Alias la Tenebrosa

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Alias la Tenebrosa
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Alias la Tenebrosa
Ambientazione: D&D – Forgotten Realms
Questa è la storia della giovane Alandhra, ora conosciuta come Alias la Tenebrosa, figlia di
Bedésas Desbrys e Yulana Olam.
Anni fa, nel Calimshan, molto a sud della Costa della Spada, la vita scorreva frenetica come
sempre. Il più anziano degli elfi viventi in tutta Faerun non ricorda tempi in cui questo regno
desertico conobbe tempi pacifici.
La capitale del regno, Calimport, era lo specchio del regno: città enorme, popolosa, in cui la
facevano da padroni pochi mercanti su una popolazione di gente povera, ignorante e disperata.
Come è facile intuire, questa condizione favoriva l'esercizio del controllo sulle masse; la povertà
genera fame, e i mercanti stavano attenti a elargire al popolo quel tanto che basta per
sopravvivere. L'ignoranza delle persone è la forza dei governanti, in ogni tempo gli uomini hanno
sempre ricorso a questo tipo di controllo. La disperazione infiacchisce gli animi, la rabbia
diventa rassegnazione, paura, silenzio.
Ci sono stati svariate volte, nel corso dei secoli, tentativi di ribellione, ma il potere economico
delle corporazioni di mercanti è sempre stato in grado di comprare ogni cosa...fedeltà, ideali,
eserciti.
In questo scenario i templi dei sacerdoti avevano ben poche chances di reclutare fedeli disposti
ad ascoltare le parole delle divinità; perlopiù gli edifici sacri venivano visitati nottetempo da
ladri e tagliagole in cerca di fortuna, o perlomeno di qualche cosa che permettesse loro di
sfamarsi anche il giorno successivo.
L'unica eccezione, l'unico raggio di sole in tutta Calimport era il tempio di Lathander, il Signore
del Mattino, che si ergeva nel quartiere ovest della città, su una piccola altura che meglio
metteva in risalto i suoi marmi bianchi... e da un punto di vista strategico lo rendeva
sicuramente meglio difendibile.
Il capo spirituale e militare del tempio era Bedésas Desbrys, uomo imponente ma di
temperamento mite, dallo sguardo gentile e caritatevole. Sua moglie, Yulana Olam, era anche il
suo braccio destro, una chierica riverita e conosciuta in tutta la Costa della Spada, avendo
abbandonato Waterdeep per seguire la sua strada nella assai meno sicura Calimport.
E' in una delle stanze interne dell'edificio sacro che nacque Alandhra Desbrys, una bambina dalla
pelle rosea e due occhi neri e profondi.
L'infanzia di Alandhra fu felice e relativamente tranquilla, considerando la città in cui viveva. Il
clero di Lathander era danaroso, riceveva i fondi e il sostegno delle chiese del nord. Nel tempio
non mancava niente, acqua, cibo, beni di ogni genere erano sempre disponibili.
Alandhra veniva seguita già a quattro anni da Yulana, che le insegnò per prima cosa il Canto del
Mattino, l'inno di lode a Lathander. La piccola sembrava avviata sulla strada del clericato.
A otto anni la giovane Alandhra sapeva recitare tutti i versetti del Libro, e suo padre, Bedésdas,
tra le sonore proteste di Yulana, decise che era abbastanza matura per iniziare con i fondamenti
dell'arte della guerra.
Alhandra mai avrebbe potuto immaginare che il padre con quella decisione le avrebbe salvato la
vita.
In effetti la decisione di Bedésas non era casuale, quella ragazzina aveva qualcosa di speciale.
L'aveva osservata giocare con gli altri ragazzi della sua età, e una volta l'aveva vista atterrare un
ragazzo presuntuoso e arrogante, di parecchi anni più grande di lui, con uno schiaffo in pieno
volto... il poveretto ne portò i segni per diversi giorni, e la sua autostima calò di parecchio.
Per avere solo otto anni dimostrava una agilità stupefacente, poteva competere in agilità con i
pochi bambini elfi che vivevano nel tempio.
Era intelligente, parlava e ragionava come un'adulta, la sua lingua impertinente le costarono non
pochi rimbrotti da parte dei suoi tutori e qualche volta qualche punizione da parte di Yulana,
che un giorno si vide costretta a farla restare inginocchiata sui ceci per una sera intera, a causa
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di una frase irriguardosa rivolta a un sacerdote calvo che non le stava particolarmente
simpatico.
Alhandra aveva anche una fibra forte, come il padre. Mai una malattia in otto anni, mai un
raffreddore. Sembrava che la mano degli dèi fosse posata sul suo capo. E forse era proprio così.
Ma la cosa che più stupefaceva Bedèsdas era la forza assurda che sua figlia dimostrava di
possedere. Non era normale. Aveva visto raramente un ragazzo sollevare certi pesi, o sollevare
sopra la testa i suoi compagni di gioco come se nulla fosse... figuriamoci una bambina!
Alhandra sembrava proprio toccata dalla mano di Lathander, pensava Bedèsdas, e secondo lui
sarebbe diventata la migliore chierica di Lathander di tutto Faerun, o forse la migliore paladina,
chi poteva saperlo.
Ad ogni modo Alhandra avrebbe dovuto imparare bene il suo mestiere, e anche in fretta, perchè
a Bedèsdas erano giunte voci di una corporazione che non vedeva di buon occhio le attività del
tempio. Non aveva ancora identificato la natura del nemico, ma sapere che c'era era sufficiente.
Si profilava una guerra silenziosa ma inesorabile, tipica delle guerre tra gilde, in cui il campo di
battaglia sono i vicoli scuri dei quartieri più malfamati, e i morti si contano alla spicciolata,
giorno dopo giorno.
Passarono per Alhandra due anni tra addestramenti militari ed interminabili lezioni di filosofia e
retorica, tra parate e affondi e studio della parola di Lathander. La vita scorreva veloce al
tempio, il nemico invisibile si era fatto vivo poche volte, il tempio pareva alla giovane
inattacabile, e soprattutto invincibile, con il suo esercito di chierici votati al bene.
Il bene. Alhandra si era fatta un'idea tutta sua del bene. Guerrieri con armature di luce, bianche
creature alate con spade di fuoco, poteri celestiali per distruggere il nemico...queste cose
sognavano i suoi compagni di gioco.
Alhandra no. Alhandra possedeva uno spirito caritatevole, per lei il bene era perdono,
misericordia, rispetto dei vinti.
Il suo anziano tutore, Karim il Vecchio, le aveva rivelato che le battaglie combattute in nome del
bene si erano sempre rivelate disastrose, perché i migliori intenti tendono sempre a perdersi
durante una guerra, ma pochi erano quelli pronti a dargli ascolto. "Vecchio pazzo", solevano
chiamarlo i meno rispettosi... ma Alhandra non la pensava così, era affascinata dalle sue parole
sagge, sapeva che Karim in fondo aveva ragione.
"Cos'è il bene?" si chiedeva Alhandra. "Le guerre, anche se in nome di un nobile ideale, possono
definirsi giuste?", "E' bene uccidere un nemico, per quanto malvagio possa essere? Togliere la
vita ad un altro essere vivente... rubargli la cosa più preziosa che esista, come potrebbe essere
considerato un'opera buona?"
Questi quesiti laceravano la coscienza di Alhandra, che da un lato non poteva ignorare che i suoi
stessi genitori e tutti i chierici adulti del tempio di Lathander avevano più volte combattuto e
ucciso altri esseri umani, ma dall'altro veniva illuminata costantemente dal pensiero pio del
vecchio Karim.
Un giorno, poi, accadde. Un attacco organizzato, rapido, efficace. Il tempio venne attaccato su
tutti i fronti, circondato nella notte, colpito da est e da ovest, da nord e da sud, dal cielo e dal
sottosuolo.
In pochi attimi l'Inferno scese a Calimport, e si manifestò su una piccola altura del quartiere
ovest della città.
Alhandra visse tutto questo come in un sogno, un incubo dal quale non si può scappare, in incubo
dal quale, forse, non si è ancora risvegliata.
Li vide sciamare per i corridoi del tempio, avvolti in mantelli scuri, forse neri, forse di un altro
colore... c'era fiamme, gli occhi lacrimavano, la vista era offuscata dal fumo e dalla paura, non
poteva vedere bene.
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Vide il padre combattere nel pronao del tempio, lo guardò accucciata, avvolta nella sua
vestaglia da notte, da dietro un grande vaso. Le sue gambe erano bloccate dalla paura.
Vide Bedèsdas combattere fieramente, lo vide eseguire quei passi e quei fendenti che tante
volte avevano provato insieme.
Sentì la madre, che, dall'altra parte del corridoio, intonava i suoi incantesimi.
Li vide riunirsi e combattere spalla a spalla, difendendosi e mietendo nemici, tanto numerosi da
sembrare che non finissero mai.
Infine, li vide morire.
Il mondo crollò addosso ad Alhandra, gettò un urlo, la videro... ma non importava, niente aveva
importanza... stava per morire anche lei, l'incubo finalmente sarebbe finito.
Una figura la stava per raggiungere, nessuno avrebbe potuto aiutarla... il tempio colto nel
torpore delle ore notturne era caduto inesorabilmente, tutto era perduto.
Quando una lama, estratta da chissà dove dalla figura nera, la stava per colpire, tutto il
corridoio venne investito da una luce accecante. L'attacco si infranse contro una barriera
invisibile, e Alhandra vide al centro di quella luce una figura familiare, e una voce calma le
parlò: "Corri, bambina mia. Nasconditi, e porta nel cuore le parole di un povero Vecchio..."
Il vecchio sorrise, un sorriso dolce. Sapeva che non l'avrebbe più rivisto.
E forse le parole del vecchio erano incantate, ma Alhandra si accorse di non avere più le gambe
paralizzate dalla paura, e per un momento i suoi occhi non videro i genitori riversi per terra, ma
una via di fuga proprio alle spalle del vecchio.
Alhandra corse, corse veloce come non aveva mai fatto, leggera come un respiro, silenziosa
come un felino, invisibile come il vento.
Quando si fermò il suo petto stava per scoppiare... improvvisamente i suoi passi ritornarono
pesanti, rumorosi, e di nuovo si sentì estremamente impaurita, sperduta, sola.
Si, era sola come non lo era mai stata in vita sua. Le vie di Calimport erano calde e affollate
anche nelle ore notturne, e Alhandra sapeva di doversi nascondere, di dover cambiare il proprio
aspetto al più presto per non poter essere riconosciuta dagli assassini dei genitori.
Fortuna volle che quella notte il fato la fece incontrare con Saref, un ragazzino sporco e
cencioso, come tanti nei vicoli delle città Calamshite. Il giovane, forse attratto dalle sembianze
della coetanea, si offrì di dividere un tozzo di pane con Alhandra, le fornì degli abiti (rubandoli
dai panni stesi di una vecchia casa), prendendola in giro sull'eleganza della sua camicia da notte.
Saref era un tipo spiccio, di poche parole, dalla mano svelta e dall'occhio vigile. Le insegnò a
camminare di ombra in ombra, e a procurarsi da mangiare a spese di mercanti distratti o di
passanti con la testa tra le nuvole.
Ad Alhandra non piaceva questo modo di fare, ma divenne un'abitudine dettata dalla necessità di
sopravvivere. Sopravvivere per vendicarsi.
Nelle notti che passava all'aperto insieme a Saref non perdeva occasione per cercare
informazioni o captare possibili voci sull'attacco al tempio.
Voci di una corporazione di assassini e tagliagole, di vampiri e di djinn malvagi arrivarono alle
sue orecchie, ma nessuna di queste ipotesi era da prendere per oro colato.
Alcune volte non dormiva, ripensando agli insegnamenti di Karim il Vecchio, alla loro vanezza,
alla loro incosistenza.
Ogni giorno di più rinnegava la parola di Lathander, che aveva portato i suoi genitori alla rovina.
Ogni notte si convinceva sempre di più che il bene non era adatto a combattere il male, per sua
stessa definizione.
La definizione di "bene" che era arrivata a darsi era molto vicina a quella di Karim, misericordia,
gentilezza, purezza d'animo. Solo utilizzando queste armi, il bene avrebbe potuto vincere la sua
guerra eterna contro il male.
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Ma tutto ciò era utopia, solo un sognatore poteva credere di ottenere qualcosa abbracciando
questa filosofia...forse in una guerra lunga diecimila anni, ma Alhandra sapeva di non avere
tutto questo tempo a disposizione.
Il bene inteso come lo vedevano Bedésdas e Yulana era altresì falso e ingannevole. Dove stava la
bontà nell'uccidere un altro uomo? Era forse misericordiosa la spada di un paladino che cala sul
collo di un chierico di Bane? O il fuoco purificatore di un rogo nella piazza principale della città?
Yulana diceva che a volte era "necessario", per il bene nel mondo...
Alhandra pensava che il bene in questo modo si avvicinasse al male più di quanto i suoi genitori
affermassero, che tutti gli esseri umani abbracciano una causa (chiamandola bene, male o
equilibrio) per poi uccidere in nome di una di queste "fazioni".
"Uccidere un orco, o un drow, è giusto?" si chiedeva Alhandra. I genitori le avrebbero risposto di
si, perchè è nella loro natura essere malvagi.
L'ipocrisia di chiamare "malvagio" ciò che è semplicemente "diverso", e che non si riesce a
comprendere, aveva animato i genitori, secondo Alhandra, e animava la maggioranza delle fedi
che lei conosceva. Per questo i templi erano costantemente in guerra contro tutto e tutti.
Per colpa di una falsa fede aveva perso tutto e tutti.
Era ora di cambiare. Il male si poteva combattere, ma solo con la sua stessa moneta. Per
combattere il male ci vuole un male ancora maggiore. "Io diventerò un male enorme, e allora
avrò la mia vendetta", si ripeteva Alhandra ogni notte, fino allo sfinimento, prima di andare a
dormire; "Devo solo diventare più forte... più forte... più forte..."
Alhandra rinnegò il suo passato, i suoi genitori, il suo nome. Proibì a Saref, ormai suo compagno
da alcuni anni, di chiamarla per nome, fino a che non avesse trovato uno nuovo, più adatto a lei.
Ormai sedicenne, smaliziata dalla vita nei vicoli di Calimport, Alhandra diventò abile nei
movimenti furtivi, nel ripulire le tasche dei passanti, esperta con i pugnali, che usava sempre in
coppia... ma soprattutto diventò una maestra nei travestimenti.
Poteva diventare un maschio a piacimento, nonostante fosse ogni giorno più difficile farlo a
causa dei rigonfiamenti che le stavano fiorendo nel petto. Riusciva a modulare la voce in una
serie incredibile di tonalità, dal basso di un nano del profondo all'acuto di una ferie.
Fu proprio il giorno del suo sedicesimo compleanno che fece una conoscenza che le avrebbe
cambiato profondamente la vita.
Girovagando in cerca di un allocco che gli facesse guadagnare qualche moneta extra, si imbatté
in una figura ammantata di nero, con due fessure oscure al posto degli occhi. Aveva al fianco
una spada incredibile, con uno scheletro a formare elsa e guardia, il teschio come pomolo.
Sull'altro lato portava una daga scintillante, la cui sola vista sembrava rubare l'anima
all'osservatore incauto.
Si fermarono a una decina di passi l'uno dall'altra, i loro sguardi si incrociarono, e Alhandra
rimase paralizzata dalla vista di quella che era una leggenda vivente, il terrore di tutti i
ragazzini di strada, e l'avversario più formidabile che un Calamshita potesse mai incontrare.
Artemis Entreri infilò una mano in una tasca invisibile, prese tre monete d'argento e le lanciò
verso Alias, che, ripresasi dallo stupore iniziale, le afferrò al volo con un gesto fluido e le fece
sparire velocemente dalla vista di eventuali ficcanaso.
"Bada di meritartele", esordì Entreri, "altrimenti le recupererò dal tuo cadavere, ragazzina".
Alhandra sgranò gli occhi, non perché le parole dell'uomo l'avessero intimorita, ma perché egli
aveva riconosciuto il suo travestimento da maschio halfling. Nessuno c'era mai riuscito, non da
una simile distanza.
Fu così che iniziò la attività di faccendiera di Alhandra al soldo di Entreri. Lei divenne per lui
una preziosa informatrice, abile a cambiare il suo aspetto fisico e capace nel passare
inosservata; era portata per tutti quei lavori che richiedono una certa dose di discrezione, tutte
doti che Artemis Entreri apprezzava molto in un suo sottoposto.
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Entreri prese l'abitudine di chiamare Alhandra "Al'i As", che in Calamshita significa "Simile ad As".
As è un animale del deserto simile ad un camaleonte, in grado di mimettizzarsi completamente
con l'ambiente circostante.
Il nomignolo non le dispiacque, e adottò quel nome come suo. Da allora tutti la conobbero come
Alias.
Alias pian piano entrò nelle grazie di un Artemis Entreri non più giovanissimo, che non guardava
a lei come una possibile amante, ma più come una figlia, la figlia che non aveva mai avuto,
almeno che lui sapesse.
La concezione di figlio di Entreri, comunque, non prevedeva di certo carezze o sorrisi amorevoli,
ma per lo meno Alias sopravvisse, e divenne una donna, una ladra e una guerriera sotto gli occhi
del migliore maestro che potesse desiderare.
Il suo progetto di diventare più abile e più forte era partito sotto i migliori auspici.
Fu durante una missione per conto del padre adottivo che Alias ritrovò la pista degli assassini dei
suoi veri genitori.
Al mercato di Calimport, infatti, vide un figuro incappucciato, aggirarsi tra la folla. Questo uomo
aveva un particolare, un tatuaggio viola intorno all'occhio sinistro.
Fu la vista di quel tatuaggio, dopo tanti anni, a rimuovere un sigillo che la sua mente di bambina
aveva posto sui suoi ricordi... il tatuaggio, un tatuaggio uguale a quello che aveva l'uomo che
aveva ucciso suo padre e sua madre, e che aveva tentato di uccidere anche lei.
Alias lo seguì, e giunti in una strada isolata, cercò di pugnalarlo alle spalle. L'avversario che di
era scelta, che non era di certo un novellino, evitò il suo attacco con irrisoria facilità, e si
preparò al contrattacco.
Sguainata una spada corta si lanciò in una serie di affondi, che sbilanciarono Alias e la fecero
cadere riversa al suolo. Quando il colpo fatale stava per calare su di lei, ancora una volta, arrivò
un aiuto insperato e provvidenziale.
Artemis Entreri deviò il colpo con un largo fendente portato con la spada lunga, l'Artiglio di
Caronte, e piantò la sua daga ingioiellata nel petto dell'uomo, che si afflosciò all'istante, come
se le sue forze fossero state risucchiate.
"Stolta!" sbottò Entreri "Non sai contro chi ti sei appena inimicata e cosa hai provocato! Ora
avremo decine di uomini tatuati come questo idiota che ci daranno la caccia, o meglio, che
daranno la caccia a TE, dal momento che almeno una mezza dozzina di loro sono nascosti qui
intorno. Ma non ti preoccupare, non attaccheranno ora, non finché ci sarò io al tuo fianco."
"Per te è ora di lasciare il Calimshan", disse poco più tardi Entreri in un luogo più appartato, "se
non vuoi morire giovane. Ti hanno riconosciuta, Alhandra Desbrys, e dovresti immaginare che ti
cercavano da tempo. Non sei ancora in grado di affrontarli, e io non ho intenzione di farti da
balia. Tornerai quando sarai pronta, e allora potrai vendicarti, se questo sarà ancora un tuo
desiderio".
Queste parole colpirono Alias come uno pugno in pieno volto. Entreri sapeva chi era, l'aveva
sempre saputo. Non era mai stato un padre modello, ma lei gli doveva molto.
Alias probabilmente già disprezzava tutti gli esseri umani, ma probabilmente Entreri, il più abile
assassino di tutti i Reami, feceva eccezione.
Preparò i suoi pochi averi e, dopo aver stretto il padre adottivo in un improbabile abbraccio,
partì.
Alias prese la strada che portava a nord, verso la Costa della Spada, aggregandosi ad una
carovana di mercanti sotto false sembianze.
La carovana era diretta a Waterdeep lungo un percorso che l'avrebbe portata a visitare città
altrettanto conosciute come Naskel, Baldur's Gate, Athkala, passando per la "Locanda del
Braccio Amico" e i Campi dei Morti.
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La carovana non giunse mai a destinazione. Dopo aver abbandonato Naskel e le sue miniere, i
mercanti furono attaccati da una banda di orchi troppo numerosa per opporre una qualsiasi
resistenza. I mercanti e la scorta armata deposero le armi si arresero quasi immediatamente,
solo per essere squartati senza pietà sul posto.
Alias, vista la mala parata, approfittò del trambusto per defilarsi, non prima di aver sottratto
qualche mercanzia dal carro in cui si trovava.
Abbandonò la strada, per evitare altri incontri con bande di razziatori o banditi, e non avendo
alcuna cognizione geografica della regione, si perse, e cominciò a vivere alla giornata nei boschi,
a contatto con la natura selvaggia delle terre centro-occidentali di Faerun.
Di una grotta fece la sua casa, lottando con gli animali selvatici che l'avevano abitata prima di
lei, e imparò a conoscere i cicli immutabili della natura e la sua forza devastante.
Viveva di caccia e di raccolta, imparò a riconoscere i versi degli animali e a riprodurli, sembrava
quasi un linguaggio che lei era in grado di capire e, a volte, di parlare.
Conduceva una vita semplice che quasi le fece dimenticare l'esistenza degli esseri umani.
Quasi, perché una mattina, durante il suo solito giro di perlustrazione del suo territorio, avendo
deciso di fare un giro un po' più largo del solito, si imbatté in un cervo imprigionato in una
tagliola.
Il cervo era un maschio adulto, avrebbe potuto essere un capo branco, date le dimensioni e la
maestosità delle corna. i suoi bramiti lamentosi echeggiavano per tutta la valle.
Era un'assurdità, era contro natura. Alias aveva imparato a cacciare le bestie rispettando certi
equilibri, non uccidendo i maschi dominanti, perché immaginava avrebbero generato nuove
generazioni di selvaggina, non uccidendo le femmine gravide, non uccidendo bestie troppo
giovani.
Dopo ogni uccisione recitava sempre una sorta di preghiera, in cui ringraziava la vittima di
essersi offerta a lei come pasto, consentendole di sopravvivere.
Catturare le prede con le tagliole era un metodo meschino, e Alias decise di non restare con le
mani in mano. Sussurrando parole di conforto al cervo ferito, in modo che si calmasse e non
peggiorasse le sue ferite, si avvicinò, afferrò la tagliola a mani nude e, facendo ricorso alla sua
forza straordinaria, allargò la morsa e liberò la zampa della povera bestia, che immediatamente
fuggì a tre zampe nel folto del bosco.
Probabilmente sarebbe morto nel giro di pochi giorni, preda di qualche lupo, ma esisteva una
piccola possibilità che guarisse e tornasse a correre normalmente.
Alias non se ne era accorta nemmeno, ma molti tra gli elfi di quelle terre l'avrebbero chiamata
con l'appellativo di "Ranger".
Quindi Alias si appostò, e aspettò che il cacciatore facesse ritorno alla tagliola per recuperare la
sua preda. Passarono due giorni prima che il cacciatore si facesse vivo, cosa che fece infuriare
ancora di più la giovane guardaboschi.
Infatti se non avesse liberato il cervo, sarebbe stato ancora lì a soffrire la fame, la sete e il
dolore.
La morte scese silenziosa sull'ignaro cacciatore, che era intento ad osservare la tagliola
manomessa. L'uomo si portava appresso molte altre di quelle morse micidiali, e Alias da quella
mattina in poi passò le sue giornate a cercare le tagliole, e ad uccidere i cacciatori che
andavano a controllarle.
Era diventata una cacciatrice di uomini. E Alias scoprì di provare un certo gusto nell'uccidere un
essere umano, un piacere che non provava assolutamente mentre uccideva una lepre o un
cinghiale, ma neanche quando le capitò di sconfiggere due orchetti che avevano tentato di
occupare sua grotta.
Questa vita durò altri due anni, e quelle valli nacque la leggenda dello "Spirito del Bosco" che
proteggeva gli animali e uccideva i cacciatori, e nessun cacciatore per molto tempo piazzò le
sue trappole in quei luoghi.
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Tuttavia Alias sentiva il richiamo del nord, aveva sentito parlare di Waterdeep e in cuor suo
desiderava ancora andarci, quello era il suo destino, lo sentiva. Da lì sarebbe partita l'avventura
che l'avrebbe riportata, forte come non mai, a Calimport e alla sua vendetta.
Alias quindi si decise di ritornare sulla strada e, per quanto si sforzasse di tollerare la vista degli
altri esseri umani, ciò le veniva estremamente difficile, e ridusse i contatti con la sua razza al
minimo, giusto per chiedere indicazioni per la strada da seguire, o per procurarsi qualche
moneta d'oro, dal momento che doveva tornare alla civiltà.
"Waterdeep, la città degli splendori" pensò Alias giunta alle sue porte.
E qui finisce la storia della giovane Alias e inizia l’avventura di Alias la Tenebrosa.
Forse, un giorno, le sue gesta verranno cantate dai bardi del Cormyr e dell’Amn. Allora vorrà
dire che Alias avrà avuto la sua vendetta…
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