collegio, il giudizio sull’appropriatezza di tali rimedi non può prescindere dal profilo soggettivo correlato all’individuazione delle caratteristiche dei consumatori cui le attività di Enel si rivolgono. Al riguardo, occorre considerare che secondo la normativa comunitaria in materia di marchi d’impresa, vi è un rischio di confusione per il pubblico quando da una valutazione globale relativa alla somiglianza visuale, auditiva o concettuale dei marchi e dei segni distintivi dell’impresa, il pubblico sia indotto a ritenere che essi siano ricollegabili alla stessa impresa o ad imprese economicamente collegate. Tale assunto è confortato da puntuali pronunce della giurisprudenza comunitaria. In particolare: a) la “valutazione globale” è basata “sull’impressione complessiva prodotta dai marchi”, da ciò conseguendo che “la percezione dei marchi operata dal consumatore medio del tipo di prodotto o servizio di cui trattasi svolge un ruolo determinante nella valutazione globale del rischio di confusione. Orbene, il consumatore medio percepisce normalmente un marchio come un tutt’uno e non effettua un esame dei suoi singoli elementi” (cfr. Corte di Giustizia UE, 11 novembre 1997, n. C-251/95; cfr., altresì, id., 29 settembre 1998, n. C-39/97; conforme 6 ottobre 2005, n. C-120/04); b) “ai fini di questa valutazione globale, si ritiene che il consumatore medio della categoria di prodotti di cui trattasi sia normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto (v., in tal senso, sentenza 16 luglio 1998, causa C-210/96, Gut Springenheide e Tusky, Racc. pag. I-4657, punto 31). Tuttavia occorre tener conto del fatto che il consumatore medio solo raramente ha la possibilità di procedere a un confronto diretto dei vari marchi, ma deve fare affidamento sull’immagine non perfetta che ne ha mantenuto nella memoria. Occorre anche prendere in considerazione il fatto che il livello di attenzione del consumatore medio può variare in funzione della categoria di prodotti o di servizi di cui trattasi” (cfr. Corte di Giustizia, 22 giugno 1999, n. C342/97). La “nozione di consumatore medio non è statistica”, ha infine statuito la giurisprudenza comunitaria, specificando altresì che “gli organi giurisdizionali e le autorità nazionali dovranno esercitare la loro facoltà di giudizio (…) per determinare la reazione tipica del consumatore medio” (cfr. Corte di Giustizia, 18 ottobre 2012, n. C-428/11). Piena conferma alla configurazione del rischio di confusione del consumatore medio è, inoltre, derivata dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione (I, 26 marzo 2004, n. 6080; id., 25 aprile 2007, n. 14684). Ulteriore avallo si ricava, infine, dalla lettera di diffida relativa alla procedura di infrazione n. 2014/2286, ove si è precisato che ‘un elemento importante della direttiva 2009/73/CE è il concetto di cliente vulnerabile. In proposito, l’articolo 3, paragrafo 3, della direttiva dispone che: “[...] ciascuno Stato membro definisce il concetto di cliente vulnerabile che può riferirsi alla povertà energetica e, fra l’altro, al divieto di interruzione delle forniture a tali clienti in momenti critici. […]”. Nella legislazione nazionale una definizione di cliente vulnerabile è fornita sia all’articolo 14, comma 4, lettera p), della legge comunitaria 2009 sia all’articolo 7, paragrafo 2, del decreto legislativo n. 93 del 2011. Secondo tali disposizioni sono considerati clienti vulnerabili i clienti domestici, le utenze relative ad attività di servizio pubblico, nonché i clienti civili e non civili i cui consumi annuali non superino una certa soglia, per i quali la continuità di approvvigionamento deve essere garantita anche in momenti critici o in situazioni di emergenza. Questo concetto si riflette anche nella decisione 280/2013/R/Gas dell’autorità nazionale di regolamentazione’. Alla luce di quanto illustrato, è consequenziale ritenere che la separazione delle politiche di comunicazione, rapportata al divieto di confusione dei clienti finali imposta dal D. Lgs. n. 93 del 2011, sostanziata a fini interpretativi dall’applicazione del criterio della “valutazione globale” sulla percezione del consumatore medio (ben delineata dalla giurisprudenza sopra citata), giustifichino su un piano di adeguatezza e proporzione le misure relative alla distinzione dei marchi, degli spazi commerciali e del personale rispettivamente dedicato alle attività di vendita ai clienti liberi dell’energia elettrica e a quelli finali in maggior tutela. Il Collegio valuta, cioè, ragionevole la necessità di evitare preventivamente che i clienti che accedono a un “punto Enel” possano essere indotti in confusione per la presenza di distinte postazioni che ospitano personale di diverse società del gruppo. Del resto, con la deliberazione 8 luglio 2010, n. 104, l’Autorità ha approvato il “codice di condotta commerciale per la vendita di energia elettrica e di gas naturale ai clienti finali”, e ciò per perseguire “l’obiettivo generale di prevenire quelle condotte pregiudizievoli per i clienti finali che si sono manifestate successivamente alla liberalizzazione dei mercati energetici, con particolare riferimento alle pratiche commerciali messe in atto da esercenti la vendita, denotanti in particolare la carenza di informazioni adeguate per una scelta consapevole e il ricorso ad informazioni inesatte e/o false, al fine di indurre il cliente finale alla conclusione di un nuovo contratto di fornitura sfruttando l’inconsapevolezza dello stesso”. È, quindi, evidente che il profilo della “protezione dei consumatori”, messo criticamente in evidenza nella comunicazione di avvio della procedura di infrazione n. 2014/2286, presupponga l’adozione di misure semplici e chiaramente percepibili dalla clientela (queste sono, in effetti, quelle rappresentate dalla distinzione dei marchi, degli spazi commerciali e del personale), funzionali a garantire il risultato prescritto dalla normativa comunitaria. Per questo può fondatamente ritenersi che la deliberazione impugnata ha ripristinato la centralità dell’interesse pubblico della clientela rispetto a quello delle imprese verticalmente integrate, in sintonia con gli obiettivi della normativa comunitaria e con prescrizioni congrue e immuni da irragionevolezza (cfr. T.A.R. Lombardia, Milano, II, 27 aprile 2016, n. 815). 3.2. Pertanto, anche le predette doglianze sono infondate. 4. Con la sesta censura si assume che l’adozione, da parte dell’Autorità, di misure che non trovano alcun referente nelle disposizioni in tema di unbundling prescritte dal legislatore europeo avrebbe dato origine, nel solo territorio italiano, ad un regime concorrenziale difforme (e più restrittivo) di quello vigente nel resto del mercato europeo, in evidente conflitto con gli obiettivi perseguiti dalla Direttiva 2009/72/CE. 4.1. La censura è infondata. Come emergente dalla procedura di infrazione avviata dalla Commissione europea, risultavano assolutamente inidonee le misure adottate a tutela del consumatore, essendosi rilevato che la strategia di marchio del gestore del sistema di distribuzione Enel Distribuzione (distribuzione di marca) e del fornitore Enel Energia (vendita commerciale) non emergeva come sufficientemente separata. Pertanto le misure adottate risultano assolutamente congrue e ragionevoli in vista della tutela dei consumatori medi dal rischio di confusione, tenuto conto che i vari Paesi membri dell’Unione europea risultavano aver adottato misure diverse e disomogenee per conseguire il risultato previsto dall’art. 26 delle Direttive del 2009. (T.A.R. Lombardia, Milano, II, 27 aprile 2016, n. 815). Del resto, la differenziazione si giustifica proprio con riferimento alle peculiarità del mercato nazionale e alla circostanza che per perseguire gli obiettivi individuati nelle direttive sia necessario adottare misure idonee ed efficaci. 4.2. Ciò evidenzia l’infondatezza anche della sopra scrutinata censura. 5. Con l’ultima doglianza, proposta in via subordinata, si eccepisce l’illegittima parificazione al marchio degli altri segni distintivi, quali la ditta, l’insegna e la denominazione sociale, dotati di proprie autonome caratteristiche e finalità, estranee a quelle del marchio e, dunque, a quelle che la Direttiva avrebbe inteso prendere in considerazione. 5.1. La doglianza è infondata. L’equiparazione del trattamento di tutti i segni distintivi dell’impresa al marchio risulta giustificata dalla necessità di garantire i consumatori medi dal rischio di confusione, visto che anche i segni distintivi diversi dal marchio costituiscono elementi identificativi di una impresa. Essendo l’obiettivo quello di assicurare una separazione funzionale dei vari rami di attività, lo stesso deve essere perseguito ponendo in essere tutte le misure attuative necessarie e non limitandosi ad una letterale riproduzione di quanto contenuto nella direttiva, che comunque deve essere applicata dando prevalenza agli obiettivi perseguiti dalla stessa, laddove si profili una possibile inidoneità delle misure prospettate, se intese nel loro esclusivo significato letterale. Nel caso de quo, un trattamento differenziato dei vari segni distintivi dell’impresa avrebbe rischiato di pregiudicare irrimediabilmente l’efficacia delle misure previste a protezione dei consumatori. 5.2. Quindi anche tale censura va respinta. 6. In conclusione, all’infondatezza delle censure del ricorso, segue il rigetto dello stesso. 7. In relazione alla complessità della controversia e della parziale novità delle questioni affrontate, le spese di giudizio possono essere compensate tra tutte le parti del giudizio. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando, respinge il ricorso indicato in epigrafe proposto. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Milano nella camera di consiglio del 14 aprile 2016 con l’intervento dei magistrati: Mario Mosconi, Presidente Antonio De Vita, Consigliere, Estensore Floriana Venera Di Mauro, Referendario L'ESTENSORE DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 11/07/2016 IL SEGRETARIO (Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.) IL PRESIDENTE