The Role of spreads in a Monetary Union
Transcript
The Role of spreads in a Monetary Union
November 2012 The Role of Spreads in a Monetary Union Fedele De Novellis – Giacomo E. Vaciago 1. Introduzione I differenziali dei tassi d’interesse tra paesi sovrani riflettono soprattutto differenziali di inflazione attesa. La relazione fra rischio d’inflazione e spread sui tassi d’interesse passa attraverso l’aspettativa di svalutazione connessa alla maggiore inflazione attesa. Il rischio di default in senso stretto in condizioni normali conta ben poco, nella misura in cui i problemi derivanti da eccesso di debito tendono a tradursi anzitutto in monetizzazione del debito, e quindi maggiore inflazione. Con moneta comune, lo spread, continua a misurare l’eventualità di default, ma anche il rischio di un’uscita dall’euro. L’aumento degli spreads dal 2009 incorpora quindi un insieme di fattori, dall’eccesso di debito all’eventualità di un abbandono dell’euro da parte di alcuni paesi, sino all’ipotesi di dissoluzione della moneta unica. L’approccio inizialmente adottato dalla politica economica europea è stato concentrato sulla riduzione del rischio di default attraverso politiche di bilancio restrittive, puntando a condurre il saldo primario su livelli tali da garantire la sostenibilità dei conti pubblici. Ma questo non è bastato. E’ stata quindi sostenuta la tesi della difficoltà dei paesi della periferia europea ad ottenere una posizione esterna sostenibile in presenza di un tasso di crescita soddisfacente. Ciò comporterebbe l’esigenza di una svalutazione, quindi l’uscita di quei paesi dall’euro. Infine, la Bce, sposando l’interpretazione della temuta dissoluzione della moneta comune, ha deciso di intervenire, salvo condizionare i suoi interventi a impegni dei singoli paesi a rimuovere i problemi di sostenibilità del debito. 1 Questo però non sembra ancora sufficiente per risolvere il problema alla radice: gli acquisti di titoli di Stato da parte della Bce non cambiano i fondamentali delle economie della periferia, e lasciano invariati i livelli relativi della competitività dei paesi europei. La strategia della Bce ha senso solo se si riconosce che questi problemi sono quanto meno esagerati nella valutazione dei mercati - come misurata dagli spreads - per cui ciò che essa è chiamata a contrastare è essenzialmente un problema di liquidità generato da aspettative che rischiano di autorealizzarsi. E se invece i mercati avessero ragione? Le politiche dei paesi in crisi dovrebbero in tale caso, non volendo né l’uscita - dal né la dissoluzione - dell’euro, puntare sul miglioramento della posizione competitiva dell’industria nazionale attraverso moderazione salariale e sostegno alla crescita della produttività, più che attraverso una forzatura ulteriore della fase di consolidamento fiscale. Troppe alternative ricette significano il permanere di una situazione molto fragile e incerta: esattamente ciò che gli spreads ogni giorno misurano. Il paradosso è che si discute molto di ricette alternative, mancando ancora una diagnosi condivisa dei problemi da risolvere, che sia anzitutto basata sui fatti accaduti. C’è più gossip (cosa pensiamo di ciò che pensa la Cancelliera Merkel) che analisi! Ricordiamo dunque i tre fatti principali e poi valutiamo analisi e rimedi. 1) La crisi globale diventa crisi dell’Eurozona dopo il fallimento di Lehman Bros, il 15 settembre 2008. Fino ad allora, era crisi dei mutui subprime, ma a fine 2008 si alza lo spread sul debito pubblico della Grecia. La diagnosi dei mercati è chiara: se fallisce Lehman, chiunque può fallire; chi è il prossimo? 2) Nel 2009, si inizia quindi a discutere di debito pubblico “eccessivo”: quello che supera il 60% del PIL, deciso nel 1992 a Maastricht. A settembre, da Bruxelles esce la proposta della Commissione Barroso: con la dovuta gradualità, tutti i Paesi-membri dell’Eurozona dovranno tornare a 60% Debito/PIL. Parte così la cosiddetta crisi del debito sovrano: il debito è sostenibile se inferiore al 60% del PIL e tornare a rispettare quel limite richiede austerità e/o crescita. La diagnosi dei mercati è chiara: non c’è solo la crisi della Grecia; 2 tutti i paesi della periferia dell’Eurozona hanno uno o due problemi (debiti elevati; crescita insufficiente). Si alzano quindi tutti gli spreads. 3) La cura IMF applicata alla Grecia risulta aggravare i problemi che voleva curare. Da sempre, la ricetta dell’austerità promossa dall’IMF è efficace solo se si accompagna ad una svalutazione del cambio. Non a caso l’IMF non è mai stato usato per “salvare” un Paese membro di una unione monetaria. La sua ricetta, se estesa a Spagna e Italia provocherà anche in questi due Paesi una crisi di rigetto: l’intera Eurozona è a rischio. Siamo nel 2011 e gli spreads raggiungono livelli incompatibili con la sopravvivenza dell’Euro. Questi essendo i fatti che hanno caratterizzato l’interazione tra i mercati, i 17 Governi, la Commissione di Bruxelles, e l’azione della BCE, proviamo in quel che segue a rimettere ordine: quale ruolo possono svolgere gli spreads tra i rendimenti dei titoli emessi da Paesi membri di una unione monetaria? In ultima analisi, la sostenibilità del debito (di ogni debito!) e l’utilità di una unione monetaria (di ogni unione!) si misura nello stesso modo: con la maggiore crescita che ciò genera. Come è eccessivo ogni debito che redistribuisce, ma non fa aumentare il reddito; così è destinata a finire ogni unione di cui alcuni Paesi soltanto hanno i benefici netti. 2. Gli spreads per paesi con valute diverse Tradizionalmente, i differenziali nei livelli dei tassi d’interesse tra paesi sovrani riflettono soprattutto differenziali di inflazione attesa. I paesi con inflazione più elevata pagano tassi maggiori: è così oggi fra i principali paesi del mondo – Usa, Giappone, Regno Unito – e così era fino a metà degli anni novanta tra gli attuali paesi membri dell’Emu. La dimensione dei rispettivi debiti sovrani contava poco, anche perché un debito “eccessivo” è curabile con più inflazione (prima che con un default), e quindi l’inflazione attesa già tiene conto di eventuali debiti (anche privati, non solo pubblici) eccessivi. Non a caso il Trattato di Maastricht - nonostante l’assicurazione dall’insolvenza altrui derivante dalla no bail out clause - richiedeva una combinazione di deficit e debito pubblico virtuosa ai paesi membri dell’area euro, onde evitare 3 che una situazione di debito eccessivo minasse la credibilità della futura banca centrale europea, trasferendosi sulle aspettative d’inflazione della area euro. E non a caso, uno dei 5 parametri (non derogabili) di Maastricht era che lo spread dei tassi a lunga fosse inferiore ai 200 b.p. rispetto ai tassi dei paesi con minor inflazione. La ragione per cui una maggiore inflazione si associa a tassi d’interesse più elevati dipende dal fatto che le condizioni di arbitraggio sui mercati finanziari comportano che il rendimento atteso dell’investimento in titoli con lo stesso merito di credito debba eguagliarsi. Poiché una maggiore inflazione comporta una perdita di competitività per il paese, da essa consegue l’aspettativa di un deprezzamento del rispettivo tasso di cambio per recuperare la competitività perduta a seguito della maggiore inflazione. Il paese la cui valuta è attesa deprezzarsi dovrà quindi remunerare gli investitori con un maggiore rendimento dei titoli per compensarli delle perdite su cambio. Conta, in altri termini, l’effetto nel medio termine della diversa inflazione sull’andamento dei tassi di cambio. Il rischio di default in senso stretto in condizioni normali conta dunque ben poco, nella misura in cui problemi derivanti da eccesso di debito tendono a tradursi in monetizzazione di tale debito, e comportano maggiore inflazione. Il rischio di default del debito tende dunque a trasformasi in rischio di cambio-inflazione. Non è un caso che l’ultimo grande default, quello dell’Argentina, si associ al fatto che il paese aveva ridenominato il proprio debito in un’altra valuta, il dollaro, privandosi quindi della possibilità di svalutare il debito via cambio/inflazione. 3. Gli spreads prima dell’unione monetaria europea E’ possibile fornire una dimensione quantitativa della diversa rilevanza sul livello dello spread del rischio di cambio/inflazione rispetto ad un rischio di default. Allo scopo di isolare l’aspettativa di default, ovvero la componente di “rischio-paese”, si può escludere il differenziale fra i tassi swap a 10 anni dallo spread complessivo. I tassi swap annullano il rischio paese, mantenendo al loro interno solamente la componente di rischio di cambio. Disponiamo quindi in tal modo di 4 una misura del rischio di default nel periodo precedente l’avvio dell’euro. Come si osserva, prima dell’ingresso nell’Ume il rischio di default dell’Italia non ha mai superato i 150 punti; anche nelle fasi di tensione più acuta, quanto il nostro spread complessivo raggiungeva i 600 punti base lo spread remunerava in prevalenza la possibilità di un deprezzamento del cambio. Ancora più evidente il caso spagnolo, dove lo spread negli anni novanta viaggiava su livelli elevati, praticamente in assenza di rischio di default del debito. Fig 1 Lo spread Italia Germania 7 rischio di cambio 6 5 4 3 2 rischio di default 1 0 -1 91 94 97 00 03 spread sui titoli a 10 anni 5 06 09 12 Fig 2 Lo spread Spagna Germania 7 rischio di cambio 6 5 4 3 2 rischio di default 1 0 -1 91 94 97 00 03 06 09 12 spread sui titoli a 10 anni 4. Gli spreads con moneta comune In linea di principio, in un’unione monetaria un differenziale fra i tassi d’interesse non può rispecchiare la variazione attesa del tasso di cambio. Al ridursi di un differenziale di inflazione/svalutazione attesa può però aumentare un differenziale di rischio e questo rischio, a sua volta, nel caso di una unione incompleta può essere di default e/o di “uscita” (grazie alla quale un “di più d’inflazione” torna possibile). Nella prima fase dell’euro quindi si azzera il rischio di cambio, e anche la probabilità di default viene ritenuta dai mercati poco rilevante. Difatti, dal 1998 al 2008 i differenziali nei tassi d’interesse tra i 17 sono stati vicini a zero (come tra i 50 Stati Usa). Nella moneta unica lo spread continua a misurare la doppia eventualità di un default in senso tradizionale, ma anche il caso di un’uscita dall’euro. Il punto è che le due opzioni non divengono più distinguibili dai contratti sul mercato: difatti, un cambio di valuta equivale ad un mutamento 6 in senso peggiorativo delle condizioni contrattuali di rimborso del debito, e dunque ad un default in senso tecnico (cambia la valuta di denominazione del debito emesso). Resta il fatto però che lo spread nel complesso misura sia l’eventualità di un vero e proprio default, ovvero rimborso solo parziale del debito, che quella di un abbandono dell’euro. E’ solo dopo il fallimento di Lehman che si muove lo spread sulla Grecia ed è dal 2009 che gli spreads tornano ad aumentare, divenendo sempre più ampi e volatili, a riflettere: 3.1 Eccessivo debito pubblico, o totale (cioè deficit delle partite correnti). 3.2 Inflazione necessaria, cioè exit risk da perdita di competitività. 3.3 Fine dell’euro, cioè dissoluzione della moneta unica (e si torna agli anni novanta). 5. Troppo debito e poca crescita Nelle prime fasi della crisi ha prevalso una interpretazione legata alle ipotesi 3.1. In particolare, in presenza di un problema di sostenibilità dei conti pubblici da parte dei paesi della periferia europea, a prescindere dalla loro partecipazione all’euro, appare necessario mettere in campo un’azione di risanamento dei conti e, per il futuro, rafforzare ulteriormente i meccanismi di disciplina fiscale all’interno dell’area dell’euro. In quest’ottica, l’azione di risanamento comporta dei costi, legati alla contrazione della domanda, ma di carattere transitorio. Nonostante gli sforzi di risanamento messi in alto dai paesi in crisi, le aspettative sulla sostenibilità del debito non sono però migliorate molto. Al fine di qualificare questo punto è utile mostrare che nel confronto internazionale i paesi della periferia europea non paiono evidenziare situazioni di particolare gravità, ad eccezione del caso greco. Come si evince dalle due tavole allegate, che presentano i livelli del rapporto debito/Pil e del deficit/Pil per le maggiori economie dell’area euro, la fase di riduzione del deficit 7 in corso è significativa, con un miglioramento sostanziale dei saldi dei paesi della periferia rispetto ai valori del 2009. TABLE 1 DEFICIT PUBBLICO Dati in % del Pil 2007 2009 2011 2012 Grecia -6.8 -15.6 -9.2 -7.4 Portogallo -3.2 -10.2 -4.2 -4.6 Irlanda 0.1 -14.0 -13.0 -8.4 Spagna 1.9 -11.2 -8.5 -5.4 Italia -1.6 -5.4 -3.8 -1.7 Belgio -0.1 -5.7 -3.9 -2.8 Francia -2.7 -7.6 -5.2 -4.5 Olanda 0.2 -5.5 -4.6 -4.3 Austria -1.0 -4.2 -2.6 -2.9 Finlandia 5.3 -2.7 -0.9 -0.7 Germania 0.2 -3.2 -1.0 -0.9 Stime e previsioni Ocse per il 2012 TABLE 2 DEBITO PUBBLICO Dati in % del Pil 2007 2009 2011 2012 Grecia 115.4 134.0 170.0 168.0 Portogallo 75.4 92.9 117.6 124.3 Irlanda 28.6 26.3 74.2 81.8 Spagna 28.6 71.1 114.1 121.6 Italia 112.1 127.7 119.7 122.7 Belgio 87.9 99.9 102.3 103.1 Francia 73.0 91.2 100.1 105.5 Olanda 51.5 67.5 75.2 81.0 Austria 63.4 74.4 79.7 83.0 Finlandia 41.4 51.8 57.2 59.1 Germania 65.6 77.4 87.2 88.5 Stime e previsioni Ocse per il 2012 Non sorprende che con il passare del tempo ci si sia allontanati da una interpretazione focalizzata sull’eccesso di debito, dando un rilievo maggiore ad altri fattori, come la posizione competitiva delle economie europee, ovvero la 3.2. Al proposito, occorre rammentare che la sostenibilità del debito pubblico non dipende soltanto dal livello del deficit di un paese, ma 8 anche dalle condizioni di finanziamento del paese, e in particolare dal differenziale fra il tasso di crescita dell’economia e il tasso d’interesse reale pagato per finanziare il debito. In un contesto caratterizzato da crescita elevata e tassi d’interesse bassi, come erano gli anni duemila, gli equilibri di finanza pubblica potevano essere soddisfatti agevolmente anche senza livelli particolarmente bassi del deficit pubblico. Ora, un punto essenziale è proprio che nella prima fase dell’euro i paesi della periferia hanno goduto di condizioni estremamente favorevoli. Al fine, è utile guardare ai dati riportati nella tavola allegata, dove si mostra l’andamento di alcune variabili per i paesi dell’area euro nel periodo precedente la crisi. Senza entrare nella descrizione della situazione dei singoli paesi, è utile sottolineare come negli anni duemila i paesi della periferia si siano ritrovati con una combinazione particolarmente favorevole, ovvero con un tassi di crescita dell’economia superiore a quello dei tassi d’interesse. In alcuni casi sono stati conseguiti tassi di crescita elevati, come osservato sino al 2007 per Grecia, Irlanda e Spagna, ma non Italia e Portogallo. Per tutti e cinque i paesi della periferia europea prevalgono però tassi d’inflazione più elevati che in Germania da cui, dato che il livello dei tassi d’interesse nominali con spreads nulli è lo stesso, tassi d’interesse reali più bassi nei paesi della periferia. TABLE 3 ANDA MENTO DI ALCUNE VARIA BI LI NEL PER IODO 2 000 -200 8 PER LE EC ONOMIE DELL'AREA EURO Var % medie annue Ind ice dei p rez zi al consu mo 2.1 D eflator e d el Pil 1.7 Pil re ale 2.1 Pil r eale pr o-c apite 1.7 Tassi d' inte re sse r eali ° 2.5 Belgio Finla ndia 2.3 1.7 2.2 1.3 1.8 3.0 1.2 2.6 2.0 2.9 Francia Ge rmania 2.1 1.9 2.2 1.1 1.6 1.2 0.9 1.3 2.0 3.1 Greci a Irlanda 3.5 3.2 3.2 2.6 3.8 4.3 3.7 2.3 1.0 1.6 Ita lia Ola nda 2.5 2.4 2.6 2.5 0.8 2.0 0.3 1.6 1.6 1.7 Port ogal lo Spagna 3.0 3.3 2.9 3.9 1.0 3.1 0.5 1.6 1.3 0.3 Austria 9 In particolare, nella tavola seguente si mostra prima il differenziale tassi crescita registrato dai diversi paesi dell’area euro nel corso degli anni duemila. Si calcola quindi il livello del saldo primario che, a partire dalla combinazione tassi d’interesse – crescita, risulta adeguato a consentire la convergenza del rapporto debito / Pil verso il 60 per cento. Si confronta il livello del saldo primario mantenuto dai diversi paesi dell’area euro nel periodo con il livello coerente con l’obiettivo del 60 per cento per il rapporto debito/Pil. Nella quarta colonna della tavola si verifica quindi se il livello del saldo primario sia stato in linea con il valore necessario per la convergenza del rapporto debito/Pil: da essa si osserva come nel periodo in esame tutti i paesi dell’area euro abbiano mantenuto un saldo primario più che adeguato rispetto all’obiettivo del 60 per cento per il debito, fatta eccezione per il caso del Portogallo, per la Germania e per la Francia. Per gli altri paesi il livello del saldo primario appare più che adeguato per garantire la sostenibilità dei debito, tant’è che fra il 2000 e il 2007, ovvero negli anni prima della crisi, il rapporto debito Pil registra nella maggior parte dei casi una riduzione, significativa; particolarmente pronunciata la caduta del rapporto debito/Pil in Spagna. TABLE 4 EQU ILIBRI DI FIN ANZA PUBBLI CA DELLE ECONOM IE DELL'A REA EUR O N EL 20 00-2 008 Differ enz a tassi -cr esc ita Pr imario obie ttivo (60%) Sald o p rimar io str uttur al e de l per iodo Ade guate zz a de l pr imario V ar. de l rappor to d ebito/Pil (a) (b) (b -a) 2000-2007 Austria Belgio 0.4 0.3 0.2 0.2 1.0 4.3 0.7 4.1 -8.0 -25.7 Finla ndia Francia -0.1 0.4 0.0 0.3 3.9 -0.5 3.9 -0.8 -11.1 4.3 Ge rmania Greci a 1.9 -2.8 1.1 -1.7 0.5 -0.5 -0.6 1.2 4.9 -10.3 Irlanda Ita lia -2.7 0.7 -1.6 0.4 0.8 2.2 2.4 1.7 -11.2 -9.0 Ola nda Port ogal lo -0.3 0.4 -0.2 0.2 1.0 -1.3 1.2 -1.5 -11.9 9.1 Spagna -2.7 -1.6 Elaborazioni REF su dati Oc se e Imf 1.6 3.2 -24.2 Ora, guardando alle condizioni che determinano la sostenibilità dei conti pubblici nell’area dell’euro, appare evidente che negli ultimi anni si è modificato non solo, e non tanto, il livello del 10 saldo primario dei diversi paesi, ma soprattutto è cambiata la combinazione tassi d’interesse – crescita. Hanno iniziato ad affermarsi interpretazioni scettiche del processo di sviluppo seguito da queste economie negli anni duemila: ad esempio, vi è oggi consapevolezza della diffusa presenza di bolle sul mercato immobiliare, di un eccesso di indebitamento delle famiglie, di problemi di qualità degli impieghi per i settori bancari nazionali; questi problemi si propongono in misura e con combinazioni diverse a seconda dei paesi, ma è in genere prevalente la tesi per cui la crescita nei prossimi anni sarà inferiore a quella degli anni duemila, soprattutto nei paesi che avevano prima registrato la maggiore dinamica del prodotto (Grecia, Irlanda e Spagna). E’ stata quindi diffusamente sostenuta la tesi 3.2. In questo caso l’enfasi viene posta sulla difficoltà dei paesi della periferia ad ottenere una posizione esterna sostenibile in presenza di un tasso di crescita soddisfacente. Per illustrare tale andamento è possibile fare riferimento ai tre grafici allegati, che mostrano l’andamento del costo del lavoro, della produttività e del costo del lavoro per unità di prodotto delle maggiori economie dell’area dell’euro. Da essi si evince l’ampia perdita di competitività che i paesi della periferia europea hanno subito nel corso degli ultimi anni. Su questo aspetto è importante sottolineare come durante tutti gli anni duemila non si sia osservata una tendenza delle dinamiche salariali nei diversi paesi europei a rispecchiare i divari nei tassi di crescita della produttività del settore industriale. In conseguenza di ciò, all’interno dell’area euro i saggi di crescita del Clup industriale sono stati molto diversi fra i paesi, e questo ha poi comportato, data la valuta comune, ampie variazioni della posizione competitiva delle singole economie. In particolare, nel primo grafico si confronta l’andamento del costo del lavoro in Spagna e Italia con il percorso osservato in Germania e Francia. Si osserva chiaramente come nel primo decennio dell’euro fra le diverse economie si siano cumulati divari apprezzabili non solo per l’esuberanza mostrata da parte di alcune economie, ma anche per effetto della peculiare debolezza dei salari nel paese leader, che ha quindi migliorato la propria posizione competitiva in termini di livello del costo del lavoro. In conseguenza di ciò, l’evoluzione della posizione competitiva evidenzia per l’Italia una situazione molto sfavorevole. In particolare, la 11 posizione competitiva, misurata dall’andamento del Clup del manifatturiero, mostra un significativo peggioramento in Spagna e Italia rispetto alle altre economie dell’area dell’euro. Fig 3 Costo del lavoro Fra Ger Ita Spa 150 140 130 120 110 100 90 1998 2000 2002 2004 2006 Settore manifatturiero - Indice 1998 = 100 Elaborazioni REF Ricerche su dati Bls 12 2008 2010 Fig 4 Produttività del lavoro Fra Ger Ita Spa 150 140 130 120 110 100 90 1998 2000 2002 2004 2006 2008 2010 Settore manifatturiero - Indice 1998 = 100 Elaborazioni REF Ricerche su dati Bls Fig 5 Costo del lavoro per unità di prodotto Fra Ger Ita Spa 140 130 120 110 100 90 80 1998 2000 2002 2004 2006 Settore manifatturiero - Indice 1998 = 100 Elaborazioni REF. su dati Bls 13 2008 2010 Se si ritiene che i paesi della periferia abbiano cumulato un deficit di competitività nel corso degli ultimi anni, il ripristino della posizione competitiva può richiedere una fase di inflazione inferiore a quella tedesca per un lasso temporale esteso, ovvero una fase di protratta deflazione. Il processo di aggiustamento è quindi per sua natura lungo e con costi sostanziali. Il costo sociale e politico di una fase di riequilibrio basata sulla deflazione interna appare notevole, ragione per cui l’opzione di uscita dall’euro appare come un passaggio ineludibile. Ci si deve allora chiedere se una lettura dello spread come rischio di cambio possa esaurire la spiegazione. Valendo ciò, evidentemente, una rottura dell’euro rappresenterebbe un passaggio necessario per il superamento della crisi. Si arriva quindi alla tesi 3.3. Una opinione diffusa è che i livelli degli spreads nell’area euro siano troppo alti, ovvero sottostimino il merito di credito degli Stati membri. La Banca d’Italia a fine agosto, cioè con un livello dello spread a 450 per l’Italia, indicava un livello “corretto” di tale differenziale, vicino ai 200 punti. La differenza fra i due valori rifletterebbe una sorta di “contagio” della difficile situazione europea verso i singoli paesi membri. E’ la tesi della dissoluzione della moneta unica europea, e quindi della progressiva perdita della credibilità che i paesi membri hanno ottenuto entrando nell’euro. In altri termini, gli spreads elevati attuali non sarebbero coerenti con la prosecuzione della moneta unica, rappresentando per l’appunto l’aspettativa di dissoluzione dell’euro. In effetti, la Bce ha infine deciso per l’interpretazione 3.3, salvo condizionare i suoi interventi a impegni dei singoli paesi a rimuovere quanto avevano di specifico (e quindi 3.1 e 3.2). La Bce stessa, con la decisione di intervenire sul mercato obbligazionario europeo al fine di ridurre gli spreads ha di fatto sostenuto che, essendo gli spreads una indicazione di un rischio di dissoluzione dell'euro, ha il dovere di intervenire per ridurli. Uno dei messaggi ribaditi dalla Bce nel corso dell’estate è stato non a caso quello della “irreversibilità” dell’euro, segnalando che l’opzione di abbandono della moneta unica non è fra quelle che le istituzioni europee considerano come possibili per affrontare la crisi. 14 6. La Bce non basta Questo però non sembra sufficiente per risolvere il problema alla radice, sia perché gli acquisti di titoli di Stato da parte della Bce non cambiano i fondamentali delle economie della periferia, sia perché lasciano invariati i livelli relativi della competitività dei paesi europei. In queste condizioni, la politica economica deve esplicitamente porsi il problema di conseguire una combinazione tassi-crescita tale da riportare i conti pubblici lungo un sentiero sostenibile, o della ricomposizione dei divari di competitività, e della gestione dei differenziali nelle dinamiche dei prezzi/costi dei paesi europei nei prossimi anni. In effetti, la scelta della Bce di intervenire sui mercati per ridurre gli spreads sarebbe risolutiva se in Europa vi fosse soltanto un problema di liquidità, ma ove invece i problemi fossero di effettiva sostenibilità del debito o della posizione competitiva di qualche Paese, allora la Bce rischia anche di subire delle perdite in caso di default o di uscita di un paese dall’euro. La strategia Bce ha quindi senso solo nella direzione di contrastare il self-fulfilling pessimismo dei mercati, ma non può risolvere i problemi di cui ai punti 3.1 e 3.2. Ovviamente la strategia della Bce ha un senso solo se si riconosce che questi problemi sono quanto meno esagerati nella valutazione dei mercati, per come espressa dagli spreads. Ma se invece i mercati avessero ragione? Ove un miglioramento delle attese di crescita richiedesse un riequilibrio dei prezzi relativi, ovvero un’uscita dall’euro dei paesi della periferia, allora il percorso di consolidamento fiscale potrebbe non bastare, e comportare costi reali eccessivi e non sostenibili a lungo sia dal punto di vista politico che sociale. Le politiche dei paesi in crisi dovrebbero in tale caso, se non si intende seguire l’opzione di abbandono dell’euro, puntare sul miglioramento della posizione competitiva dell’industria nazionale attraverso moderazione salariale e sostegno alla crescita della produttività, più che attraverso una forzatura ulteriore della fase di consolidamento fiscale. Un percorso lungo e faticoso, ancora non ritenuto credibile dai mercati, come tuttora dimostrano gli elevati valori degli spreads. In conclusione, se da un lato gli spreads di questi ultimi anni sono incompatibili con la sopravvivenza di una unione monetaria (per di più incompleta, come è l’UME) e quindi 15 includono un rischio di uscita di alcuni Paesi (o di dissoluzione dell’intera area); è peraltro evidente che la discontinuità post-2008 non è solo una poco attendibile svolta nella valutazione da parte dei mercati dei fondamentali di alcuni Paesi. Porre rimedio alla fragilità della costruzione dell’Euro e garantire che tutti i paesi membri ne abbiano i benefici, e non solo i costi, è importante ancor più che ridurre effetti di “contagio” dovuti all’essere… membri della stessa Unione, 16