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QUALE PRESIDENTIAL TRANSITION E QUALE IMPATTO
COSTITUZIONALE? PRIME RIFLESSIONI SULLE PROSSIME
ELEZIONI PRESIDENZIALI NEGLI STATI UNITI
di Giulia Aravantinou Leonidi 
G
li Stati Uniti si apprestano a celebrare in novembre il consueto rito elettorale che
designerà il 45esimo Presidente. Il passaggio di testimone potrebbe questa volta
non svolgersi secondo i consueti canoni e riservare delle sorprese. La stagione delle
primarie appena trascorsa ha messo, infatti, in rilievo l’aspra contrapposizione tra i due
schieramenti in campo. Soprattutto nelle ultime settimane i toni del confronto si sono
alzati pericolosamente e la situazione promette di diventare incandescente nei giorni
immediatamente a ridosso dell’appuntamento elettorale.
I candidati risultati vincenti dal macchinoso procedimento di selezione di questi mesi,
l’ex segretario di Stato, Hillary Clinton e il miliardario, Donald Trump, hanno dato prova
nei loro discorsi di accettazione delle nomination da parte delle convention dei rispettivi partiti,
di essere diametralmente opposti sia come storia politica, ricchissima per la Clinton, del
tutto assente per Trump, che per stile personale e visione economica e sociale del Paese.
Diversi dunque i possibili scenari che si aprirebbero sia sul piano politico che su quello
strettamente costituzionale nel caso di vittoria dell’uno o dell’altra.
La possibile vittoria del miliardario newyorkese potrebbe determinare una presidential
transition tutt’altro che priva di difficoltà, nonostante il Presidente Obama abbia già
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Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni Politiche Comparate – Dipartimento di Scienze politiche, Università di
Roma “Sapienza”.
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provveduto ad emanare il 6 maggio un executive order, Facilitation of a Presidential Transition,
per agevolare il passaggio del testimone al suo successore. Il Presidente Obama,
beneficiario nel 2008 di quella che è stata descritta come la transizione più morbida nella
storia americana, ha segnalato così la sua intenzione di anticipare i preparativi di
transizione dalla propria amministrazione a quella successiva. L’ordine esecutivo segue il
precedente di George W. Bush e Bill Clinton, e riflette l’esperienza acquisita da Obama
nel condurre una transizione durante i conflitti militari attivi e nel mezzo della crisi
finanziaria.
Mai come in questo momento gli Stati Uniti hanno la necessità di una presidential transition
priva di ostacoli. L’onnipresente minaccia terroristica, il riaccendersi della questione
razziale, la lenta ripresa dell’economia e dell’occupazione, e poi, sul fronte istituzionale,
l’inerzia del Congresso e la crisi dei partiti politici tradizionali – che irrompe con
prepotenza in questa campagna elettorale, mettendo in mostra le vulnerabilità e,
soprattutto, l’incapacità di esprimere candidati in grado di attrarre consenso sui programmi
– richiedono una guida solida e una visione chiara.
L’emersione di personaggi controversi come il candidato repubblicano sono, per alcuni,
il risultato delle croniche disfunzionalità del sistema politico statunitense e del declino
irreversibile dei partiti politici, costretti per riscuotere consenso a vivere in uno stato di
campagna elettorale permanente 1.
Lo scenario futuro che si va delineando è al momento ancora avvolto nella nebbia
dell’incertezza del voto di novembre. In quest’atmosfera sospesa è possibile, tuttavia,
svolgere alcune considerazioni che coinvolgono il quadro giuridico di riferimento per la
transizione alla nuova amministrazione e alcune ipotesi circa l’impatto costituzionale delle
prossime elezioni presidenziali. Per quanto concerne il primo punto, la Costituzione non
fa alcun riferimento alla presidential transition. Sotto il profilo costituzionale, è bene ricordare
come l’elezione del Presidente degli Stati Uniti sia solo parzialmente disciplinata dalla
Costituzione. Il processo di elezione del Presidente e del vice-presidente degli Stati Uniti
è suddiviso in due fasi, una intrapartitica, prevalentemente attuata attraverso lo strumento
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S. Blumenthal, The Permanent Campaign, New York, Simon & Schuster 1982.
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delle primarie, ed una interpartitica secondo la quale i candidati, in seguito all’approvazione
nel 1804 del XII emendamento, sono eletti direttamente dai grandi elettori in ciascuno
Stato. Il XX emendamento indica il 20 gennaio come la data di insediamento del nuovo
presidente. Nessuna disposizione costituzionale è dedicata alla delicata fase del
trasferimento di poteri dal presidente uscente a quello che si insedierà alla Casa Bianca. Il
Presidente è eletto sulla base di un procedimento che si compone di tre fasi. Nel primo
martedì successivo al primo lunedì di novembre dell’election year gli elettori sono chiamati
a votare coloro che esprimeranno materialmente il voto per il Presidente dell’uno o
dell’altro partito. Successivamente, il primo lunedì dopo il secondo mercoledì di dicembre
i grandi elettori si incontrano in ciascuno Stato e votano per il Presidente ed il Vicepresidente, trasmettendo i loro voti a Washington, D.C. All’una del 6 gennaio dell’anno
che segue le elezioni, i voti vengono conteggiati dal Congresso in seduta comune,
presieduto per l’occasione dal Presidente del Senato. Due settimane dopo, il 20 gennaio,
ha luogo la cerimonia di insediamento del Presidente e del Vicepresidente neo-eletti.
La fase di transizione, che marca il passaggio da un’amministrazione ad un’altra, riveste
un’enorme importanza e rappresenta un elemento imprescindibile del sistema politicocostituzionale degli Stati Uniti. Come è stato sottolineato, infatti, “The peaceful transfer
of power from one President to the next is an enduring and gripping drama of American
democracy” 2. L’assenza di una esplicita disciplina costituzionale ha lasciato alla
discrezionalità dei Presidenti e dei loro successori lo sviluppo di prassi tali da facilitare le
transizioni. Lo sviluppo di tali prassi ha seguito un processo di evoluzione lineare nel
tempo, che è progredito parallelamente alla crescente complessità della società e della vita
politica americana. Il periodo interessato dalla transizione è specificatamente quello che
va dal giorno dell’elezione (novembre) all’ inauguration day (il 20 gennaio). In questo lasso
di tempo il Presidente uscente rimane in carica fin quando il suo successore non si insedia
al termine della cerimonia di inaugurazione.
È piuttosto usuale che in questo periodo il Presidente uscente cerchi di strappare al suo
successore l’impegno ad agire nel solco della continuità, soprattutto laddove sia in gioco
W. A. Galston, E. C. Kamarck, The Transition: Reasserting Presidential Leadership, in Mandate for Change, ed. W.Marshall, M.
Schram, New York, Berkley Books, 1993, p. 336.
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l’interesse nazionale. Tali accordi sono piuttosto rari, come ci informa la storia americana,
caratterizzata da una certa varietà di comportamenti. Vi sono state, infatti, amministrazioni
che si sono mostrate particolarmente prodighe nel facilitare il delicato processo di
transizione ad una nuova amministrazione, altre, invece, hanno disseminato di ostacoli il
cammino del Presidente entrante. Dall’inizio del XIX secolo sono state ben diciotto le
transizioni presidenziali che si sono verificate negli Stati Uniti. Di queste, undici sono state
transizioni interpartitiche 3.
Pur in assenza di esplicite previsioni relative alla presidential transition, il Presidente è
costituzionalmente obbligato ad agevolare la transizione sulla base delle Term Clauses, di
cui all’art. I e al XX emendamento, e della Take Care Clause di cui all’art. II, sez. 3. In
particolare, secondo la Take Care Clause il Presidente “shall take Care that the Laws be
faithfully executed”. Sfruttando la lettera di questa previsione si è verificato con una certa
frequenza che i Presidenti uscenti emanassero una serie di provvedimenti proprio nel
periodo di transizione. Al termine dei mandati delle recenti amministrazioni il numero di
provvedimenti adottati dalle agenzie federali ha subito un importante incremento, dando
vita a quel fenomeno che è stato definito “midnight rulemaking” 4.
Nel silenzio della carta costituzionale il legislatore ha provveduto a colmare il vuoto
normativo approvando il Presidential Transition Act of 1963 (PTA)
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che autorizza
l’erogazione dei finanziamenti a favore del General Services Administration (GSA), ufficio
impegnato in prima linea nel processo di transizione. La legge è stata emendata diverse
volte dal 1963 per rispondere all’evoluzione delle concezioni del ruolo del governo nel
processo di transizione. Dalla transizione del 2008-2009, quella relativa al primo mandato
del Presidente Obama, la legge è stata emendata due volte. La prima volta nel 2010 in
seguito all’approvazione del Pre-Election Presidential Transition Act of 2010 (P.L. 111-283) che
autorizzava un sostegno supplementare ai candidati eleggibili per la programmazione della
Woodrow Wilson, Warren G. Harding, Franklin D. Roosevelt, Dwight D. Eisenhower, John F. Kennedy, Richard M. Nixon,
Jimmy Carter, Ronald W. Reagan, William J. Clinton, and George W. Bush, Barack H. Obama.
4 J. Cochran, III, The Cinderella Constraint: Why Regulations Increase Significantly During Post-Election Quarters, Mercatus Center,
George Mason University, March 8, 2001; J. M. Loring, Liam R. Roth, After Midnight: The Durability of the ‘Midnight’ Regulations
Passed by the Two Previous Outgoing Administrations, in Wake Forest Law Review, vol. 40 (2005), pp. 1441-1465.
5 La legge è entrata in vigore il 7 marzo 1964, tuttavia il titolo della legge non è stato modificato rimanendo “Presidential
Transition Act of 1963”. Per ulteriori dettagli sullo svolgimento delle transizioni presidenziali negli anni precedenti
l’approvazione della legge v. L. L. Henry, Presidential Transitions, Washington, Brookings Institution, 1960.
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transizione nella fase pre-elettorale. In seguito la legge è stata nuovamente emendata nel
2015 con il Edward “Ted” Kaufman and Michael Leavitt Presidential Transitions Improvements Act
of 2015 (P.L. 114-136), entrata in vigore il 18 marzo 2016. La legge ha accolto alcune delle
previsioni contenute nella legge del 2010, introducendo alcune nuove disposizioni
relativamente al sostegno ai candidati eleggibili nella fase pre-elettorale. Il Presidential
Transitions Act, così come emendato, richiede che il Presidente e l’Amministrazione in
carica istituiscano una specifica infrastruttura di transizione, con alcune determinate
caratteristiche e altre acquisite solo durante l’anno delle elezioni presidenziali. Si autorizza
anche la fornitura da parte dell’amministrazione in carica di un certo supporto nella fase
pre-elettorale per i candidati eleggibili. Inoltre, il PTA autorizza i candidati idonei a
finanziare le attività di transizione pre-elettorali attraverso le loro campagne. La legge
stabilisce anche un procedimento per la designazione e la preparazione di funzionari di
carriera che agiranno come leader dell’agenzia durante il processo di transizione. È
prevista, inoltre, la negoziazione, prima delle elezioni, di protocolli d'intesa tra il presidente
in carica e i candidati in corsa per la Casa Bianca, per la definizione di questioni legate alla
transizione post-elettorale. In seguito allo svolgimento delle elezioni il Presidential
Transitions Act autorizza l’amministratore della General Services Administration (GSA) a
fornire al presidente eletto e al vicepresidente eletto strutture, fondi e servizi, qualora siano
rispettati determinati limiti contributivi legati alla transizione e obblighi informativi. Altre
disposizioni della legge prevedono, infine, prevedono un’accelerazione nelle procedure di
controllo di sicurezza per i funzionari incaricati di gestire la transizione agevolando il
passaggio di consegne al presidente entrante.
Le attività inerenti al processo di transizione sono, in base a quanto stabilito dalla legge,
gestite sotto la responsabilità della General Services Administration (GSA) e dell’Office of
Management and Budget (OMB).
Anche il Congresso riveste un ruolo nella transizione. Il legislativo è direttamente
coinvolto nel procedimento di conferma delle nomine presidenziali, tema questo
particolarmente scottante in questi mesi in seguito alla scomparsa di Antonin Scalia e allo
scontro per la nomina del suo successore tra i repubblicani e il Presidente uscente. Il
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Congresso è, inoltre, coinvolto per il ruolo svolto nel procedimento di approvazione del
bilancio e dunque nell’allocazione delle risorse necessarie a realizzare la transizione.
Fino alla presidential transition del primo mandato di Barack Obama la maggior parte delle
risorse sono state destinate a finanziare la fase post-elettorale della transizione. Solo in
seguito all’entrata in vigore, nel 2012, delle modifiche approvate nel 2010, sono state
attuate per la prima volta le previsioni relative alla fase pre-elettorale della transizione. Le
modifiche introdotte con la legge del 2015, entrata in vigore nel marzo scorso, saranno
attuate in occasione di queste elezioni presidenziali che si preannunciano foriere di
importanti cambiamenti.
Una delle domande che si pongono i costituzionalisti di oltreoceano riguarda, infatti, la
trasformazione del regime politico. Il recente dibattito costituzionalistico statunitense si
preoccupa di verificare in quale misura la struttura rigida della costituzione e il tipo di
ordinamento giuridico rappresentino un ostacolo per il verificarsi di quel tanto auspicato
cambiamento che Obama non è riuscito a realizzare. Al momento è possibile individuare
alcuni importanti segnali di cambiamento che riguardano essenzialmente i partiti politici
americani. Da una parte si sta affermando il dominio del partito democratico, con la
conquista della nomination da parte della prima donna nella storia degli Stati Uniti, dall’altra
si sta assistendo ad un nuovo momento fondativo per il partito repubblicano, che si
interroga sul proprio futuro.
La letteratura politologica è pressoché unanime nel riconoscere che la principale fonte
della disfunzionalità dell’ordinamento statunitense sia oggi da rinvenirsi nel Congresso.
Più volte nel corso dei suoi mandati Obama ha tentato di richiamare il Congresso
all’azione, denunciandone con veemenza la sua cronica inerzia, che ha consentito da un
lato al giudiziario di espandersi e dall’altro ai repubblicani di intralciare il programma
politico dell’amministrazione democratica.
Se alla succitata, ormai endemica, debolezza del legislativo si affiancano le tendenze alla
polarizzazione e alla partisanship, tipiche del sistema politico statunitense, appare evidente
come si renda urgente rivolgere il pensiero ad una radicale riforma dell’ordinamento,
capace di rafforzare il Congresso dinanzi al rischio costituito dalla possibile ascesa alla
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Casa Bianca di un Presidente dalla leadership tendenzialmente autoritaria 6. Ulteriori
indicazioni in tal senso provengono dall’analisi della stagione delle primarie appena
conclusasi.
Il successo ottenuto in questi mesi di campagna elettorale dal candidato repubblicano alla
Casa Bianca, Donald Trump, può essere sostanzialmente ascritta a due ordini di
motivazioni, una di carattere economico e l’altra di carattere politico. La congiuntura
economica attuale non è tuttavia sufficiente a spiegare da sola l’ampio consenso che il
miliardario americano ha riscosso in questi mesi di campagna elettorale e di primarie
attraverso il Paese. Donald Trump è, infatti, a giudizio di buona parte della dottrina
costituzionalistica statunitense, soprattutto il risultato della disfunzione dell’ordinamento
americano 7. Una disfunzione le cui cause primarie sono da rintracciarsi nella Costituzione
stessa, alla quale, secondo alcuni, occorre porre urgentemente mano convocando una
convenzione costituzionale o procedendo ad emendarne il testo secondo quanto disposto
dall’Art. V 8. Accanto a questa posizione, piuttosto estrema e poco realistica – se si
considera che l’ordinamento negli ultimi decenni si è caratterizzato piuttosto per quelle
che sono state, a ragione, definite da Ackerman “trasformazioni costituzionali informali”,
aggirando le complicazioni procedurali del procedimento di revisione costituzionale
prescritto dall’art. V – si collocano le proposte meno radicali di chi, come Balkin, individua
nel cedimento della rappresentanza politica, piuttosto che nella disfunzione del sistema, la
causa dei mali che affliggono in questi anni l’ordinamento americano, ritenendo che il
fenomeno “Donald Trump” sia il prodotto della crisi della cultura costituzionalistica
piuttosto che delle istituzioni politiche statunitensi.
A suscitare ulteriormente la preoccupazione degli osservatori si sono aggiunte nelle
ultime settimane alcune minacce del candidato repubblicano. Questi ha dichiarato che, in
caso di sconfitta a novembre, vi sarà il divampare di violente proteste per le strade delle
S. M. Griffin, Broken Trust: Dysfunctional Government and Constitutional Reform , Kansas, University Press of Kansas, 2015.
J. Balkin, S. Levinson, Democracy and Dysfunction: An Exchange, Indiana Law Review (in corso di pubblicazione 2017)
8 L’art. V della Costituzione vive un momento di forte declino. Il ricorso al procedimento di revisione costituzionale in esso
descritto è sempre più raro. La maggioranza qualificata da esso prescritta ha reso la Costituzione degli stati Uniti una delle più
difficilmente emendabili al mondo, spingendo gli attori politicamente rilevanti ad intervenire informalmente . Per un’analisi
puntuale del ricorso all’art. V nella storia costituzionale americana e alcune ipotesi che riguardano la trasformazione informale
dello stesso art.V, v. R. Albert, Constitutional Disuse Or Desuetude: The Case Of Article V, in Boston University Law Review, Vol. 94,
pp. 1028-1081.
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principali città statunitensi contro quella che ha definito una “rigged election” (elezione
truccata). Le affermazioni di Trump sono estremamente gravi se si considera che
l’accettazione dei risultati elettorali costituisce un punto cardine del funzionamento delle
democrazie contemporanee, e suscitano una certa preoccupazione nei corridoi di
Washington già scossi dall’inarrestabile ascesa del magnate newyorkese.
Dal punto di vista strettamente costituzionalistico è interessante svolgere alcune
considerazioni
in
relazione
all’esercizio
del
potere
esecutivo
e
all’impatto
dell’interpretazione del mandato presidenziale sull’ordinamento. Alcuni commentatori
ritengono che una presidenza Trump non rappresenti un rischio reale per l’ordinamento
statunitense, tuttavia a questa posizione, piuttosto cauta, è stato obiettato che la prassi
costituzionale e la tendenza delle istituzioni a trasformazioni informali della costituzione
puntano in un’altra direzione. La storia costituzionale degli Stati Uniti, infatti, ci ha spesso
riferito di Presidenti che hanno agito al di fuori dei confini dettati dalla costituzione per
implementare la propria personale linea politica, tanto a livello interno che internazionale.
L’esperienza maturata negli anni dell’amministrazione di G. W. Bush insegna che pur in
presenza di un sistema di checks and balances efficacemente operante, all’interno del quale il
potere esecutivo incontri l’azione di freno e bilanciamento esercitata dagli altri organi
costituzionali, si verifica una profonda spaccatura tra le trasformazioni informali innescate
dall’esecutivo, ad esempio in seguito all’approvazione di una legislazione di emergenza
particolarmente limitativa delle libertà e dei diritti fondamentali, e la Costituzione formale.
Oltre all’onnipresente tema della sicurezza nazionale, un altro ambito in cui il potere
esecutivo risulta particolarmente incisivo è quello delle nomine.
Le elezioni che si terranno in novembre non mancheranno di avere un significativo
impatto sulla Corte Suprema, dove la partita per la successione ad Antonin Scalia è ancora
del tutto aperta. Donald Trump ha promesso di nominare giudici di orientamento
conservatore e la lista che ha reso pubblica qualche tempo fa conferma le sue intenzioni.
Hillary Clinton, invece, una volta eletta procederà alla nomina di giudici dalle vedute più
liberali e progressiste. La questione delle nomine alla Corte Suprema non è di secondaria
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importanza e l’attenzione su di essa si rinnova ad ogni elezione presidenziale 9. L’avanzare
dell’età dei giudici e la prematura scomparsa di alcuni di essi, apre all’opportunità per il
prossimo presidente eletto di incidere profondamente sui delicati equilibri della Corte,
esercitando il diritto di nomina costituzionalmente conferitogli 10. Alcuni, non a torto,
hanno definito l’appuntamento elettorale in agenda come una “Supreme Court Election”
11
e altri hanno tentato, riuscendovi solo in parte, di prevedere quali saranno gli scenari che
si dischiuderanno dopo il responso delle urne 12.
Chiunque venga nominato giudice della Corte Suprema dovrà presentarsi dinanzi al
Senato nel corso di un audizione che la stessa Elena Kagan ha definito “a vapid and hollow
charade” prima di essere lei stessa chiamata a far parte degli Old Nine 13. Fa eco alle
osservazioni della Kagan, la definizione del procedimento di nomina offerta recentemente
da Paulsen “the judicial appointments process is the last clear chance for the other
branches to check judicial power,” nell’ambito di un Simposio promosso sul tema dallo
University of Chicago Law Review 14.
Quelle descritte fin qui costituiscono solo alcune riflessioni preliminari sulle sfide
politiche ed istituzionali che si troverà ad affrontare il Presidente che verrà in un contesto
che appare, all’indomani della conclusione delle primarie, profondamente mutato e in
trasformazione.
G. R. Stone, The Supreme Court and the 2012 Election (HuffPost Politics, 13 Agosto, 2012); S. G. Calabresi, J. O. McGinnis,
McCain and the Supreme Court (Wall Street Journal, 4 febbraio 2008); B. Mears, Election Could Tip Balance of Supreme Court
(CNN.com, 21Ottobre, 2004).
10 Nel corso delle passate amministrazioni presidenziali di Bush e Obama, diversi sono stati i giudici ad essere nominati. Il
Presidente George W. Bush ha nominato e il Senato ha confermato due nuovi giudici: Chief Justice John Roberts e Samuel
Alito. Anche Barack Obama ha nominato due giudici: Sonia Sotomayor and Elena Kagan. Nonostante queste nomine, la
composizione ideologica della Corte non è cambiata.
11 P. Waldman, Why 2016 Will Be a Supreme Court Election (The Week, 7 luglio 2015).
12 L. McElroy, The West Wing, the Senate, and “The Supremes” (Redux), 83 University of Chicago Law Review Online vol. 8, (2016),
pp.14 ss.
13 R. Simon, “Vapid’? ‘Hollow’? Kagan Nailed It (Politico, 30 giugno 2010).
14 M. Stokes Paulsen, The Constitutional Propriety of Ideological “Litmus Tests”for Judicial Appointments, 83 University of Chicago Law
Review Online vol. 8, (2016), pp. 28 ss.
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VOTAZIONI E PARTITI
LE NOMINATION: STORICA VITTORIA DI HILLARY CLINTON
Fino ad alcuni anni fa le national conventions avevano un ruolo determinante nella scelta dei
candidati. L’importanza delle convenzioni per la designazione dei vincitori delle nomination
è andata progressivamente scemando in seguito alla riforma del procedimento di nomina
intervenuta negli anni ’70 che ha conferito invece alle primarie un ruolo di primo piano.
Oggi le conventions si limitano a registrare il risultato delle primarie, tuttavia esse svolgono
un’importante funzione di carattere politico, consentendo ai candidati alla Casa Bianca di
avere un confronto serrato sui propri rispettivi programmi, dando ufficialmente inizio alla
campagna elettorale per l’elezione del Presidente degli Stati Uniti.
Il 7 giugno Hillary Clinton è entrata nella storia della democrazia americana vincendo la
nomination del partito democratico alla Casa Bianca. L’ex segretario di Stato ha superato la
fatidica soglia della maggioranza assoluta, i 2.383 delegati necessari perché la convention
democratica di luglio a Philadelphia la “incoroni” come candidata alla Casa Bianca. La
Clinton si è lasciata le primarie alle spalle stravincendo nell’ultimo super martedì di queste
primarie partite in Iowa e New Hampshire all’inizio dell’anno, aggiudicandosi il New
Mexico, il New Jersey, il Montana, ma soprattutto la California. La corsa della Clinton non
è stata priva di ostacoli, oltre all’e-mailgate e alle critiche per l’appoggio all’invasione
dell’Iraq, e al duro confronto con Donald Trump, l’ex first lady ha dovuto anche fare i
conti sul fronte interno con Bernie Sanders, il senatore del Vermont, che si autodefinisce
socialista e che non è mai stato iscritto al partito democratico, ha collezionato una serie di
vittorie in queste primarie, da ultimo quelle ottenute a maggio in Indiana e in West
Virginia. Hillary Clinton ha voluto attendere l’esito delle primarie di Washington Dc,
l’ultimo appuntamento elettorale prima della convention di luglio del partito democratico
a Philadelphia. Queste votazioni, che l’ex segretario di Stato ha vinto, non avevano alcuna
importanza dal punto di vista numerico, ma una grande importanza sul piano politico.
All’indomani delle primarie di Washington DC, il 14 giugno, Hillary Clinton ha infatti
incontrato Bernie Sanders per comprendere le intenzioni del senatore e offrirgli
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rassicurazioni. Il senatore del Vermont il 24 giugno ha dato per la prima volta il suo
endorsement all’ex segretario di Stato.
Hillary Clinton ha accettato il 29 luglio la nomination a candidato del Partito democratico
alla Presidenza degli Stati Uniti. Nel corso del discorso di accettazione che ha tenuto a
Philadelphia, l’ex First Lady ha confermato il suo carattere di progressista, dichiarandosi a
favore di una politica interna riformista, soprattutto in tema di sanità, diritti delle donne,
integrazione razziale; sostenitrice di una politica estera di potenza, di un esercito forte, di
una visione interventista dell’America nel mondo. Rispetto al passato ci sono alcune
differenze: un richiamo molto forte alla necessita di una maggiore eguaglianza economica;
la scelta di contenere Wall Street e privilegiare sempre e comunque Main Street; la volontà
di liberare gli studenti dal peso dei debiti universitari.
Pochi giorni prima, il 20 luglio, Donald Trump ha ricevuto ufficialmente l’investitura del
Partito Repubblicano a correre per la Casa Bianca alle elezioni del prossimo novembre.
Nel corso della convention repubblicana, che si è svolta a Cleveland, Trump ha raccolto il
voto di 1.725 delegati, superando senza sforzi l’asticella della maggioranza, fissato a 1.237,
un risultato che all’inizio della campagna sembrava irraggiungibile per il miliardario. Nel
suo discorso di accettazione della nomination, focus su immigrazione, crimini e mancanza
di lavoro, portato dalle aziende all’estero.
Sullo sfondo della battaglia che vede contrapposti democratici e repubblicani, dal 4 al 7
agosto si è tenuta un’altra convention quella del Partito dei verdi, il Green Party of the United
States, GPUS, che per la seconda volta consecutiva candiderà alla Casa Bianca la dottoressa
Jill Stein. Nel 2012, la Stein fu votata da 469.501 persone, lo 0,36% dei votanti, superando
la soglia dell'1% nel Maine, in Oregon e in Alaska. Quest’anno, il suo vice sarà Ajamu
Baraka, attivista afroamericano per i diritti umani, direttore dello US Human Rights Network,
che in passato ha lavorato per Amnesty International e altre organizzazioni del settore; nel
2012, Stein aveva formato un ticket femminile con Cheri Honkala, altra attivista per i diritti
umani.
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CONGRESSO
LE MODIFICHE AL FOIA (FREEDOM OF INFORMATION ACT)
Il 30 giugno il Presidente Obama ha firmato, senza suscitare troppo clamore, un
importante modifica al testo del US Freedom of Information Act, legge meglio nota con
l’acronimo FOIA. L’approvazione della legge da parte del Congresso è avvenuta in un
momento in cui l’attenzione dell’opinione pubblica americana era concentrata sulle
primarie e sull’impatto economico di una eventuale Brexit. Per comprendere l’impatto
delle modifiche apportate al US Freedom of Information Act con il recente intervento del
legislatore, è utile richiamare brevemente i contenuti originari della legge. Il FOIA è stato
approvato nell’estate del 1966 sulla spinta dei grandi editori della carta stampata e di alcuni
politici convinti della necessità di rendere maggiormente accessibili i documenti del
governo federale. La legge, pur non presentando alcun riferimento esplicito all’accesso e
all’apertura degli archivi governativi, rappresentava una svolta epocale in materia di
trasparenza. Essa disponeva che “[E]very agency shall, upon request for identifiable
records made in accordance with published rules ... make such records promptly available
to any person”. Precedentemente all’approvazione del FOIA, l’Administrative Procedure Act
riconosceva alle agenzie federali un’ampia discrezionalità nel proteggere i propri archivi
dall’accesso del pubblico, che poteva prenderne visione solo se “properly and directly
concerned”. Sotto FOIA, al contrario, “qualsiasi persona” può chiedere il rilascio di tutti
i “documenti identificabili” di un’agenzia, senza nemmeno citare la sua appartenenza o
occupazione o scopo nel fare la richiesta. Inoltre, il FOIA dà ai richiedenti il diritto di
citare in giudizio in una corte federale l’agenzia se ritengono che i documenti siano stati
ingiustamente trattenuti. Si evince, dunque, chiaramente la portata della legge che esprime
un importante principio democratico quello per cui l’esercizio del potere deve essere
pubblicamente conoscibile. Tuttavia, la legge presenta anche dei limiti in quanto non riesce
a garantire pienamente la libertà di informazione, riferendosi ai soli archivi governativi e
solo a quelli resi disponibili per l’accesso pubblico. Essa pertanto non si riferisce alla
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possibilità di accedere all’informazione in generale e non comporta un obbligo di risposta
da parte delle agenzie.
Nonostante i pregi di questa celebre legge, essa non sottrae alla burocrazia il potere di
controllare ciò che rimarrà segreto, e ciò che sarà divulgato. Sebbene il legislatore abbia
cercato di controllare e limitare il potere delle agenzie prevedendo l’intervento dei giudici,
nella pratica le corti si sono astenute dall’intervenire in merito. Gli emendamenti approvati
dal Congresso in giugno modificano parzialmente questo stato di cose.
Le modifiche più rilevanti sono essenzialmente tre. In primo luogo, viene fissato a 25
anni il limite di tempo nel corso del quale i documenti possono essere secretati sulla base
del deliberative process privilege. In secondo luogo, la legge prescrive l’accessibilità di qualsiasi
documento per il quale sia stata presentata domanda per più di tre volte. Infine, si prevede
la creazione di un portale online per presentare richiesta di accesso ai documenti e
tracciarne l’esito. Allo stato attuale, le modifiche rischiamo di restare lettera morta in
quanto la legge non autorizza nuove spese. Inoltre il FOIA Improvement Act continua a
considerare al pari della legge precedente solamente i registri attualmente esistenti e lascia
il controllo sulle informazioni detenute dall’agenzia ai funzionari dell’agenzia stessa,
mantenendo di fatto intatta l’opacità dell’amministrazione federale.
AUDIZIONE PRESSO LA HOUSE FOREIGN AFFAIRS COMMITTEE SUI
DETENUTI DI GUANTANAMO BAY
Il 7 luglio si è svolta una audizione presso la House Foreign Affairs Committee nel corso
della quale alcuni deputati repubblicani hanno richiesto a funzionari dell’amministrazione
Obama chiarimenti circa il trasferimento dei detenuti della prigione di Guantanamo.
I deputati hanno sostenuto che i due funzionari dell’amministrazione hanno posto i
detenuti in paesi che non hanno le capacità di controllo necessarie, citando il caso della
scomparsa dell’ex detenuto Jihad Diyab, mandato in Uruguay nel 2014. Il repubblicano
Ed Royce ha rimproverato l’inviato speciale del Dipartimento di Stato per la chiusura di
Guantanamo Bay, Lee Wolosky, per aver fornito false rassicurazioni al Congresso. Royce
anche interrogato Paul Lewis, membro del Dipartimento della Difesa (DOD), sui rapporti
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dell’intelligence in merito ai paesi in cui sono stati inviati i detenuti, affermando che i rapporti
mostrano come alcuni paesi non erano attrezzati per la gestione dei detenuti. In febbraio
il Presidente Obama ha presentato al Congresso un piano per la chiusura del carcere di
Guantanamo dopo che a novembre il Senato aveva approvato il National Defense
Authorization Act for Fiscal Year 2016 (NDAA), che proibisce il trasferimento negli Stati
Uniti dei detenuti di Guantanamo e ritarda di fatto il progetto del Presidente di chiudere
il carcere entro ottobre.
IL RAPPORTO DELLA HOUSE INTELLIGENCE COMMITTEE
La House Intelligence Committee ha declassificato e pubblicato, il 15 luglio, una nuova
sezione del rapporto della 2002 Joint Congressional Inquiry into Intelligence Community Activities
Before and After the Terrorist Attacks of September 11, 2001. Le 28 pagine del rapporto
descrivono nel dettaglio i collegamenti tra l’Arabia Saudita e gli attentatori dell’11
settembre. L’opportunità di pubblicare il rapporto ha stimolato negli anni un vivace
dibattito che ha coinvolto e contrapposto il legislatore e i familiari delle vittime. Il rapporto
non evidenzia il coinvolgimento diretto del governo saudita, la sua pubblicazione incontra,
tuttavia, il favore di alcuni membri del Congresso che intravedono ora la possibilità di
svolgere ulteriori indagini anche in seguito all’approvazione, in maggio, da parte del Senato
di un disegno di legge che consente alle famiglie delle vittime degli attentati dell’11
settembre di citare in giudizio l’Arabia Saudita. Il disegno di legge si trova attualmente
all’esame della Camera dei Rappresentanti e il Presidente ha già minacciato di apporre il
veto qualora disegno di legge dovesse essere approvato da entrambe le camere. Nel 2012
un giudice per la Corte Distrettuale degli Stati Uniti per il Distretto Meridionale di New
York ha respinto una mozione per ripristinare l’Arabia Saudita come imputato in una causa
civile di compensazione intentata dalle vittime degli attacchi terroristici del 9/11.
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PRESIDENTE ED ESECUTIVO
QUESTIONE RAZZIALE
Il 19 maggio il Presidente Obama ha apposto la firma al disegno di legge HR4238 che
dispone l’eliminazione dei termini “Negro” e “Oriental” dalle leggi federali allo scopo di
modernizzare il linguaggio legale. Il provvedimento mira non solo alla sostituzione di
questi termini con afroamericano e asiamericano, ma contribuisce anche a ridefinire nella
legislazione il ruolo delle minoranze in un momento in cui negli Stati Uniti la questione
razziale riemerge con prepotenze dalle pagine di cronaca.
L’amministrazione Obama ha compiuto notevoli sforzi anche in passato per risolvere la
questione dell’ineguaglianza razziale annunciando nel luglio 2015 una serie di
provvedimenti mirati a far coincidere gli obiettivi del Fair Housing Act of 1968 (FHA) con
le politiche di assegnazione degli alloggi.
PARDONING POWER E CRIMINAL JUSTICE REFORM
Il Presidente Obama ha commutato il 3 giugno le pene di quarantadue detenuti
condannati per crimini di droga non violenti. La decisione del presidente si inserisce
nell’ambito degli sforzi dell’amministrazione di procedere ad una più ampia riforma della
giustizia penale. Il pardoning power negli Stati Uniti assume cinque forme distinte: pardon,
amnesty, commutation, reprieve e remission of fines. La commutation consiste nella modifica della
sentenza di condanna al fine di rendere più lieve la pena.
Le commutazioni saranno effettive dal 1° ottobre 2016 e si sommano alle 306
commutazioni decise da Obama per crimini analoghi nel corso del suo mandato.
Il 25 giugno la Casa Bianca ha annunciato una serie di programmi mirati ad assicurare il
reinserimento dei detenuti nella società al termine della pena. Uno dei provvedimenti
prevede lo stanziamento di fondi governativi a favore dell’educazione in college di oltre
dodicimila detenuti in prigioni statali e federali. Il provvedimento coinvolgerà 141 centri
correzionali e 67 istituti universitari, impegnati nell’organizzazione di corsi mirati alla
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preparazione professionale dei detenuti e all’inserimento degli stessi in programmi di
tirocinio
che
ne
facilitino
l’ingresso
nel
mondo
del
lavoro.
L’annuncio
dell’amministrazione ha attirato le critiche dei conservatori. Questi ultimi ritengono che le
azioni promosse dall’esecutivo minacciano l’efficacia degli sforzi intrapresi per combattere
e smantellare le organizzazioni criminali coinvolte nel traffico di stupefacenti.
CORTI
SECONDO EMENDAMENTO
Il 16 maggio la US Court of Appeals for the Ninth Circuit ha stabilito che il Secondo
emendamento garantisce il diritto ad acquistare e vendere armi da fuoco. Tre individui
hanno impugnato una ordinanza della contea di Alameda, California, che vieta alle armerie
di essere situate a 500 piedi da un quartiere residenziale. Il giudice ha ritenuto che, mentre
l’ordinanza potrebbe benissimo essere costituzionale, la questione dovesse essere soggetta
al controllo intensificato.
La possibilità concessa dalla sentenza della corte ai querelanti, ribalta la decisione della
corte inferiore, che aveva respinto le loro richieste relative al secondo emendamento. Il
tema continua ad essere molto controverso e a stimolare un acceso dibattito tra giuristi e
politici. In gennaio il Presidente Obama ha annunciato delle executive actions per il controllo
delle armi in risposta ai gravi fatti di cronaca che hanno scosso il Paese nell’ultimo anno.
PENA DI MORTE
La Corte Suprema ha rigettato il 31 maggio la richiesta di decidere sulla costituzionalità
della pena di morte nel caso Tucker v. Louisiana. Il giudice Stephen Breyer ha redatto
un’opinione dissenziente discostandosi dalla decisione della corte di rifiutare il certiorari.
Anche il giudice Ruth Bader Ginsburg si è espressa in dissenso rispetto alla maggioranza
della corte. Breyer si è soffermato a lungo sull’incostituzionalità della pena di morte come
viene attualmente applicata. La punizione capitale rimane una delle questioni più
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controverse negli Stati Uniti Negli ultimi mesi il tema è stato al centro delle decisioni di
diversi legislativi statali e di alcune corti distrettuali.
EQUAL PROTECTION CLAUSE E DISCRIMINAZIONE RAZZIALE
In Fisher v. University of Texas at Austin la Corte suprema ha stabilito nella decisione
adottata il 23 giugno con un voto di 4-3 che il programma di ammissioni che tiene conto
della razza in uso presso l’Università del Texas a Austin, quando la querelante, Abigail
Fisher, ha presentato la propria domanda di ammissione nel 2008, è costituzionalmente
legittimo in base alla Equal Protection Clause. L’opinione di maggioranza è stata estesa dal
giudice Kennedy, mentre il giudice Thomas ha redatto un’opinione dissenziente così come
il giudice Alito. Il giudice Kagan non ha, invece, preso parte al giudizio.
IMMIGRAZIONE
In United States v. Texas la Corte è stata chiamata a stabilire: 1. – se uno Stato che fornisce
volontariamente un sussidio a tutti gli stranieri titolari di deferred action (status particolare
che l’esecutivo può riconoscere agli stranieri che sono entrati negli Stati Uniti come minori
e che sono in possesso di determinati requisiti) è legittimato a promuovere un’azione in
base al Administrative Procedure Act (APA) nei confronti del Secretary of Homeland Security’s
guidance nel tentativo di stabilire un processo per considerare la deferred action per alcuni
stranieri; 2. – se la guida è arbitraria o comunque non in conformità con la legge; 3. – se la
guida è stata oggetto di procedure di notifica e commento sulla base di quanto stabilito nel
APA; e 4. – se la guida viola la Take Care Clause della Costituzione, l’articolo II, sezione 3.
Il 23 giugno, la Corte ha rinviato il caso alle corti di grado inferiore con la nota formula
“affirmed by an equally divided Court”. In questo modo la Corte si contrappone
all’Esecutivo nella politica dell’immigrazione.
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DIRITTO ALL’ABORTO
Nel caso Whole Woman’s Healt v.Hellerstedt, deciso il 27 giugno, la Corte con un voto 5-3
contro due punti della norma che avrebbero ridotto ulteriormente il numero di cliniche
dove praticare l’interruzione di gravidanza. A favore della legge si sono espressi il chief justice
John Roberts Jr., Clarence Thomas e Samuel Alito.
Secondo la maggioranza, le norme imposte dal Texas “hanno creato ostacoli inaccettabili
per l'accesso all’aborto”. Queste le motivazioni che hanno spinto la corte ad esprimersi
contro la decisione della corte d’appello, favorevole a due punti di una legge che avrebbero
provocato la chiusura di circa trenta cliniche, lasciandone attive solo dieci.
Il diritto all’aborto è stato riconosciuto negli Stati Uniti con la sentenza del 1973 nel caso
Roe v. Wade e difeso nel 1992 con la decisione nel caso Planned Parenthood v. Casey, con cui
si afferma che gli Stati non possono far gravare “undue-burdens” sul diritto costituzionale
di abortire, con la previsione di “norme sanitarie non necessarie che hanno lo scopo di
ostacolare le donne che vogliono abortire”. Il caso riguardava due punti di una legge del
Texas, firmata nel 2013 dall’allora governatore repubblicano Rick Perry, che prevedeva la
chiusura delle cliniche prive degli standard di un ospedale. La legge prevedeva, inoltre, che
i medici che praticano l’aborto nelle cliniche avrebbero dovuto avere il privilegio di
ammissione dei loro pazienti in un ospedale nel raggio di 30 chilometri, quasi mai possibile
in Texas.
LIBERTÀ RELIGIOSA
Questo autunno la Corte sentirà le argomentazioni orali in una controversia ha avuto
inizio come una battaglia a proposito di un parco giochi, o, per essere precisi, le superfici
del parco giochi presso l’asilo nido e scuola materna gestite da una chiesa del Missouri.
Nel caso Trinity Lutheran Church of Columbia, Inc v. Pauley la chiesa sostiene che la sua
esclusione da un programma statale che fornisce finanziamenti per aiutare le associazioni
no-profit a comprare le superfici di gomma del parco giochi violi la Costituzione, perché
discrimina le istituzioni religiose. La controparte statale sostiene che non vi sia alcuna
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violazione costituzionale, perché la chiesa può ancora svolgere le funzioni religiose o
gestire il suo nido come meglio ritiene opportune: lo Stato semplicemente non intende
pagare il rifacimento del parco giochi. Le due parti sono però d’accordo su un punto: la
posta in gioco in questo caso potrebbe essere molto più alta delle superfici di un parco
giochi. La disputa risale al 2012 quando la Trinity Lutheran Church ha presentato la propria
candidatura per un programma statale che rimborsa le associazioni no-profit per l’acquisto
e l’installazione di pavimentazioni di gomma riciclata dai pneumatici per i parchi giochi.
La chiesa sperava di poter accedere al programma per apportare delle migliorie all’attuale
stato del parco giochi. Il Department of Natural Resources del Missouri, responsabile della
gestione del programma di finanziamenti, aveva valutato positivamente la domanda della
Trinity Church che si era posizionata al quinto posto di un elenco di quarantaquattro
candidati. Sebbene fossero quattordici le istituzioni destinate a ricevere l’aiuto statale, la
domanda della Trinity Lutheran Church è stata rigettata sulla base di una disposizione statale
che nega il finanziamento statale diretto o indiretto a qualsiasi chiesa, setta o gruppo di
denominazione religiosa.
La Trinity Lutheran si è rivolta ad una corte distrettuale federale, sostenendo (tra l’altro)
che il rifiuto dello Stato di fornire fondi per il suo parco giochi ha violato due diverse
disposizioni della Costituzione degli Stati Uniti: la Free Exercise Clause del Primo
Emendamento, che esclude i governi dal fare leggi o implementare politiche che
proibiscano il libero esercizio della professione religiosa, e la Equal Protection Clause del
Quattordicesimo Emendamento, che impone ad uno stato di applicare uniformemente le
sue leggi ed evitare il trattamento differenziato di individui o gruppi di persone in
circostanze simili. Sia la corte distrettuale federale che la corte d’appello federale si è
pronunciata a favore dello Stato, ma il 15 gennaio 2016, la Corte Suprema ha accettato di
esaminare il caso. Sebbene l’oral argument non sia stato ancora messo in calendario è molto
probabile che la Corte esaminerà il caso nella seduta di novembre. Tradizionalmente i casi
che riguardano l’argomento religioso risultano molto divisivi per i giudici della Corte.
L’assenza del nono giudice renderà la decisione della Corte ancora più ardua e bisognerà
attendere per vedere se la Corte deciderà di attendere la sua integrazione e la nomina del
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successore di Scalia oppure optare per una sentenza contenuta che non stabilisca un
precedente per tutto il Paese.
DIRITTO AL VOTO
Il diritto di voto è stato oggetto di numerose azioni legali negli Stati Uniti, in particolare
in un anno di elezioni presidenziali. All’inizio di maggio, un giudice federale ha stabilito
che la legge di identificazione degli elettori della Virginia, che richiede che gli elettori
presentino un documento d’identità valido o al momento del voto o entro tre giorni dopo
il voto, è costituzionale. Sempre a maggio un giudice federale ha stabilito che il Kansas
non può richiedere agli elettori di fornire la prova di essere in possesso della cittadinanza
americana al momento della registrazione. In luglio un giudice federale ha stabilito che
l’eliminazione da parte dello stato Ohio dell’early in-person voting era incostituzionale e in
violazione della sezione 2 del Voting Rights Act. Il 20 luglio la US Court of Appeals for the
Fifth Circuit ha, infatti, stabilito che la legge del Texas sulla presentazione di un documento
di identità dotato di fotografia al momento del voto, ha effetti discriminatori sugli elettori
appartenenti alle minoranze e che si pone in violazione della sez. 2 del Voting Rights Act
(VRA). Il caso è stato rinviato alla corte inferiore per un riesame, affinchè stabilisca se
l’intento discriminatorio è intenzionale o meno. Alla corte distrettuale spetta ora
implementare un rimedio temporaneo alle procedure di voto. La legge del Texas
sull’identificazione degli elettori, approvata per la prima volta nel 2011, è una delle più
severe del Paese. La legge è stata in un primo momento bloccata dal Dipartimento di
Giustizia, che in passato aveva il potere di controllare le modifiche in materia elettorale
apportate in alcuni Stati in base alle sez. 4 e 5 del Voting Rights Act. Quando la Corte
Suprema ha eliminato, nel 2013, la sec. 4 del Voting Rights Act il Dipartimento di Giustizia
ha perduto tale prerogativa e il legislatore del Texas ha annunciato, all’indomani della
sentenza della Corte Suprema, l’intenzione di ripristinare la legge elettorale dello Stato.
Nell’ottobre del 2014 una corte distrettuale aveva stabilito che la legge SB 14 viola il
quattordicesimo e il quindicesimo emendamento della Costituzione e ha presentato un
ingiunzione permanente contro l’entrata in vigore della legge. Ma in seguito una corte
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d’appello ha temporaneamente reintegrato la legge, sostenendo che le elezioni erano
troppo a ridosso per apportare dei cambiamenti e la Corte Suprema ha concesso che la
legge tornasse in vigore. Il 29 luglio un giudice della US District Court for the Western District
of Wisconsin ha annullato diverse legge elettorali dello Stato approvate negli ultimi anni
affermando che “parts of Wisconsin’s election regime fail to comply with the
constitutional requirement that its elections remain fair and equally open to all qualified
electors”.
L’ordinanza della Corte Suprema di fine agosto ben si colloca all’interno della tendenza
consolidatasi negli ultimi mesi da parte delle corti statunitensi in materia elettorale.
Una Corte suprema divisa ha respinto il 31 agosto la richiesta del Nord Carolina di
permettere allo stato di far entrare in vigore tre delle previsioni della controversa legge
elettorale approvata nel 2013. Per sospendere l’esecuzione della sentenza di una corte
inferiore che blocca l’entrata in vigore della legge era necessario il voto favorevole di
cinque degli otto giudici della Corte Suprema. Il legislatore del North Carolina ha
promulgato la legge sulla scia della sentenza della Corte del 2013 nel caso Shelby County v.
Holder, che ha annullato la formula federale utilizzata per determinare quali governi statali
e locali devono ottenere l’autorizzazione preventiva ad apportare eventuali modifiche alle
loro leggi elettorali. Qualora la legge entrasse in vigore questa richiederebbe agli elettori
della Nord Carolina di mostrare un documento di identità rilasciato dal governo,
comporterebbe la riduzione del numero di giorni per il voto anticipato, l’eliminazione del
voto al di fuori del distretto, il divieto di registrazione degli elettori nello stesso giorno del
voto, e l’abolizione della pre-registrazione per i giovani elettori. Con l’ordinanza, la Corte
si è pronunciata solo sulla richiesta del Nord Carolina per far rispettare le tre disposizioni
durante le prossime elezioni di novembre; non entrando nel merito della sentenza della
corte inferiore. Lo Stato può ancora chiedere alla Corte Suprema di rivedere la
controversia, ma anche qualora la Corte accettasse di riesaminare il caso, non si
pronuncerebbe se non dopo novembre, pertanto, troppo tardi per incidere sulle imminenti
elezioni.
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FEDERALISMO
RICHIESTA DI IMPEACHMENT PER OBAMA
Il 19 maggio il legislative dell’Oklahoma ha approvato una resolution con la quale richiede
al Congresso di avviare un procedimento di impeachment a carico del Presidente Obama
in relazione alla sua direttiva rivolta a garantire la protezione e l’inclusione dei transgender
nella legislazione federale concernente i diritti civili. Il legislatore statale ritiene che il
Presidente abbia travalicato i poteri costituzionalmente attribuitigli. I membri della Camera
dei rappresentanti eletti da questo stato sono invitati, pertanto, a presentare articoli di
impeachment contro il presidente degli Stati Uniti, il procuratore generale degli Stati Uniti,
il Segretario della Pubblica Istruzione e qualsiasi altro funzionario federale. I diritti delle
persone transgender sono un tema al centro del dibattito politico a livello globale, come
dimostra la decisione del primo ministro canadese, Justin Trudeau, di introdurre in maggio
un disegno di legge che qualora venga approvato vieterà la discriminazione transgender,
includendola tra i crimini di odio.
PENA DI MORTE
La proposition 66 è una delle proposte legislative di iniziativa popolare sui quali gli elettori
californiani saranno chiamati ad esprimersi questo novembre. Si tratta di una proposta
molto controversa il cui fine è quello di introdurre procedure spicce, niente ritardi né
appelli che fanno lievitare i costi della pena capitale, tempi minimi di
permanenza nel braccio della morte. Il Californians for Death Penalty Savings and Reform, un
gruppo di pressione guidato da alcuni avvocati distrettuali e familiari delle vittime ha
raccolto un numero di firme sufficienti a svolgere la consultazione sul Death Penalty Reform
and Saving Act of 2016 l’8 settembre. Il 1° luglio il Segretario di Stato della California ha
ufficialmente certificato l’iniziativa assegnandogli il numero 66. Sul fronte opposto rispetto
a quello dei sostenitori della proposition 66 vi è il gruppo “Justice That Works”, guidato
dall’attore Mike Farrell, convinto abolizionista e attivista per i diritti umani di fama
internazionale, attorno al quale si è raccolto un impressionante numero di politici, capi
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religiosi, operatori del diritto e artisti a sostegno della proposition 62, The Justice That Works
Act of 2016.
SECONDO EMENDAMENTO
I temi del controllo delle armi da fuoco e del diritto a portare le armi, garantito dal
secondo emendamento, continuano ad essere piuttosto controversi negli Stati Uniti.
In giugno il Governatore delle Hawaii David Ige ha firmato una legge che richiede ai
possessori di armi di essere inseriti in un apposito database dell’FBI. Sempre in giugno, la
Corte Suprema ha negato il certiorari in due casi separati riguardanti i divieti per le armi
d’assalto. La corte ha negato gli appelli senza offrire alcun commento, lasciando inalterate
le sentenze delle corti inferiori che avevano ritenuto i divieti costituzionalmente legittimi.
In risposta alla strage di Orlando nel mese di giugno, le Nazioni Unite hanno esortato gli
Stati Uniti ad aumentare il controllo sulle armi. È in tale contesto che si inserisce la
decisione di alcuni legislativi statali di approvare una normativa limitativa del diritto a
portare le armi.
Il Governatore della California, Jerry Brown, ha firmato il 1° luglio venti disegni di leggi
approvati dal legislativo dello Stato, sei dei quali modificano la normativa dello stato in
materia di detenzione e uso delle armi da fuoco. I disegni di legge hanno diversi scopi,
come ampliare la definizione di “un’arma d’assalto” [AB 1135; SB 880], specificare i
termini delle relazioni per il prestito di armi [AB 1511], istituiscono il reato per aver reso
false dichiarazioni in merito allo smarrimento o al furto di un’arma da fuoco [AB 1695
testo], definiscono le modalità per l’acquisto di munizioni [SB 1235]. Le leggi giungono
dopo mesi di dibattito all’interno dello Stato a seguito della sparatoria di San Bernardino.
FORZE DI POLIZIA E USO DELLA FORZA
Il Governatore del Texas, Greg Abbott, ha annunciato il 18 luglio che intende proporre
una legge che preveda pene addizionali per i crimini contro gli agenti di polizia. Il Police
Protection Act (PPA) estenderà le garanzie previste per i crimini di odio agli ufficiali di polizia
e prevedrà l’organizzazione di una campagna educative a favore dei giovani texani
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sull’importanza del ruolo svolto dagli ufficiali di polizia all’interno delle comunità cittadine.
La proposta del governatore del Texas si inserisce nel contesto di un dibattito nazionale
riguardo il ruolo della polizia e l’uso della forza, soprattutto nei confronti dei cittadini
afroamericani. Anche altri Stati, tra cui il Nord Carolina e la Louisiana, hanno provveduto
a dotarsi di una legislazione a garanzia degli ufficiali di polizia in servizio, che prevede un
inasprimento delle pene per i crimini che li riguardano.
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