La malattia, follia e saggezza del corpo, Cittadella

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La malattia, follia e saggezza del corpo, Cittadella
di cerchi sempre più allargati in cui i poli
opposti rimandavano a disegni nuovi le energie prima costrette a descrivere un circuito
abi tudinario e grigio.
Giannino Piana
LA MALATTIA COME FORMA DEL MALE
ASPETTI TEOLOGICO-ETICI
S. Spinsanti (ed.), La malattia,
follia e saggezza del corpo,
Cittadella, Assisi 1988.
La malattia costituisce una forte provocazione per la teologia a riflettere sul problema
del male, uscendo da una considerazione puramente astratta per cogliere lo spessore esistenziale legato alla condizione soggettiva dell'uomo. Nella malattia, infatti, si concentrano - sia pure con accenti diversi a seconda
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no - sia pure con accenti diversi a seconda
delle si tuazioni - gli aspetti di mal-essere
(<<malheur»), cioè di scacco e di crisi che connotano la condizione umana, mettendo duramente alla prova la resistenza; dal dolore fisico alla sofferenza psicologica fino all' emarginazione sociale.
Le rapide note, che qui tenteremo di sviluppare, intendono offrire alcuni spunti di riflessione per un'interpretazione cristiana della
malattia, partendo anzitutto dall'analisi delle
letture riduttive che di essa sono state elaborate in passato (letture in parte tuttora persistenti e che rischiano di compromettere gravemente l'azione pastorale); formuliamo poi
un'ipotesi teologica capace di attualizzare il
nucleo fondamentale del messaggio biblico,
nonché di fornire piste feconde di carattere
etico.
Le interpretazioni riduttive
Il problema del male è andato soggetto, anche nell'ambito della tradizione cristiana, a
processi interpretativi diversi e persino contraddittori. La difficoltà oggettiva di dare correttamente risposta agli interrogativi inquietanti che esso suscita - interrogativi che coinvolgono direttamente la questione fondamentale del senso della vita - è la ragione dei
molti tentativi di analisi messi in atto. Tali
tentativi hanno avuto, di volta in volta, il merito di sottolineare aspetti veri del problema,
ma non risultano sempre del tutto esenti dal
rischio della parzialità e dell'unilateralità.
a) La riduzione del male al peccato
La tendenza, che è stata per tanto tempo prevalente e che appare ancor oggi non del tutto
sconfessata - almeno all'interno di taluni movimenti spirituali e di una certa prassi pastorale - è quella della riduzione del male al peccato, cioè della sua totale attribuzione alla responsabilità dell'uomo. Il male viene, in questa prospettiva, radicalmente ricondotto alla
colpa dell'uomo come esercizio negativo della sua libertà.
Tale modello sembra trovare la sua legittimazione nella stessa rivelazione biblica, in
particolare nella letteratura sapienziale. La
Sapienza, che campeggia al centro di essa, è
infatti considerata come la sorgente tanto dell'ordine naturale, che rimanda al piano della
creazione, quanto di quello morale, che trova
espressione nella Legge. Lo stretto legame esi-
stente tra i due ordini, in quanto hanno, in
ultima analisi, il loro fondamento nella volontà divina, giustifica l'affermazione della rigida dipendenza della malattia dal disordine
morale. Come infatti dall 'osservanza della legge derivano salute, benessere materiale ed integrazione sociale così dalla sua violazione discendono perdi ta della salute, indigenza economica e marginalità sociale.
Tuttavia la dottrina della retribuzione individuale, c he ha il suo massimo sviluppo proprio nello stesso periodo, se, da un lato, concorre a spiegare il nesso inscindibile tra peccato e male, dall'altro apre la strada all'emergere di gravi domande, che finiscono per
apparire del tutto insolubili. Emblematico è,
al riguardo, il drammatico caso della sofferenza del giusto, di cui il libro di Giobbe costituisce la «cifra» più significativa. I tentativi di spiegazione razionale forniti dagli amici, e persino da Eliu, risultano assolutamente insufficienti. Manten~ndo fermo il nesso tra
sofferenza e peccato personale, è impossibile
dare ragione di una situazione che esula radicalmente da tale schema.
Ciò non toglie che il modello della diretta dipendenza del male dal peccato continui a persistere nella coscienza di Israele fino alla venuta di Gesù. La domanda che i discepoli rivolgono al Maestro in occasione dell'incontro
con il cieco nato ne è la conferma: «Rabbi,
chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché
egli nascesse cieco?» (Gv 9,2). Pur non facendo qui appello soltanto alla responsabilità individuale, ma allargando il campo ad altre forme di responsabilità, rimane comunque inal-
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va ente e che appare ancor
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non el tutto
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terato il legame tra male e peccato; si evidenzia, in al tri termini, con chiarezza la ricerca
di una giustificazione della menomazione fisica risalendo alla colpa dell'uomo. La risposta di Gesù è perentoria e apre, al tempo stesso, uno squarcio significativo sulla questione
dell'interpretazione del male: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si
manifestassero in lui le opere di Dio» (Gv 9,3).
Mentre il libro di Giobbe si chiude con l'intervento di Dio, che riduce l'interlocutore al
silenzio ponendolo di fronte al mistero imperscrutabile della sua trascendenza, Gesù offrel
una via positiva di riscatto del male nel se- I
gno dell'evento redentivo, trasformandolo cioè "
in occasione per la manifestazione delle «ope-"
re di Dio». È come dire che il male costitui-"
sce lo sfondo sul quale diventa comprensibi-,:
le il mistero della salvezza. Lungi dall'essen;:
giustificato per se stesso, esso appare come
la condizione negativa che consente di capire
il carattere di eccedenza o di sovrabbondanza della liberazione offerta da Dio all'uomo.
Nonostante l'interpretazione data da Gesù, il
modello della riduzione del male al peccato,
sia personale che collettivo, ha permeato a
lungo di sé anche la tradizione cristiana successiva, dando luogo alla nascita di atteggiamenti che godono talora, anche ai nostri giorni, di una certa plausibilità. La stessa teologia della redenzione, identificata con l'espiazione o con il «pagare il prezzo», è segno di
questa concezione riduttiva, per la quale la
malattia viene allora esaltata come momento
positivo di purificazione. Di qui la coltivazione di una spiritualità, e persino di una misti-
ca, della sofferenza, che ha come esito la caduta in pericolose forme di masochismo e la
generazione di stati di passività e di rinuncia
alla lotta. Di qui soprattutto la tentazione di
esasperare il sentimento di colpevolezza, tanto a livello individuale che sociale, alimentando il meccanismo di colpa-espiazione, che genera impotenza e disperazione. Non si vuole
con questo negare il carattere espiatorio della redenzione, e perciò il valore salvifico della sofferenza. Ciò che si intende sottolineare
è l'impossibilità di una totale moralizzazione
del male, che è invece carico di una valenza
teologica. E soprattutto ciò che si intende salvaguardare è l'aspetto di assoluta eccedenza,
perciò di totale gratuità, del mistero redentivo.
b) La riduzione del peccato al male
Non meno rischiosa è, d'altra parte, l'opposta tendenza, che sembra avere il sopravvento nella cultura contemporanea: quella cioè
della riduzione del peccato al male. La secolarizzazione radicale, in quanto rende del tutto irrilevante la questione di Dio, ha di fatto
concorso a determinare nel nostro tempo la
crisi del peccato. Senso di Dio e coscienza del
peccato sono infatti grandezze direttamente
proporiionali, se è vero che il peccato è, per
definizione, rottura del rapporto che lega l'uomo al suo ' Signore, infrazione dell'alleanza.
Analogame~te, la messa in distacco della libertà umana, grazie allo sviluppo delle scienze antropologiche, che hanno posto vieppiù
l'accento sui condizionamenti cui è soggetta
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O) La i lGUliOiiC dCI
pecca to
ai indIe
l'esperienza dell'uomo, ha ulteriormente contribuito a vanificare il peccato. La coscienza
del peccato è infatti in stretto rapporto con
la consapevolezza che l'uomo ha della sua libertà. È come dire, in definitiva, che il peccato diventa percepibile soltanto nello «stare davanti a Dio» da parte di un uomo che si assume la responsabilità del suo agire storico.
Secolarismo e deresponsabilizzazione soggettiva sono dunque le cause della perdita del
senso del peccato e, conseguentemente, dello
sviluppo di una concezione deterministica e
fatalistica del male, che conduce l'uomo in
un vicolo cieco e senza sbocchi. La presenza
ineluttabile del male nel mondo e l'impossibilità di ricondurlo, sia pure parzialmente, alla responsabilità dell'uomo, ma soprattutto
la mancata speranza del suo superamento grazie all'intervento misericordioso di Dio, alimenta stati di frustrazione e di crisi del senso. È sintomatico che la crisi del peccato coincida nella nostra società con l'espansione sempre più allarmante di forme di colpevolezza
nevrotica, dalle quali è difficile liberarsi. Una
corretta coscienza del peccato, soprattutto se
vissuta nell'orizzonte di una visione positiva
di Dio come il Dio che perdona, apre l'uomo
alla speranza, perché gli prospetta la possibilità del cambiamento, sia attraverso il proprio impegno, sia attraverso la disponibilità
ad accogliere l'azione salvifica del Signore.
Laddove, invece, il male appare totalmente invincibile, l'atteggiamento che si fa strada è
quello della paralisi e dell'angoscia.
Non si può negare che, anche a livello di azione pastorale, esistano talvolta posizioni im-
prontate ad un eccesso di indulgenza, che rischiano di svuotare la serietà del peccato, la
sua oggettiva gratuità. La tendenza a maggiorare i risultati delle scienze umane, dando eccessivo peso alla realtà dei condizionamenti
psicologici e/o sociali, concorre, se esagerata, a produrre stati di grave deresponsabilizzazione, che risultano penalizzanti per lo stesso soggetto. Senza dire che la malattia viene
allora percepita come una sorta di condanna,
destituita di qualsiasi significato e di qualsiasi possibilità di riscatto.
Paradossalmente perciò, tanto la radicale moralizzazione del male, quanto la sua altrettanto radicale demoralizzazione pervengono agli
stessi risultati. L'eccesso di colpa e la negazione della colpa sono, dal punto di vista del
contraccolpo soggettivo, come due facce della stessa medaglia. In ambedue i casi, infatti,
l'uomo finisce per sentirsi schiacciato e ridotto all'impotenza, o da una colpa troppo
grande che gli diventa insopportabile, o dall'oppressione di una fatalità che, non essendo minimamente legata alla sua responsabilità, si presenta come assolutamente invincibile. L'esito ultimo è, in ogni caso, il prodursi di uno stato di passività e di rassegnazione,
oppure di angoscia e di flessione della
speranza.
La prospettiva cristiana
Il rapporto male-peccato deve essere pertanto mantenuto entro un contesto di tensione
dialettica. È come dire che le due grandezze
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l'uomo tinISCe
er sentIrsI schIaCCiato e
rI-
- pur essendo per alcuni aspetti convergenti
- appaiono reciprocamente irriducibili. Se è
vero, infatti, che il male non può essere totalmente eticizzabile, non è meno vero che esso
va, in qualche modo, collegato anche alla responsabilità dell'uomo, cioè all'esercizio concreto della libertà.
Il male come non-senso
La tradizione giudaico-cristiana ha sempre
conservato, nel suo filone più autentico, una
visione del male come realtà assolutamente
irrazionale, assurda, priva di senso. Nei racconti della creazione (Gen 1-3) il male emerge, anzitutto, come un dato imprevisto e sorprendente. Esso non viene da Dio né dall'uomo. È piuttosto una realtà che ha una consistenza propria ed autonoma, e che ha origine
dall'esterno. La figura del demonio-serpente,
alla quale Eva si riferisce (Gen 3,13), designa
simbolicamente questa estraneità; tende cioè
a sottolineare che il male precede l'uomo, e
che il peccato consiste nel consenso che egli
dà ad esso. Il limite creaturale, che è la ragione della fragilità umana, rende giudizio
della possibilità dell'uomo di essere sottoposto alla tentazione-seduzione, ma non può essere scambiato con il male.
D'altronde, tutta la tradizione successiva dall'Antico al Nuovo Testamento - conferma
questa impostazione. Il male viene ricondotto al «mysterium iniquitatis», variamente descritto attraverso immagini che ne evocano
dimensioni particolari nell'ottica di un gioco
linguistico estremamente raffinato, ma che la48
sciano intatto il nucleo di verità che lo con( nota. È come dire che il male non può essere
I giustificato né razionalmente né moralmente, che appartiene alla sfera dell'eccesso e della follia, di ciò che sta al di fuori tanto dell'o"-rizzonte di Dio che dell 'orizzonte dell'uomo.
Questa concezione, del resto, spiega perché
il peccato possa essere considerato, nella prospettiva cristiana, come alienazione ed estraniamento, come la volontà di «essere come
dei»: volontà che nasce dal non riconoscimento di ciò che si è - immagine di Dio, appunto
- e dalla conseguente rinuncia a ricuperare
la propria vera identità. Se il male è un accidente, una realtà estranea, allora il consenso
ad esso, in cui consiste l'essenza del peccato,
è per definizione espropriazione.
Ovviamente questo non significa negazione
dello spessore proprio del peccato come frutto della libera decisione umana; soprattutto
non significa rinuncia a considerare il rapporto inscindibile che legçl il male al peccato.
Se è vero che il pecca to viene, in ultima analisi, dal male (che ontologicamente sta prima),
non è meno vero che il peccato concorre, in
maniera determinante, a consolidare il mistero del male nel mondo.
La consapevolezza soggettiva è senz'altro alla radice di molte situazioni di male, di cui
l'uomo fa esperienza, ma essa non dà ragione
fino in fondo della globalità del male. Le nostre azioni - quelle di cui ci sentiamo responsabili e che chiamano radicalmente in causa
la nostra libertà - hanno spesso esiti imprevisti (ed imprevedibili). Le conseguenze che
da esse derivano vanno al di là delle nostre
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intenzioni; rivestono, in altri tennini, una densità propria e si ipostatizzano, ricadendo pesantemente su di noi e sugli altri .
Lo stesso peccato di origine, pur essendo legato ad una colpevolezza strettamente personale, coinvolge la responsabilità dell'intero genere umano; acquisisce caratteri strutturali
e finisce per gravare sul destino di ogni uomo. Il male, il cui frutto è secondo Paolo la
«morte », sia fisica che spirituale, è dunque
espressione dell'intrecciarsi del peccato dell'uomo con il «mysterium iniquitatis », che ha
origine altrove e non può essere pertanto addebitato totalmente alla libera decisione
umana.
La salvezza come eccedenza
Il fatto che il male ci sia presentato dalla Bibbia come una realtà non razionalizzabile rende, d'altronde, comprensibile il carattere di
eccedenza e di follia propria della redenzione. È significativo, da questo punto di vista,
che lo stesso marxismo - soprattutto in alcuni filoni nuovi di marca antropologica - non
pervenga soltanto all'affermazione dell'esistenza di un principio negativo che trascende
la responsabili tà dei singoli (si pensi alla serietà con cui autori come Bloch o Kolakowski ripropongono il tema del «diavolo »), ma
giunga a postulare persino la necessità di «un
principio di redenzione sul mondo » (Adorno)
o ad invocare "il totalmente altro» come fondamento della possibilità di un 'etica e di un'azione politica emancipative. Il male in quanto eccedenza può essere riscattato soltanto da
un'altra eccedenza .
D'altra parte, la teologia paolina della salvezza, lungi dal rivestire i connotati di una riconciliazione dialettica, fa propria la logica
dell'eccesso, della gratuità e della sovrabbondanza: «lutti sono giustificati gra~uitamente
per la grazia di Dio, in virtù della redenzione
realizzata da Cristo Gesù .. . (perché) laddove
è abbondante il peccato, ha sovrabbondato la
grazia» (Rom 3,23-24; 5,21). Il Dio della rivelazione cristiana si presenta, fin dall'inizio,
come l'avversario radicale del male nella duplice prospettiva di colui che lotta contro di
esso e di colui che si fa portatore di un progetto di salvezza, che è vittoria definitiva nei
confronti di esso (Gen 3,14-15).
Gesù è la rivelazione piena di questo progetto di Dio. Egli è l'assolutamente innocente
che ha voluto conoscere il male non per far~
sene complice, ma per avere la possibilità di
abbatterlo. È l'Agnello di Dio che si è fatto
peccato per togliere dal mondo il peccato. Discendendo nel mistero del male attraverso la
sua morte, Cristo lo ha spossessato e ha reso
possibile all'uomo portado. L'attraversamento
d~lla sofferenza umana da parte del Figlio di
DIO trasforma infatti - paradossalmente - il
negativo in positivo, restituisce senso al nonsenso. Il fatto che Gesù abbia vinto la morte
non oltrepassandola ma attraversandola, facendosene carico, fa sì che essa non costituisca più per l 'uomo l'ultimo traguardo; anzi
che in essa e attraverso di essa prenda consistenza la speranza di una vita nuova e diversa. La croce acquista, nell'ottica cristiana il
significato di assoluto riscatto del mistero
male. In essa si manifesta infatti la regalità
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di Dio, che è la regalità dell'amore infinito,
del dono incondizionato e della pura gratuità. La redenzione non è solo espiazione; è soprattutto la rivelazione suprema della carità,
che è il mistero stesso di Dio. La follia della
croce è la testimonianza di questa eccedenza:
non c'è amore più grande di quello di colui
che dà la vita per colui che ama (Gv 15,13).
La morte di Gesù non è un gesto masochistico di annientamento; è piuttosto l'atto mediante il quale si rende trasparente la vera ,
natura di Dio. Gesù rivela sul Calvario che )
l'essere di Dio è l'essere-per-gli-altri e rende .
così ragione del mistero trinitario: il mistero (
di un Dio che vive in comunione di persone,
le quali si costituiscono nella reciprocità del
dono.
)
Inserita in questo contesto, la sofferenza umana - di cui la malattia costituisce la spia più
eloquente - ricupera tutto il suo valore. Essa
conserva le caratteristiche di realtà umanamente assurda, ma acquista nello stesso tempo, una valenza positiva. La fede ci dice infatti che la morte non ha più l'ultima parola
e che la sofferenza può trasformarsi in occasione di riscatto, come compimento di ciò che
manca alla passione di Cristo per diventare
feconda nella concreta esistenza dell'uomo.
L'atteggiamento del credente nei confronti
della malattia deve perciò fare spazio tanto
alla resistenza quanto alla resa: deve essere
caratterizzato dall'impegno senza frontiere a
debellarla e dall'accoglimento della volontà
divina in un atto incondizionato di amore, che
è affidamento totale a Lui e servizio ai fratelli. Non è stato, d'altronde, proprio questo l'at52
teggiamento di Gesù? Egli ha sperimentato
di fronte al mistero del male la reazione di
ogni uomo, l'innata tendenza al rifiuto e alla
ribellione : «Padre tutto è possibile a te, allontana da me questo calice » (Mc 14,36); ha
sperimentato l'assurdità e il non-senso, vivendo nella più radicale solitudine il momento
della morte, fino a percepire l'abbandono del
Padre: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34). Ma Egli ha saputo,
nello stesso tempo, affidarsi totalmente alla
volontà di Dio: «Però non ciò che io voglio,
ma ciò che vuoi tu » (Mc 14,36). L'attitudine
di Gesù di fronte al male non si esprime nella ricerca di una comprensione di ciò che è
per definizione incomprensibile, ma piuttosto
nella fiducia in Dio e nel servizio; in definitiva, nell'amore.
La fede lascia dunque intatto il mistero del
male, che continua ad apparire all'uomo come assolutamente irrazionale. Essa tuttavia
stimola l'uomo ad una precisa assunzione di
responsabilità: non già la responsabilità distruttrice di chi tende a farsi carico di una
colpevolezza radicale, ma la responsabilità attiva e liberatrice di chi si preoccupa della vittima che deve essere salvata.
D'altra parte, se il male è un esistenziale neE.~ivo (una sorta di contro-esistenziale), che
uò essere vinto soltanto da un atto folle di
!:..more, la fede non può che spingerci a consentire con tutte le nostre energie a tale atto:
non può che renderci disponibili ad accoglierlo, trasformando la nostra vita nella continua
ricerca di una risposta altrettanto folle all'amore di Dio.
.e
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La mediazione etica
Da quanto detto risulta chiaro che il proble·
ma del male non è anzitutto un problema mo·
rale, ma teologico. È come dire che dal male
non ci si libera mediante il solo impegno etico, ma invocando una salvezza trascendente.
Il pericolo eli una lettura rigidamente morale
del male è di condurre, da un lato, ad una
colpevolizzazione fatalista o ad una sorta di
giustizialismo ossessivo e, dall'altro, ad una
sua legittimazione come atto della giustizia
divina, con la conseguente rinuncia alla lotta
contro la sofferenza.
La prospettiva teologica non esclude tuttavia
la necessità della mediazione etica, dalla quale
non è possibile prescindere. Due sono, al ri·
guardo, le piste da percorrere o gli atteggia·
menti da coltivare: atteggiamenti che devono
essere considerati nella loro reciproca interazione.
a) Il primo è quello della giustizia, come resistenza attiva nei confronti di tutte le forme
di alienazione dell'uomo. In questo contesto
va collocata l'esigenza di promuovere la scien·
za medica, potenziando le tecniche tese a de·
bellare la malattia e fornendo all'organizzazione sanitaria un assetto più efficiente, ca·
pace di rispondere ai reali bisogni umani. Si
pensi all'importante questione dei diritti del
malato, la cui tutela esige la creazione di
strutture adeguate, che concorrano a sottrar·
lo dallo stato di isolamento e eli marginalità
in cui spesso ancor oggi vive.
Ma la giustizia, per quanto necessaria, e Insufficiente, da sola, a dare risposta ad una
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essere consIderatI neI1à- rorci- fecl" hkà inte-
situazione complessa, che non appare del tut·
to riscattabile sul terreno della logica del di·
ritto. La giustizia appartiene infatti all'ordi·
ne razionale, e non a quello dell'eccesso: il
bene viene da essa concepito come semplice
correzione, piuttosto che come irruzione del
diverso e del non programmabile. Senza dire
che la giustizia, se si radicalizza, provoca il
risentimento e persino la violenza . Il fine verso cui tende è più l'obiettiva perequazione delle prestazioni che l'attenzione al soggetto, nel·
la sua realtà irripetibile ed inoggettivabile. Es·
sa è segnata, in altri termini, più dalla ricer·
ca della propria affermazione o dalla giusta
rivendicazione di parametri di uguaglianza,
che dalla perdita di sé e dalla rinuncia a far
valere il proprio diritto per affermare quello
dell'altro.
b) Il secondo atteggiamento è quello
dell' amore·carità, che è per definizione ecce·
denza, assenza di calcolo, passione. Nella pro·
spettiva cristiana la carità non è riducibile
a valore etico, ma è in senso pieno, vita teologale, in quanto partecipazione alla stessa vi·
ta di Dio, risposta di amore all'amore infini·
to. La carità è gratuità, che ha come orizzon·
te il mistero dell'altro; è compassione che ri·
genera mediante il farsi carico o il prendersi
cura di colui che soffre; è condivisione, che
fa uscire dall'isolamento e rende più sopportabile il peso della sofferenza. La giustizia risponde alla logica del bisogno, mentre la carità si misura sull'appello del desiderio, che
ha un'apertura indefinita .
L'amore·carità non può certo fare a meno del·
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la giustizia; anzi proprio in essa ha il suo fondamento. Ma la carità è più della giustizia,
perché ha di mira le istanze soggettive e soprattutto perché è motivata dalla dinamica
del dono assoluto. Essa riscatta la giustizia
dalle ambiguità che le sono connaturali e la
orienta veso la vera liberazione di tutto l'uomo e di ogni uomo.
Sarebbe interessante ma non è compito di
questa comunicazione delineare gli aspetti salienti di una fenomenologia della carità, tentare cioè di far luce sui modelli comportamentali o gli stili di vita attraverso i quali
dare consistenza al vissuto di amore. Ci basti
ricordare qui l'importanza assunta dal volontariato, non solo come supplenza di fronte alle carenze dei servizi sociali, ma soprattutto
come attitudine nuova nei confronti della condizione del malato. Il malato non ha infatti
soltanto bisogno di strutture efficienti o di
cure tecnicamente perfette. Ha soprattutto bisogno di sentire accanto a sé la presenza di persone amiche, che lo aiutino a ravvivare dentro di sé la speranza. Dinanzi al mistero del
quale solo la compassione e la condivisione
silenziosa possono portare conforto ed aprire chi soffre alla percezione di un senso, che
non è dato immediatamente ma che è rintracciabile attraverso la fede, la quale ci assicura che in Cristo lo scacco umano è vinto e
rifulge la promessa di una vita senza limiti.
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Giuseppe Colombero
DOPO LA MALATTIA:
LA VITA O LA MORTE?
La malattia: un 'emergenza
specificamente umana
Tutti gli organismi viventi, vegetali o animali, possono ammalarsi, subire cioè un'alterazione nei tessuti o nella funzionalità deÌla loro struttura. Ma per l'uomo la malattia è un'emergenza tutta particolare; si parla appunto
di malattia umana per indicare la netta differenza tra la malattia dell:animale e quella dell'uomo. L'uomo e l'animale possono essere
colpiti dalla medesima affezione morbosa; ma
nella malattia umana è presente una componente psichica che la differenzia profondamente: l'uomo sa di essere ammalato, sa che
cosa ciò significa, quali ne sono le conseguenze, e le vive o come danno obiettivo o come
minaccia.
Egli vive la propria malattia nel significato
più ampio, in quanto è consapevole della estesa e minuta ramificazione delle sue conseguenze attuali e future. Una descrizione puramente fisiopatologica non esaurisce il suo
quadro morboso; essa ha una risonanza nel
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