Il tramonto del sole rosso

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Il tramonto del sole rosso
by Daigoro
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Il tramonto del sole rosso
Capitolo Primo: Il sonno degli astanti.
«B
rindate miei ospiti! Brindate!»
Il conte stappò una delle sue botti più rinomate, ed in tutto il cortile
esterno del castello si sparsero grida e plausi di consenso. Le facce gioviali
delle cortigiane sorridevano a quelle fiere dei generali e dei nobili, sempre pronti ad offrir
loro qualche bicchiere accompagnato da una ghirlanda di complimenti. Le sonate dei
musicanti di corte riempivano l’intero giardino, riparato in quell’occasione da uno spesso
tendone di velluto arancio scuro ed illuminato da una quantità impressionante di bracieri
scoppiettanti.
L’atmosfera era allegra e spensierata; chi rideva, chi beveva, chi raccontava barzellette e
buffe storie, chi era talmente ubriaco da suscitare l’ilarità anche di coloro che erano più
seri.
Due baroni invitarono un paio di cortigiane a lanciarsi in una danza sfrenata. Prima una
quadriglia, poi un’antica ballata, ed in poco tempo tutti quanti li imitarono, colmando il
piccolo giardino sotto il tendone di grida gioiose e giravolte d’abiti lussuosi, di sorrisi
maliziosi e sguardi d’intesa.
Ma ad un tratto qualcuno entrò, e scostò i drappi d’ingresso, facendo per un attimo entrare
quella luce.
L’aria della festa si riempì in un secondo di uno strano sentore. Tutti zittirono. Gli sguardi
fissi al nuovo entrato. Solamente la banda continuò per qualche istante, ma alla fine si
arrese e fece anche lei tacere gli strumenti. Silenzio.
Fu come quando si manca la presa ad un bicchiere di cristallo che sta scivolando dal
tavolo; erano tutti immobili, con il fiato sospeso.
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Il banditore di corte cercò dentro di sé il coraggio per avvicinarsi allo sconosciuto
cavaliere.
Prima di rivolgergli la parola, scrutò la possente corazza nera di cui era vestito. L’elmo
ricordava una testa di drago e dalle spalle uscivano numerosi uncini ricurvi verso l’alto.
Sul petto era impressa un’effige sconosciuta, due spade che si incrociavano sotto una falce
di luna. Dal fianco sinistro, in contrasto con il resto dell’armatura, pendeva lo spadone più
minaccioso che avesse mai visto, una lunga e stretta lama violacea, fusa in un’elsa dorata e
con nel pomello due minuscole ali d’angelo.
«Scusate messere…» balbettò il banditore, «questa è una festa privata. Ma se per caso
avete l’invito, io…»
«Tacete!» lo zittì il cavaliere da sotto l’elmo.
«Mi osservo intorno e cosa vedo? Saltimbanchi, giovani madamigelle, nobili altezzosi.
Putridi e meschini, vermi che fuggono, si nascondono in questo antro di fango e melma!»
«Badate alle vostra lingua, messere!» esplose uno dei nobili in mezzo alla folla, facendosi
avanti;
«Non vorrei vedermi costretto a strapparvela dalla bocca!»
Il cavaliere scoppiò in una risata agghiacciante.
«Oh, si… oh, si… siete risoluto… lo siete tutti quanti, non lo metto in dubbio. Ammirevole
al pari della vostra codardia, signori…»
E lentamente sguainò la spada.
Il cavaliere puntò lo stivale sul petto dell’uomo ed estrasse la lama dalle viscere del
malcapitato.
Si voltò indietro.
Della quasi trentina di festanti non era rimasto in piedi nessuno. Tutti morti.
Immerso nel silenzio ancor più totale, si tolse l’elmo. Una cascata di capelli rossicci gli
cadde sulle spalle, incorniciandone il viso pallido ed i freddi occhi di zaffiro.
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Un grido disumano gli sgorgò dalla gola; gettò con furia la spada a terra, sputò ed
imprecò, imprecò e sputò sino a che l’ultima goccia di saliva lasciò la bocca
completamente arida.
Gli venne una incontenibile voglia di piangere, non per tristezza, non per gioia; ma alla
fine si ricordò che non era più in grado di versare lacrime.
Si chinò a raccogliere l’arma dalla soffice erba intrisa di sangue. La fatica della lotta si fece
sentire tutta in una volta.
Si diresse a passo malfermo verso l’uscita, scavalcando a stento i cadaveri da lui stesso
sparsi a terra. Scostò i drappi d’ingresso e riemerse all’aperto.
Ogni cosa era ammantata di luce strana, impalpabile eppure soffocante, la stessa che aveva
fatto sussultare i cortigiani.
Superando l’ampio arco d’ingresso al palazzo, il cavaliere ritornò alla vista di colui che
produceva quella amara atmosfera.
Un sole enorme, tra il rosso ed il bruno, almeno dieci volte più grande di quello normale,
si stagliava basso oltre la pianura, nel cielo di occidente. Un silenzioso disco scarlatto quasi
a picco sull’orizzonte, ma ancora abbastanza alto da farsi ammirare nella sua interezza.
Monito incontestabile di colpe sopite.
«Sei soddisfatto, Seiloth?»
Il cavaliere nero si fermò di colpo, gli occhi sbarrati. Quella voce, l’unica a farlo ancora
trasalire.
Si voltò di scatto e scoprì il suo interlocutore che lo fissava con sguardo grave, appoggiato
ad una delle colonne d’ingresso. Era riuscito a non farsi notare. Thirdaen era un maestro in
questo genere di cose.
«La tua lama è sporca di sangue, Seiloth» proferì solenne il nuovo cavaliere, muovendosi
abilmente nella leggera armatura dorata;
«La vendetta ti ha corroso.»
«L’ho lasciata fare, Thirdaen. Ciò che ho fatto andava fatto.»
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«Questo è quello che credi» esclamò placidamente il cavaliere dorato, «come puoi pensare
di essere migliore di coloro che hai ucciso? Si nascondevano dal tramonto eterno. Cosa che
anche tu stai facendo, rifugiandoti nell’odio.»
«Queste terre sono condannate, così come coloro che vi camminano sopra. Io sto solo
accelerando i tempi…»
«No, tu stai solo inseguendo la tua rabbia» sbottò Thirdaen, volgendo le spalle al suo
vecchio compagno d’arme.
«Redimiti, Seiloth» sospirò, «Presto cavalcherò verso ovest, oltre le pianure di Usser, e li
prenderò una nave per le lande disperse. Saremo in molti, spero. La bianca torre di
Zerbanthia sarà il nostro obiettivo. Annulleremo l’evocazione del Drago Kosmo, il
divoratore di stelle, prima che il sole muoia e lasci spazio alla notte eterna. Poco tempo ci
separa da questo triste destino…»
Thirdaen ritornò subito occhi negli occhi con l’amico; «te ne prego, pensaci. Potremmo
aver bisogno di te…»
Infine il cavaliere dorato sparì dietro le mura, ricomparendo poco dopo in sella al suo
bianco destriero, cavalcando a rotta di collo verso ovest.
Seiloth rimase solo con i suoi pensieri, circondato dalla non-oscurità che da quasi quindici
anni stringeva le terre d’Incantia. Notte e giorno erano oramai parole dal significato poco
chiaro per quella gente, abituata ad essere immersa nel vermiglio crepuscolo a qualsiasi
ora.
Il cavaliere nero ritornò in sé come da un interminabile sogno; fece un lungo sospiro e
chiamò il suo cavallo.
Montò in sella e, giustificandosi di non avere un motivo preciso, prese con calma il trotto
verso ovest, il viso ben rivolto alla luce purpurea del sole morente.
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Capitolo Secondo: Ritorno al Passato, uno: Il Bosco del Gran Maestro.
S
eiloth si gettò a terra, rotolò sulla schiena e fu di nuovo in piedi.
L’ultimo fendente l’aveva mancato di un soffio. Si guardò intorno; a destra, a
sinistra. Nessuno.
Il suo avversario si era di nuovo nascosto nel folto.
Tese le orecchie. Sapeva che ben presto egli sarebbe spuntato nel bel mezzo della radura,
dalla direzione che meno ci si aspettava.
Scrutò ancora intorno a lui. Alberi. Solamente dannatissimi alberi.
Ad un tratto un soffio di vento, e qualcosa di pesante che cadde dall’alto.
L’ultima cosa che Seiloth riconobbe fu un tonfo sordo che gli rimbombava nelle orecchie.
Quando riaprì gli occhi si ritrovò lungo disteso a terra, il piccolo spadino puntato alla gola.
«Ehi Sil, ti ho battuto un’altra volta!» rise il biondo ragazzino che lo teneva sotto mira.
Seiloth scostò la lama con un gesto di stizza. Sbuffando, si rimise in piedi.
«Piccolo Sil dovrebbe imparare che occhi non sono unica risorsa per vedere…»
La cristallina voce arrivò placida dal fondo della radura; ai piedi di una enorme quercia,
un elfo dalla tunica di perla era seduto a gambe conserte, immerso in profonda
meditazione.
Quando sentirono le parole del loro maestro, Seiloth e Thirdaen poggiarono a terra le
minuscole spade ed andarono a raggiungerlo sul limitare della radura. Fecero un
profondo inchino e si sedettero a loro volta con le gambe conserte, come bambini intenti
ad ascoltare con attenzione le eroiche gesta di un anziano cavaliere.
«Piccolo Sil, ancora una volta piccolo Den ti ha sconfitto. Tu dire perchè?»
Seiloth non sopportava questa parte delle lezioni. Sembrava che fossero fatte solamente
per ingigantire la già grande umiliazione della sua sconfitta, un supplizio oltre la tortura.
Ma in fondo era anche consapevole che dal suo maestro c’era solo da imparare. Così prese
un profondo respiro ed ingoiò gli amari brandelli dell’orgoglio infranto.
«Non ho… non mi sono concentrato abbastanza.»
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Thirdaen gli rifilò un leggero colpo con il gomito, quasi a voler firmare la sua totale e
completa vittoria.
«Schernire avversario è male, piccolo Den. Quante volte io dire? Rispetto.» infine l’elfo
sorrise e li abbracciò con lo sguardo; «ora andate in villaggio oltre foresta. Raccogliete
notizie, e portate mia spada e armatura da buon Ardenhor il fabbro. Loro ingrassatura
necessaria.»
I due ragazzini si alzarono e presero la via per il villaggio, ma poco prima di andare il
Gran Maestro sfiorò la spalla di Seiloth, prendendolo in disparte.
«Piccolo Sil… non abbatterti. Tu grandi potenzialità, io dire sempre. Tu imparare ad
ascoltare vento, e foglie, e terra. Quando tu imparare a sentire vento su spada, foglie su
spada, terra su spada, tu essere spada. Non esistere più tu, né tua spada, ma solo grande
guerriero.»
Seiloth era abituato agli enigmi didattici del suo maestro; sorrise, si inchinò e corse a
raggiungere Thirdaen.
«Cosa ti ha detto il Gran Maestro?» domandò ansioso l’amichetto.
«Che la prossima volta non avrai scampo, caro il mio Den.»
Il sole era molto caldo quel pomeriggio, e non c’era più il fitto fogliame a proteggere la
pelle dei ragazzi dagli impietosi raggi del mezzodì.
Ma se nel cielo il sole splendeva, altrettanto non si poteva dire dell’aria che tirava nel
villaggio.
Poche erano le orme disegnate nel terreno, segno che il viavai dal paese era piuttosto rado
negli ultimi tempi. La terra delle strade era inaridita, la polvere consumava il legno delle
tozze case ai lati della via maestra; le imposte alle finestre erano socchiuse, le porte
sbarrate.
La caccia ai praticanti della magia si perpetrava da quasi sette anni, ed oramai incombeva
il tragico epilogo. Gli ultimi maghi e stregoni si nascondevano furtivi nei vicoli bui e nelle
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foreste silenziose. Gli elfi, notoriamente legati alla magia, avevano optato per la via
dell’esilio, lontano, nei boschi a oriente.
Stando alle notizie fornite da Ardenhor il fabbro, in quel periodo il villaggio erano messo a
ferro e fuoco da gran squadre di soldati, disperatamente alla ricerca degli ultimi quanto
pericolosi dissidenti. Altro avvenimento alquanto strano fu l’arrivo nel villaggio, pochi
giorni prima, dell’intera corte del castello di Hopeburn, capoluogo della provincia reale di
Incantia; si disse per compensare con moneta sonante laddove le violenze dell’esercito non
erano in grado di arrivare.
I due ragazzi lasciarono spada e armatura presso il fabbro, lo ringraziarono e ripresero la
strada per la foresta.
«Tu credi che se la prenderanno con il Gran Maestro?» domandò Seiloth, senza poter
celare una punta di preoccupazione.
«Non so dirtelo» sospirò Thirdaen, «spero di no. Ma conosciamo entrambi la gente del
villaggio, anche se sanno della presenza del Maestro nella foresta, non ne parleranno mai a
quelli del castello. E poi rammenta che nemmeno un esercito intero basterebbe a
catturarlo…»
“La tragedia, se ostinatamente evitata o inconsciamente anelata, alla fine sopraggiunge”.
Il Gran Maestro fissò tristemente negli occhi i suoi due piccoli allievi, sotto il pallore di una
torbida volta stellata.
I cani latravano, guaivano, spinti dalla mano impietosa di chi li conduceva. E torce. Molte
torce, le cui fiamme vibranti lampeggiavano tra le buie fronde della foresta.
«Presto Maestro, dobbiamo abbandonare la radura» gridò Seiloth, ma l’elfo lo scrutò con
sguardo amorevole.
«Io non lascerò alberi. Continuerò a guardare stelle, stanotte. Prendete le vostre cose, e
recatevi dal buon Ardenhor. Suoi letti più comodi di tappeto di foglie…»
Così dicendo sorrise un’ultima volta, e con una impronunciabile serie di parole, portò
delicatamente il palmo in avanti.
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«Ogni risposta è nelle stelle» sospirò l’elfo, prima che il suo incantesimo spingesse i
ragazzi fuori dalla foresta.
Seiloth, ritrovandosi tutto ad un tratto lontano dal bosco, si sentì franare la terra da sotto i
piedi, ogni certezza scivolare come sabbia tra le dita. Cadde in ginocchio, singhiozzando.
«Perché… perché si è lasciato catturare? Per quale motivo Thirdaen?»
Thirdaen fissò l’amico con l’espressione di chi si è perso in un oscuro deserto.
«Il Maestro sa, Seiloth. Lui sa sempre. Ecco perché ci ha portato a far ingrassare la spada e
l’armatura. Egli conosceva la venuta di questo triste giorno.»
Il giorno seguente, nella piazza cittadina, i cortigiani del castello di Hopeburn si
prodigarono in fretta per l’allestimento di una pira.
Lo spiazzo si riempì in fretta, verso mezzogiorno, ma le facce truci non erano certo più di
quelle rattristate.
In alto, il cielo cantava la sua vergogna con una sinfonia di nubi plumbee.
«In codesto giorno» cominciò un macilento banditore da sopra il palco della pira, «in
codesto giorno, secondo la legge vigente in questa provincia, stipulata in assemblea tra
Sire Roster IV, re d’Incantia, con Sua Signoria Lord Conte Maugrim Fatthole» ed in quel
momento, dal mezzo del gruppo dei castellani, si levò un ometto grassoccio, a salutare il
pubblico con fare da divo, «per mezzo della quale ogni praticante e conoscente delle
tecniche di Magia, di qualsiasi tipo e per qualsiasi propensione, sia condannato alla
purificazione per mezzo del fuoco, si procede all’esecuzione di…»
Il banditore ebbe un sussulto. Nessuno lo aveva informato del nome del condannato.
«Oh non importa, che diamine!» sbottò il lord conte, «sia fatta giustizia, e sia fatta in fretta!
Me ne voglio ritornare al più presto al castello. Questa gente puzza terribilmente» confidò
in un sussurro al ciambellano alla sua destra.
Irriso e schernito, il Gran Maestro venne fatto salire e legare alla pira. Nessun cenno di
reazione.
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Seiloth e Thirdaen, occultati in mezzo alla folla da lunghi mantelli, ebbero un fremito. Ma
prontamente Ardenhor li fermò, con sguardo severo.
«Non fate pazzie. Bruceranno anche voi altrimenti. E questa è l’ultima cosa che Lui
vorrebbe.»
Seiloth nascose le lacrime e strinse i pugni, ferendosi le palme con le unghie.
«Bruciatelo, bruciatelo!» gridavano i cortigiani.
«Usava la magia! Colpevole!»
«Attirava la gente nella foresta con la sua magia!»
«Colpevole!»
«Ha rapito due bambini, ed ucciso i suoi genitori! E poi li ha uccisi prima noi che lo
catturassimo!»
«Colpevole!»
Lentamente, le fascine iniziarono a crepitare.
Non un grido, non un lamento. Il corpo dell’elfo si consumò come fosse cera al sole. In
silenzio.
Sottili gocce di pioggia caddero quando tutto oramai era finito. La piazza si svuotò, i
cortigiani ritornarono al castello quello stesso pomeriggio. Solamente due piccoli mantelli
restarono per ore e ore ad inzupparsi sotto il temporale, sino a quando la pira fu smontata
e le ceneri di un anonimo elfo sparse nel fango.
Una settimana era passata dall’infausto giorno, e Thirdaen percorse il corridoio verso la
camera di Seiloth. Questi, sentendo che l’amico faceva volutamente scricchiolare il
pavimento di legno, si precipitò fuori. Non si erano più parlati da quel giorno.
«Che vuoi?»
«Non attaccarmi in questo modo, te ne prego» sospirò Thirdaen, «non sei solo tu ad essere
triste ed adirato per ciò che è successo. Tuttavia ti devo mettere in guardia.»
«E da che cosa?» sbottò acidamente Seiloth.
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«Questa notte un’ombra ha bussato alla mia finestra. Ella è menzognera, non prestarvi
ascolto, poiché essa ti vorrà condurre su strade che il nostro Maestro non approverebbe.»
Seiloth rispose con il silenzio. Voltò le spalle e se ne tornò nella sua stanza.
Thirdaen vide il dorso dell’amico scomparire nell’oscurità.
La notte calò mesta, quella sera. Una fitta foschia ammantava la terra, i lupi ululavano nei
boschi e le lanterne tremavano al pensiero di potersi spegnere.
Seiloth spalancò gli occhi di colpo. La stanza era improvvisamente diventata piccolissima,
opprimente. Il respiro era pesante. Sentì le membra fremere. C’era qualcuno.
In un angolo nero, due iridi di ghiaccio lo fissavano, gelide gemme bluastre nell’oscurità.
«Chi sei?» balbettò Seiloth, mettendosi a sedere.
«Io sono l’Ombra.»
«Mi hanno parlato di te…» esclamò il ragazzo, tentando in ogni modo di nascondere una
certa inquietudine;
«Che cosa vuoi?»
«Desidero la tua lealtà, ed il tuo cuore parla per te. Ti mostrerò sentieri che il tuo
precedente Maestro nemmeno osava immaginare. L’unica strada per la tua rivalsa.»
«Mere parole non sono certo una buona moneta di scambio per la mia convinzione»
sussurrò Seiloth, spaventato ma terribilmente attratto.
L’ombra uscì dal suo angolo. Un elfo. Ma scuri gli occhi, i capelli, e la pelle. Ma
soprattutto, scuro nell’anima. Leggera era la veste di seta nera, sulla quale era impresso un
marchio, un emblema. Due spade che s’incrociavano sotto una falce di luna. Elfi oscuri del
clan di Nerobosco. Temuti, come quasi nessuno.
Seiloth non potè che sentirsi scosso da un fremito, che in seguito si accorse fu di amara
soddisfazione.
«E sia. Verrò con voi. Ma prima permettetemi di prendere un oggetto…»
Il dì seguente Thirdaen si svegliò con uno strano sentore.
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Si precipitò in camera di Seiloth, trovandola fredda, con il letto sfatto, e vuota. La finestra,
spalancata.
«Oh sei qui, Thirdaen» esclamò Ardenhor il fabbro, andandogli incontro;
«Stanotte, qualcuno mi ha derubato. La spada del tuo maestro, quella violacea con le ali
sul pomello. L’avevo ingrassata giusto la settimana scorsa. Ehi, ma dov’è Seiloth?»
Thirdaen non rispose nemmeno. Rimase a fissare il letto del suo amico, mentre la neve gli
cadeva nel cuore. Un’altra volta.
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