Quale libertà per il diritto di espressione?
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Quale libertà per il diritto di espressione?
Francesco Occhetta, S.I. giornalista, scrittore La Civiltà Cattolica A Quale libertà per il diritto di espressione? bbiamo deciso di dedicare questo numero di Desk per approfondire il rapporto tra la libertà, la fede e il diritto di espressione perché è sull’equilibrio di queste tre grandi dimensioni del vivere civile che dipenderà la convivenza futura. Può sembrare un tema teorico o inutile, invece sono le categorie culturali che ci permettono di capire gli eventi a cui assistiamo dall’inizio dell’anno. Gli approfondimenti che il numero offre a servizio dell’intera professione del giornalismo sono una specie di “sosta culturale” per richiamare alla memoria cosa ci ha umanamente colpito e come rileggiamo quei fatti dagli attentati di Parigi, del 7-8 gennaio con 20 morti che hanno destrutturato il diritto di espressione, agli orrori dell’Isis, fino agli sbarchi quotidiani conseguenza di un mondo che è già cambiato. Tutti fatti cruenti che, se da una parte di giornalismo cerca di esorcizzare e rimuovere, dall’altra tra molti giornalisti si sono risvegliate le due più antiche e ineludibili domande morali a cui siamo chiamati a rispondere: «Chi è l’altro che raccontiamo per noi?», «quali princìpi raccontare per garantire la pace e la giustizia tra i popoli?», «in quale modo il giornalismo è chiamato a costruire servizio pubblico?». La filosofia del Novecento, con Lévinas direbbe che dal momento in cui si abdica alla responsabilità di sentirci tutti uguali cessiamo di essere soggetti morali1. Così quando l’istinto prevale sulla ragione, e si criminalizzano genericamente tutti gli immigrati, tutti i musulmani o in generale tutto ciò che rappresenta «il diverso», il giornalismo deve alzare la sua voce e aumentare i suoi sforzi per aiutare a distinguere e a discernere. La dinamica di quanto è accaduto a Parigi lo esemplifica: i tre attentatori erano persone nate, cresciute ed educate nel cuore della terra dei diritti, la Francia. Uno di loro è stato convinto a diventare un fondamentalista islamico in un carcere francese — e questo fatto mette in questione il modello di giustizia e di rieducazione degli istituti penitenziari —; gli altri due, i fratelli Kouachi, sono stati educati ad azioni di guerra soprattutto attraverso la Rete (altro luogo da abitare meglio). Tra queste azioni di morte, è emersa anche la forza della vita: il commesso musulmano Lassana Bathily ha rivista DESK 3 rivista DESK 4 salvato sei ostaggi durante l’attacco nel supermercato kosher a Porte de Vincennes (ad est di Parigi), nascondendoli nel frigorifero e ritornando tra i corridoi del negozio per non far sospettare nulla. È nella tensione tra queste due scene paradigmatiche che si inserisce quella irriducibile questione morale che attraversa la storia: alcuni muoiono per togliere la vita di altri, altri invece rischiano di morire per «dare la vita per i propri amici» come insegna un passo del vangelo di Giovanni. Il senso della laicità nello spazio pubblico In questo tempo di repentini cambiamenti ci sono alcune domande che il giornalismo italiano deve tenere a cuore. Ne ricordiamo alcune: Quale deve essere il rapporto tra lo Stato e le confessioni religiose? Su quali categorie culturali occidentali è possibile dialogare con la cultura islamica, per contrastare il terrorismo islamista? Il fatto che circa 3.000 europei si siano arruolati nell’Isis è sintomo di un malessere dell’Occidente di più vasta portata? Il principio di laicità può aiutare a costruire sentieri di integrazione? La laicità culturale italiana, che è «un modo» di vivere lo spazio pubblico e si fonda, per i costi- tuenti, sul principio di libertà religiosa, inscritto nel dettato degli articoli 7 e 8 della Costituzione. È ciò che aveva precisato Aldo Moro all’inizio del 1947, durante i lavori dell’Assemblea costituente: «Non lo Stato teologo, dunque, ma lo Stato libero e democratico, lo Stato cioè che accoglie tutte le esigenze sociali e le soddisfa, senza sostituire arbitrariamente il proprio dogma laicista alla diffusa coscienza religiosa del popolo italiano». È grazie a questa scelta culturale che nella Costituzione italiana il principio di laicità non è formulato, ma lo si deduce in base ad altri princìpi, come quelli di uguaglianza, libertà religiosa, giustizia ecc. Così, se la laicità giuridica è da intendere come la netta separazione dello Stato da ogni confessione religiosa, la sua ispirazione laica, invece, non può essere estranea né alla coscienza religiosa dei propri cittadini, né al patrimonio culturale e spirituale legato ad essa. Secondo l’intuizione dei padri costituenti, i valori religiosi meritano di essere promossi in quanto aiutano la crescita e la maturazione della società civile. Nella tradizione della democrazia italiana, «laicità» non significa assenza di simboli o della possibilità di poter professare la religione nella quale si crede, ma la capacità di accogliere e sostenere tutti i simboli e i segni religiosi. La 4 rivista DESK sentenza della Corte costituzionale n. 203/1989, che riconosce esplicitamente il valore delle esperienze religiose come elementi vitali della democrazia, precisa un aspetto che definisce la laicità italiana: «Alla condizione che [le religioni tra loro] accettino il pluralismo». La laicità, dunque, in quanto principio supremo, opera come medium, «attraverso il quale il mondo dei valori entra in quello giuridico e il mondo giuridico si apre ai valori»; la sua essenza materiale serve a nutrire e a ispirare il diritto. È il pluralismo confessionale e culturale delle Chiese e delle religioni che favorisce un clima di dialogo fra credenti, e fra credenti e non credenti. Nello spazio pubblico devono trovare casa tutte le varie credenze; altrimenti, se queste vengono relegate nello spazio privato, sarà la religione civile a prevalere con il suo credo laicista e con i suoi princìpi imposti dallo Stato. Rimane un esempio indelebile l’abbraccio del Papa al dottor Omar Abboud, musulmano, e al rabbino Abraham Skorka. Il modello di laicità italiano, a cui assomiglia quello americano, è però quasi agli antipodi di quello prevalso in Francia. Estremizzare quest’ultimo modello non rischia forse di assolutizzare una laicità imposta dallo Stato, che entra in crisi appena viene meno la fiducia dei cittadini nello Stato stesso? Eppure il modello francese è quello elogiato dalla maggioranza del giornalismo italiano. Libertà di espressione e di satira La dimensione della laicità e quella dell’incontro tra le religioni nello spazio pubblico sono la chiave interpretativa per addentrarci nel terreno della libertà di satira, che gode di un plus di diritti rispetto alla critica: non è la stessa cosa scrivere un articolo di giornale attribuendo cose inesatte a un ministro di culto, oppure disegnare una vignetta equivalente su un giornale satirico. Il limite dipende dal modo in cui la satira si presenta ed è recepita: un conto è una pubblicazione su una rivista o un sito notoriamente provocatori, un altro è una vignetta molto dura che attribuisce cose sbagliate o imprecise su un quotidiano di informazione, collocata accanto a notizie vere. Per questo, anche quando esistono leggi, spetta al giudice l’apprezzamento concreto del grado dell’offesa che dovrebbe comunque colpire la stima e la reputazione delle persone chiamate in causa, più che delle confessioni religiose. La soglia però è rappresentata dal rispetto per l’altro. Per quale motivo l’attentato terroristico del 7 gennaio 2015 a Parigi ai giornalisti della rivista Charlie Hebdo è destinato a 5 rivista DESK 6 segnare un prima e un dopo, per il giornalismo occidentale, riguardo al diritto di espressione e alla libertà di stampa? Esso mette in luce una scelta culturale: per l’Occidente, la libertà di espressione si fonda solamente sulla libertà, o si definisce anche in relazione ai princìpi di uguaglianza e di fraternità? È qui la radice della crisi. Il sistema dei media è chiamato a coniugare il principio di libertà con quello di responsabilità. È la responsabilità personale e sociale — che non si impone con una legge, ma si ascolta come fosse un appello interiore — a formare un servizio pubblico che favorisca l’integrazione culturale, permetta alle religioni di dialogare e cerchi un equilibrio sulle autolimitazioni della satira per i temi etnici e religiosi. Anche altri attentati — ha fatto notare Claudio Magris —, come quello di Tolosa del 2012 in cui sono stati uccisi tre bambini ebrei e un professore, o come quelli in Nigeria che hanno causato migliaia di vittime, uccise quasi in contemporanea ai giornalisti francesi, devono suscitare lo stesso sdegno. Altrimenti de-contestualizzeremmo il diritto di espressione, che diventerebbe «un attentato a una libertà e a un diritto più grandi, alla libertà e al diritto di vivere, alla vita delle persone»2. Ma c’è di più. Il diritto inviolabile di espressione, riconosciuto dalla Dichiarazione dei Diritti Umani del 1948 e dalle principali Costituzioni democratiche, va definito insieme al diritto di libertà religiosa. È quello che il Papa ha sottolineato durante il viaggio nelle Filippine, quando ha ribadito — utilizzando l’immagine del pugno come reazione all’offesa della dignità di una persona a cui si vuole bene, come nel caso della propria madre — che la libertà di espressione non è mai assoluta. C’è poi un terzo principio, che ricordava spesso il card. Martini, quando dialogava con l’islam: il principio di reciprocità, che permette ai cristiani di professare la propria fede in Paesi a maggioranza islamica. Le religioni e la politica, ovunque e a tutti i livelli, devono infatti lavorare insieme per il rispetto della credenza dell’altro, per far crescere il livello di umanità e di convivenza. Su questo ultimo punto il giornalismo è chiamato ad un altro salto di qualità che oltre a narrare i fatti, ara e prepara il terreno della cultura nel quale possono nascere frutti nuovi. Il giornalismo è chiamato a favorire il dialogo con i cittadini musulmani che deve nascere da alcune precise domande che toccano la dimensione teologica e antropologica, ma anche giuridica ed etica nel rispetto del Corano come ad rivista DESK esempio: «Come interpretate il pluralismo culturale e religioso? Come comprendete la laicità dello Stato e la separazione tra religione e politica? Come conciliate la vostra appartenenza a una comunità religiosa e, nello stesso tempo, a una comunità civile in cui nessuna religione può esercitare un predominio? Quali sono i diritti che ritenete vi siano negati o concessi solo in maniera formale? Come capite i diritti umani, e in particolar modo come capite la libertà religiosa, di coscienza, di parola?». La libertà che fonda l’espressione Il termine «libertà», che rischia di essere interpretato in molti modi, deve essere fondato sul diritto che la promuove e la tutela. In questo senso, ciò che permette di rimanere liberi pur obbedendo alle leggi di una comunità può essere soltanto il diritto che le libertà di tutti siano compossibili, di modo che non ci sia qualcuno «più» libero di un altro, ma tutti siano ugualmente liberi. «La maturità infatti significa uscire dall’auto-referenzialità per entrare nella relazionalità. In questo senso, Kant insegna che è necessario — ed è la massima propria del diritto — agire in modo che l’altro non sia mai mezzo, ma fine delle mie azioni; in ter- mini di diritto, che non sia mai un oggetto del quale mi servo, ma un soggetto che accolgo e rispetto nella sua alterità, di fronte alla possibilità reale che gli uni per gli altri possiamo essere lupi, e che il mondo divenga una guerra di tutti contro tutti»3. In altri termini, la libertà di ciascuno finisce dove inizia quella dell’altro. La questione è deontologica. Nel dibattito sul tema promosso soprattutto da Articolo 21, Giulietti ha ricordato che se l’acqua che arriva nel rubinetto è pulita tutti ne avranno un beneficio, in caso contrario la salute, collettiva e individuale, subirà gravi danni. Ma, quando l’acqua che si eroga dalla fonte è già inquinata da chi gestisce la falda, i danni potrebbero essere incalcolabili. È interessante osservare che negli Stati Uniti e in Inghilterra i giornali non hanno pubblicato quelle vignette che avrebbero potuto ledere il sentimento religioso dei lettori. È per questo che è utile distinguere le cause dalle conseguenze: «Alcune vignette di “Charlie Hebdo”, spiritose o scurrili, hanno indubbiamente offeso legittime fedi e sentimenti. Non per questo i loro autori meritavano la morte, perché un’ingiuria viene punita con un’ammenda e non con la ghigliottina»4. «Ma la libertà di espressione — ha affermato Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere del- 7 rivista DESK 8 la Sera — non può avere limiti se non nella coscienza di ognuno. Uno stato di diritto non disciplina per legge la libertà di espressione, anzi tutela il diritto a essere orgogliosamente irresponsabili. Per questo, ad esempio, sono contrario alla condanna, in Francia, del comico Dieudonné per essersi schierato dalla parte dei terroristi e all’introduzione, in Italia, del reato di negazionismo. La cifra dell’Occidente è proprio quella di tutelare anche chi ha le opinioni più aberranti e di contrastarlo con la forza delle idee. Questa è la migliore arma democratica che possiamo opporre contro chi ci combatte»5. Questa posizione però è discutibile. In quest’ottica, l’imponente manifestazione di Parigi rappresenterebbe l’esaltazione di un principio (astratto) di espressione e l’esasperazione del soggettivismo che i poteri forti e i politici di turno scelgono di proteggere. Ci si dovrebbe chiedere, di conseguenza, per quale motivo il giornalismo non abbia narrato con la stessa enfasi le uccisioni perpetrate da Boko Haram, il movimento integralista nigeriano, che tra il 3 e 7 gennaio uccise, a Baqa, oltre 2.000 persone, perché cristiane. Invece rifondare un «ethos condiviso», in grado di costituire la rete delle regole del pluralismo sociale, significa considerare la laicità culturale non in una chiave ideologica (intollerante verso le fedi religiose), ma come un «metodo», direbbe Norberto Bobbio, in cui una «vocazione» dei poteri pubblici valorizzi, nel quadro ampio della legalità costituzionale, le diverse opzioni culturali e religiose senza identificarsi con alcuna di esse. Per una laicità culturalmente matura è importante che le religioni si incontrino, si ascoltino e si parlino, per evitare che una loro possibile chiusura fomenti il fondamentalismo o consolidi identità nazionalistiche ed egoistiche. È per questo che va elogiato il virtuosismo di RaiNews e di altre testate minori che hanno vietato di mandare in onda forme di propaganda dell’Isis, soprattutto i video. Rimane un’ultima questione: in che modo andrebbe definita la libertà (di espressione), tenendo conto della fraternità e dell’uguaglianza? Per quale motivo gli esponenti di una cultura, che si vuole inclusiva per tutti, si rivelano come inclusivi soltanto per coloro che la pensano come loro? L’identità religiosa, i simboli e i luoghi religiosi sono una ricchezza per uno Stato democratico? Nel nuovo conflitto armato non sono solamente i grandi bersagli, simbolo di ricchezza e di potere ad essere scossi come le Twin Towers, la stazione di rivista DESK Atocha in Spagna, la metropolitana di Londra oppure i grandi monumenti distrutti in Medio oriente, ma le sedi del diritto e della libertà di espressione. Anzi, ancora di più, sono i giornalisti ad essere sequestrati e a volte sacrificati in forza della loro mission. La laicità vera e rispettosa è quella che non svuota la parola dal suo significato e non si fa comprare. È in questa prospettiva che ci si divide non tra uomini religiosi e non, o tra credenti e non credenti, ma tra esseri morali e non, tra coloro che si fanno carico della dimensione della fraternità e coloro che la rifiutano. Per il giornalismo rimane un “imperativo morale”: il futuro si può solo costruire nella convivenza. L’editoriale nasce dal seguente studio: F. OCCHETTA, «Laicità e fede: diritto di espressione», in La Civiltà Cattolica II 2015, 131-140. 1 . C. MAGRIS, «Offendere non è libertà», in Corriere della Sera, 1° marzo 2015, inserto Lettura, in http://lettura.corriere.it/ 3 . «Spiacente non sono Charlie», febbraio 2015, in www.chiesadelgesu.org/ Lettera a Diogneto del febbraio 2015. 4 . C. MAGRIS, «Offendere non è libertà», cit. 5 . Cfr FERRUCCIO DE BORTOLI nel Convegno «Laicità e fede: libertà di espressione», svoltosi a Mantova il 14 febbraio 2015; in www.diocesidimantova.it 2 9