Volume 2 - B - MAC Francesco Bartoli

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Volume 2 - B - MAC Francesco Bartoli
sto per le forme di superficie.
ni. Assorbe dentro di sé le metafore del libro e della pagina
Un disgusto che lo porta ad attaccare il pervertimento della scrit-
senza concedersi alla commistione dei generi. È vero che la voce
tura, oltre che le immagini. Non per nulla uno dei fogli maggio-
agisce, interroga e talora coabita con lo sguardo, ma lo fa al prez-
ri custodisce una grafia per "ciechi", lacerata e in certo senso
zo di diventar muta, lasciarsi custodire e trasformare. Perché in-
arata sulla carta. Segno che essa interpella lo sguardo dell’inter-
fine che cosa fa la pittura nei confronti della lettera se non ac-
no ed è pluristratificata. Va presa come un luogo di movimenti
coglierla come una semente, interrarla e farla lievitare? Sentirla
ritmati, una respirazione nel bianco. Altre volte la lettera, non
come dono e calamita di visioni?
appena venga tracciata, si moltiplica, diventa ridondante, brucia
Difatti le scritture, quando ci sono, appartengono alla categoria
se stessa e il supporto disperdendosi come una coda di cometa.
aforismatica degli enigmi. Sono Lettere alla Sibilla quelle che
Viaggia sul foglio con una sua parabola aliena, quasi si trovasse
d’Agostino scrive e non altro; geroglifici e astanze che invocano
a percorrere un quadrante stellare. Oppure si rovescia, cammina
all’indietro, cercando riflessi e doppi nella motilità della mano sinistra.
Ciò che dilaga è in ogni caso lo scintillamento del solve, al punto
che la liquefazione penetra nelle zone d’ombra, sbreccia immagine e lettere. Dà corso ad un processo di sospensione, a pallidi
presagi di bianchezza che, ribaltando il senso della forma, non
ne fanno più un compimento quanto invece una testimonianza,
un resto, una traccia dell’evento.
Ma il salto definitivo avviene quando tutto il fare pittorico ne è
investito: il segno, la superficie, la pasta, il sostegno, vale a dire
l’intero continente emerso e sommerso della visione, il suolo e
il sottosuolo dell’immaginare. Se l’autore operava già da tempo
per via di congiunzioni, sovrapponendo falde di materia, comprimendo e fondendo una molteplicità di tracciati, vuol dire che
andava ormai precipitando l’investigazione nel semenzaio delle
figure. Diciamo pure nella regione del profondo. Ed anche il suo
bisogno di imbrigliare, quasi di spremere e far fermentare i detriti di paglia, ribadisce questa ossessione fusionale, che non a
caso viene esercitata su una materia simbolica, su un resto del
grano capace di produrre nuove linfe attraverso la macerazione.
Dalla paglia alla cera il passo è poi brevissimo, pressocché istantaneo. Ma comporta una maggiore duttilità e consente all’opera,
o meglio all’operante, di far leva su una fattualità di natura circolare, giacché con la cera e nella cera il tempo può essere articolato in molte direzioni, oltre al fatto, anch’esso determinante,
di ripristinare il luogo canonico e mitico dello scriba.
Questo spazio del rappresentare, la tabula, non toglie nulla al
peso specifico della pittura. Semmai il quadro di cera fa tutto il
G. d’Agostino, Andrea, 1983, pannello in alabastro, cm 220x60.
contrario: cresce in densità e allarga lo spettro delle associazio-
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la trasparenza, "prediche senza parole" di cui avvertiamo il cari-
scare la risalita. Disarticolando il fisso, apre finestre e sorgenti di
co d’ ’anima’. Il coinvolgimento psichico.
luce nel buio. Setaccia il confuso ispirandosi alle grammatiche
Tra le analogie che si potrebbero suggerire a proposito delle ce-
spirituali della agricoltura celeste.
re, ne trovo una suggestiva, almeno a livello preliminare, ed è
Il campo che ci si spalanca davanti non è però astratto. Parlerei
quella avanzata da Freud e commentata da Derrida per dar
piuttosto di scena simbolica in cui dapprima frammenti di corpi
conto della lingua dell’inconscio: il Wunderblock o notes magico,
naturali e poi elementi puri recitano ‘senza parole’. E mostrano,
al cui interno, e proprio su una tavoletta di cera, nessuna orma
anzi vivono una trasformazione.
del segno va perduta. Una sorta di spugna, di cuscino assorben-
Come Yves Klein, che resta nel nostro caso un termine di con-
te che si impregna di tutte le pressioni, tracce, negativi delle
fronto ineludibile, anche d’Agostino ‘pensa’ al vuoto, con la dif-
scrittture incise di volta in volta sulla superficie. Le conserva e
ferenza tuttavia che il suo indeterminato viene continuamente
metamorfosa in spaziature del silenzio che costituiscono una to-
rifatto, messo in discussione, sospeso. Si mostra nel limite del-
talità macerata e un fermento di resti. Un insieme sospeso.
l’immagine e della lettera, attraverso lo svanire-rinascere e ruo-
Ma l’analogia, occorre subito aggiungere, serve soltanto a metà,
tare del linguaggio. Con un disincanto (o una pazienza) maggio-
poiché se il quadro di cera ha a che fare, come non mi par dub-
re rispetto all’assoluto bruciante della purezza.
bio, col sottosuolo, il prelogico, la macchina del sogno, quel che
Anche il fumo in cui una figura si è dissolta serve per ripetere il
conta in definitiva è molto di più e forse il suo contrario: non il
dramma tenendo a bada l’arsura della totalità.
basso, la selvatichezza della terra, ma la sua sottilizzazione. Il ro-
Il pittore può sostare fra i relitti; scrivere che "la cera è vita e
vesciamento della gravità in chiarezza. E per dirla in breve, il
morte insieme" e che, coerentemente alla sua mitografia, lo
‘raro’, la produzione dell’ascesi.
sono anche le fibre naturali, le erbe, i petali, gli aghi di pino de-
È questa attitudine all’imbianchimento che si incarica di inne-
posti dentro la carne del quadro.
G. d’Agostino, Spessore e trasparenza, 1983, alabastro, cm 90x150x7.
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Perché una scheggia di stella, un seme d’acero, un petalo di rosa
magico e, come quello, istituisce una abbreviazione sintetica del
o di papavero? Il lettore non potrà certo dimenticare le valenze
mondo, una unità cronotopica.
iniziatiche, i simboli sacri di cui sono portatori; né tacere che quei
Lo si potrebbe chiamare anche una camera mentale, analoga-
sensi rinviano, si tratti del grano o del papavero, alla Demetra dei
mente a quanto accade in certi luoghi rarefatti della poesia stil-
misteri eleusini. Cioè alla memoria di un mito.
novista, specie in Cavalcanti, o della Vita Nuova, dove l’immagi-
Dalle triadi ai quadrati magici ai cartigli, tutta una folla di indizi
ne si accende in emblema e trova appoggio solo nella tensione
punta sulla cerimonialità della pittura. Ma l’essenza di questo rito
da cui è stata generata. Per effetto di una simile, ipnotizzata spa-
oltrepassando i contenuti delle memorie, si esprime nel rigore
zialità, cadono le quantità di orientamento, sì che l’alto e il basso,
del processo visivo, sul controllo delle tensioni e delle forme, sic-
l’arretrato o l’avanzante dipendono dai rapporti interni. E per di
ché la decriptazione dei segni ha unicamente la funzione sussi-
più oscillano nell’intercambio continuo di sfondo e figura.
diaria di tramare la rete del commento intorno al respiro interio-
Dov’è il centro nei Segni d’aria? All’interno o all’esterno del se-
re dell’opera.
gno? O questo centro non è piuttosto una pluralità vibrante, un
Se osserviamo il quadro, tutto ci porta dentro, poiché lo spazio,
cuore mobile? E poi: è sufficiente fermarsi su una sola di queste
una volta che sia stato perimetrato da confini di contenimento,
cere, quando esse sono state ulteriormente ordinate in stazioni
è virtualmente tutto lo spazio possibile, un infinito raggrumato
e si riverberano all’interno di una struttura più ampia che si in-
senza via d’uscita. L’irregolarità del bordo ha la potenza di un
cerniera, a sua volta, dentro un macrosegno?
cerchio incantatorio tracciato sul terreno per dar corso all’evento
Nello splendido trittico dedicato a Dante, per esempio, non è la
triangolazione di lettere e foglie a produrre lo stato visionario. Lo
è invece il sottilissimo equilibrio di una compagine che disperde
e al tempo stesso fa affiorare quei motivi sapienziali, li vela e
torna a rivelarli, trattenendoli in una specie di clessidra pencolante del tempo.
Il fatto è, per concludere, che d’Agostino, in questa ed in altre
opere (Le culle, Il glossario e via via fino ai Quadrati recenti), si
interroga sulla natura del simbolo. E lo fa con inquietudine. Mentre si lascia per un verso afferrare dalla pienezza dell’immagine,
per un altro la spezza, la fa circolare, sottraendosi al rischio di
una spiritualità astratta, disincarnata per eccesso, eterica. Pensa
al pneuma, ma lo vuole respirante, rischioso e, come lui stesso
dice, sempre "in gioco": un angelo che sia manifestazione degli
elementi e non il messaggero di un dio estraneo.
(1) Scritto in occasione della mostra “Giovanni d’Agostino 1972-1983”,
Casa del Mantegna, Mantova, 18 dicembre 1983-22 gennaio 1984.
G. d’Agostino, Pagina graffiata, 1972, inchiostro su carta, cm 58x65 (particolare).
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Cartomagie
Se poi andassimo ad interrogare le direzioni del viaggio nelle
Yasmin Brandolini d’Adda
(1)
carte precedenti, sorprenderemmo delle attitudini precise,
quelle stesse che oggi si manifestano nelle grandi famiglie
Il pilastro, la colonna, la lunetta, il fregio, la cornice, l’arco, la
delle scacchiere. C’è infatti un topos ineludibile, un centro at-
croce, la stele. Questi elementi che la dottrina albertiana ri-
torno al quale lavora l’immaginazione. Si tratta di un ele-
feriva al “terzo” volto dell’architettura, alla lingua della grazia
mento tellurico, una sorta di grave che lo sguardo si sforza di
e non della funzione, segnano i confini delle ultime carte di
catturare sotto la specie geroglifica, proiettandolo nel con-
Yasmin; li scandiscono e li accompagnano con lo charme del-
tempo contro un campo celeste.
l’ornamento.
Da Ragazza orientale a Moon sequence, attraverso la me-
Quale ornamento? Se fosse in causa l’inessenziale, vale a dire
diazione delle “rocce”, ha preso forma un corpo astrale il cui
un attributo connesso alle maschere ed al gioco del travesti-
movimento appare lentissimo, attingibile soltanto per flash
mento, non avremmo che i fantasmi dissanguati della finzio-
diradati, scatti dell’occhio sulla verticale e l’orizzontale. Basta
ne formale. Qui però siamo lontani dal trucco e dal belletto. I
vedere i disegni del ’74-’75, con l’à plat frontale, la partitura
supporti, i muri, le stanze e tutt’intera la vita della Casa
a sequenza, la chiave a croce: tutti segni che il movimento,
(l’atelier) del Mantegna reagiscono con l’intimo della pittura.
anche quello circolare, viene colto per scale, mediante conti-
Vi partecipano per via di addossamenti, sovrapposizioni, ri-
guità laterali ed elevazioni.
mandi e incroci di piani, riattivando uno dei dialoghi maggio-
Ora questo gramma, originariamente imparentato col corpo,
ri della visività contemporanea, quel colloquio con la parete
mette in moto il sistema degli spostamenti con ampiezza
e quell’insistere sulle potenze della superficie che fanno del
maggiore. Cresce per tagli e riprese in vista di aggregazioni
muro-velo il luogo di una domanda interminabile.
sintetiche. Detta direzioni. Nonché modulare gli spazi, vi im-
Quando l’ornamento, al di là della censura modernista, costi-
prime la meccanica della cerniera e dell’ambivalenza. Inter-
tuisce una espressione del rivelare; se legandosi ad una sim-
cambia sfondo e figura.
bolica del mondo, afferra e rende visibile l’essenziale cavan-
Infine le scacchiere sviluppano un racconto di cui le stanze e le
dolo dalle apparenze, così da ascoltare la voce del “numero”,
pareti costituiscono i paragrafi. Un racconto di ‘dorsali’ median-
allora la qualità dell’ornamento è presente da un pezzo nel-
te le forze (e perché no? gli archetipi) del colore e della linea:
l’opera di Yasmin. Questo ritmo lo cogliamo sulle carte: vive
il bianco, l’oscuro, il blu; l’albero, il pilastro, la mezzaluna.
nel registro del respiro, nell’andirivieni del chiuso e dell’aperto, del tagliente e del sedimentato.
In più v’è l’affacciarsi del gramma come telaio segreto dell’immagine. E poiché la lettera sprigiona desideri di contatto
fra scritture differenti, eccola suggerire serie interne, dilatazioni nello spazio e nel tempo, rifrazioni e colloqui.
D’altronde proprio il mito di un paradigma comune garantisce
l’interazione del dipingere col costruire. Assorbite dentro il
principio della risonanza, le superfici accolgono il cammino
dell’ornamento. Si lasciano iscrivere, occupare dai fogli, ed al
tempo stesso li sollecitano in modo da incentivare lo sviluppo, anzi il viaggio in figuris della pittura, le figure ben s’intende del piacere architettonico verso cui i dipinti, abitando
(1) Scritto in occasione della mostra “Cartomagie” tenutasi presso la
Casa del Mantegna, Mantova, 12 novembre 1983.
la parete sono andati progressivamente orientandosi.
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1984
Da Pino Guidolotti
a Kandinskij
Spiamenti
Pino Guidolotti
Disegno mantovano del ‘900
Mario Pecchioni
Dall’immagine alla luce
Sergio Sermidi
Disegno mantovano del ‘900
Teresita Vincenzi
Disegno mantovano del ‘900
Secondo itinerario
Cammino tra i riflessi
Nene Nodari
Disegno mantovano del ‘900
Sandro Bini
I “Mesi mancanti”.
Gruppo “Metamorfosi”
(Gabriella Benedini,
Alessandra Bonelli,
Lucia Pescador, Lucia Sterlocchi)
Disegno mantovano del ‘900
Michele Besson
Disegno mantovano del ‘900
Lanfranco Frigeri
Sensazioni di uno scultore chiarista
Ezio Mutti
Disegno mantovano del ‘900
Cesare Lazzarini
Nel silenzio della scienza
Vasco Bendini
Disegno mantovano del ‘900
Gianni Madella
Continuità impressionista
di Amedeo Rossi
Disegno mantovano del ‘900
Renzo Margonari
Itinerari nella camera chiara
Luca Alinari
Disegno mantovano del ‘900
Aurelio Nordera
Disegni e abbozzi
Enzo Nenci
Disegno mantovano del ‘900
Claudio Olivieri
Kandinskij tra apocalisse
e astrazione
Spiamenti
Pino Guidolotti
che cercare tra i particolari l’accensione nascosta, mettersi in
(1)
marcia e sorprenderla. Non perché quel frammento di universo
sia cosa morta e bruciata, o un testimonio dissanguato, ma per-
Pazza o savia, estatica o civilizzata? Se dovessimo servirci della
ché custodisce un’attesa e vuol essere chiamato. Di qui il piace-
celebre dicotomia con la quale si chiudeva, pochi anni fa, la Ca-
re del percorso, l’instancabile peregrinazione e - vorremmo dire -
mera chiara di Roland Barthes, non avremmo dubbi. Le fotogra-
la dromomania di Guidolotti. Il suo andare per luoghi che sono
fie che ci stanno davanti appartengono ad una famiglia difficil-
per lui contemporaneamente stipati di cose e solitari, intricati e
mente addomesticabile. Sono immagini che non documentano e
desertici. Labirinti comunque familiari, totalmente iscritti nella to-
non illustrano. Né hanno intenzioni socializzanti o morali. Ciò che
pografia di una deambulazione antiesotica e moderna, ferma al-
fanno apparire è l’eccitazione del reale, una parte di esistenza
l’Europa e al presente. Di modo che, se pure approda alle rive di
non ben decifrabile o comunque resistente all’interpretazione,
un paese, lo fa esplorando il confine e ricalcando un perimetro.
benché abbia a che fare, quasi annidandovisi dentro, con gli av-
Non per dissolverlo. Tant’è vero che le innumerevoli figure dei
venimenti normali che ci attorniano. O meglio: ci balza innanzi
suoi paesaggi costieri, da Ostenda a Londra a Ventimiglia, si
quel quotidiano inclassificato che spezza la misura consueta della
muovono pigramente sugli sfondi marini, vivono nella sospen-
percezione e i cui particolari, scaturendo all’improvviso nel centro
sione della sosta e degli alloggiamenti balneari, degli alberghi e
di un sistema, costringono a ripensare il generale sulle coordina-
degli insediamenti, come gli ospiti sulla terrazza di Juan Les Pins
te di un movimento imprevisto o di un lampo rivelatore.
o le tre ragazze sedute di spalle sulla spiaggia di Cannes, sulle
Niente posa fissa o macchine di tortura per calibrare l’immagine
quali è saldamente concentrato il fuoco dell’immagine. C’è un al
secondo una funzione discorsiva. L’obiettivo è una protesi docile
di là che è il mare, con una sua agitazione contemplata e visi-
dello sguardo tenuto ad altezza d’uomo, fatto scattare sul filo del-
bilmente misteriosa, ma appunto lasciata alla vista, mentre
l’orizzonte e fin là dove i passi possono arrivare. La fatica del foto-
l’azione, se avviene, la si coglie al di qua della barriera, in un
grafo va insieme con il lavoro del soggetto fotografico, con la com-
primo piano solitamente prolungato e insistito.
petitività di un volto, di una figura e di un luogo. L’incontro avvie-
Può ben darsi che la visione si organizzi in sequenza, slitti su una
ne - ci sembra - alla pari, qualcosa come un duello o una calami-
molteplicità di piani e livelli, ma quasi mai dà luogo ad uno sfon-
tazione di antagonisti che infine convergono, per un istante.
damento o ad una fuga di prospettive. Il fondo per lo più blocca
Il fatto è, inoltre, che le forze in gioco, quando agiscono, escono
l’inquadratura, costruendo uno schermo che ora è un riposo ed
all’improvviso dal buio, in tutto simili a due stranieri che si tro-
ora un enigma per gli occhi. Contro di esso accadono, possono
vano di colpo ad affrontarsi allo scoperto dopo un lungo pedina-
accadere degli incidenti: brevi moti e fluttuazioni di corpi, oscil-
mento. Si abbagliano l’un l’altro tornando poi ad allontanarsi. Sic-
lazioni e gesti minimi, ritrosie e voltafaccia di figure, irruzioni
ché non crediamo che si debba scoprire un senso definitivo o ar-
eterogenee e dualismi. Si direbbe poi che certe presenze in pri-
rivare alla conclusione di una storia smascherando il tema del-
mo piano avvertano una sottile complicità con l’invito al muti-
l’inseguimento, poiché si tratta invece di provocare un disordine
smo contenuto nei fondali e cooperino anch’esse al lavoro di na-
all’interno dell’ordine per darvi un ordine precario e contingente.
scondimento e sottrazione. In una delle tante istantanee prese
La storia, come suggerisce l’autore di un romanzo amato da Gui-
sulla Costa Azzurra, una tennista compie il gesto esemplare del-
dolotti, non s’arresta. Gira su se stessa nello spiamento continuo
l’arretramento, voltando le spalle e dirigendosi verso lo spoglia-
dell’elemento mancante o perduto.
toio. E in un’altra, con attitudine altrettanto significativa, il corpo
Che cosa muove il fotografo? Certo il disagio della mancanza e
della giocatrice appare barrato e semicancellato da un tronco. Né
la volontà di colmarla. Il senso della lontananza e del lutto, la co-
si saprebbe dire, ad una prima lettura del gioco, se si trovi di
scienza di trovarsi in un mondo di apparenze dove l’emozione è
schiena o di fronte, se intenda allontanarsi o concedersi. Vuol in-
una proprietà del segreto e della malinconia. Allora non resta
centivare una dialettica degli sguardi o, al contrario, allude al-
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l’oscuramento del volto? L’incertezza resta ed è una ambiguità
mo - da viaggiatore-reporter capace di sorprendere e contem-
suggestiva quando la si ponga in relazione col cammino melan-
poraneamente di lasciarsi afferrare, di perdersi a sua volta), l’oc-
conico del fotografare.
chio mette in atto un robusto dispositivo di cattura, una forma
Tanta potenza del piano di fondo ha una funzione protagonistica
intensiva di organizzazione dello spazio. D’altra parte non è certo
notevole, addirittura eminente. Lo ha a tal punto da diventare
un caso che agisca di preferenza faccia-a-faccia, nell’incontro di-
un’immagine in sé autonoma, ricorrente, perfino allegorica. È il
retto. La sua sapienza sta infatti nella ortogonalità della visione,
perimetro-parapetto della visione, la soglia che lo sguardo inter-
nella concentrazione dei pesi, delle bruciature e degli anneri-
roga. Talvolta tutto il campo visivo viene tradotto in muraglia e
menti: nel creare una maglia armonica di corrispondenze, dando
parete frontale, monumentalizzato, oppure converge su un og-
vita a quell’ordine del precario cui già si è accennato. Se c’è un
getto solitario, simile ad una porta bloccata. Volendo adottare un
debito nei confronti di un maestro italiano, vogliamo dire Paolo
criterio tematico, è certo legittimo suddividere buona parte delle
Monti, va visto sempre nella solidità della armatura compositiva,
immagini nei capitoli dei prospetti e degli angoli, dei fronti e
nella griglia sorretta da un centro mentale e percettivo. Con la
delle lateralità, anche se poi le dissimmetrie, i luoghi dis-centra-
differenza, però, che essa non viene più addossata a un mondo
ti e gli angoli rivelano una parentela profonda coi prospetti, non
di certezze storiche, non ha più niente da spartire col realismo e
essendo altro, in numerosi casi, che lo sviluppo rotatorio, semi-
lo sperimentalismo ‘positivi’ di una generazione di pionieri, tro-
circolare di quelli, il loro accartocciamento e, per dir così, la loro
vandosi piuttosto a fare i conti con un paesaggio senza gerar-
cieca piegatura. Una diagonalità dunque più apparente che
chie, con vuoti, rapide apparizioni, resti e solitudini.
reale. La svolta non sfocia in nessun luogo. È ancora un deposi-
Il piacere del relitto o della cosa individuata nel suo isolamento
to di oggetti abbandonati, una stanza senza uscita e una tesse-
la dice lunga in proposito. Ma non perché suggerisca un catalogo
ra del labirinto.
di ruderi o insegua l’estetismo delle rovine (giacché anche que-
Va anche osservato che, pur operando in velocità, una velocità
sta bellezza potrebbe essere, tra le altre, una forma di rinuncia e
che fa uso del flash quando occorre (una rapidità - aggiungia-
di evasione), quanto per il fatto che tante appartate singolarità
posseggono delle virtù. Risultano attive e dotate di una sorta di
fluido. Insomma magiche e irraggianti. Ragion per cui l’isolamento è una condizione necessaria per portarle a dichiararsi nel
loro campo di forza. L’inquadratura, l’incorniciamento e i segni di
contorno che spesso le accompagnano, rispondono oltretutto al
bisogno di un contatto senza dispersione, ad un assedio serrato
che è anche corteggiamento. I formati quadrati, così insistentemente circoscritti, ne sono un esempio prolungato e preciso.
Se poi qualche immagine confluisce, letteralmente, in una cultura dei deserti urbani ed anche nella lapidaria del ricordo, va
messa in rapporto, a guardar bene, più con l’esigenza dell’ascoltare che con la volontà di mortificazione. Difatti, mentre non si
può negare la pressione degli umori saturnini nei vagabondaggi
di Guidolotti, vediamo anche che la sua peregrinazione (o vogliamo chiamarla discesa nei limbi delle periferie e dei palazzi?),
s’imbatte in presenze animate, magari oscure e bizzarre, mai
vive: in altri viaggiatori delle memorie. Sono fantasmi o dèmo-
P. Guidolotti, Senza titolo, 1989.
ni? Spesso l’una e l’altra cosa, oltreché portatori (sospetti) di sor-
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P. Guidolotti, Conversation S. Rakmaninoff, 1975.
P. Guidolotti, Aix en Provance, 1982.
tilegi. Oggetti, animali e persone, non importa se reali o in effi-
ring marmorei, memori forse di Sander, i prati di golf, e infine gli
gie, fanno scattare la situazione. Delle sedie, un cane, delle sta-
interni senza tempo (e volume) di Casa Cicogna, le sue stanze-
tue, una hostess, gli “archeologi” di De Chirico, il gatto di Giaco-
fantasma, morbide e piatte come velari di polvere sfarinata sulla
metti, un violoncello, e via di seguito, con implicazioni differenti
superficie di uno specchio?
di caso in caso.
I ritratti fanno capire che nulla è disarmato e inoffensivo, poiché
Se prestiamo ascolto al fotografo, la mitologia personale batte e
la loro evidenza va insieme all’ironia, all’ammiccamento, alla
ribatte cocciutamente su questo realismo di carattere magico, al-
complicità, così come i luoghi si tingono talvolta di inchiostri sa-
lucinatorio, che finisce per interpellare la spettralità assoluta, lo
viniani. E trovo la conferma di quest’estro bizzarro più d’una
Straniero di cui non può ragionevolmente sorprendere che gli ef-
volta, specie in un certo dèmone “adolescente e sportivo” (me
fetti. Ma al di là del mito individuale, è pur vero che il colpo
lo segnala il suggestivo commento di Giovanni Venturini), che
d’obiettivo costruisce il deserto attorno all’immagine e si lascia
viene ad incrinare la sonnolenta atmosfera di un giorno medi-
attrarre dalle recitazioni silenziose, appartate, sperdute.
terraneo, irrompendo, guarda caso, dal basso.
Non è forse una ostinata segretezza quella che avvertiamo fin
dai primi gruppi di fotografie, nelle serie di “Ginevra” e della sala
(1) Scritto in occasione della mostra “Pino Guidolotti. Fotografie”, Casa
del Mantegna, Mantova, 5 febbraio-4 marzo 1984.
concerti parigina, nel ’74 e ’75? E che in seguito investe i lette-
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Dall’immagine alla luce
Sergio Sermidi (1)
“Non so cosa capiti esattamente nei prati della
verità; ma ho il sospetto che chi vi è stato abbia
visto soltanto una luce insostenibile: la stessa cui il
pittore tende, quotidianamente, l’imboscata proteiforme dei suoi colori”. Si conclude in questo modo il
denso saggio d’uno dei due prefatori della mostra di
Sergio Sermidi alla Galleria Civica di Suzzara, Luigi
Ballerini. E a risultati sostanzialmente convergenti
approda anche Flaminio Gualdoni, scrivendo di una
luminosità talmente tesa e vibrante da mettere in
scacco la padronanza visiva dell’immagine, la possibilità di una forma definitivamente conclusa. Forse
lo sguardo vorrebbe “solo respirarsi, essere di questa
stessa sensuosa consistenza di luce di cui pulsano i
suoi quadri. E così dissolversi”. Dunque la luce, indiscutibilmente. Ma quando è cominciata questa
avventura di pulsazioni e respiri radianti nella storia
dell’artista? Dove, in quali opere inizia il confronto
con l’energia che abbacina? Non paia curiosa o
strana una simile domanda perché la tensione, che
ora si manifesta sotto la specie dell’abbagliamento,
aveva assunto in anni relativamente lontani connotazioni abbastanza diverse. O per dir meglio, la luce
sprizzava a tratti, come contenuta e imprigionata
nella configurazione della tela, ma non costituiva
elemento centrale, la forza impressiva e soggiacente
al campo cromatico. V’era piuttosto strutturazione,
lavoro e immagliamento del segno, tessitura di fili e
tracciati colorati. E tranne qualche episodio di sfolgoramento incipiente, sempre contenuto tuttavia e
ordinato in figure in certo modo architettoniche (ad
esempio nel quadro Anabasi del ’68, opportunamente proposto nel percorso della rassegna), quel
che veniva fuori era il formicolare della materia, il
dibattersi dentro il corpo dell’immagine e tentare di
configurarne campo e perimetri. Una materia, è
vero, assottigliata, data a piccoli tocchi, a battiti
S. Sermidi, Dal ciclo ermafrodito, 1983-84, olio su tela, cm 282x182.
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veloci, ma pur sempre materia infittita, sovrapposta, testurata. E
impulsività incarnata, di colore raggrumato e denso. Sermidi
in più interveniva il gesto largo e convulsivo, di cui avvertivi il
impone al suo fare una griglia secca, dura, diamantina. Si
movimento del braccio e della mano, di temperie astratto-
‘amputa’ la mano per disciplinare i percorsi luminosi e spingerli
impressionista, alla De Kooning per intenderci, ossia il più
dentro un telaio sfibrato. Diminuisce la gamma dei colori, la
figurativo dei pittori d’azione.
riduce al nero e al bianco in certi momenti culminanti; ed anche
Del resto, quand’era stata la partenza di Sermidi? Se andiamo a
al tutto nero, costringendo chi osserva a compiere un vero e pro-
leggere gli esordi, i primi anni Sessanta, troviamo delle superfici
prio addestramento alla macerazione e alla rinuncia, quasi un
totalmente ingombre di presenze in movimento, corpi scenogra-
monastico esercizio spirituale.
ficamente disposti e pullulanti. Deformazioni anche e piegature,
Ed è la sete di luce ad imporlo.
stordimenti di una folla di figure microscopiche. Sicché un altro
Le tappe ulteriori, gli episodi in cui viene scandendosi la seconda
nome che vien subito alla mente è quello poi effettivamente
stagione, compatta e unitaria nel suo svolgimento generale, sono
convocato dall’artista qualche anno più tardi. Il Tancredi dei fibril-
soprattutto rappresentati dai processi di entrata e di uscita dal
lamenti vegetali, delle acque e delle terre; dei disegni e delle
bagliore: processi che stilisticamente si configurano come peri-
gouaches stesi dopo la rivelazione, al museo di Oslo, dell’opera di
metrazioni e segnature interne, battiti e specialmente ritmi
Munch. Non ancora quello della luce. Un atteggiamento pertanto
verticali. Impuntature e orditi, ‘cuciture di luce’, nel senso anche
espressionistico ma di un espressionismo in lotta col basso, col ter-
letterale del termine.
restre.
Che sono poi, come è stato osservato, “riti” della pittura.
Tant’è vero che, ancora sulle soglie del Settanta il tema dominante è un’immagine, già scorporata ed aerea. Ma un’immagine.
E non c’è titolo più azzeccato di quello dato dall’autore a quelle
tele di passaggio che oscillano fra un progetto di tessitura e una
volontà affatto opposta di spezzare la trama di contenimento, di
quello di “ameba”, di fantasma e larva in procinto di disfarsi. Ci
sembra allora che il secondo tempo di Sermidi salti fuori soltanto
quando il vincolo iconico viene radicalmente spezzato, quando
l’ameba esplode o si lascia percorrere da fulmini luminosi. Cosa
che accadde suppergiù intorno al ’72 (e già forse nel ’71), grazie
al ribaltamento dei tracciati che, anziché depositi, diventano tagli,
fessurazioni, luccicamenti. Uno di essi, Leonardo, serve bene a
dimostrarlo. Ma anche altri, in cui pure l’effige macroscopica è
scomparsa lasciando posto ad uno spazio in sommovimento.
La scelta decisiva arriva infine con l’adeguazione del luogo pittorico allo sguardo, allorché la tela si configura come un colpo di
ciglia, uno sbattimento visivo. In una fitta caduta di barre colorate
si apre quel che a Baratta, in un suo preciso commento, appare
allora simile ad un colpo di lama e a una ferita. Non un orizzonte
come qualcuno aveva creduto, ma uno sfolgoramento e insieme
una ottenebrazione.
Dal ’72 in poi prende vita tutta una rigorosissima e perfino ascetica e avara organizzazione della superficie: avara di gesto, di
(1) Articolo comparso sulla Gazzetta di Mantova del 24 aprile 1984.
554
Disegno mantovano del ‘900
tari, che si impongono per l’approfondito scavo dell’immagine o
Secondo itinerario
del segno.
(1)
Fissati questi confini cronologici, vanno dati come acquisite - in
Volendo tracciare un veloce profilo dell’avventura disegnativa
partenza - le conquiste dei pittori e scultori della precedente ge-
mantovana fra gli anni Trenta e Cinquanta, sembra conveniente
nerazione, le cui prove appaiono in quel giro di tempo, tutt’altro
sfoltire innanzitutto il labirinto di presenze, quasi un bosco e un
che rifluenti all’indietro o inaridite, anzi capaci di aggiungere
sottobosco, per tentare di cogliere, insieme ad alcune fioriture
nuovi e felici corollari alle esperienze già assestate. Tuttavia, pro-
coltivate e consapevoli, gli scarti e gli avanzamenti di specie ri-
prio perché si tratta di esiti consolidati, richiedono delle letture
flessiva, di idea e di poetica esplicita, che vennero a manifestar-
interne, che le schede del catalogo, e non questo scritto, si inca-
si in quel trentennio. Gli scarti, le deroghe innovative e i muta-
ricano di sviluppare.
menti, per dir così, di posizione interessano in questa sede più
È ben evidente infatti che taluni artisti stanno concludendo, nel
delle persistenze, magari in sé toccanti e sensibili, di tanti auto-
Trenta, la curva della maturità o chiudono il cerchio, venendo a
ri: deroghe e soprassalti che poi, quando li si guardi da lontano,
costituire con la loro presenza lo sfondo culturale sul quale (o
non sono molti, riducendosi in tutto a tre-quattro episodi di co-
contro il quale) incalzano gli interrogativi della generazione di
munità (o atmosfera) artistica e ad alcuni risultati di autori soli-
mezzo, nata suppergiù intorno al Dieci.
Giordano Di Capi, Vaso con rose, s.d., matita, mm 240x165.
Mario Moretti Foggia, Primavera, 1920, matita e matita colorata, mm 650x500.
555
Queste ‘autorità’ operanti possiamo subito nominarle, in modo
Il problema per gli altri è quello di tornare a prendere contatto con
da mettere in chiaro quale sia il crinale, sia pure mobile e sfran-
la “cosa vista”, con il reale, garantendolo contemporaneamente di
giato, di demarcazione. Sono i Monfardini, Bresciani, Guindani e,
una solida armatura plastica, ben contornata e tutta spiegata entro
più effervescenti forse di altri, i Giorgi, Lomini, Gorni e Vindizio
le radici della tradizione italiana. Figure, cose e paesaggi secondo
Pesenti: effervescenti beninteso nel campo del segno. Ad essi va
i modi “classici” di Carrà, ma anche di Funi e Sironi. Lo stesso De
naturalmente aggiunto, riconoscendogli una statura che non
Luigi, post-futurista, agita la questione insieme a Cavicchini, invo-
trova paragoni nell’ambito del territorio, quanto al genere satiri-
cando il principio del costruire con pesi e misure. È il famoso, lo-
co, Scalarini.
calmente, stile “bombé”, catafratto e concentrato verso l’interno,
Che succede tra gli anziani e i giovani?
che nei suoi quaderni Facciotto rimprovererà all’amico Cavicchini,
Non si assiste certo ad un pacifico cambio di consegne o ad una
ma che inizialmente convince anche lui, almeno fino al ’32. Tradi-
tranquilla discendenza. Notiamo invece l’incunearsi di personalità
zione nazionale, si diceva, mediata da Carrà, cui si affianca il ri-
insofferenti all’interno di un giro ormai riconosciuto, benché que-
pensamento dell’Ottocento, lungo l’asse della “buona forma” di
st’incunearsi non trascuri di agganciare qualche anello della vec-
Fattori e Fontanesi, con varie puntate anche in direzione Seganti-
chia catena, come avviene, per esempio, nei confronti di Lomini o
di Giorgi, che viene chiamato in causa, al giro di boa del decennio, da Sandro Bini quando scrive il volumetto Artisti per il “Milione”. Dietro Bini, o meglio alle spalle del suo aggancio, c’era stato
il preludio di innovazione di alcuni ingegni precoci (Fiozzi, De Luigi
e il primissimo Baldassari), che avevano dissodato il terreno sulla
scia (anche) del futur-dadaismo di “Procellaria” e di “Bleu”.
Fra i nuovi alcune pronunce formali di gran prestigio vengono a
poco a poco smorzate e fatte oggetto di discussione. Tra queste,
almeno una va evocata ed è l’aura stilistica coinvolta nei contraccolpi del primo dopoguerra e nella fine del mondo “secessionista”.
Press’a poco dal ’20 in poi Venezia, che ne costituiva una delle
maggiori condensazioni italiane, cambia di segno, sicché la città,
alla quale facevano capo, per il tramite naturale della veronese
Accademia “Cignaroli”, numerosi mantovani, assume un nuovo
volto e in più di un’occasione viene sostituita da Milano, con frequenza assai più forte che in tutto il periodo precedente. Fatto,
questo, ben documentato in Cavicchini “novecentista”.
Di conseguenza, muta l’articolazione della forma. La matassa stilizzata, nervosamente evocativa, dell’ornato “viennese”, latore di
intermittenze umbratili, più pensate che viste, dell’immagine, svapora dai fogli: la maniera “nordica”, come si diceva, di guardare
volti e corpi. Tuttavia un caso resiste, oltre alle già ricordate sopravvivenze, ma è un caso spiegabile con la cultura veronese,
giacché viene da Umberto Zerbinati, formatosi nel connubio casoratiano della rivista “Via lattea” e trapiantato in solitudine da noi.
Giuseppe Gorni, Figure femminili, s.d., china su carta, cm 24x16,5.
556
Giuseppe Gorni, Figure, s.d., inchiostro mordente su carta, cm 30,5x19,5.
557
Mario Umberto Baldassari, Torchio, s.d., lapis negro, mm 470x350.
558
ni, come mostrano i disegni giovanili di Perina.
re. E questo lo si dice per introdurre un paio di svolgimenti grafi-
Si guardino le carte disegnate con tecnica diversa (matita,
ci, di notevole conto per la storia locale del disegno, le cui sor-
penna, punta d’argento, carboncino, sanguigna) tra il 1928-’33,
genti alla fine si chiariscono nella nativa disposizione dello sguar-
vi si scoprirà l’invarianza della cifra “novecentista” o, per dir me-
do ad afferrare la vita in movimento, quasi al volo e per istanta-
glio, struttivamente sorvegliata della composizione nella mag-
nea: Baldassari e Lucchini, e molto più il secondo del primo, che
gior parte degli autori, compresi Bini, Di Capi, Lucchini, Dal Prato
è preoccupato di far stile anche nei fogli diaristici, mentre Lucchi-
e più avanti la Schiavi e Mimì Quilici Buzzacchi. Situazione a sé
ni, dotato di un infallibile colpo d’occhio afferra d’acchito i motivi
fa, com’è risaputo, Cavicchini, per la vastità dell’applicazione gra-
paesistici e fisionomici, andando per abrevviazione spontanea,
fica, spericolatamente esercitata con grande felicità inventiva
tra affettuosa ed ironica, nel cuore delle fisionomie. E quel che
anche nel campo dello schizzo d’ambiente, della caricatura e del-
l’occhio rapidissimamente mette insieme non è neppure un dia-
l’illustrazione giornalistica. E se in lui i due poli che avevano por-
rio, ma una ‘galleria’ di eventi, figure, volti, in cui la certezza del
tato a quella presa di partito, verità della cosa e solidità della
mestiere vien bruciata a vantaggio dell’affondo lineare o tonale.
forma, immediatezza e museo, si intersecano costantemente, in
Un’attitudine opposta, sempre a partire dal medesimo schiera-
altri si divaricano in più di un’occasione o vengono praticati come
mento, si manifesta invece nei disegni di Giordano Di Capi, che
spartiti paralleli che non è tassativo debbano sempre combacia-
fa prevalere l’altro corno della coppia sensazione/forma, col dar
Alfonso Monfardini, Due teste di vitelli, s.d., matita, mm 225x160.
Aldo Fiozzi, Grand Hotel, 1921, inchiostro, mm 160x110.
559
posto al ripensamento mentale, prolungato delle figure, in una
Passano pochi anni e le posizioni cambiano di nuovo. Questa
sorta di distillato riassunto delle strutture visive: una sintesi la
volta (e siamo così al secondo passaggio) lo scossone è forte,
meno accorpata e sugosa possibile. Cosicché finisce per adotta-
quasi una contromossa. È in gioco nientemeno che il programma
re ad un certo punto temi e tratteggi incrociati alla Morandi, iso-
di tornare ad essere “lombardi” o “lombardo-veneti”, del tutto e
lando l’oggetto nella sua solitudine formale, come si vede parti-
senza riserve, tenendo le radici nella tradizione settentrionale e
colarmente nelle nature morte.
gli sviluppi nella modernità.
In tutti questi casi il disegno viene ad imporsi davvero come un
D’altra parte il bisogno è generale, perché qualcosa di analogo è
genere autonomo, indipendente dalla pittura, con un suo speci-
in atto anche in altri centri italiani, dove si infittiscono i moti di
fico e penetrante compito di indagine nel campo espressivo:
riconoscimento e gli itinerari dentro il proprio ambiente sociale
cosa documentata, nel costume artistico, dal fatto che in parec-
ed umano, soprattutto di natura.
chie occasioni gli autori si affidano ad una intensa pratica del
In una recente e ben documentata mostra del Disegno italiano
‘genere’, collaborando a riviste, giornali, pubblicazioni di libri, e
fra le due guerre (Modena, 1983), Paolo Fossati ha sbozzato
allestendo piccole mostre proprio in questo senso.
un’area aperta, intitolata Luoghi, paesi, ritratti, tratteggiandola in
Guido Resmi, Donna che cuce, s.d., matita su carta, cm 16x11,5.
Ugo Celada da Virgilio, Figura maschile seduta, s.d., matita grassa e china su carta,
cm 19x13.
560
controcanto rispetto ad un’altra in cui lo stile agisce invece al di
sopra dell’impressione, come uno strumento che ‘rimuove’ l’immediatezza del vissuto. Come a dire che quando vien meno la
fede nell’antico e nel dominio dello stile, il modo più efficace per
riconquistare l’identità perduta consiste nel tornare a bagnarsi
nella vita elementare, e nel ragionarci all’interno, voglio dire all’interno dei propri ‘volti’ e ‘luoghi’, col proposito di cavare da lì
quell’autoriconoscimento che la storia imbroglia in tanti modi. Va
detto, però, che non si tratta di gettare la natura contro la cultura, ma di far agire il naturale contro la civiltà costringente, che è
tutta in luce.
Nel mantovano questa avventura si snoda a due livelli: uno discreto (introverso), l’altro più alto e dibattuto. Il primo orientamento, anzi, non nasce neppure da coscienza reattiva, ma si costruisce per resistenza, arroccamento e fedeltà ai ritratti e appunto ai paesi. Non vien fatta neppure una secca distinzione tra
la pittura e il disegno, ma ci si limita a depositare sui fogli episodi e motivi, schizzi e ‘pensieri’, non dico al servizio, certo però
in parallelo al quadro, come si può constatare, per fare un esempio diretto di questo registro ‘minimo’ (minimo rispetto al dipin-
Giordano Scaravelli, Ritratto maschile, s.d., inchiostro, mm 420x305.
gere), nei rari esercizi di Francesco Vaini, specialmente in quelli
degli ultimi anni con le vedute di Malosco o della riva di Sirmione, mentre nel Trenta domina l’intimità severa dei ritratti e della
casa. Ed è atteggiamento condiviso, benché lo spartito paesisti-
questa storia, ormai ricostruita su altre pagine), oltreché la lezio-
co appaia molto più ampio, dai melanconici del “Ducato”, tante
ne di Semeghini, da Monza e Burano. Lo stesso Marini, che vi
volte messo in rilievo da Emilio Faccioli: Monfardini, Resmi, Zan-
aggiunge il corollario della “pura sensibilità”, è stato a Monza
frognini, con il modesto seguito di altri che tuttavia traducono
per tempo e coordina a Castiglione un buon numero di rapporti.
quel segno in bozzettismo di maniera, per carenza d’autenticità.
A meno di scandire pochi nomi, il chiarismo rivela anche una di-
Accanto a questo ‘ruscello’ disegnativo, si svolge, con molte di-
sponibilità di innesti, magari di attraversamenti e contatti da
ramazioni, quel che vorremmo chiamare il ripensamento del-
parte dei pittori locali, che ne trapiantano certi aspetti sul loro
l’impressionismo per evitare di rimanere legati al puro feno-
terreno. Lo fa, ad esempio, Perina, mettendo insieme a modo
meno “chiarista”, che pure ne costituisce da noi l’anima portan-
suo l’elettricità di un Birolli con il realismo ‘sospeso’ di Del Bon.
te, se teniamo conto della partecipata lettura che ne ha fatto
Per sua natura il chiarismo punta sullo schizzo e sull’abbozzo
Giuseppe Tonna, ed il cui tratto specifico si deposita nella steno-
come evento disegnativo autonomo: e non uno schizzo solo, ma
grafica registrazione di scaglie luminose, nel segno emozionato
un’infinità di appunti, aggiustamenti e illuminazioni sensitive. In-
del paesaggio e del ritratto, sentiti e ridati per trasparenza: una
tere sequenze di fogli e fogliettini, pagine e pagine di album ci
vera e propria scrittura di complicità con le cose naturali, rifratte
restituiscono la mobile successione degli istanti nello sguardo
negli echi dello sfumato e della linea.
del disegnatore, che, ad ogni girar di pagina, varia un’inclinazio-
A dar consistenza alla situazione interviene in presa diretta sul-
ne del naturale che gli sta davanti. Quel che egli cerca è l’es-
l’Alto Mantovano la coppia Del Bon-Lilloni (ma non rifaremo
senziale della “cosa vista”, ma un essenziale metamorfico, che
561
può essere dato solo per contagio e compenetrazione. Né è
gonisti. O i linearismi dolci di Lilloni.
detto che una simile levitazione debba avvenire per scorpora-
C’è un pesare ininterrotto, diaristico nel senso letterale del ter-
mento delle materie, perché il segno è si nervoso, ma penetra
mine, giorno per giorno, delle forze nascoste nel paesaggio. Un
dentro la carne, si carica di febbri concrete e terrestri. Così si dan-
cercarvi l’anima. Nelle figure è la stessa cosa: un ficcar gli occhi
no molteplici declinazioni della “chiarezza”, tra loro inconfondi-
dentro le fisionomie, vederne le pieghe e i risvolti eccitati o in
bili ed anche divaricate: da quella, solidissima nell’impalcatura
ombra. Vedi i nudi e nudini-fantasma di Del Bon, le bambine, i
interna, tutta trasfigurata in chiave neoplatonica (Magagnato) e
volti e i corpi femminili di Semeghini; ed ancora i nudi, i vecchi
ad alto diapason luminoso di Semeghini, alle risoluzioni fisica-
e i matti di Facciotto. Gli autoritratti.
mente pregne e agitate di Facciotto, per fermarci a due prota-
Se tale è il nocciolo, ecco gli innesti. La Nodari, al seguito in quel
Elena Schiavi, Radici, 1953, sanguigna, mm 270x310.
562
Arturo Cavicchini, Ritratto di Sandro Bini, carboncino, mm 290x240.
563
momento di Marini (che, quanto al disegno, si cerca anche nella
no, l’esterno di Villa Tallone). Ne escono degli effetti da emble-
natura morta), vi lega dei risentimenti matissiani, inseguendo
ma, di temperie simbolica, tra Mallarmé e Rilke, affidati alle ca-
una sua rotondità sfumata che fa pensare a Bonnard. Mutti, de-
denze sospensive degli oggetti nudi, dei paesaggi senza perso-
rivando da varie fonti, trama come dei graticci lineari, forse i pre-
na, delle nubi, degli alberi, delle ninfee, irrealizzati in un taglio
sentimenti delle sculture nelle immagini. Perina comincia allora
essenziale che li rende muti e avanzanti.
a far reagire l’impianto cézanniano (e la svolta, in termini grafi-
Si tratta di un episodio d’eccezione e perciò andava sottolineato.
ci, verrà in chiaro definitivamente nella serie dei nudi, notevole,
Quanto ad Umberto Bellintanti, l’eccezione c’è ancora, ma di ca-
del ’46). Facciotto infine opera degli scarti gestuali, tormentati e
libro diverso.
‘tragici’, in cui porta ad ebollizione la sua memoria di Van Gogh,
L’origine è addirittura contraria: dalla scultura (studiata a Monza)
e con tale impeto da mettere da canto nel ’42-’45 perfino la pit-
alla poesia, con un passaggio che si consuma proprio nel Qua-
tura, o quasi.
ranta. E contrario è soprattutto il modo di figurarsi l’immagine,
Come si vede, un buon arco postimpressionista è largamente
espressionisticamente girata sulle torsioni, sulle linee di forza.
presente nella antitesi ritmica: piano/agitato, concentrico/cen-
Per Bellintani il favoloso sta proprio nel mescolare insieme l’uo-
trifugo, riflesso/espressivo.
mo con l’animale, l’oggi con l’arcaico, il divino (redarguito, però,
Intanto, mentre vanno in porto queste esperienze, occorre fare
un paio di digressioni, per non perdere di vista quel che avviene a latere, lungo i Trenta e i Quaranta inoltrati. La prima riguarda due scrittori, Zerbinati e Bellintani, la seconda gli effetti della
scuola romana su Seguri.
Già si è detto dell’emigrazione di Zerbinati a Mantova. Qui, lavorando in segreto, mette a fuoco, e più nella grafica forse che
nella scrittura letteraria, la sua vena di simbolista e visionario,
preparandosi attraverso il disegno (da vedere le sanguigne del
’39-’40) all’invenzione incisoria. La matita o la penna si incaricano in genere di afferrare un tema e di articolarlo nella inquadratura definitiva, di modo che il disegno è già, in certo senso,
l’acquaforte o l’acquatinta nella versione “dritta”. Qualche volta
esso svolge una dettagliata esplorazione del motivo, si concentra
su un particolare e lo indaga autonomamente, come avviene ad
esempio col mostro (l’enigmatico tronco della misteriosa Isola
dell’ulivo), a dimostrazione che l’incisione consente delle diversioni produttive, quasi delle deroghe all’imprinting. Altre volte la
penna scava nelle minuzie e nelle pieghe del progetto, opera
nel ritaglio, studiando una pronuncia particolare. Tutta la serie di
piccolissimi ritratti (e caricature) riferentisi ai frequentatori della
Biblioteca, dove Zerbinati lavorava, non fa che svolgere questa
inclinazione all’oreficeria disegnata. In altri fogli l’autore ha corteggiato, si direbbe, i propri soggetti, prospettandoli ora di fronte, ora da dietro o di fianco, alla ricerca dell’approccio più effica-
Umberto Bellintani, Figura urlante, s.d., grafite su carta dattiloscritta sul verso,
cm 29x21.
ce mediante l’aggiramento (cfr. le porticine con i cuori, il giardi-
564
propaggini di Corrente. Un’altra esperienza decisiva è rappresentata dalla conoscenza diretta della scultura latina, specie di quella tardo-imperiale, cioè di una forma composita e già toccata da
umori barbarici. Il suo vero clima è lì, non saprei dire se latinamente o romanescamente, nel suburbio osservato dagli intellettuali. Ma tutta Roma era allora un “bordello” gaddiano. A differenza comunque di Scipione, di cui Seguri ha considerato attentamente i lavori, quel mondo non viene stilisticamente distanziato, macerato attraverso la lente per vederlo vaporare in una
leggenda di decomposizione, ma l’artista ci sta dentro, lo prende a piene mani e lo manipola. E anche Mantova diventerà un
analogo “bordello”.
L’occhio palpa i corpi come delle presenze vive e anche se la
mano è crudele e cattiva, non li polverizza e li brucia. Al più li
Pio Semeghini, Canale a Burano, 1912, matita, mm 200x180.
per la sua troppa assenza) con il bestiale. Il dolce con l’arrabbiato. A seconda della prevalenza dell’uno o dell’altro registro, il
tono cambia, svariando dal sereno all’impulsivo, e - per dirlo con
terminologia tecnica - dal buon disegno per la plastica (ad
esempio nei Cavalli o nei nudi maschili e femminili) a quello gridato, espressivo e ‘maledetto’, con svolgimenti che mi piace
chiamare ’messicani’, da kermesse, per esorcismi della violenza.
Cosa che non si intende, però, senza leggervi dentro le figure
della poesia successiva, della quale il disegno è (anche) l’anticipo eterodosso. Per cui è conveniente, a questo punto, andare
alla scheda che lo riguarda.
All’incirca nel medesimo tempo sta entrando nel vivo Seguri, a
proposito del quale l’aggettivo “romano” potrebbe sorprendere,
visto che era stato Fontana ad indirizzarlo a Milano e che lì aveva
accolto l’eredità del futurismo, partecipando alla Triennale, alle
mostre volute da Marinetti, e frequentando Martini e Messina,
suo maestro a Brera. Naturalmente i segni di quest’epoca ci
sono, anche pregevoli, ma l’artista trova realmente se stesso durante il corso d’allievo ufficiale, a Roma appunto e nell’ambito
Umberto Lilloni, Renata, s.d., matita, mm 320x230.
degli interessi coagulati dalla galleria La Cometa, oltre che nelle
565
disarticola, come per eccitarli. I disegni dicono tutto questo e lo
duce altri esiti di rilievo, per esempio nel bel ritratto femminile,
fanno gradualmente per fasi conseguenti, fino alla conclusione
di ampia e solida costruzione, in certo modo masaccesca, com-
del Cinquanta. Insieme a qualche atleta, il soggetto privilegiato,
posto nel 1947: anno in cui si determina la prima rottura con i
costante, ossessivo è la donna, mentre nella scultura questo
romani. Ed un’altra la seguirà, a partire dal ’52-’53. Si profilano
tema si alterna alle teste (severe, scabre: e qui Marini è un buon
allora nuovi percorsi arabescati, post-cubisti, dietro i quali non
referente) e ai “pretini” con frequenza maggiore. A solidificarsi
c’è da vedere tuttavia un programma astrattizzante, quanto la ri-
dapprincipio è un corpo compatto, una radicata emergenza fem-
cerca di forme inedite in funzione del grottesco. Tant’è vero che
minea, qualcosa di simile ad una Mater Matuta: una fanciulla-
si decifrano, confusi nei gomitoli del segno, gli elementi di un
madre-cortigiana che ci squadra con imponenza ed in cui il pi-
bestiario, figure e immagini fantasticate. Le facce ed anche le
cassismo, mediato dall’incrocio con Guttuso, imprime pesi ed
coppie (Adami ed Eve a non finire) diventano campi di aggres-
energia. È una figura gettata nell’inchiostro a colpi di pennello o
sione; ed il corpo viene fatto ballare in una altalena di sloga-
a penna, velata da rapidi sprazzi di colore che l’impreziosiscono.
menti. Non annientato, perché rinasce come Proteo. L’artista lo
Costruita di forza. Poi le immagini acquistano maggior movi-
spettacolarizza, tirando i fili della sua viva marionetta e giocan-
mento, vengono fatte girare e spinte a esibirsi in centinaia e cen-
do con lei per la messa in scena di inesauribili combinazioni.
tinaia di fogli, con un gesto sempre largo di pennello, che pro-
L’altro scultore, Bergonzoni, ama invece la stanza chiusa e ripo-
Giulio Perina, Bagnanti, 1946, matita, mm 350x500.
566
sata. Fatta eccezione per qualche bozzetto gardesano, tende al
te davanti quei modelli europei che aveva potuto consultare di
concentrato e al silenzioso. Accenna appena al movimento e fa
rado a Milano o altrove, dovendosi per lo più accontentare di far
posare i corpi per seguirne, attraverso lo sfumato, il rabbrividire
congetture sulle illustrazioni. C’è il prolungamento del chiarismo
delle materie. Insegue le scaglie di luce e i chiaroscuri smorzati,
nei giovani Porta e Guidetti, l’indagine intimista della Vincenzi,
assestando l’impressione in una impalcatura d’equilibrio. Così in
ma non molto di più.
lui il passo è lento, interrogativo, tutto di verifica e ripensamen-
Dopo i nudi del ’46, Perina lascia del tutto il disegno. Il solo Di
to intorno alle forme che aveva sperimentato nel Trenta. Eppu-
Capi accenna qualche assaggio essenzialista, scompone i piani,
re, grazie a questo scandaglio, sarà tra i primi nel Sessanta a ca-
connette Morandi a Braque, ma finisce poi per consegnare ai di-
pire gli sviluppi materici del segno. In ogni caso resta sempre
pinti il suo bisogno di purificazione astratta.
uno scultore che disegna, mentre Seguri interviene sui valori al-
Molto lontano da Mantova (benché per un breve periodo, intor-
lusivi della superficie. Tornando ora al solco centrale dei pittori,
no al ’45, risieda sul Garda), Ugo Sissa compone le prime grafie
le novità tra il ’46 e il ’50 non appaiono di gran rilievo. È vero
“armoniche”, lavorando sul motivo della testa e della figura.
che qualche altro nome è venuto avanti, ma gli avanzamenti lin-
Sarà il disegnatore più conseguentemente neoplastico di tutta la
guisticamente importanti riguardano sempre la generazione del
vicenda mantovana, ma con referenti scarsi sul piano locale,
Dieci, una generazione che assesta il discorso avendo finalmen-
tranne un iniziale interesse per il chiarismo. I suoi modelli sono
Oreste Marini, Paesaggio del Garda, 1945, penna e feltro su carta, mm 250x380.
567
Alberto Viani, Figura femminile, 1952, matita, mm 480x330.
568
altrove (Mondrian, Severini, Braque), così come altrove stringe il
cia, questa volta verso i confini ferraresi, tra Revere e Quingento-
dialogo sull’arte contemporanea, a Parigi, Roma, Venezia: con
le, perché da lì vengono i segnali, per ora trasmessi dal solo Lan-
Corpora, Capogrossi ed altri. I suoi ritratti del ’46, esposti in mo-
franco Frigeri, di un cambiamento di rotta che avrà seguito più
stra, possono parere memorie del classicismo di Novecento, ma
tardi, in campo soprattutto tematico ed iconografico. L’allegato
in realtà ne sono lontanissimi. Ed ha ragione Magagnato quando
che segue il nostro scritto darà conto di quel clima, venuto a coa-
parla, a proposito di altre opere, di risentimenti razionalistici, ma
gularsi, per poi subito disperdersi, in un’area così circoscritta, qual-
di un razionalismo che vuol salvare l’emozione, e fa un nome
che anno dopo la guerra. Nell’intento di definirlo adotteremo
preciso: Schlemmer, cioè un metafisico che si sforzava di coniu-
un’etichetta quanto mai precaria, che tuttavia pare abbia funzio-
gare la misura mentale con la vita. Quando tornerà nel manto-
nato efficacemente in termini di militanza quando altri sintomi
vano, porterà a fondo il discorso sul segno e sui ritmi disegnati-
vennero a confluire insieme, al punto da creare uno schieramen-
vi, ma ormai, con questa vicenda, stiamo travalicando e di molto
to che fece di tutto per agitare le acque e farsi riconoscere. Si trat-
i limiti del Cinquanta e dobbiamo arrestarci.
ta del neosurrealismo o (altrimenti detto) fantastico. E già posta
Per riannodare le fila, c’è bisogno d’uno spostamento in provin-
così, la questione appare difficile da discriminare, poiché la stes-
Ermanno Pittigliani, Composizione, 1931, sanguigna, mm 275x375.
569
guerra: la possibilità di far nomi in grande, italiani ed europei, indotti da una rapidissima circolazione dei modelli attraverso le
mostre e la stampa.
Lanfranco, per conto suo, s’attacca alle suggestioni dell’“officina
ferrarese” ed è già pronto, al passare dei Quaranta, con una larga
serie di prove, che per noi restano le più convincenti, fino ad arrivare al ’52-’53: esercizi in cui alcuni motivi manieristici si incontrano felicemente con la ri-scrittura personale del disegno di
Moore. E fin qui il contenuto definisce anche un linguaggio, mentre l’intervento sempre più folto di figure e luoghi surrealistici
(da Dalì, per esempio) porta il dettato ad estroflettersi in racconto descrittivo.
Nel trascorrere di pochi anni, con partenze tutte diverse, si avviano le indagini di altri artisti, quasi tutte funzionanti da preNene Nodari, Antica pieve tra gli ulivi, 1936, inchiostro, mm 400x330 (particolare).
messa a quel che avverrà un decennio più tardi: Lazzarini, Pecchioni, Margonari, Emiliani, nomi che qui raccogliamo tutti insieme, anche se di “neosurrealismo” si potrà parlare precisamente
sa consistenza di un surrealismo italiano, prima del Cinquanta, è
soltanto per Margonari (con un doppio aggancio iniziale al nu-
tutta sub iudice ed ha carattere fortemente interrogativo.
clearismo milanese e ad Ernst), visto che le matrici sono da cer-
Comunque una certa forma di surrealtà era pur presente e po-
care per taluni nel visionarismo espressionista o tra i lasciti futu-
trebbe esser vista in quel passaggio dal “mistero” metafisico al
risti, mentre Lazzarini procede per conto proprio, lavorando sui
magico (così ipotizzano anche gli scritti del libro-catalogo Lette-
grafismi e su una sua teratologia fantastica.
ratura - Arte/Miti del ’900, (Milano 1979), che era avvenuto tra
I particolari si lasciano alle schede.
il Venti e il Trenta: un “magico” intermittente, patrimonio di nes-
Contemporanea ad un simile svolta, grossomodo d’immagine, se
sun partito in particolare, presente tanto nei secondo-futuristi
ne prepara una seconda (ed è il quarto mutamento nella nostra
(Prampolini, Fillìa eccetera), quanto negli astratti e perfino nei
sequenza) schiettamente formale. Verrà a maturazione nel ’55-
“candidi” di Persico: una galassia che può prestarsi a tutti i gio-
’58, ma è già nell’aria nel ’49, all’epoca del “Premio Mantova”,
chi. In ogni caso, dando per una volta credito ai manifesti (espli-
quando si accende quel moto di scavo entro la carne del pae-
citi più tardi), partiamo da un’etichetta minimamente prudente.
saggio che Francesco Arcangeli ha chiamato ultimo naturalismo,
E scriviamo “segni magici e surrealisti”, ribadendo che sono in
con i suoi riflessi fra i nostri pittori. Da parte dei più giovani, non
causa ragioni prevalentemente ‘mitologiche’ e contenutistiche.
ancora ventenni, il rapporto con la generazione di mezzo viene
Mettiamoci poi dentro, per non dimenticar nulla, anche i dèmo-
stretto in modo alternativamente consapevole o involontario,
ni locali, perché (ecco un altro aspetto della mitografia agitata
dovuto per lo più alle equivalenze di riferimento. Più di tutti lo
dai protagonisti), sembra proprio che un territorio, quello ferra-
cerca Morari, guardando agli “elegiaci”, a Facciotto e al mestie-
rese-mantovano, possa secernere una sua particolare specie di
re di Donati. Ma il vero perno intorno al quale tutti ruotano è, per
fantasmi. A chi esiga un poco di presa ‘storica’ nel campo della
qualche anno, Morlotti, il che spiega come corrano tanti paralle-
magie figurative, diamo due fili d’attracco: “Procellaria” – “Bleu”
li tra le opere di artisti che neppure si frequentano. Morari si
e la memoria di De Pisis. Per quest’ultimo si veda come ne parla
orienta delineando una sua triangolazione fra cultura locale, Mo-
l’allegato, ragionando di Luppi e del suo ironico crepuscolarismo.
randi e la cifra morlottiana, trovandosi vicino Olivieri (che è a
Si tenga infine conto di un fatto irreversibile del secondo dopo-
Brera con lui), in maniera talmente stringente che tra loro certe
570
prove disegnate appaiono composte in simbiosi, quasi indistin-
tendibile a metà del Cinquanta.
guibili, come nei carboncini ispirati ai campi e alle distese di
Ad allargare il sodalizio intervengono quasi subito i coetanei Ma-
stoppie. Poi trova lo spunto per individuarsi, tracciando segni
della e Schirolli col più giovane Besson, i primi due gravitanti
forti, durissimi, con i quali riempie tutta la superficie immaglian-
verso Modena (Spazzapan) e Bologna. Madella in realtà disegna
dola in una densa e segmentata trama strutturale, che estende
pochissimo e quel che disegna distrugge. Tuttavia, per parlarne,
anche ai ritratti (Vecchio) e alle figure femminili. Nei disegni a
bisogna aspettare che sia passato il ’55 o il ’56: soltanto allora,
penna, a tratteggio sottile, le smorzature puntano invece all’al-
nel pieno del dialogo con Bendini e Guidi, Schirolli cava fuori un
lusione, alla condensazione di temi aerei: segno evidente che la
ciclo memorabile di disegni a tecnica mista, tuffando le carte
riflessione intorno a Morandi non è mai abbandonata. Olivieri di-
nell’acqua e cercando presagi di luce (e di immagine) dentro le
mostra di avere una mano più agitata. Cerca il movimento, la fi-
chine, gli inchiostri e le tempere. Continuerà per quattro anni ad
brillazione, il pulviscolo. Non solo: rilegge una quantità di autori
interrogarle “romanticamente”, come ha scritto Roberto Tassi,
diversi e, laddove Morari riduce il visibile alla secca alternanza di
che rivedendole a distanza di anni ha potuto dire: “credevamo
chiaro/scuro, introduce variazioni di timbro e mobilità coloristi-
di aver trovato le figure e i canali attraverso i quali l’inconscio
che nel bianco e nel nero. Pensa al cielo e alle nubi anche se di-
dettava i suoi enigmi; credevamo di aver abolito il tempo nella
segna dei corpi, sicché Rondine può essere un contrassegno at-
pittura (...)”; e ora, riconsiderando “questi disegni, così intensi,
Carlo Bodini, Ponte levatoio, s.d., china su carta, cm 40x50.
571
Albano Seguri, Figura, 1944, inchiostro mordente su carta, cm 25x17,5.
572
Lanfranco (Frigeri), Personaggio stocastico, 1944, inchiostri, mm 500x380.
573
Mario Lomini, Nudo virile, s.d., disegno matita su carta velina, cm 50x34
574
un poco disperati, ancora frementi, abbiamo capito che tutto era
vero, che era proprio come credevamo”.
Siamo arrivati, com’è chiaro, al giro di volta dell’informale. De
Kooning, Burri, De Staël invitano a fare altri conti. Olivieri espone nel ’58 fogli colorati completamenti nuovi e Madella traccia
qualche omaggio in bianco e nero per gli “ostaggi” di Fautrier.
A Venezia, dopo l’iniziale adesione allo spazialismo, una “incantatrice incantata” (Bruna Gasparini) va scrivendo in filigrana la
meraviglia di un mondo in gestazione: un mondo sorpreso come ha scritto suggestivamente Alfonso Gatto – “là dove le
stelle morte sono ancora da apparire”.
Così siamo sul punto di concludere, ma prima di farlo resta da
percorrere l’ultima tappa. Ed è il caso unico di Carlo Bondioli.
Come definirlo? Non mi viene altro termine che quello di ‘puro’.
Per anni l’artista ha sondato i valori elementari del segno, spremendone il significato compositivo. È un purovisibilista che cerca
l’essenza del fenomeno ottico e la sua struttura portante. Guardando i suoi disegni e le incisioni, vengono subito in mente gli
spazi ritmici di Appia o gli spartiti seuratiani. Per lo spiritualismo
che lo accompagna, può trovare confronto forse col solo Di Capi.
Non che Bondioli respinga il dato percettivo, l’immagine vissuta.
Al contrario: è anzi partendo da essa che inizia la sua indagine
analitica. Scorpora la cosa per tradurla in idea ottica, in fatto
mentale. Tratteggi, grafie lineari, campiture, espansioni pulviscolari della grafite e dell’inchiostro servono a creare il massimo di
Teresita Vincenzi, La mamma Elvira, 1943, matita su carta, mm 200x140.
risonanza col minimo di materialità. Il bianco della pagina vale
tanto quanto lo scuro e talvolta di più. Delacroix (e non bisogna
meravigliarsene) rappresenta il suo punto di partenza, perché lo
possa immaginare, presi dal vivo, quotidiani. Sempre gli stessi o
stato d’abbandono, l’immediatezza e quasi l’ ‘automatismo’ del
quasi. Vanno a cicli e si ripetono. Quel che muta è evidentemen-
primo impulso visivo sono la condizione necessaria della medi-
te, insieme al tempo delle immagini, il processo spirituale che le
tazione. Lo dimostra la fase inaugurale degli anni Quaranta, con
configura.
la serie delle Impressioni, dei piccoli schizzi e dei “salti nel
Ora Bondioli li sta rivedendo, in un difficile esercizio di ‘traduzio-
vuoto”, come me li ha descritti una volta, durante i quali si è la-
ne’. Non solo: s’è costruito una piccola scena geometrica in cui
sciato afferrare dall’emozione: “impressioni” successivamente
le forme e alcuni oggetti elementari sono personaggi silenziosi
scandite in ritmi d’equilibrio, srotolate sul piano e in orizzontale,
che si prestano, docili, all’ennesima purificazione.
come se l’occhio fosse diventato una feritoia e l’immagine corresse, rigenerandosi per eco. Altre volte il tratteggio lavora per
incisione, fissa e determina il nocciolo persistente della cosa (cfr.
il Teschio di pantera), oppure i piani vengono giustapposti nella
(1) Scritto in occasione della mostra “Disegno Mantovano del ’900”,
Museo Civico di Palazzo Te, Mantova, settembre-dicembre 1984.
continuità della campitura. I soggetti sono i più semplici che si
575
Disegno mantovano del ‘900
com’era nella natura di Bini, ma per nulla acritica se è vero che
Sandro Bini
il bersaglio cambia subito di segno, con l’irrevocabile decisione
(1)
di applicarsi nella scrittura.
Frequentati e poi interrotti gli studi all’Accademia “Cignaroli”
Qual è stato il senso, allora, di una simile esperienza? “Lo scopo
(studi che concluderà più tardi a Brera), Bini pratica per breve
ultimo che egli perseguiva - ha osservato E. Faccioli - era quello
tempo il disegno, l’incisione e la pittura. Di quest’attività ante-
di procacciarsi uno strumento ausiliario della memoria formale,
riore alla militanza critica non restano oggi che frammentari e
di affinare e integrare la sua ricerca - che era di ordine critico -
disomogenei documenti, qualche rapido appunto di un gusto in
con un esercizio perpetuo di riproduzioni interpretanti, raccolte
formazione, nei quali almeno un punto fermo appare tuttavia
tempestivamente dai modelli dell’arte contemporanea”.
evidente: ed è la consonanza con Giuseppe De Luigi e Giordano
La cosa è tanto vera che, due anni dopo, nel volumetto Artisti
Di Capi, pittori d’indole diversissima, ma accomunati dal propo-
pubblicato dalla “Libreria del Milione”, Bini torna proprio a com-
sito di trar partito dalla forza costruttiva del colore per cavarne
mentare sui testi degli autori-modello le medesime opzioni for-
immagini robuste e serrate. "Mescolanze di colore + emergenze
mali nelle quali s’era personalmente implicato, per via di transfert,
plastiche" sarà la formula con la quale il critico condenserà futu-
disegnando e dipingendo. Dei sette autori presentati ben cinque
risticamente di lì a poco il ‘ritratto’ di De Luigi. Anche Bini inse-
appartengono, di fatto o per accidente, all’area veronese-
gue un solido impianto spaziale nelle sue prove più riuscite (al-
mantovana (giacché i coetanei Manzù e Tomea, allineati accanto
cuni oli e disegni di paesaggio), bloccando le forme intorno a ri-
a Giorgi, Lorenzetti e De Luigi, gli erano stati compagni d’Accade-
levati perni visivi e tentando qualche robusta abbreviazione sti-
mia), mentre gli altri due segnalano già la svolta verso l’orbita di
listica. I motivi vi sono come ritagliati, tradotti in solidi, ribaditi
Persico, cadendo tanto Sassu quanto lo scultore Luigi Grosso nel
nell’assetto ortogonale e con intento chiaramente dimostrativo.
giro dei nuovi primitivi sostenuto dal teorico napoletano.
Che si trattasse di esercizi di orientamento, utili comunque a
Poco prima era andato a vuoto, fin dal primo approccio, il colle-
prendere posizione e a dichiarare principi, è provato anche da
gamento con “Frontespizio” e Papini, mentre Bini si trovava a Fi-
un’uscita pubblica, una mostra di disegni con lo stesso Di Capi,
renze per il servizio militare, sicché diventa naturale, su insi-
fatta a Mantova nel ’30. Pros semeiòn, ossia “verso il bersaglio”,
stenza di Birolli, il trasferimento a Milano, dove si impiega come
è l’eclatante locuzione retorica xilografata dall’autore sul bigliet-
correttore di bozze presso “L’Ambrosiano”.
to d’invito: una pronuncia certo volontaristica, anche aggressiva
Prende corpo da questo momento, nell’eccezionale sodalizio con
Birolli, la sua avventura centrale. Bini entra nel vivo del dibattito
antinovecentista, segue fin dalle prime prove autori come Fontana, Messina, gli astrattisti del Milione, commenta assiduamente e dall’interno la ricerca birolliana, confluendo infine in Corrente, di cui diventa uno dei protagonisti.
Sposatosi, insegna per qualche tempo a Fano dopo lo scoppio
della guerra. Richiamato per l’ennesima volta in servizio militare, muore alla stazione di Bologna sotto un bombardamento,
mentre viene tradotto con altri prigionieri su un convoglio sorvegliato dai tedeschi, il 25 settembre 1943. Alcuni dei suoi maggiori scritti sono stati raccolti nel volume Responsabilità della
forma, Milano-Mantova, 1971.
(1) Scheda del catalogo “Disegno Mantovano del ’900”, Museo Civico di
Palazzo te, Mantova, settembre-dicembre 1984.
S. Bini, Architettura, s.d., grafite su carta.
576
Disegno mantovano del ‘900
Michele Besson (1)
Ha disegnato e dipinto soltanto per alcuni anni,
giovanissimo, mentre frequentava il ginnasio e il
liceo. Dopodiché ha rotto bruscamente con l’attività artistica per dedicarsi alla professione di giudice.
Al di là dei risultati, sorretti comunque da un sicuro istinto per l’immagine, il suo caso interessa sia
per la puntualità delle scelte tematiche, fatte in un
momento ‘critico’ della pittura mantovana (il passaggio, nei tempi giusti, dal neonaturalismo all’informale), sia per aver costituito una parte non marginale nel gruppo dei quattro: i due di "Brera" (Olivieri e Morari) e i "bolognesi" Madella e Schirolli.
Intorno al ’53-’55 la consonanza maggiore è con
Morari, che lo addentra in qualche corollario della
tecnica e di cui adotta la griglia paesistica, mantenendola però entro toni più sfumati ed evocativi.
Anziché puntare su una solidale e corposa matassa disegnativa, scandisce su poche bande orizzontali i segni fitti del carboncino, facendoli fluire uno
dopo l’altro e tenendoli come in sospensione. Il legame con i pittori mantovani del paesaggio è consegnato ai motivi figurali e alla breve striscia di appoggio, in primo piano. Gli oli del medesimo pe-
M. Besson, Alberi, 1955, carboncino su carta, mm 280x210.
riodo confermano questo tipo di inquadratura, con
in più qualche eco di morandismo.
Nel ’55 vince, con Morari, il Premio Di Capi.
Smette per un paio d’anni, poi riprende per brevissimo tempo a dipingere nel ’59: questa volta a tempera, quasi per appuntare delle forme. A spingerlo
sono ora le suggestioni mediate dai "bolognesi",
certi segni e macchie calanti nel vuoto che Besson
interpreta come esempi di scrittura interiore, emozionale e oscura. In entrambe le fasi, così diverse
tra loro, contano gli assaggi, gli spunti e soprattutto le idee. Il che spiega l’icastica definizione pronunciata da Schirolli dall’interno del mestiere: "il
più intelligente di noi".
(1) Scheda del catalogo “Disegno Mantovano del ’900”, Museo Civico di Palazzo Te,
Mantova, settembre-dicembre 1984.
577
Disegno mantovano del ‘900
l’autore precisa il suo orientamento inclinando d’istinto verso
Lanfranco Frigeri
l’arte fantastica, con una speciale predilezione per Dalì e il visio-
(1)
narismo di Moore. Proprio allora prende corpo il capitolo forse più
Nato a Quingentole (Mantova), è già attivo nel Trenta. I primi di-
intenso del suo fare disegnativo, con matite e inchiostri colorati,
segni, datati intorno al 1933-34, mentre evidenziano un sicuro ad-
caratterizzato da tematiche biomorfiche e ‘sotterranee’, in cui do-
destramento disciplinare, rivelano, unitamente alle suggestioni del
minano le figure velate e avvolte in se stesse come bozzoli, i corpi
Quattrocento ferrarese, la conoscenza - sia pure mediata dalle il-
cavi, le immagini sgretolate dei pensierosi, insieme alle struttu-
lustrazioni - dei pittori nordici del Rinascimento e di El Greco. Se
razioni plastiche e arcaizzanti di motivi ossei: una linea, quest’ul-
per molti aspetti lo sfondo culturale di quegli anni appare eclet-
tima, significativamente affiancata da un ciclo di sculture in creta
tico e talora eterogeneo (data la commistione dei modelli antichi
o in gesso, anch’esse agglutinanti i piani compositivi dell’imma-
con l’incipiente iconografia delle strips fantascientifiche, del lin-
gine in senso metamorfico e simbolico.
guaggio alto di un Tura, ad esempio, con la parlata bassa di Alex
Più tardi Lanfranco si dedica quasi esclusivamente alla pittura, in-
Raymond, ed in più echi del simbolismo storico), il momento ese-
terrompendo l’istanza così promettente delle plastiche. Intensifica
cutivo ha in genere un effetto unificante, riuscendo a risolvere con
i rapporti con l’esterno (nel ’51, a Parigi, incontra i surrealisti, Bre-
cifra personale riferimenti tanto disparati. Il decennio seguente
ton compreso) e tiene le prime mostre a Venezia e Milano, tra cui
svolge poi un ruolo decisivo, non solo e non tanto per la fre-
una di sculture gettate in bronzo. Altre esperienze non seconda-
quentazione delle Accademie di Bologna e "Brera", ma perché
rie sfociano nelle riviste “Specula e microscopio” e “Diorama”, nel
cui territorio vanno per altro registrate le collaborazioni di amici
più e meno giovani.
Dopodiché, persistendo nel far rifluire dentro il dipingere i suggerimenti del disegno e della scultura, approfondisce il tema
delle "trasformazioni", anche nell’intento di consegnare uno stilema inconfondibile (una sorta di levigata cosmesi dei corpi cavi)
al consumo visivo. Il che avviene, ma con varie concessioni al mercato delle immagini. Segni d’apprezzamento sulla sua linea centrale vengono intanto da Moore e, secondo una testimonianza indiretta, da Magritte. Infine l’artista, inseguendo il proposito di
saldare certi aspetti della scienza (o, per dir meglio, dell’utopia tecnologica) con la fantasia, si sposta sempre più verso ipotesi rassicuranti sul futuro. Le paure di disumanizzazione si acquietano in
racconti a programma: veri e propri esorcismi che sospendono l’inquietudine. Vien fuori quel che l’autore stesso, nelle dichiarazioni
di poetica, chiama "futuro umanesimo", un’attitudine commentata
- tra gli altri - proprio da un cibernetico ad oltranza, Silvio Ceccato.
Riconoscimenti della sua presenza "anticipatrice" nel panorama del
neosurrealismo vengono soprattutto da critici stranieri: J. Revel, T.
Mauser e J.C. Guilbert.
(1) Scheda del catalogo “Disegno Mantovano del ’900”, Museo Civico di
Palazzo Te, Mantova, settembre-dicembre 1984.
Lanfranco, La ragazza negra a New York, 1949, paraffina rosa, nero di china,
cm 50x35.
578
Disegno mantovano del ‘900
e compiaciuti, situazioni storiche e reali, drammi collettivi (la
Cesare Lazzarini
guerra, ad esempio), aspetti del costume ed esperienze private.
(1)
Ne vien fuori, in genere, quel che un critico ha chiamato con feCesare Leonbruno Lazzarini, nato a Mantova, dove vive e lavora
lice espressione un’"epifania sadica" in chiave estetica. A questo
come insegnante, si è diplomato in scultura all’Accademia di Bo-
proposito più che di onirismo conviene parlare di una logica im-
logna. Fra i molteplici capitoli della sua ricerca (plastica, pittori-
maginaria tesa a scomporre i dati dell’esistenza, a farla penco-
ca e grafica) il disegno costituisce una sorta di denominatore co-
lare fra l’orrore dell’impietramento mortuario e il piacere della
mune e quasi la matrice di un largo spettro di generi e ‘sotto-
germinazione organica e del caos. Giorgio Celli, con il quale Laz-
generi’ espressivi che vanno dall’oreficeria all’illustrazione del
zarini intrattiene a partire dal Sessanta una produttiva amicizia,
libro. La consuetudine con il testo letterario (e teatrale) è attiva
dà della sua opera una lettura puntata sul proteiforme e sul lu-
fin dai primi anni, dando luogo a commenti fantastici della pa-
ciferino, parlando di barocco funebre e di creazionismo: "Ci tro-
gine interpretate, da Dante e Shakespeare agli scrittori d’oggi.
viamo di fronte - scrive - ad una interpretazione e a una sco-
Contemporaneamente a questi interventi ‘paralleli’, l’artista af-
perta; la scoperta, cioè, del sadismo come una vera e propria ca-
fronta nel disegno, ora con tratti satirici ora morbidamente acidi
tegoria del fantastico e l’interpretazione del teratologico in chiave di una ’teratologia feconda e sperimentale’, l’istituzione, cioè,
di un nuovo luogo ottico dove la mostruosità diviene una stabile condizione della bellezza". Valenze mito-autobiografiche,
nella stessa temperie appena commentata, sono state ulteriormente indicate da B. Guerra.
Dopo una precoce presenza nella sezione grafica della Biennale
veneziana del ’56, l’autore ha partecipato a mostre di vario genere (anche d’arte sacra) in Italia e all’estero. Facendo poi seguito alla collaborazione con alcuni esponenti del "Gruppo 63", si è
interessato di allestimenti scenici e museali: "Occhio-Iperocchio",
"L’angelo e il suo doppio", eccetera.
Fra i libri illustrati si citano quelli dedicati di recente ai Vangeli e
a Virgilio.
(1) Scheda del catalogo “Disegno Mantovano del ’900”, Museo Civico di
Palazzo Te, Mantova, settembre-dicembre 1984.
C. Lazzarini, Essenza dell’uomo e formazione dell’esistenza, 1957, matita su carta.
579
Disegno mantovano del ‘900
Trasferitosi a Milano, prende partito per una posizione pittorica
Gianni Madella
duramente antagonista verso il modernismo ed ogni forma di
(1)
astrazione, compresa quella - pure altissima - ispirata da MonInterrotti gli studi liceali ed ottenuta la licenza all’Istituto “Adolfo
drian. Insofferente anche della propria generazione, per lui ac-
Venturi” di Modena (corso di decorazione con Spazzapan), si
quiescente ai risultati ultimi dell’informale, cerca lo scontro di-
iscrive all’Accademia di Bologna seguendo per quattro anni l’in-
retto con l’edonismo pittorico e propone in alternativa delle
segnamento di V. Guidi.
forme energiche, ‘competitive’, che intendono essere al tempo
Frequenta Mascalchi, Frasnedi, Barilli e Schirolli, che più tardi lo
stesso fisicamente pregnanti e psichicamente dense, spirituali.
introduce presso Bendini. Anche Pozzati è nel giro delle sue ami-
Cerca l’immagine come emblema e archetipo culturale. Per que-
cizie. Grazie a Guidi, l’incontro con gli autori contemporanei av-
sto riprende alcune icone della storia figurativa tardomedievale
viene in modo intenso, senza pedanti remore scolastiche. In un
e umanistica, sottese alle figure, per farne le protagoniste delle
primo tempo guarda a Fontana, Vedova, Burri e Rothko, poi pre-
sue tele: i “troni”, le “cupole”, le “colonne”; oppure, risalendo al-
cisa un deciso orientamento nei confronti di Fautrier, intorno al
l’indietro dai moderni agli antichi, per esempio da Licini al Beato
quale (ma anche a De Pisis) svolge una lunga serie di esercizi, e
Angelico ai senesi, ritaglia qualche brano iconografico, inten-
di Pollock: del primo coglie il lavoro sulla materia e l’uso di pro-
dendolo come significativo di una scena profonda che agita se-
cedimenti insoliti, quasi magici, come gli “spolveri” (oltreché la
gretamente la rappresentazione di superficie, ma non si lascia
mitologia arcaizzante), mentre apprezza del secondo la capacità
afferrare: brani figurali, da lui chiamati Sinopie, ai quali dà un’ar-
di dominare col ‘metodo’ l’irruenza del dettato gestuale. Guidi gli
ticolazione anche simbolica. Galleria di riferimento: “Morone 6”,
funziona come un ponte ‘classico’ tra i due, specialmente per la
vale a dire Vago, Raciti, Olivieri, Melotti.
tematica e lo stile dei “Tumulti” e delle “Architetture umane e
cosmiche”. Tanta parte dei successivi motivi deriveranno a Ma-
(1) Scheda del catalogo “Disegno Mantovano del ’900”, Museo Civico di
Palazzo Te, Mantova, settembre-dicembre 1984.
della proprio da simili confronti.
G. Madella, Riflessione su un ostaggio
carboncino, pastello e acquerello, cm 75x100.
580
Disegno mantovano del ‘900
insistita negli "studi" prima del Sessanta riguarda la figura del-
Renzo Margonari
l’uomo, quello fabbro ed artifex, còlto nello scacco di un ecce-
(1)
dente sogno costruttivo o comunque appesantito da un sovrapL’esordio avviene a diciannove-vent’anni, al di fuori della recen-
più di attrezzeria mentale (qualcosa di simile ad un macinapen-
te tradizione mantovana (con “Procellaria” e "Bleu" però sullo
sieri) che sfocia infine nel ‘no’ alla costruzione meccanica. Di lì a
sfondo) e piuttosto in rapporto con i pittori "nuclearisti" di Mila-
poco inizia la serie delle metaforizzazioni zoomorfe dell’umano,
no, Baj e Dangelo. Anche Fontana, come per altri giovani, costi-
femminile o aggressivo, prima con gli "arrampicatori" e in se-
tuisce un generoso polo di confronto. Alcune carte del ’56, ese-
guito con i bestiari aerei, variamente declinati in senso positivo
guite a tempera o con inchiostri colorati, restano a documentare
o satirico, oltreché in sequenze a strisce che corrispondono ad un
l’iniziale interesse per il gesto, la materia e la prontezza del det-
cambiamento di funzione delle nuove segnaletiche. Parallela-
tato. Quasi subito tuttavia l’esecuzione rapida del segno (una ca-
mente all’avanzamento della ricerca espressiva, l’autore mette a
ratteristica che nella poetica dell’autore appartiene soltanto al
punto il suo dissenso nei confronti dell’arte programmata e neo-
fatto grafico e non alla pittura, connotata invece da tempi lun-
costruttivista, facendo infine culminare tutta l’operazione in una
ghi) si incarica di accogliere presagi di figure ed immagini. Mac-
prima mostra di tendenza ("Il recupero del fantastico", 1967),
chie, filamenti e tracciati cromatici prendono a configurare, al-
che vede la confluenza di Abacuc, Bec, Fieschi, eccetera e regi-
l’interno di una spazialità immaginaria, incipienti presenze nar-
stra il consenso di Cagli, Matta ed altri. Sullo sfondo di un simile
rative, tant’è vero che numerose didascalie insistono nell’indica-
impegno opera, ad evidenza, un energico rilancio dell’utopia
re stati germinali o nascenti. Ad esempio:"Qualcuno osserva na-
bretoniana, con la correlativa volontà di coniugare il momento
scere una generazione sconosciuta". Quest’attitudine al racconto,
creativo alla rivoluzione politica, l’immaginario al reale. Del che
inclinante ora al favoloso ora al corrosivo, si nutre ad un tempo
sono evidente riflesso le stesse definizioni ("realismo fantastico"
di citazioni colte e di brandelli di memorie personali, come nel-
o "parasurrealismo") coniate dai critici per dar conto della ricer-
l’Omaggio a Juvarra e in Primavera del ’58-’59, dove locomoti-
ca di Margonari. Difficile da questo momento in avanti informare
ve dechirichiane, scale ‘molli’ e aerostati interferiscono con i mi-
sul vorticoso attivismo del pittore-critico, studioso dell’arte sur-
ti soggettivi. Fra i molteplici referenti indicati dagli interpreti
realista europea e della storia della pittura mantovana, rinasci-
(Dalì, Savinio eccetera), è soprattuto Ernst a fare da modello pro-
mentale e d’oggi. Anche delle espressioni naives. Ci si limita per-
pulsore: l’Ernst delle procedure linguistiche sperimentali, delle
ciò ad una indicazione: nel ’67 esce la monografia, la prima in
forme e non dei contenuti. Una interrogazione particolarmente
italiano, dedicata a Maurice Henry per i tipi di Mazzotta e nel ’71
lo scritto "André Breton - Un uomo attento".
Gli anni seguenti, mentre registrano la crisi irreversibile delle
ideologie, segnano (ma anche questa è solo un’indicazione
sommaria) un’epoca più turbata nella pittura dell’artista, compensata dalla robusta sottolineatura del magistero formale, sempre più volto ad una ferma stilizzazione: alla conservazione, si
potrebbe dire, del sogno nel mestiere.
(1) Scheda del catalogo “Disegno Mantovano del ’900”, Museo Civico di
Palazzo Te, Mantova, settembre-dicembre 1984.
R. Margonari, Senza titolo, 1960, inchiostri e couté su carta, cm 24x32.
581
Disegno mantovano del ‘900
Nel disegno, quasi mai posto al servizio della scultura, Nordera
Aurelio Nordera
cerca un linearismo essenziale e forme pure, giocate sulle spa-
(1)
ziature bianche della carta. Immagini veloci, registrate dal vero,
La formazione, specie per quanto concerne la pratica del dise-
relative alla figura e al paesaggio.
gno, avviene nell’orbita dei pittori e decoratori mantovani di
Dal ’68 in poi esegue un’ampia serie di bassorilievi in cotto de-
ascendenza accademica (Enos Passerini e Giovanni Minuti). Dal
stinati alla decorazione funeraria e religiosa. Amplia le propor-
’53 al ’55 segue il ceramista Boccolari e lo scultore Marino Quar-
zioni della plastica, cercando però sempre la misura intima e rac-
tieri all’istituto "Adolfo Venturi" di Modena, dove chiarisce il pro-
colta, una gravità appena mossa da rapidi accenni di movimen-
prio orientamento verso la plastica. Conclusi gli studi, trascura
to. Risale al ’77 una importante esperienza compositiva, sgan-
per un decennio la committenza pubblica e si dedica all’inse-
ciata da obblighi contenutistici, che vede l’autore impegnato ad
gnamento. Intanto prosegue in modo indipendente e del tutto
articolare forme libere, suggerite dallo studio (ma anche dall’uso
solitario la propria ricerca, mettendo a punto personali conver-
diretto) delle pietre vulcaniche. Da allora si avvertono, più fre-
genze con la figurazione arcaica e insieme classicheggiante del
quenti che in passato, alcune intenzioni sperimentali, senza che
Novecento mediante l’esecuzione di piccoli manufatti in cotto e
ciò comprometta l’impostazione proporzionata di fondo.
in bronzo in cui si rilevano molteplici riprese da Moore, Martini e
Varie opere hanno trovato sistemazione negli edifici religiosi
Manzù: esercizi tesi a far valere il tutto tondo, la proporzionata
della Lombardia e della Toscana.
scansione dei pieni e dei vuoti e lo studio del corpo in riposo. Il
romanico costituisce, specie nelle pietre scolpite, il modello se-
(1) Scheda del catalogo “Disegno Mantovano del ’900”, Museo Civico di
Palazzo Te, Mantova, settembre-dicembre 1984.
greto ed inarrivabile.
A. Nordera, Nudo seduto, s.d., inchiostro e acquerello
cm 26x16.
582
Disegno mantovano del ‘900
il principale problema è di natura compositiva ed Olivieri lo di-
Claudio Olivieri
batte convogliando sulla superficie molteplici riferimenti stilisti-
(1)
ci: da un lato si confronta con un largo spettro pittorico, grosso
modo ‘lombardo’, che va da Carrà al neo-naturalismo morlottia-
Trascorre l’infanzia e la prima giovinezza a Mantova, fino alla
metà degli anni Cinquanta. Compiuti gli studi ginnasiali, fre-
no, dall’altro fa reagire suggestioni completamente diverse, psi-
quenta l’Accademia di Brera e, ancor prima di uscirne diploma-
chiche e memoriali, che gli vengono da Mafai e Scipione: come
to, si trasferisce definitivamente a Milano, dove opera nel campo
dire le ragioni opposte, ma giocate complementarmente, della
pubblicitario.
condensazione visiva e del suo smarginamento, della corporeità
Già nei disegni giovanili, composti negli anni di Brera, traspare la
raggrumata e della dissoluzione dei pesi, della misura ferma e
qualità sorgiva della sua ispirazione: l’acceso cromatismo, unito
del fluido. Altri riferimenti non secondari e molto interni vanno
alla percezione cadenzata, ritmica e fluenzale dello spazio. Sui
o andranno di lì a poco, a Morandi e Guidi.
fogli bianchi e neri si sprigionano valenze colorate. Un’onda con-
Da un simile dibattito, consegnato al gesto largo e vibrante della
tinua invade le immagini (per lo più nudi e paesaggi), le fa flut-
mano nei disegni a carboncino e a penna, l’artista esce con al-
tuare e infine deborda oltre i confini delle figure. A quest’epoca
cune convinzioni che lo portano a sintonizzarsi, attorno al ’57,
C. Olivieri, 1968, pastelli oleosi du carta, cm 22x28.
583
con le proposte di De Staël, Fautrier, e dell’espressionismo astrat-
e non-progettata, anteriore alla fissazione delle forme. ‘Costrui-
to. Ormai al di là del tonalismo, si concentra sulle tensioni del
re’ col colore (ma un simile verbo andrà inteso in senso anti-pro-
campo pittorico. Con la nuova serie di disegni, esposta insieme
duttivista) decide su un evento insieme negativo e creazionale:
a Cavalli e Della Torre nella prima mostra a Milano, nel ’58, il
negativo perché dissolve le parvenze di superficie e brucia l’im-
dato fisico viene rifatto mentalmente, corretto da istanze di or-
magine come maschera; e negativo ancora, in senso più forte,
dine interno che legano lo spazio alla percezione del tempo, alla
perché trae il segno dall’oscuro e dal non svelato; creazionale
‘durata’.
perché reinventa strutture aperte di abitabilità dello spazio. A ri-
Volendo riassumere in modo drastico la ricerca successiva, con-
gore, non v’è che l’andirivieni, il morire e riaffacciarsi, il farsi vi-
viene fissare l’attenzione su due motivi: il colore e la visione. Ol-
sibile e scomparire di una sola energia. Un dramma insomma
trepassata di slancio la demarcazione fra disegno e cromia, il
‘mono-cromatico’: la peripezia di quel solo e di quell’unico che
tracciato lineare vien fatto lavorare all’interno del percorso pitto-
è il colore.
rico, vale a dire nell’unico gorgo cromatico di cui rappresenta una
D’altra parte - e ciò chiarisce alcune opzioni fenomenologiche -
speciale emergenza. Ed il colore è esperienza vissuta, fondante
vedere vuol dire pensare attraverso lo sguardo: un pensare incarnato, fatto di orientamenti prescientifici e attivi, mediante i
quali l’occhio si apre alle cose e spinge il vivente a svelarsi, anzi
a generarsi formativamente nello sguardo, secondo un’accezione
molto vicina a quella attribuita a Cézanne da Merleau Ponty, che
non a caso è l’autore cui va con significativa frequenza il richiamo teorico del pittore.
Su tali premesse, elaborate a lungo nelle note di poetica, si svolge un itinerario che, attraversando varie tappe, porta il dettato
visivo a sfrenarsi in moti accelerati ed anche ad irrompere nello
spazio esterno (l’installazione Absurda del ’67 costituisce l’avanzamento massimo in questa direzione), per tornare poi allo spartito bidimensionale e tuffarvisi dentro in una sorta di bagno nelle
fonti del colore, in ciò che potremmo chiamare il futuro della
memoria custodito dalle visioni. Ed è qui, nel détour della corrente, che fioriscono le metafore liquide del dipingere, metafore
che celebrano il matrimonio ‘marino’ del colore con la memoria.
In tal modo Olivieri, che gli amici conoscevano negli anni Cinquanta come pittore di cieli, quei cieli li ha ora metamorfosati in
fiumi e oceani: acque, per di più, simboliche e custodi del mito.
(1) Scheda del catalogo “Disegno Mantovano del ’900”, Museo Civico di
Palazzo Te, Mantova, settembre-dicembre 1984.
C. Olivieri, Ritratto femminile, s.d., carboncino su carta.
584
Disegno mantovano del ‘900
Mario Pecchioni (1)
Il disegno, per Pecchioni, è pratica precoce, esercitata fin da ragazzo, quando segue l’insegnamento pittorico di Aldo Bottoli, un
artista locale al quale devono l’iniziazione al dipingere anche
altri autori mantovani.
Diplomatosi maestro elementare, frequenta la facoltà di lingue
e letterature straniere a Venezia, a Cà Foscari: studi che poi è costretto ad interrompere per gli eventi bellici.
Nel 1946 è a Milano, presso lo studio del pittore e pubblicista
Nino Camus. Qui, a contatto con le nuove proposte artistiche,
precisa i suoi motivi d’ispirazione. Frequenta gli studi e le galle-
M. Pecchioni, Spiaggia, s.d., matita, cm 210x290.
rie d’arte, rimanendo attratto in particolare dalle opere di Kokoschka che proprio allora vengono esposte per la prima volta in
Italia. Poi Schiele, Dix, Schad.
soriale ed elementi spirituali. Così non rinnegando la natura, egli
Incontra a quell’epoca Carlo Cardazzo, che gli allestirà in seguito
cerca una sintesi tra visibile e invisibile, tra il sogno e la vita.
alcune personali.
Dunque sogno e realtà, conscio e inconscio (...) non sono sfere
Nel 1953 torna a Bozzolo, dove inizia il lavoro di insegnante, pro-
distinte ma forze in continuo, drammatico contrasto".
seguendo nel contempo la propria ricerca.
Nel disegno Pecchioni tramuta alcuni dati dell’osservazione in
eventi visionari, dando vita durante gli anni Cinquanta ad una
serie di cicli tematici che costituiranno poi le costanti della sua
invenzione: tra i principali i "bambini" (una sorta di oscuro connubio dell’infanzia con la vecchiaia) e gli "angeli neri", o più
esattamente i loro preludi.
Intanto espone con il gruppo dei pittori indipendenti alla Casa
del Mantegna. Due suoi dipinti compaiono nel 1955 al Salon des
Indipéndentes parigino. Da allora si contano numerose presenze
nelle rassegne nazionali e all’estero.
Quanto alle matrici, si può parlare di una doppia ascendenza: da
un lato l’espressionismo, con alcuni corollari - anche tecnici - del
realismo magico (i nomi fatti più sopra, con uno spostamento in
avanti per Dix e Schad); dall’altro, molto più sotterraneo, il visionarismo di Bacon e Fieschi, che, non a caso, è uno dei suoi apprezzatori più attenti.
Da qui vengono degli svolgimenti personali, anche in chiave di
eleganza formale e di estenuato calligrafismo. Ha scritto L. Mascardi: "È l’arte vista come espressione analogica e concreta del-
(1) Scheda del catalogo “Disegno Mantovano del ’900”, Museo Civico di
Palazzo Te, Mantova, settembre-dicembre 1984.
l’Idea: momento di incontro tra elementi della percezione sen-
585
Disegno mantovano del ‘900
Teresita Vincenzi (1)
Nel Venti si diploma alla scuola musicale
“A.Vivaldi” di Bologna e comincia a dipingere intorno alla medesima epoca. La
prima partecipazione ad una collettiva risale al 1933 (una rassegna d’arte sacra a
Firenze), mentre le personali avvengono
tutte nel secondo dopoguerra, comprese
due presenze a Milano e Venezia nel ’52 e
nel ’58.
Si è tenuta sostanzialmente appartata per
tutta la vita, fedele ad una sola tradizione
elettiva che ha in Pio Semeghini il termine
centrale di riferimento. Benché abbia goduto di notevole stima presso i pittori,
sono quasi inesistenti gli interventi critici
su un lavoro che, dopo la morte dell’artista, resta ancora in attesa di ordinamento
e interpretazione.
(1) Scheda del catalogo “Disegno Mantovano
del ’900”, Museo Civico di Palazzo Te, Mantova, settembre-dicembre 1984.
Teresita Vincenzi, Mio padre, s.d., matita su carta, cm 50x43.
586
Cammino tra i riflessi
Maddalena (Nene) Nodari
denti, gli appunti concreti. Si direbbe che la trasparenza abbia
(1)
corroso il cuore delle figure; e rifratto un universo lontano per far
sì che ritorni nel presente, a patto di disfarsi. L’immediatezza (e
Risale agli anni Cinquanta l’incontro, che non è difficile indovi-
la Nodari ha un occhio impulsivo) non sopporta di lasciarsi inti-
nare vitale e subito avvolgente, col Mediterraneo: un incontro
morire dalle sembianze immobili del finito.
che poi si prolunga verso Est e le regioni del crescente mesopo-
Esotismo? Per niente. L’esotismo nasce dalla coscienza della di-
tamico, fino a Bagdad.
stanza e qui non vedo distanze. Il quadro non restituisce né il se-
Tuttavia vien da chiedersi: che cosa resta di tanti giorni e paesi
parato né lo straniero. Chi lo guarda non avverte l’attrazione
nella pittura di Maddalena Nodari? Neppure lei, forse, saprebbe
della perdita, del miraggio che oscuramente affascina per la sua
o vorrebbe rispondere. Più che dire, sospende. Lascia ogni cosa
inafferrabilità. Vi riconosce piuttosto la voce di motivi, pur gran-
alla reticenza della tela. Perciò viene il sospetto che quello di al-
di e talvolta eccedenti, che colpiscono proprio per esser diventa-
lora sia stato soprattutto un cammino tra i riflessi, un attraversa-
ti consanguinei ai nostri orizzonti.
mento di luoghi moltiplicati dall’eco. Manca infatti nei dipinti
Proviamo a considerare il primo olio della mostra. È intimo e non
ogni traccia esterna e tangibile. Mancano le cose, le reliquie evi-
intimistico; familiare senza cadere nel domestico. La mano,
N. Nodari, Stagno, 1980, olio su tela, cm 80x100.
587
N. Nodari, Giardino sognato, 1970, olio su tela, cm 80x60.
588
N. Nodari, Bianco bruciato, 1974, olio su tela, cm 80x60.
589
quando lo dipinge (si tratta di un mazzo di fiori), finisce per can-
matici dalla frontalità del naturale. A guardar bene, anche i Fiori
cellare ogni ombra. Trasforma il chiuso nell’aperto, fa sparire le
contengono già dei segnali in questa direzione, suggeriti dalle
quinte di sfondo, spalanca la stanza. Tutt’attorno al mazzo l’aria
nervature a piombo sui lati dell’immagine centrale. Due filiformi
diventa una condensazione chiara di materia e i fiori stessi sono
battenti aperti sull’aria. Il verticale dunque. Ma come nasce?
una aiuola, un giardino in miniatura e perfino, potremmo ag-
A generarlo dev’essere qualcosa di ritmico. Il piacere della rima
giungere, un’aria fiorita di battiti. Fiori simili, ed anche occhi, ra-
e del riverbero induce un tema a ripetersi: uno slancio che rad-
pidamente tracciati come asterischi, croci e stelle, non si vedo-
doppia e varia, dissolvendo da una parte e ricompaginando dal-
no in Matisse e Cocteau?
l’altra la struttura compositiva. Sicché appar chiaro che la verti-
Li faceva anche Del Bon e credo che questo mazzo, posato sulla
cale è una somma, un popolo di verticali. Se andiamo a guarda-
soglia dell’ultimo ventennio, sia l’estremo omaggio della Nene al
re i contemporanei esercizi con le carte incollate, fruscianti e sot-
pittore milanese: un addio anche, tanto nella morfologia dell’im-
tili come garze (e le tempere ribadiscono un analogo atteggia-
magine quanto nel colore. Dopodiché prende forma un’avventu-
mento), ci accorgiamo che il colore, assunto come timbro e bat-
ra differente, una storia articolata, come si vedrà, in due respiri,
tuta, viene orchestrato sul foglio alla maniera di una partitura so-
tutta tesa nel primo tempo a spremere verticalizzanti succhi cro-
nora. La veduta naturale, presumibilmente all’origine dell’im-
N. Nodari, Golfo di Cadaques, 1980, olio su tela.
590
pressione, appare scomposta e rifatta. Una nube o meglio una
Questo ‘quasi’ è importante. Separa due tempi.
tessitura è piovuta sulla carta. La pittura è proprio un telaio sul
Per almeno un decennio la pittrice sta nel limite, cerca la misu-
quale l’andirivieni dello sguardo dispone fibre cromatiche, la in-
ra e la regola. Vuol dominare la propria sete in una composta or-
crocia per assonanza, le distanzia e riprincipia ad intrecciarle, ba-
ditura di elementi. Evita gli eccessi e li governa tenendo a bada
dando a contrappuntare i suoni contigui.
i respiri che minacciano di incrinare la maglia luminosa. Il tap-
Chi pensasse soltanto ad una bella metafora, si sbaglia. È anche
peto resta la sua regola classica. È vero che in certi casi lo fa rab-
un metodo, con le sue incontrovertibili riprove. In primo luogo il
brividire con fantastiche folate di vento, lo sdipana per un attimo
quadro è materialmente un mosaico di tessere e fili. Tant’è vero
con dita leggere (come nel Giardino sognato), ma sempre torna
che ad un certo momento, dopo tutta una serie di intitolazioni
a trattenere gli impulsi di fuga garantendosi sull’asse centrale.
astratte riferite alla forma, ci imbattiamo nel sostantivo rivelato-
Croce, ad esempio.
re di questa temperie fantastica: un nome che riattiva il viaggio
Poi, improvvisa, la svolta. Lo sguardo mette a soqquadro le mi-
tra i riflessi (Piccolo tappeto orizzontale), seguito qualche anno
sure tante volte sperimentate sui bagliori del giorno e sulla notte
più tardi da un’altra denominazione significativa, la Sonatina in
(il buio introduce in queste tele una forma speciale di oscuro lam-
Fa. E ben s’intende che simili ‘tappeti’ e ‘sonate’, oltre che agire
peggiamento, con neri e viola intensi). Più esattamente: si spo-
da spie, fanno tutt’uno con la figura lieta del giardino e le tra-
sta dall’architettonico al fluido, al dissimmetrico e all’ondulatorio.
svalutazioni pittoriche della natura in crescita.
E ci riesce passando attraverso un secondo patimento, una vio-
In secondo luogo interviene il bordo: la spaziatura neutra del pe-
lenta liquefazione solare.
rimetro, un vero e proprio orlo che incornicia il campo colorato e
Tra l’80 e l’81 vengono i quadri che fanno da ponte verso la
lo difende come farebbe una siepe. Così la tela respinge ogni
nuova esperienza (Golfo di Cadaques e soprattutto Barche e
intrusione esterna concentrandosi verso il dentro: tema stilistico
sole), opere dove lo spartito armonico, tripartendosi in differen-
che, se per un verso documenta l’uso consapevole della texture
ti e antagonistici livelli di battute, cieche e lacerate, appare scos-
(vengono ora a proposito i nomi fatti nella nota biografica, Cor-
so in maniera definitiva. Vediamo i raggi abbattersi come frusta-
pora prima e Dorazio poi), per un altro promuove sviluppi per-
te e fendere piani nel generale sommovimento. Per il vero, con
sonali nel senso della perpendicolarità, laddove altri artisti, nei
attese più gravi in Cadaques.
medesimi anni, preferiscono scandire l’evento luminoso in tra-
Effetto della grande eco, senza dubbio: l’eco sulla quale era ca-
verse diagonali o lo martellano in fasci incrociati.
duta la reticenza del silenzio e che ora affluisce libera nel colo-
Per cogliere le differenze, osserviamo la natura della luce; una
re senza rime.
luce mai assoluta e cristallina, slegata dai corpi. La luminosità in-
L’ultimo anno, il sorprendente ’83, è agitato da onde in espan-
fatti precipita, cola e perfino si spiaccica contro le figure. È in-
sione. Stavolta la Nodari dirige il flusso dall’interno, convocando
somma incarnata. Diafana e tenera fin che si vuole, ma organica.
una pluralità di note e di intrecci. Uno schermo elastico: ecco
Bastano i bianchi o i blu a dimostrarlo ampiamente; oppure, a ri-
quel che la tela è diventata. Uno schermo su cui la figura si me-
dosso degli ultimi mesi, le colate laviche del cielo in Agosto.
tamorfosa in ritmo e viceversa.
D’altra parte, se non ci fosse patimento, questa luce sarebbe
I segnali corrono da un capo all’altro della superficie, lussuosi
altra cosa. Chiediamocelo infine: che cosa emoziona di più? La
come in uno spettacolo dell’Oriente. Per questo penso a Murnau
luce in sé o il mondo illuminato? Non è forse la terra il crogiuo-
e ad un lontano, ma ancora decisivo capitolo, dell’ “improvvisa-
lo più incandescente? O l’acqua ferita dello stagno? Il verde che
zione” in pittura.
trasuda e sbianca?
Questa sete d’altezza che brucia, spinge il colore ad inerpicarsi.
Brillano gli smalti vegetali. E i verdi, i viola, i gialloazzurri gemo-
(1) Scritto in occasione della mostra “Nene Nodari, opere 1962–1984”,
tenutasi presso la Casa di Rigoletto, 7-25 aprile 1984.
no tanto da fondersi. O quasi.
591
I “Mesi mancanti”
giocato una parte decisiva nel progetto. Su questo non v’è dubbio,
Gruppo “Metamorfosi” (Gabriella Benedini,
ma una simile corrente d’amore non basta a spiegare la comples-
Alessandra Bonelli, Lucia Pescador, Lucia Sterlocchi) (1)
sità dell’impresa. Nelle grandi carte proporzionate sugli spartiti di
Schifanoia compaiono anche devianze, scarti, mescolamenti e stra-
Qual è la cifra unitaria di questi lavori? Dove trovare il legame interno,
tificazioni, aggiunte e cancellature che rinviano ad altro.
l’elemento che coordina i Mesi mancanti? E non solo li coordina, ma
Si tratta di una procedura asintotica, in cui il contatto si alterna con
li rende reciprocamente necessari, solidali e interessanti?
la variante e la digressione. Può tanto sospendere la voce origi-
Non è facile rispondere di primo acchito, giacché questo elemento
naria quanto darle fiato. Ed ammette il dissenso. Così è accaduto,
non appartiene di certo alle regioni dello stile, così diverse e in-
per citare un precedente indicativo, nell’Interfolio all’Encyclopédie
dividuate da un intervento all’altro: ragioni ora fredde ed analiti-
composto dallo stesso gruppo “Metamorfosi” un paio di anni or-
che, ora trepide e sospese, spesso affidate per intero ai tragitti so-
sono, quando decise di scavare nelle pieghe della summa sette-
gnanti della metafora; ed altre volte intese a svolgere invece la
centesca per sorprenderne le dimenticanze e contrastare, con una
partitura del dipinto nei modi del racconto.
appendice eterodossa, l’occhio censorio di Diderot.
Quattro sguardi si sono trovati a convergere, nello stesso tempo e
In quell’occasione veniva a mancare letteralmente il terreno sotto
premeditatamente, su un luogo ormai mitico del laboratorio ferra-
il Discorso.
rese, dentro la cornice di un programma astrologico ed ermetico
Quest’ultimo non era contraddetto in modo esplicito, ma soltanto
stracarico di spessori mentali. La seduzione del modello deve aver
spostato, messo tra parentesi, lasciato da parte. La pittura gli ru-
Alessandra Bonelli, La finestra di ottobre, 1984, tecnica mista, cm 300x200.
Lucia Sterlocchi, Gennaio: copia dal vero, 1984, tecnica mista, cm 300x200.
592
Gabriella Benedini, Teatro chimico del Novecento, s.d., tecnica mista, cm 200x300.
Lucia Pescador, Febbraio “Il giardino d’inverno” , 1984, tecnica mista, cm 200x300.
bava il posto, avanzando nello spazio illustrativo e trasferendo
alla centralità dello sfondo. Organizza la carta dipinta come se
nelle tavole un corpo di immagini affatto impreviste.
fosse il fondale di una cerimonia interiore, articolandola varia-
Così creava un risonante intervallo, qualcosa come uno svuota-
mente in interni ed esterni, in stanze e paesaggi, reliquiari, giar-
mento delle arti pragmatiche a favore di quelle immaginative e me-
dini e teatri. E lì si scopre lo sguardo mentre cerca una lingua es-
moriali. Tattica sottile e discreta, questa: per un verso aderire fisica-
senziale, le corrispondenze fra il particolare e l’universale. Si può
mente al luogo dell’accumulo produttivo e per un altro toccarlo di
anzi credere che senza il desiderio di un alfabeto del mondo, nes-
traverso, mettendo in forse la materia compatta di un sistema.
sun teatro della memoria, nessun padiglione avrebbe potuto in-
Se questo è vero, se occupare un territorio, mettersi in situazione,
nalzarsi nei Mesi mancanti.
riprendere posto costituisce, al di là del consenso, il primo passo
La scatola magica di Schifanoia ha sprigionato, si direbbe, le virtù
delle pittrici nei paesi dell’iconografia, occorrerà riconoscere che
attrattive e rifrangenti dello specchio, assorbendo le onde d’urto
questo passo non ha nulla di violento. Più che distruggere e dis-
di tante metafore personali. Non ha fornito contenuti, ma il com-
seminare delle rovine, apre dei momenti di sosta. Intervalla e so-
plesso di stazioni, il percorso rituale, la ‘pianta’ per la pittura.
spende. Soprattutto scioglie e trasforma. Predilige il frammento al
Nel documentario che accompagna le grandi carte, v’è una se-
posto della citazione a tutto tondo, avendo di mira la rinnovata abi-
quenza suggestiva sulla quale val la pena di ritornare. Forse
tabilità dei luoghi e l’ascolto delle tracce.
l’unica citazione prolungata intorno alla “pittura” dei modelli. Ve-
Quando si imbatte in un’icona compiuta, tende infatti a sfumarla.
diamo un foglio, sul quale era precedentemente apparso in con-
L’attenua con una cigliazione, come per significare che il viaggio
troluce un corpo astrale, prendere fuoco e incenerirsi. Lo brucia la
non finisce. Non solo: aggiunge che il peregrinare, per aver senso,
fiamma di un cero: lo stesso disegnato negli orti botanici della Pe-
si affida a certe modalità dell’incedere e dello stazionamento: mo-
scador. Cenere, candelabro, luogo votivo. È un segnale da non di-
dalità per lo più armonizzanti, pausate, meditative, votate all’at-
menticare, una cerniera del discorso comune.
tesa. Così il tempo della sosta si allunga, si vince l’impazienza, con
Se ora scorriamo la mappa del “teatro chimico”, troviamo un’al-
l’effetto di affidare lo sguardo alle lontananze del sogno.
tra ed analoga immagine planetaria semivelata. Ma tutto è spa-
Ci si può chiedere perché la simmetria governi tanto imperiosa-
zio dell’eclissi: un comparire e scomparire di elementi dipinti, nel
mente l’orditura dei dipinti. In realtà simmetrici non sono i percorsi
controcanto di pietre e minerali appesi ai fili.
dei segni (o almeno non sempre), ma le cornici che li contengono,
Di nuovo bruciature e cadute, contrappuntate da altrettante ri-
il sistema di nicchie, quinte e sipari. Una folata di profumi, per
salite.
esempio, taglia in diagonale il “giardino d’inverno” e una ma-
Un insieme che metaforizza l’altalena del tempo.
reggiata di barre batte di traverso la “finestra di ottobre”.
Il tema della genesi, che da molti anni impegna la Benedini sul
Il ribadimento simmetrico appartiene piuttosto al principio del rito,
piano linguistico del simbolo, si slarga ora in architettura scenica,
593
Intervento collettivo, Le meridiane, 1984, tecnica mista.
nel rimando tra il riflesso e il referente concreto. Un esercizio che
glossa. Il paese immaginario viene cancellato e riscritto nell’infi-
corre sul filo impervio della tavola ermetica e dell’ideologia. Un
nito sedimentarsi del Libro.
niente potrebbe farlo cadere in dimostrazione didascalica. Eppure
Altrove, nel mese di febbraio, la scena assume una pronuncia au-
si salva in virtù dello stile. La pittrice ragiona con e nelle figure.
gurale. Spalanca un giardino, un luogo per i lari che arresta il
Ricorre al velario e all’andamento mobile e sottile del segno: un
tempo. Non v’è altro che un lento scorrere di fumi e levitare di si-
segno labirintico, capace di assorbire i valori primari delle forme,
pari, quasi un febbricitare della memoria.
ridandoli in trasparenza e per via di germinazione.
Nella lirica e nient’affatto metafisica sospensione del terrestre, il
La Benedini fa della pittura colta e non lo nasconde. Ma ha biso-
cielo ha la medesima compartitura della regione invernale. Lo lega
gno di stratificazione testuali e di fantastiche filologie.
al basso il sogno di un erbario, la mappa (o la porta) di un campo
Ed ecco la ragione: accanto all’ordito ‘pensato’, mnemotecnico
primaverile: immaginosa sopraelevazione dell’hortus conclusus e
della scena, conta il piacere del commento. L’inabissarsi nella
teca odorosa.
594
Intervento collettivo, Le meridiane, 1984, tecnica mista.
Laddove la pittura assume invece valenze gestuali e segniche, v’è
con la Bonelli la scansione analitica dello spazio, tenta un ribal-
un gelo maggiore.
tamento di fondo. Fa crescere e fermentare materie. Mescola gli
I fantasmi si confrontano col perimetro rituale. Ed è un confronto
elementi, impasta la terra con le nubi e vi sovrimprime la parti-
duro, in certo modo distonico, tra volontà di presenza ed elementi
tura: il “programma astrologico”. Si intravvedono gesti di presenza
di misurazione. Fino a che punto la cornice di un simbolo vuoto, il
e di occupazione, slargamenti del territorio oltre i bordi della
cerchio o il quadrato, sa trattenere lo scorrimento delle cose?
convenzione. La pittura si anima, il colore esce dal nero ed è que-
L’inchiesta, ci sembra, è avviata con l’ “ottobre”, che è tutto uno
sta la vera metamorfosi, l’ultimo scarto nel ripensamento ‘diffe-
sguardo calato sulle vegetazioni del segno. Il sipario, continua-
rente’ di Schifanoia.
mente in bilico fra cifra geometrica e magia simbolica, non dà risposte rassicuranti. Resta uno schermo che registra passaggi e bru-
(1) Scritto in occasione della mostra “I mesi mancanti”, Palazzo Massari,
Ferrara, settembre-ottobre 1984.
licamenti. Funziona nel precario. La Sterlocchi infine, che condivide
595
Sensazioni di uno scultore chiarista
tologica, curata dal Museo d’Arte Moderna di Gazoldo, ha avuto
Ezio Mutti
il merito di portare all’attenzione di molti.
(1)
Personalità poliedrica, come l’ha definito Renzo Margonari, seProseguendo uno degli indirizzi espositivi che l’hanno caratteriz-
veramente educato nella lezione di Martini e Medardo Rosso (ol-
zato fin dall’esordio, la galleria “Arcari” di Mantova (via Cappello
treché in quella artigianale di un Mazzucotelli), cultore di svaria-
10/a), propone in questi giorni una ventina di disegni del casti-
te tecniche espressive, dal ferro battuto alla ceramica all’acque-
glionese Ezio Mutti: per l’esattezza il nono mantovano della serie
rello, egli ha saputo attraversare alcune delle maggiori vicende
“contemporanea” e, se non andiamo errati, il primo scultore.
dell’arte mantovana con piglio facilmente riconoscibile. Il chiari-
Per quanto attivo da più di un cinquantennio (s’era formato a
Monza sul finire degli anni Venti e aveva poi approfondito gli
studi presso la parigina “Grande Chaumière”), Mutti rimane ancora un artista scarsamente noto, che soltanto una recente an-
E. Mutti, L’albero, 1929, ferro battuto, cm 180.
E. Mutti, Figura, 1935, lamiera sagomata, cm 150x61x22.
596
E. Mutti, Disegno per scultura, 1982
pennarello su carta lucida, cm 15,5x13.
smo specialmente. A suo modo è stato anche portatore di fer-
mento. Tant’è vero che spesso si prolunga e disperde nello sfu-
menti internazionalistici, mediando da noi l’astrazione formale di
mato rapido dell’acquarello. Nei fogli tardi invece l’intento è co-
un Gilioli, vale a dire la plastica francese di radice brancusiana.
struttivo. Sezionatorio. Il reale quasi scompare, precipitato in co-
Limitandoci a osservare i fogli esposti da Arcari, vien fatto di di-
struzioni a traliccio e in forme primarie, sicché diventa inevitabi-
scriminare nel lavoro di questo scultore una duplice inclinazione:
le il richiamo a Gilioli, alle sue figure diamantine e simboliche.
una sensitiva e lirica, alla Del Bon, e un’altra più analitica, raf-
Ma con una differenza. Mentre l’autore italo-francese proietta i
freddata, tesa a scomporre e a geometrizzare l’immagine. Nelle
simboli in un racconto metafisico di purezza astrale, Mutti conti-
figure che arrivano fino alla metà del Cinquanta è protagonista
nua ad ancorare la geometria al naturale. Una forma per lui resta
incontrastata la luce: una luminosità franta che volatilizza i corpi
pur sempre il riassunto di un’evidenza concreta.
e li riduce ai minimi termini della trasparenza. I nudi e i volti (no-
E qui sta il segno della sua originalità, poiché riesce, per espri-
tevole “Alice” del ’44) vivono soltanto per levitazione. Sono per-
merci con una formula, ad animare l’astratto con la memoria del-
cezioni aeree, sbattimenti leggeri di linee e colori. Basta un con-
l’impressione. A parlare del quotidiano con la lingua geometrica.
torno per far vibrare la forma ed evocarne l’impatto percettivo.
In questo visibile, sottilizzato e non ancora disseccato in struttura, la linea sostiene il colore. Lo richiama come un suo comple-
(1) Articolo comparso sulla Gazzetta di Mantova del 24 novembre 1984.
597
Nel silenzio della scienza
una risposta" (Wittgenstein), ma che, fino a quel momento, ha il
Vasco Bendini
dovere di parlare. Ed è una meditazione in certo modo fatta in ne-
(1)
gativo da un artista che si è abbeverato al suo esordio ad altre e
ben diverse fonti, anzi ad una metafisica "disperatamente" ali-
Ragioni dell’esperienza, voglio dire di un’esperienza estroflessa e
comunicabile, e ragioni diversamente orientate verso il profon-
mentata dalle lampeggianti pagine di Eckhart o Ruysbroeck.
do, la "sorgente" e l’arché, si intersecano e agglutinano in que-
A che serve questo duro confronto col ‘geometrico’? Perché lo
sta messa in scena circolare. Come in un gioco di specchi o di
studio dei segni, la gelida dissezione del linguaggio? Non certo
tende socchiuse in cui le cose si aprono le une alle altre pur re-
per una conversione scientista, così contraria e odiosa a Bendi-
stando separate, qui le opere incrociano i loro umori, tessendo
ni, ma proprio per filtrare quel pensiero della ’’mezzanotte" che
reti di allusioni e rimandi. Ora crepitano accensioni immaginati-
gli è costitutivo, e dargli chiarezza.
ve, fuochi dello scavo ed effluvi luminescenti, ora, invece, su-
Che la procedura sia severa, lo si capisce osservando con quale sca-
bentrano il rigore, la secchezza e la costrizione di materie con-
bra e sorvegliata attitudine l’inconscio stesso venga investigato ed
sunte. Ed è un gioco sottile, fatto di echi e mulinelli di senso: av-
accolto: una attitudine disciplinata, affatto opposta ai diluvi narcisi-
volgente, ma di un coinvolgimento appena suggerito e mante-
stici dell’automatismo, così da porre riparo ad un Oscuro che mi-
nuto nella zona discreta della soglia.
naccia di affluire senza cifra e misura. Nulla è difatti più temibile,
Al di là e al di qua di questi confini trasparenti si aprono i ‘luo-
per l’artista, di un desiderio che straripi molecolarmente e solipsi-
ghi’ di Bendini, le sue stazioni e stanze, ciascuna con un carico
sticamente, senza legami col mondo. Transitivo solo a se stesso.
differente di calore e di analisi. E dire analisi, nel nostro caso, si-
Dalla qual cosa si ricava una divergenza nell’intendere la vertigine,
gnifica far appello ad una nozione impervia, anche biforcata, e
una divergenza che è tutta di ‘metodo’, in rapporto al surrealismo,
di notevole risonanza. Risonanza in primo luogo psicologica, con-
con un accostamento, caso mai, alla poetica del "Grand Jeu".
nessa com’è ad una analitica dell’inconscio, ad una discesa agli
Un altro effetto della scienza (a parte le suggestioni reichenba-
inferi ed al riconoscimento di sé nelle regioni effervescenti della
chiane sullo spazio e il tempo cosmici) è poi il disincanto prodot-
vita biologica, non per sostarvi, ma per risalire e far lavorare il
to sul destino dell’uomo, che è sì depositario di un progetto, ma
buio nella chiarezza della dimensione creativa.
di un progetto frutto del caso e sospeso nel vuoto. "Egli ora sa
Analisi, però, anche in un altro senso: in un significato forse meno
che, come uno zingaro, si trova ai margini dell’universo in cui
prevedibile, poiché implica distanze e raffreddamenti riflessivi nel
deve vivere", ha scritto Monod, ed arriva a scoprire "la sua com-
tessuto di un’opera per tanti aspetti collocata sul versante notturno del pensiero, e sprofondata decisamente nell’ascolto della
bocca d’ombra: nel dettato - come scrive l’autore - della voce di
mezzanotte. Mi riferisco a quella componente non secondaria
della cultura di Bendini volta a fare i conti (e a farli sempre di più
col passare del tempo) con le verità disincantatrici della filosofia
della scienza, a confrontarsi, per esempio, con i testi di Russell,
Carnap o Reichenbach: dunque a non arretrare, dopo l’eclisse del
divino, di fronte alla dilagante laicizzazione della modernità, per
comprenderne le cause e ridarle un centro.
Alle spalle della pittura sentiamo infatti una ostinata meditazione
sul senso e sulla verità di una logica che ha imparato a riconoscere, oltre se stessa, la necessità del silenzio. Che sa di dover tacere quando ’’tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto
V. Bendini, Stanza del principio creativo, 1984, Casa del Mantegna.
598
pleta solitudine, la sua assoluta stranezza" .Sono parole su cui
simbolo. Ma quel che qui importa al di là delle etichette (e certo
Bendini deve aver meditato a lungo. Eppure il disincanto non
l’aggettivo ‘storicista’ appare improponibile nel caso di Bendini),
cancella, ma sposta la sua insopprimibile metafisica verso il sa-
è l’inquieta accensione di quella esperienza, la sua problematica
pere del precario, della caducità e del limite, poiché occorre su-
apertura, da un orizzonte indubbiamente laico, verso il sacro.
bito osservare che nell’opera non si dà abdicazione, quanto mu-
Giacché il ‘vedere’, anzi il vedere altro e più a fondo della co-
tamento di prospettive intorno al valore. Il crollo stesso degli as-
scienza religiosa sapeva modellare, secondo il grande antropolo-
soluti rinfocola il principio di resistenza, spingendo a ricreare, per
go, itinerari di salvezza che la ragione analitica non è più in grado
usare un’espressione cara ad Ernesto De Martino, nuovi simboli;
di garantire per parare l’angoscia della dispersione.
a perimetrare il "furore" che esplode senza riscatto nei deserti
Se simbolo e logos sono separati, come tornare a plasmare, in un
delle culture morenti o dell’età nuova malata di tecnicismo.
tempo che ha perduto le visioni, la potenza legante del mythos?
Questo richiamo all’autore della Fine del mondo non è rimbalza-
Era l’ansiosa speranza di De Martino. Ed è anche, con mutate ra-
to per caso. Pur appartenendo ad un’area completamente diver-
gioni di campo, la scommessa di Bendini, per il quale c’è una in-
sa, vien da proporlo come una presenza insostituibile; come il
nocenza dello sguardo che deve essere riconquistata: uno sguar-
sofferto testimone di una crisi e di un trapasso di culture, da cui
do capace di stringere, e proprio nel punto in cui la scienza rico-
Bendini, insieme ad altri, si è trovato investito: il passaggio te-
nosce il silenzio, i piani che sono andati scollati, le parti divise.
stimoniato dall’esistenzialismo e dalla fenomenologia.
Sotto la corteccia del razionale, sprofondato dentro il corpo e fuso
Se consideriamo anche in modo sommario i temi sottesi alle sta-
con esso, vive il pensiero-visione, "l’anima della materia". Grazie
zioni bendiniane, temi che poi corrispondono a certi cicli del suo
ad esso prende forma una avventura di omeopatico scambio ed
lavoro, li vediamo disporsi lungo due assi paralleli. Da un lato v’è
integrazione col mondo. Dipingendo, la mano del pittore, questo
il sentimento come storia, ossia l’apertura verso il contingente,
animato attrezzo che altre volte era apparso amputato, prende e
l’orizzontalità del reale e i reperti scheggiati della ragione produt-
torna a legare ciò che è andato in pezzi. Sulla tela ripercorre l’an-
tiva ed astratta, dall’altro l’immersione a picco, tutta in verticale,
dare e venire delle forze, con la coscienza che v’è un rischio mas-
dentro l’organica formatività del mondo. Una bipolarità, questa,
simo in ciascun movimento d’uscita ed entrata, nello svapora-
che attraversa in maniera significativa lo storicismo interrogante
mento infinito quanto nella concentrazione senza respiro.
(ed è perciò che interessa) di De Martino, il suo meditare, così at-
’’Mi immedesimo interamente in ciò che vado man mano dipin-
tento ai mitologemi junghiani, intorno alla energia coagulante del
gendo. Pochi punti basilari via via si succedono (...). Il tutto con
misura e fermento, contenzione delle parti nella direzione di un
effetto globale". E se tale è il tragitto del pensiero figurante ed
intimo della pittura, un analogo percorso (stavo per dire danza)
investe lo sguardo quando si proietta all’ esterno, tocca le cose
e gli eventi naturali: "Dopo un lungo, indifferente, quasi distaccato ammirare la natura nasce uno straordinario fenomeno. Tutto
pare dissolversi come in un’impetuosa fusione, e tutto risolversi
in una ondulazione di sensazioni". Sono appunti illuminanti, leggendo i quali vien da dire, puntando sulla lettera delle parole,
che qui agisce una ‘vista apocalittica’ e disvelante. Insieme a un
mondo che germoglia nella pittura, anche il pensiero nasce a se
stesso nell’atto di comporlo. Non una apocalissi dello sfacelo, ma
un universo, interno o esterno, armonizzato nei propri opposti. Si
V. Bendini, Stanza del silenzio, 1984, Casa del Mantegna
badi alla calibratura dei movimenti, alla pendolare corrispon-
599
denza della misura col fermento, di modo che l’io che vi si pre-
Questa, cui abbiamo accennato, è però la tappa ultima di Bendi-
cipita, mentre pare annegare e ‘dissolversi’, è contemporanea-
ni: il risultato di un incontro finalmente rinnovato con la Natura.
mente afferrato ad un grado più alto da un moto di ritorno, in cui
Alleanza e festa di riconciliazione che si sono espressi nel canto
il solve viene aspirato e appunto risolto, composto, in una gran-
cromatico ad ampio gorgo di un ciclo di dipinti tuttora inedito,
diosa totalità ondulatoria.
dove l’ispirazione cosmogonica ha saputo distendersi con inin-
V. Bendini, Una data, 1971, ovatta e colla su tela, cm 150x150.
600
V. Bendini, Fiore per Momi, 1974, juta, colla, vetro, plastica, fiore su tela, cm 160x140.
601
terrotta fluidità inventiva. Di una simile Ballata la mostra, in gran
proprietà del corpo può significare due cose contemporanea-
parte puntata sulla fatica dell’itinerario, non dà che qualche pre-
mente: che il corpo la genera da se stesso, oppure che essa si
ludio, ma il ciclo andava ugualmente richiamato, questo ciclo che
appropria di lui, gli echeggia dentro e lo fa parlare. La stessa
potremmo chiamare del patto, perché restituisce il senso di mar-
cosa vale per la memoria, che è una faccia della medesima
cia, il télos di un lungo viaggio entro le immagini. Né si vuol so-
energia lanciata in tutte le direzioni. Retrattile o avanzante.
stenere che, trattandosi di un momento estremo (quanti ultimi
Da dove viene? Dal fuori o dall’interno? Niente alternativa, poiché
ci sono in Bendini!), il canto sia anche conclusivo e ponga fine al
la risposta è vera in entrambi i sensi. Ed è questa la verità del-
cammino, sigillandolo in una cornice definitivamente radiosa.
l’uomo, anzi l’enigma del suo corpo, "animato e animante, figura
Poiché è poi vero che la medesima serie di dipinti ammette al
animata dello spirito", per seguire le parole di Merleau-Ponty.
proprio interno una lettura a contrario, in cui la fine si riannoda
In una mirabile pagina di “Varieté”, Valéry si era già soffermato
al principio, la pace al tumulto iniziale, potendo le figure rifluire
su un analogo problema osservando che nella "mente di ognu-
all’indietro in virtù di una ritmica di trasformazione che è dolen-
no di noi si configurano Tre corpi, per lo meno. (...) Il primo è
te avvicendamento della morte con la vita.
quell’oggetto privilegiato in cui ci imbattiamo a ogni momento
Un più esplicito richiamo alla circolarità dell’itinerante, quasi una al-
(…). Ognuno di noi chiama tale oggetto II-Mio-Corpo; però, in
legorica parafrasi del viaggio, è consegnato alla Ruota. Non un’ope-
noi stessi, vale a dire in lui, non ha nessun nome. Ne parliamo
ra in senso stretto, ma un preludio ad essa, un oggetto-emblema
ad altri come di una cosa che ci appartiene; ma per noi non è
funzionante come una didascalia iniziatica. Non contiene che pol-
affatto una cosa, e, inoltre, esso ci appartiene un po’ meno di
veri colorate, pigmenti disseccati che rappresentano, in certo modo,
quanto noi apparteniamo a lui" (...) "Il nostro Secondo Corpo è
il corpo volatile della pittura in attesa. E la pittura, lo sappiamo, è
quello che è visto dagli altri, ed è anche quello che noi vediamo,
una via di conoscenza attraverso l’attivazione dei sensi.
più o meno in uno specchio o in un ritratto. È un corpo provvisto
A chi non agisce appare morta e vuota: e lo è infatti, giacché se-
di forma. È quel corpo che l’Amore vede o vuole vedere ansio-
gnala, nella cifra del gioco, soltanto una direzione e una possi-
so di raggiungerlo". Infine esiste un Terzo Corpo, "il quale, co-
bilità di vita. La crescita del giardino e la fioritura dei sensi, con
munque, gode di unità soltanto nel mio pensiero, giacché lo co-
i loro stupori: ecco i doni che la ruota promette oltre se stessa.
nosco solo dopo averlo visto e frammentato. Conoscerlo signifi-
Si potrebbe allora osservare che l’occhio cerca di superare l’abis-
ca, insomma, averlo fatto a pezzi, ridotto in frantumi".
so spalancatosi tra il guardare opaco e l’autentico vedere, cari-
Qui pongo termine alla citazione, forse un po’ troppo estesa, ma
cando di veggenza gli oggetti più semplici e innervando catene
di simboli efficaci nelle immagini quotidiane. È quel che accade
un po’ dappertutto a partire dalle spoglie installazioni composte
a metà degli anni Sessanta. Ragion per cui, anche a rischio di
schematizzare, mi par conveniente distinguere nella storia di
Bendini una doppia scena: una tutta solcata da correnti profonde ed un’altra aggredita dagli acidi di una esteriorità consunta e
tuttavia a quest’ultima sacrificata; o meglio: una scena eretta
con fatica su (e con) le macerie della rappresentazione, fatta di
vuoti, di nudi telai e superfici strappate, nelle cui maglie alitano
dei pensieri, insieme a fragili, intermittenti memorie: i fantasmi
incipienti delle prime ombre risanatrici. Come a dire che il senso
opera nella devastazione.
V. Bendini, Stanza dell’identità, 1984, Casa del Mantegna.
Dove sta, però, la forza generativa? Sostenere che essa è una
602
il testo del poeta francese mi è sembrato talmente importante
Gli oli seguenti ribadiscono i passaggi sul primo e sul terzo corpo,
da non potervi rinunciare. Si aggiunga che Valéry viene poi a di-
quello vissuto e quello vedente-concettualizzante (Io che cam-
scorrere di un quarto corpo, questa volta chiamato Immaginario
mino e io che guardo, recitano i titoli), ed è quasi superfluo ri-
(o altrimenti detto Reale), che costituisce il fondamento di tutti
percorrerli in dettaglio, tanto più che non interessa cavar fuori
gli altri ed in cui è racchiusa la loro spiegazione originaria, inac-
delle minute concordanze, che non servono e neppure debbono
cessibile alla scienza. Non so se Bendini conosca questo passo,
esserci, quanto invece rintracciare uno spartito generale e fanta-
anche se è probabile; in ogni caso molti punti di esso convergo-
stico al quale la sequenza obbedisce.
no verso un ordine di idee che gli è congeniale. Non solo: la con-
Meno addossabile al testo (e decisamente non-antropomorfico)
figurazione stessa della scena intima, così come è messa in
l’ultimo quadro. Lì il posto dell’io viene sopravanzato da un’altra
campo sulle tele (e in negativo in tante installazioni), è costrui-
figura e ciò che appare è un’icona riflessa, una forma vista, al-
ta sulle relazioni interne e sulle cesure (anche), che intercorrono
lontanata e che si vorrebbe poter afferrare. Una imago sfuggen-
fra queste differenti esperienze del corpo.
te nella curva dei visibili.
A tale proposito la serie del principio creativo mi sembra esem-
Se Quello che vedo è il corpo dell’ altro (e nel pre-titolo, poi sop-
plare. Qui si fronteggiano quattro tele, simili agli accadimenti di un
presso, l’intenzione a veniva resa esplicita: ’’per un esterno"), da
palcoscenico multiplo, tele sulle quali si sono depositate sia dei
tutto l’insieme salta fuori una drammatica del riconoscimento af-
percorsi (dei passi), sia delle tracce di immagine. Una di esse fa
fidata ai diversi gradi del vedere che aiuta a capire il perché di
da introduzione e corrisponde in pieno all’esordio di Valéry. È la più
tanti soprassalti, sgusciature, corrugamenti, intercisioni e velari,
figurativa di tutte: un autoritratto sfumato e alonato, pieno di al-
in breve il perché di tante superfici animate, respiri ed onde
lusioni, dove il volto è stato tratteggiato nella parte superiore ed
nella pittura di Bendini.
emerge come se venisse dal niente in un pulviscolo di barre.
La vera ambizione dell’occhio emergente dall’intreccio starebbe
Consideriamolo bene: fronte ed orbite sono protese verso di noi in
dunque qui: nel chiedere all’altro, compreso quello speleologica-
una estrema concentrazione, ma lo sguardo di cui sono cariche in
mente inabissato, di corrispondergli. E nel battere questo appel-
realtà ci oltrepassa. Tende ad altro, come se rientrasse. Quel che
lo l’occhio mette in moto la ‘macchina’ d’avvicinamento, di cui
vediamo effigiato è un volto in tensione, una testa, e precisamen-
sorprendiamo l’essenziale partitura nella trama oscillante di
te una mente fervida: il luogo in cui sgorgano le figure (’’Nella
quinte, bersagli e soglie: una sorta di congegno a pendolo e ad
mente di ciascuno di noi si configurano...", con quel che segue).
altalena, che è la sua inconfondibile messa in scena. Une suite
de hauts et de bas.
Una finzione nel significato etimologico del termine, cioè una
plasmazione di immagini, un modellamento.
Ma accanto alla sintonia con Valéry, è importante rilevare anche
una lontananza. Ora, al posto di Narciso, il mio corpo specchiato,
è sopravvenuta l’altra parte amorosa. Ed è uno scarto non da
poco, quando scopriamo che la pittura del volto e dell’io si è trasferita nelle figure dell’alterità, dentro le trame relazionali del
dentro e del fuori.
La biforcazione è costante e che le cose vadano in questo modo,
lo si constata dalla pronuncia dilemmatica, schiusa ed incrociante, a chiasmo insomma, di un medesimo tema nei suoi vari
sviluppi. Si prenda, per averne una rapida campionatura, l’artico-
V. Bendini, Stanza della memoria, 1984, Casa del Mantegna.
lazione estroversa / introversa del motivo della memoria nei
603
V. Bendini, Stanza dell’eros, La fiamma, 1969, olio e polveri colorate su tela, cm 100x100.
604
V. Bendini, Stanza del principio creativo, Quello che vedo, 1969, olio su tela, cm 150x150.
605
due quadri collocati di faccia nella stanza ad essa dedicata: Un
mento. E quel che più impressiona è il distendersi del ventaglio
giaciglio per Allende e Teatro magico, tela quest’ultima in cui
nei modi d’una cerimonia intesa ad accerchiare le furie. Si guardi
cade finalmente la parola che avevamo inseguito discorrendo di
(ma è solo una pronuncia) come la materia pittorica venga richia-
una duplice scena: la parola teatro, con un indice magico per
mata e subito racchiusa nel giro di un ripetuto témenos quadran-
giunta, a segnalare che non si tratta di un luogo qualunque, ma
golare nelle tempere e negli oli del ’56, oppure come affiori la
del posto dell’anima e del suo foro interiore, visitato da fluidi
coppia mitica dell’ io e dell’ ombra nella tela del Viandante.
scintillamenti: uno spazio spumeggiante, mentre nell’opera de-
Inutile continuare. I mitologemi zampillano e i riti sono molti,
dicata ad Allende, benché essa appaia tutta scoperchiata nella
come dicono le tappe della ruota. Riti magari umili, dichiarati
sua materiale oggettualità, la memoria si è ritirata, rapprenden-
sottovoce e con reticenza, al fine di sottrarli sia ai deliri del sog-
dosi nella stazione rituale del silenzio.
getto sia ’’al contagio della follia e della vertigine collettiva".
Le colle, i legami e i perimetri obbediscono alla cadenza proietti-
Quasi non appaiono, tanto sono resi semplici e familiari, ma cre-
va del costrutto simbolico. Quando l’ ‘identità’ scatta, tutto un ven-
scono di spessore prolungando la lettura.
taglio di incroci ed agganci si apre ai più diversi livelli d’inscena-
Quando il bagno lunare fa piovere rugiade d’argento sulle cortine silenziose, come non pensare ad una attesa bianca e lustrale?
E a Maris stella può essere negato l’eco del mito?
Se il gesto ripete la violenza di una strage, ecco la pittura iscriverla nella camera dell’eros. O per dir meglio: la mano rifà la violenza e ricomponendola la riscatta. Se ne dichiara custode. E
questo è rito. Lontano, nell’ ultima prospettiva, si affaccia il riverbero del Corpo congetturale, sempre in cavo e dato per risonanza, poiché la coscienza (lo sguardo), pur avendone un’intensa memoria, può soltanto esporsi ad esso. Deve sostare sempre
fra gli istanti dei visibili, se vuole esistere.
È la poetica dell’esposizione come derivato: "è una eredità del
sentimento del mondo. È un sentimento di sentimenti derivati.
E la mia opera come il mio corpo saranno pezzi particolarmente
intimi del mondo".
Ci avviciniamo al disco prosciugante di Cabina solare. Ed è il silenzio più profondo nel silenzio della scienza.
(1) Scritto in occasione della mostra “Sette stanze – Un giardino”, Casa
del Mantegna, Mantova, 1984.
V. Bendini, Stanza del principio creativo, 1970, olio su tela, cm 200x130.
606
Continuità impressionista
Rossi non vuole in alcun modo fare pittura
di Amedeo Rossi
nuova, sperimentale, linguisticamente innovati-
(1)
va, ma ritradurre a modo suo quella antica, seEsiste nel secondo Novecento mantovano un filone pittorico appartato, per molti
condo cifre discrete, private e quasi domestiche.
versi ‘minore’, che sarebbe però ingiusto passare sotto silenzio. Si tratta di arti-
Ciò che lo porta a dipingere è lo spazio del
sti arroccati nella memoria formale del post-impressionismo e in quella versio-
commento, della nota, della variante. Perciò ri-
ne del “guardar naturale” che ebbe da noi, fra Trenta e Quaranta, episodi di sin-
taglia, per ricordare un caso, un paesaggio nei
golare forza inventiva. Da loro non si attende certo la deroga dal passato o la
modi degli scorci facciottiani (Molo a Bardolino,
creazione a tutto tondo di immagini nuove e complesse. Quel che ci danno è la
1965). Poi ne ripassa gli accordi visivi stenden-
variazione, il ripensamento di un luogo consolidato. Un ripensamento né acritico
dovi un colore tutto suo, fatto per lo più di sva-
né disarmato. C’è anzi chi dà prova di singolare malizia, rielaborando una forma
poramenti e di miscelature, di materie rugiado-
per il solo piacere della citazione, proponendo articolazioni inedite là dove il det-
se lontane dalla temperie drammatica del mo-
tato parrebbe esaurito o combinando in una medesima opera diverse sugge-
dello. Lavora per saturazioni, lasciando che il te-
stioni, con un’ironia e un distacco che si spiega con la grande padronanza del
laio spaziale accolga atmosfere più sfibrate e
mestiere. Altri invece lo fa con affetto, spinto da un impulso di evasione dal pre-
tenui, lampi di luce.
sente o dal desiderio di provare la resistenza di un insegnamento.
Delle differenti epoche documentate nella mo-
Soprattutto questo secondo impulso, unito all’amore incondizionato verso i
stra, ora caratterizzate dalla consistenza corposa
maestri, deve aver agito in Amedeo Rossi la cui recente antologica alla Casa di
dell’olio ora dalla liquidità di stesura, il dato origi-
Rigoletto obbliga a riflettere sui larghi seguiti della scuola chiarista in ambito lo-
nale par consistere nella ricerca di una stenogra-
cale. Osservandone le tele non si può fare a meno di ripensare infatti a vari pit-
fia vibrante, luministicamente emozionata. Così
tori dell’anteguerra, da Facciotto a Lilloni agli elegiaci.
è, ad esempio, nel Ponte levatoio del ’60 e nella
A prima vista nulla di nuovo sul piano compositivo. Eppure chi concludesse con un
Marina assolata del’57, dove i corpi e gli ogget-
affrettato giudizio di epigonato, liquiderebbe alcune serie motivazioni del fare ar-
ti vengono annegati nelle iridescenze graduate
tistico: ragioni legate ad una continuità autentica, apertamente cercata, critica-
di colore. Ma il meglio è, ci sembra, nel controluce puntellato su un parapetto visivo, su una siepe
mente selettiva.
o su un filare di alberi, come si vede particolarmente nella serie felice dei pastelli. Gli esercizi
sono dunque brevi, controllati, quasi aforismatici. E ribadiscono, come si diceva, il desiderio
della rivisitazione e del commento.
(1) Scritto in occasione della mostra “Amedeo Rossi”,
Casa di Rigoletto, Mantova, 1984.
A. Rossi, Fiera delle Grazie, 1949, olio su compensato, cm 31,5x50.
607
Itinerari nella camera chiara
magine di Filippo De Pisis, la “camera chiara”.
Luca Alinari
Sugli attributi della chiarezza, dalla quale ad ogni passo le figu-
(1)
re appaiono avvolte, credo non occorra insistere a lungo. È una
Sarà forse per via di tanti angoli, finestre e muri, di tanti mobi-
chiarità diamantina, traslucida e gemmata che si percepisce su-
letti ed oggetti disseminati nei dipinti e nei disegni, che le tele
bito, come d’alta montagna o di cielo platonico; fatta d’etere, in
di Alinari, quand’anche rappresentano dei paesaggi, mi fanno
certo modo. Una luce che non appartiene al giorno benché at-
pensare in maniera irresistibile al tema della casa e della stan-
tragga elementi comuni e diurni, perfino i più banali e quotidia-
za. Se poi leggo gli appunti, le note di lavoro e le brevi storie in
ni. Viene dal dentro, irradiata, com’è, dal cumulo delle cose riaf-
cui talvolta ci si imbatte sfogliando i cataloghi, quel pensiero si
ferrate nella mente; dalle cose ricordate, contemplate e rilancia-
rafforza ancora di più, poiché le parole tornano a ribadire la pre-
te dall’immaginazione.
senza di quel che chiamerei, per servirmi di una splendida im-
Piuttosto val la pena di soffermarci sulla insolita architettura
L. Alinari, Veduta dall’auto in sosta, 1984, tecnica mista, cm 100x120.
608
della stanza, sulla struttura cangiante di un interno che risulta
quilino (un topo ricamatore per giunta) una figura dell’immagi-
contemporaneamente unitario e policentrico, chiuso ed aperto.
nario e dell’inconscio. Il significato è senz’altro presente, tanto
Un parallelepipedo fluido e paradossale. Mentre per un verso le
più che non si può dire con certezza se si tratti di uomo o di
pareti chiudono, perimetrano e circoscrivono, per un altro slitta-
donna. Ma in definitiva poco importa, oltre al fatto che si po-
no come le stecche di un ventaglio e lavorano in espansione.
trebbe portare qualche altra associazione non meno plausibile.
Non solo: la camera, pur agendo da contenitore (un involucro
Molto più interessa annotare come la comunicazione sviluppi
mentale, si è detto), è spalancata o comunque schiusa da qual-
una sorta di andirivieni dall’ alto verso il basso (e viceversa), uno
che parte; ora lo è alla lettera, in virtù dei finestroni disposti dia-
scambio di luci e di ombre, e come, soprattutto, essa produca un
gonalmente sulla superficie dei dipinti, ora in modo meno visi-
tipo di linguaggio misto, antieconomico, eccessivo, tutto spinto
bile, per effetto di una sotterranea macchinazione che spinge
verso la decorazione e l’ornamento. Il linguaggio - si direbbe -
verso l’alto folate di segni. Dunque una camera comunicante su
dell’”uomo di fumo” e del flaneur, di chi non ha fini pratici da
questo o su quel lato, in avanti, all’indietro, ed anche nel sotto,
perseguire e bada alla superiore leggerezza del proprio dettato;
verso il sottosuolo: interno di un interno.
di chi mescola l’insignificante col radioso, punta sul funamboli-
Si consideri, per fare una prova, un raccontino-parabola del 1976,
smo ed inietta solventi luminosi dentro gli orditi.
intitolato non a caso Camera (più esattamente: Camera dei guan-
Se è così, si capisce allora la predilezione stilistica di Alinari per i
cialini) ed accompagnato da un sottotitolo, per dir così, filosofico
movimenti dell’incastro e dell’intermittenza. Il suo andare verso
che ci invita a considerare le ‘probabili’ connessioni degli accadi-
una grammatica della composizione che mette insieme i diversi,
menti narrati con i fatti della pittura; con “le cose dipinte”, scrive
li incerniera a chiasmo e a catena. I precedenti illustri ci sono e li
l’autore: dipinte, si badi, e non prelevate direttamente dalla real-
conosciamo. Dal “marchesino pittore”, che guardava uscire dalla
tà. Ebbene, in questo raccontino la morfologia della stanza e il
finestra di Montparnasse la folla “figurata” dei sogni e dei miste-
suo funzionamento mostrano una spiccata propensione verso il
ri, a De Chirico, Savigno e Palazzeschi. Oggi diremmo Arbasino e
basso. Vanno all’ingiù, avendo commercio e dialogo con la parte
Sanguineti. E neppure deve essere assente, sia pure alla lontana,
nascosta della coscienza, col lato in ombra. Ed ecco come: il pro-
il magazzino incantato di Madame Panckoucke, descritto da Bau-
tagonista, del quale nient’altro si sa che fa il “casuale pizzaiolo
delaire nella Morale du joujou, dove i giocattoli, i mobili e le
notturno” (ma legge anche e disegna), condivide la stanza con
cianfrusaglie sono animati, parlano ed agiscono come attori. Fatto
un ignoto che vi dorme di notte; una persona che non ha mai
sta che anche in Alinari, voglio dire nel suo modo di connettere
visto. Uomo o donna? Non lo si può dire. Tiene tutto in una sca-
le immagini, domina il principio eteroclito dell’elenco che tutto
tola (altra miniaturizzazione evidente della stanza). L’unica somi-
agglutina, il cui macrosegno è da vedere appunto nella stanza-
glianza possibile, del tutto immaginaria, tra favolistica e onirica, è
atmosfera capace di risucchiare gli esterni trasferendo dentro di
con un topo, creatura degli anfratti e delle tenebre, signore dei
sé nubi, lampi e tempeste; ossia, per dirlo altrimenti, di rappre-
cunicoli. Perciò vien chiamato Ponghèn, in gergo della Bassa. Ed
sentare il “dramma della vita” nella finzione delle figure.
oltretutto dev’essere un esploratore di libri e biblioteche se, di lì
Pupazzi certo, eppure nonostante l’attrezzeria marionettistica, le
a poco, scatta una metafora letteraria che lo presenta come “il ca-
bambole e i fantocci elastici, nonostante le lettere a forma di bi-
pitano delle parole”. Ma il fatto davvero curioso (ed imprevisto)
scotto, gli ingredienti di spezieria e cucina, nonostante le cromie
è che lo sconosciuto collabora ad un certo momento col protago-
stese come zuccheri al velo e pasticci di crema, non si deve ca-
nista, portando a termine qualcosa che ha appena cominciato,
dere nel tranello del gioco innocente. La pittura (stavo per dire
per esempio uno schizzo tracciato sul cuscino. “Osservò bene il
questa confetteria da viaggio dentro la scatola) è agrodolce. Mi-
guanciale che aveva disegnato e sobbalzò: il disegno era dive-
scela i contrari. D’altronde, Gadda lo diceva, il bambino bisogna
nuto un ricamo di perline colorate, qualcosa che scintillava”.
inventariarlo tra i polimorfi perversi. Vero è che il pittore, nel far
A questo punto sembra fin troppo facile vedere nell’ignoto in-
credere (o nell’atto stesso) di attraversare l’universo infantile,
609
pesca in realtà nelle acque della narrativa favolosa e prende al-
sotto forma di mundus, di cosmo figurale: i sassi e gli esseri vi-
l’amo misteriosi delfini. Mischiati a splendidi desideri o ad amare
venti, la volta stellata, le autostrade e le montagne.
scontrosità, getta sulla riva sogni e mitologemi antichissimi; per
Gli opposti si incontrano. Mi sono espresso male: è il sogno della
non dire, fra i molteplici esiti di questa pittura, i soprassalti e mo-
loro unione a trovare qui la sua forma. Il vero propellente dell’ac-
tivi, i disincanti e le domande senza risposta, come quel lessema
cumulo immaginario è difatti la cosa che poi non accade, un fan-
melanconicamente ossessivo negli ultimi anni, che non può non
tasma dell’eden perduto o di quello possibile: una irrealtà sempre
colpire: “fabbricare le prove”. Stampigliato sulle valigie traspa-
contraddetta dall’avara economia del politico, ma ciò non di meno
renti o posto a far da sigla su certi episodi recenti del racconto.
vivissima nella memoria favolosa. Come potrà mai nel reale - ci si
Per sintonizzarmi sull’onda del mito, nel gioco avventuroso del
chiede -, in un quotidiano marcato dalla separazione, darsi l’orga-
giramondo, mi avvicino alla finestra dipinta e guardo il paesag-
nico incontro, lo scambio e la fusione del minerale con l’animato,
gio irraggiante delle Origini. Osservo il ‘mistero’ che avanza nella
del senza-parola con la voce? Del curvo con l’acuto?
crescita dei globi saviniani o nella “collina assoluta”, molecoliz-
Se il mito ci parla di un’umanità rifatta mediante il lancio delle
zata e a-topica, delle materie colorate. Tratteggi o stesure corro-
pietre, Alinari ne ascolta la voce. Non perché ci creda, ovvia-
no quasi per forza propria, calamitandosi tra loro per rima e as-
mente, ma per il fascino che da essa promana: doppio fascino,
sonanza. Tutto, sulla tela-stanza, può lievitare e condensarsi
visto che la seduzione tematica gli viene per di più trasmessa
L. Alinari, Buoni pastelli 4, 1982, pastello, cm 50x70.
610
L. Alinari, Case matte sotto una pioggia, 1984
tecnica mista, cm 100x120.
dall’opera di un maestro minore, posta sul retro di un dipinto raf-
oppone la merce al valore? La materia inorganica al vivente? Il dub-
faellesco; da una vicenda marginale, ma toccante, della pittura.
bio cade proprio su questo crinale. Ma lasciamolo dire all’artista
Ma una volta ricomposto l’episodio di Pirra e Deucalione, s’arre-
stesso: “Che le cose inanimate siano in realtà animate, vive e par-
sta e non finisce. Lo lascia a metà. E gli basta. Perché?
lanti, ha a che fare, credo, col senso del mio lavoro. Forse perché,
A parte la riflessione metalinguistica sul fare (e in particolare sul
ogni tanto, il sospetto che, al contrario, le cose animate e parlanti
sottile rapporto fra arresto e ripresa, sull’effetto della dissocia-
siano la variazione infinita dell’immobilità, di un eterno elemento
zione e del taglio all’interno di un testo pittorico), mi pare lecito
’minerale’ eroso dal vento, si propone inequivocabilmente”.
indicare una seconda ragione: ed è che sospendere significa
Così quel che fa da perno è la pratica del sospetto, il dubbio re-
aver coscienza dell’incompimento. Della fragilità del sogno. Vuol
trattile sul principio di non-contraddizione, col correlativo naufra-
dire saper esercitare l’ironia su tutte le pratiche creazionali, com-
gio delle architetture grammaticali. Per questo i personaggi sono
presa la pittura, che è fatalmente finzione: una finzione di cui
necessariamente artificiali, vale a dire congegnati dalla mente.
tuttavia non si può fare a meno, così come l’inventore della “ca-
Ed hanno doppia natura, petrosa-elastica, tagliente-fluida, ma-
mera chiara” non poteva impedirsi di pensare all’inutile, cioè al-
schile-femminile, come nel bel viso della figura stesa in Siepe di
l’eleganza, anche in punto di morte.
bosso. Ed i nasi sono, di tanto in tanto, tavolette geometriche so-
Senza enfatici pareggiamenti col reale o travasi ideologici nel
vrapposte agli ovali dei volti.
contemporaneo, di cui pure registra incrinature e drammi, Alina-
Qua e là ammicca l’unicorno del sapere utopico: la bozza, forse,
ri dà fiato all’utopico. Un utopico sospeso. Per questo il sogno ri-
di Settimontano Squilla, convenientemente aggiornata (e ironiz-
mane aristocratico. Utilizza la chiacchiera per ingentilirla, raffi-
zata, c’era da aspettarselo) nei copricapi puntuti e nelle capiglia-
narla, farne uno stile. Ma ad una condizione: che le figure della
ture a fiamma. Nei vibratili succhielli dei nasi e delle lingue.
chiacchiera lavorino per simpatia complementare, riuniscano già lo si è annotato - i separati.
(1) Scritto in occasione della mostra “Luca Alinari”, Casa del Mantegna,
Mantova, fine 1984-inizio 1985.
E quale antitesi più radicale può esservi, oggi, se non quella che
611
Disegni e abbozzi
Ora, una così marcata e sistematica assenza del progetto deve
Enzo Nenci
avere una precisa motivazione espressiva. Ed anche fabbrile.
(1)
Quel che più colpisce e infine persuade nella fattura delle plaCosa abbastanza rimarchevole, da segnalare a titolo d’approccio
stiche è il sentirvi l’aderenza animata della mano, un manipola-
nel caso di Nenci, è la quasi assoluta assenza di supporti grafici
re - è il caso di dire - completamente addossato alla materia, per
nell’ideare e condurre a conclusione le sculture. Non che man-
mediazione di strumenti che possano raggelare il contatto diret-
chino, in realtà, disegni e abbozzi. Ma sono pochi e, fatta qual-
to e frenarlo. Di modo che l’ ‘idea’ risulta subito bruciata nel fare.
che rara eccezione, riguardano tutti il destino esteriore e, per dir
Eppure le opere, o comunque molte di esse, si sono dimostrate
così, il consumo e la cornice dell’oggetto plastico. Nei fogli che
disponibili al confronto col progetto; o meglio, hanno avuto a che
rimangono, per altro residui di un fare riflessivo che si può im-
fare con sistemazioni di natura edilizia, con costruzioni, tralicci e
maginare un poco più vasto, note e appunti si alternano sag-
pareti architettoniche.
giando le ragioni pratiche di un’inclinazione, l’ordito, quantitativo
Ma come? Inserendovi, mi sembra, un contromovimento centri-
di un insieme, una positura; oppure misurano distanze metriche
peto, poiché vi hanno ritagliato o ritagliano delle zone di sosta e
più che interrogare la cifra interna di un’immagine.
delle pause. Invitano a concentrare lo sguardo su pochi elemen-
O anche, ma è l’ultimo caso, intervengono sulla combinazione di
ti all’interno di un perimetro circoscritto. Detto in altri termini,
figure raggruppate, su una posa gridata e oratoria. Insomma toc-
grazie ad esse, il guardar "grande" dell’architetto vien voltato in
cano una preoccupazione monumentale e dimostrativa.
contemplazione.
E. Nenci, Deposizioni, s.d., matita e acquerello, cm 41,5x50.
612
Le stesse vedute relative ad una delle imprese più eloquenti (e retoriche) dell’autore, la monumentale fontana ai caduti eseguita a
Copparo intorno al 1933-34, parlano a favore di una leggibilità ridotta ad una fascia ornamentale, imprendibile da lontano e come
annegata dentro il manufatto ingegneresco. Anche li, nonostante
il posizionamento dimostrativo del bassorilievo ad una altezza violentemente aggressiva, il modellato invoca nelle parti più riuscite
un osservare intenso e concentrato. Come in un altro lavoro di
qualche anno prima, gli altorilievi per la Camera di Commercio di
Ferrara, il problema dev’essere stato quello di una convivenza, il
meno contrastata possibile, e comunque non espansiva e incentivante le direttrici di fuga, col manufatto edilizio.
Il che non significa naturalmente che siano mancati episodi,
anche gravi, di concessione al gusto di un’epoca, specie nell’adeguazione di certi miti personali e allegorie intime ai temi
imperativi della persuasione politica, ma quel che regge, anche
in momenti di estroversione, è il tenersi stretto, da parte di
Nenci, al principio sensitivo del suo mestiere, a quel toccare serrato la materia e renderla viva mediante l’accarezzamento, la
pressione e l’incisione delle dita. Sicché assume rilievo, accanto
al lucidare le pietre dure e i marmi, l’esercizio sulla pelle e la
carne delle sculture; il far respirare in modo sottile le increspature, i tegumenti, le bucce, le colorazioni ed anche le macchie
E. Nenci, Bagnante (dopo il bagno), 1967, bronzo, cm 47x29x17.
indotte nella creta. E certo non è un caso che l’artista tenesse
tanto alla specchiatura o all’ingrommarsi delle materie e talvolta vi stendesse sopra dei veli di colore o di smalto. Così come ap-
di essenze interiori, in accordo con le pronunce rituali della sof-
pare evidente che un’immagine gettata in bronzo ha altra riso-
ferenza e del pianto (Wildt, ad evidenza). Ma prosegue anche in
nanza quando venga ridata in argento o in alluminio. Dunque un
un’altra direzione, cioè nella presa totale di un tema, lavorato
procedere, quanto al dato fisico, che si approfondisce nello spe-
con patine e grafie leggere, a scaglie minute e riverberi allusivi
rimentare effetti percettivi e diventa emozionante proprio nel
di zone ora lucide ora scabre e porose delle superfici. E gli effet-
portare alle ultime conseguenze le risorse della plasticazione.
ti si vedono con particolare efficacia quando servono a raffigura-
Attitudine, questa, già ben evidente nelle primissime opere, pur
re stati umbratili e assorti, ripiegati, della coscienza. Allora sva-
nella loro partitura di piccoli melodrammi romantici, per esem-
nisce anche il gesto allegorico, per lasciar posto alla sola forza
pio nel giovanile (e subito inventato) Nevio che suona il violino,
evocativa del segno: un segno essenziale ed ancora una volta
in cui il fantasticare per ellissi, per altro consanguineo alle solu-
denso, come accade in due teste del primo periodo, da conside-
zioni sottrattive dell’allegorismo floreale e secessionista, induce
rare fra gli esiti più riusciti di quell’epoca: il Giuda (1926 circa) e
lo scultore a ritagliare in cavo l’oggetto-emblema del personag-
il ritratto alla memoria dell’Aviatore Bombonati (1935).
gio familiare. Un recitare per parti e sineddochi le sembianze
Par proprio che negli anni di maggiore divaricatura linguistica (con
spirituali dei volti che poi inclina coerentemente verso le artico-
accenti anche déco, assunti per il tramite probabile di Domenico
lazioni neoattiche e sacrali delle maschere, intese come ricalchi
Rambelli ed Ercole Drei, ad esempio nel Grande angelo in ce-
613
mento del 1926-27, decorativamente impaginato sulla simmetria
drammi di imprigionamento e caduta, almeno fino al 1950.
speculare, al Cimitero di Tresigallo), l’artista sappia ritrovare i mo-
Esplora come i corpi si inarcano, lottano per uscire dall’informe o
tivi più convincenti operando sulle piccole proporzioni e rituffando
si frantumano. Non corpi ideali, ma presenze immediate, vive e
i simboli dentro la misura contenuta del meditare. Se il voler di-
dirette. Si tratta di un’esperienza che getta un ponte verso il Cin-
chiarare significati con i quali giustificare l’emergenza di una im-
quanta e che non va certo interpretata come un abbandono di-
magine, costituisce un vincolo cui l’autore riesce raramente a sfug-
sarmato alla spontaneità, giacché è ben evidente, dietro e den-
gire, è anche vero che questo cercare dei sensi nascosti viene in-
tro queste prove, la raffinata lettura degli antichi, insieme ad un
contro ad una necessità profondamente sentita, che va ben oltre
consapevole arcaismo. Qualcosa come un michelangiolismo ri-
l’oratoria di alcune opere (oltre, per citare un caso, i mitogrammi
passato attraverso Ceccarelli e Martini. Caino del ’47 e la Crea-
alati delle sculture al villaggio Baracca, in Tripolitania). Ed è l’esi-
zione dell’uomo del ’49 possono rappresentarne le riprove.
genza di lasciarsi afferrare da un simbolo pregnante, non discorsi-
In questa fase sono anche leggibili diverse riflessioni in comune
vo né facilmente predicabile. Un mito elementare.
con gli scultori locali, con Aldo Bergonzoni e Albano Seguri; per
D’altra parte l’eredità simbolista, con tanti moduli post-rodiniani
analogie (ad esempio la Deposizione e la Donnina, 1950 e 1951)
così largamente diffusi nell’ Emilia ed ancora saldamente conse-
o per contrasto. Se la compagine dei Bonzi in preghiera non può
gnati ad un vincolante repertorio di emblemi, lo spinge ad espri-
non richiamare per affinità di struttura certi conglomerati coevi e
mersi mediante traslati e figure stilizzate.
quasi fungaie di personaggi seguriani, l’esito espressivo è poi dia-
Un dettato in certo modo più impressionista, più ‘umile’ (anche)
metralmente opposto, poiché nel primo caso si sfocia nel silenzio
nelle articolazioni linguistiche, si affaccia nel secondo dopoguer-
mentre dall’altro saltan fuori dissacrazione e grottesco.
ra. Spostatosi definitivamente da Ferrara a Mantova, Nenci ispes-
Una svolta? Non credo. È invece l’antefatto di un rilancio che riac-
sisce i blocchi plastici, li rende più corposi e tesi. Cerca moti e tor-
certa antiche premesse.
sioni. Fatiche. Mette a punto scene, anzi sintesi, di sofferenza,
Di lì a poco si diramano due esperienze: quella della figura in riposo, ferma, conclusa, ripresa a tutto tondo, anche ieratica e pregante, molto vicina a Bergonzoni, con tutta una serie di immobilità sognate, dalla Malese alla mirabile Testa di donna dagli
occhi chiusi, che giustamente L. Magagnato considera uno dei
vertici dell’intera opera dell’artista; e l’altra, connessa alla dinamica di una catena di figure annodate che, mentre riattivano i
luoghi canonici della simbologia liberty (dal bacio alla maternità), mettono in moto un’originale associazione con la pietra e la
roccia. E tanto più convincono quanto meglio quell’immagine, la
stalagmite appunto, si trattiene dall’essere metafora e resta materia, agglutinando e dissolvendo le figure dentro il proprio organismo.
E quando riesce, c’è un simbolo pieno, consistente. Non soltanto cercato.
(1) Scritto in occasione della mostra “Enzo Nenci”, Palazzo dei Diamanti, Ferrara, 1984.
E. Nenci, Danza classica, 1968, bronzo, cm 33x38x12.
614
Kandinskij tra apocalisse e astrazione(1)
scono pur sempre la legge del “divenire esterno” e non hanno
titolo per ricoprire il ruolo di guida.
1. Il tempo capovolto
Impasse irrimediabile della drammaturgia?
“La Conseguenza prima del materialismo, ossia la specializzazio-
La questione, densa di interrogativi, viene ripresa in tutta l’area
ne e la congiunta elaborazione esteriore delle singole forme pro-
“Sturm” dai nuovi teorici della teatralità schierati sul versante
vocò la nascita e la pietrificazione dei tre gruppi di opere sceni-
dell’astrazione ed impegnati a rifare la parola per restituirle l’an-
che, separati l’uno dall’altro da alte mura”1.
tica pulsazione delle Origini. Il pittore russo tenta da parte sua
Forme sostanziali, Substanzformen di un’epoca e prodotti di una
sondaggi parziali scrivendo quelli che potremmo chiamare sce-
cultura governata dal demone della separazione, appaiono a Kan-
nari in versi, le poesie in prosa di Klagen, in parallelo con i suoi
dinskij i generi teatrali culminanti dopo la rivoluzione romantica.
quadri ‘musicali’ (le Improvvisazioni o le Composizioni), e intro-
Ai suoi occhi dramma, opera e balletto scandiscono ancora il cam-
ducendo negli spartiti scenici sequenze brevi di versi o alcuni ma-
mino verso l’esteriorità, la storia di una caduta di cui proprio la lo-
teriali fonetici di sostanza transrazionale, magica. Spezza l’anda-
gica narrativa a tragitto parabolico costituisce l’aspetto più eviden-
mento descrittivo, aduna segmenti di immagine, prova tastiere di
te. Niente coralità delle forme e nessuna vera comunità, con la
suoni, senza riuscire però a trovare garanzie sufficienti per affi-
conseguenza di mantenere irrisolta la congiunzione originaria di
dare all’ordito drammaturgico una funzione scenicamente por-
suono, danza e parola poetica. L’arte continua a doppiare l’appa-
tante. Perciò decide un aggiustamento gerarchico che tien conto
renza, ad essere lo specchio servile di ciò che è.
delle sole forme sicuramente efficaci sulla scena e sostituisce la
Questo pensiero non è certo nuovo. Vien subito da richiamare
verbalità col dinamismo cromatico. Un cromatismo – occorre su-
l’argomentazione “trinitaria” di Wagner sul Wort-Ton-Drama che
bito precisare – che non entra in alcun modo in conflitto con le
difatti Kandinskij pone come essenziale premessa al suo discor-
virtualità astratte della parola futura e che, al contrario, vuole in-
so, situandosi in tal modo sulla medesima linea profetica dei ri-
tensificare gli esiti più alti della vocalità e sommarsi ad essi4.
teatralizzatori di ispirazione nietzscheana e schopenhaueriana.2
Di Maeterlinck (dei suoi drammi e delle Serres chaudes) gli in-
Né si può dire che egli muti sensibilmente il corso delle sue idee
teressa specialmente la texture verbale, non il tempo narrativo,
negli scritti posteriori all’epoca monacense, quando, venendo ad
come appare chiaro dal terzo capitolo dello Spirituale5, dove egli
operare in stretta prossimità con l’utopia tecnologica di Gropius,
discute del testo prescindendo totalmente dalla ‘fabula’ e con-
indica nell’architettura uno dei possibili “suoni comuni” entro i
centrandosi sull’analisi di un segno drammatico che non raccon-
quali far confluire il gioco della composizione astratta. L’unio my-
ta. Privata del referente grazie all’effetto di trasparenza indotto
stica fondata sul tre continuerà a marcare il cuore del teatro, il
da una ripetizione che liquefa il segno, gli sembra che la parola
nucleo di matrice musicale, mentre appare variabile per tutta
acquisti una stupefacente capacità percussiva, ben oltre l’evoca-
una serie di ragioni storiche e morali il contenitore spirituale,
zione di una immagine ideale, giacché non è tanto (o soltanto)
lungo uno spettro che va dal rito sacro alla costruzione architet-
una cosa, sia pure mentale, che la parola chiama in causa, una
3
tonica .
figura vicina o lontana, pesante o rarefatta, quanto un moto
Se il Grande Regno, di cui l’arte costituisce l’incarnazione visibi-
della mente, uno scuotimento psichico. Si ha l’impressione – po-
le, può nascere soltanto dal riattingimento della vibrazione ‘pri-
tremmo parafrasare – che l’anima lavori su se stessa, dia forma
mordiale’ di una vita che torna a fluire nei linguaggi, è pur vero
alla propria vita vibrando e sentendosi vibrare, grazie al ritmo in-
che alcune forme sono meno preparate di altre a subirne il con-
condinzionato, autofondante6 e senza finalità afferrabili che la
tagio. L’essenziale non è presente neppure in una delle arti indi-
parola pura scatena: “vibrazione senza oggetti – egli annota –
cate da Wagner. Nel dramma, sostiene difatti Kandinskij, “manca
ancor più complessa, vorrei dire più sensibile dell’emozione che
completamente l’elemento cosmico”, nonostante le eccezioni
danno all’anima i rintocchi di una campana, il suono di una
rappresentate da Maeterlinck, Ibsen o Andreev. Anch’esse subi-
corda, il rumore prodotto dalla caduta di un’asse”7. Osservazione
615
che induce a riflettere sulla virtù della voce umana, sicuramen-
decomposte, di stagni e deserti senza uscita. Quali esseri umani?
te superiore, almeno qui, nella gerarchia orchestrale dei suoni,
Sono piuttosto delle ombre, delle presenze disfatte.
alle voci delle cose. Tuttavia l’oscuramento attuale della parola
Disfatte e tuttavia sapienti. La parola non partecipa ancora al
ad opera del concetto e dell’ipertrofia narrativa ne rende l’uso
nuovo canto ma lo convoca in scena. È la provocazione efficace
pressoché impraticabile, tanto che nel ’23 Kandinskij finisce col
di cui neppure la pittura astratta in certi casi può fare a meno.
dire che la poesia è “l’ultima arte a noi nota che non abbia an-
Non è irrilevante infatti che alcuni quadri kandinskiani, tra i quali
cora scoperto i suoi mezzi astratti”, benché disponga a vantag-
la celebre Composizione VI, siano stati suggeriti dalla spoglia
gio del teatro di una notevolissima “estensione temporale e spa-
verbalità di una espressione, dal riverbero di una parola final-
ziale”8.
mente scaricata di pesi concreti. “Portai in me questo quadro –
Già Schönberg, aderendo al progetto del Cavaliere Azzurro,
ricorda il pittore – un anno e mezzo e spesso dovetti pensare che
aveva indagato l’accidentato rapporto della parola con la musica,
non lo avrei mai finito. Punto di partenza era il diluvio universa-
per concludere che, in materia di suoni, occorreva tener conto
le. […] In alcuni schizzi dissolsi le forme corporee, in altri tentai
dei differenti livelli di “purezza” convogliati dai due tipi di segno,
di raggiungere l’impressione in modo puramente astratto. Ma
situandosi il primo già oltre le soglie della coscienza, mentre il
non andava e la ragione di ciò va vista nel fatto che, invece di
secondo gode di un’immersione pressoché totale nell’oceano
ubbidire all’espressione della parola “Diluvio Universale”, sog-
delle pulsioni ed è inconcettualizzabile nella sua essenza; “lin-
giacevo all’espressione del diluvio stesso. Non era il suono inte-
guaggio del mondo che forse deve rimanere incomprensibile”.
riore, bensì l’impressione esteriore a dominarmi.11”
Ed aggiungeva: “all’arte poetica, legata com’è al contenuto, è ne-
Si fa questione di traslati, ma intanto la parola vien richiamata
gato un linguaggio espressivo altrettanto immediato ed egual-
per la sua residua forza coagulante, come scaturigine di pensie-
9
mente al riparo da elementi perturbatori” .
ri visivi. La sua debolezza, che è poi la malattia di un’intera cul-
Così alla parola recitata Kandinskij assegna soltanto il compito
tura, è un effetto dello ‘spirito’ oggettivo.
preliminare di evocare l’Assente, talora sulla traccia della teatra-
Frantumare il racconto, esorcizzare la tentazione del tempo con-
lità simbolista, facendola sorgere ora dai bordi della scena ora in-
tinuo e della connessione parabolica di immagini, è l’imperativo
caricandola di pronunciare fuori campo gli exergo del dramma in
di una affabulazione che voglia cercare in un’altra logica, questa
funzione tonale e atmosferica. Stimolo ed incipit, quasi alla ma-
volta interna, la geometria qualitativa delle figure, magari rove-
niera di un preludio musicale, la voce dà il ‘la’ e fornisce gli ac-
sciando i vecchi segni per disperderne il circuito semantico.
cordi tematici di cui si alimenta inizialmente la macchina sceni-
Certo Kandinskij non ha nulla contro la categoria teatrale del-
ca. Quando s’arresta nel proprio vuoto prende vita l’evento. In
l’evento, poiché abolirlo sarebbe andare contro la legge costitui-
questo stato, morente e insieme evocativo, un linguaggio sfinito
tiva della scena. L’evento (non solo in pittura, ma in tutte le arti)
affiora in controcanto rispetto al canto centrale del dinamismo di
che egli intende cancellare è quello della temporalità uniforme,
fondo.
concatenata, monocentrica. L’esplosiva rivelazione proveniente
Segno del tramonto, la parola versificata e drammaturgica, lita-
dal quadro capovolto nello studio12 ha davvero, come tanti altri
niante, vive un crepuscolo che segnala la debolezza del raccon-
episodi dell’autobiografia mentale di Kandinskij, un significato fi-
to. È una presenza fantasma, un segno incompiuto. Ed in questa
losofico. Ed oltre a ciò contiene un’indicazione costruttiva che
accezione Kandinskij interpreta i “veggenti del declino”, i loro ul-
puntualmente si traduce in un protocollo stilistico. La tela ribal-
timi testi, drammi e romanzi, dal Die andere Seite di Kubin a Les
tata è lo spazio rovesciato ed insieme il tempo capovolto, come
Aveugles e Les sept princesses di Maeterlinck, con la loro folla
vien da pensare confrontando, ad esempio, la riscrittura pittorica
di figure indeterminate ed evanescenti, “anime che vanno a ten-
di un’opera di Brueghel, fatta risuonare all’indietro nel Quadro
toni nella nebbia, da cui rischiano di venir soffocate e sulle quali
dal bordo bianco. La fine è ricondotta al principio, l’alto al basso,
10
aleggia un fosco potere invisibile” . Un mondo, il loro, di paludi
il racconto bruegheliano cancellato nel suo tragitto e ricostituito
616
per condensazione13.
dà alla composizione scenica il suo speciale movimento.
A tale proposito lo Spirituale nell’arte, con i suoi allegati, è fra i
Oblio dunque della trama orizzontale in attesa di una nuova te-
primissimi testi a teorizzare il valore “costruttivo” delle procedu-
stualità che la drammaturgia non è in grado, almeno per il mo-
re dissocianti, a fare della disseminazione semantica un puntel-
mento, di garantire.
lo dell’armonia. Caso esemplare, dal suo punto di vista, il cubi-
2. Unità demiurgica
smo, arte per eccellenza dell’equilibrio, che Kandinskij legge
Criterio dello stile è la necessità. Su questa fondamentale pre-
come disperdimento volto all’unificazione. Picasso, vien detto,
messa si articola lo scenario kandinskiano. E giacché è impensa-
possiede il segreto dei numeri. Frantuma la compagine eviden-
bile che al percorso effimero del tempo esteriore, così profon-
te delle cose per riassestarla ad un livello più alto: “egli arriva in
damente patito dalla parola e denunciato dalle sue lacerazioni,
modo logico all’annientamento della materialità […] attraverso
si sostituisca qualcosa di inefficace per la vita dell’anima, ciò che
una sorta di frantumazione delle singole parti e la dispersione
bisogna indagare, dapprima per via mistica e intuitiva ed in se-
14
costruttiva di queste parti nel quadro” .
guito con il calcolo analitico, è una rigorosa partitura del ‘cuore’
Il ribaltamento poi non è che un caso della rottura del tempo.
scandita da segni puri, non ottenebrati da ragioni illustrative. Il
Altre modalità retoriche vengono convocate a polverizzare il
colore è uno di questi elementi. Un essere ‘vivo’ che ammalia i
récit, sì da potenziare nel contempo l’impatto psichico dei fram-
sensi, spingendoli ad oltrepassarsi. Ed è qui, nell’esperienza del
menti, relazionati tra loro come i corpi di una nebulosa in espan-
colore, che si innesta la grande lezione goethiana come Erlebnis
sione. È tipico di Kandinskij fare in modo che nell’orchestrazione
cromatico, epicentro di una frastagliatissima riflessione dal post-
complessiva del movimento (e lo si vedrà bene nel Suono gial-
impressionismo in poi, specie per il tramite teosofico dei rosa-
lo) pulsi più di un centro e gli eventi globulari non raccontino più
crociani e di Rudolf Steiner. Che l’argomento assuma un’impor-
nulla di linearmente catturabile. Alla fine, se una fabula potrà
tanza cruciale anche per il teatro, risulta evidente in quei mede-
mostrarsi, si tratterà di una storia esplosa, di una costellazione
simi anni dalla “infuocata” teoresi di Fuchs incentrata sulla Far-
da vedere in chiave di relazioni cromatiche, figurali, sonore. Fin
benlehre16. “Dividere l’unito e unire il diviso, è la vita stessa della
là, naturalmente, dove quella struttura dell’intermittenza si la-
natura, è l’eterna sistole e diastole, l’eterna synkrisis e diakrisis,
scerà afferrare.
l’inspirare e espirare del mondo in cui viviamo, tessiamo, e
È il bachelardiano irrompere dell’istante che l’artista introduce
siamo”17. Così Goethe riconosceva nell’attività dello sguardo l’or-
nella superficie dei fatti, scheggiandone lo svolgimento. Ed il suo
ganico costituirsi di un mondo. L’impostazione viene ripresa
paradosso consiste nel dare contemporaneamente il molteplice
nello Spirituale e posta a sostegno della sintesi scenica.
e l’uno, il caso e l’ordine, giacché un sotterraneo legame tiene
Trasferendo nel teatro l’officina del vedere, l’artista dà corpo ad
insieme, “segretamente”, il mosaico narrativo andato in frantu-
una peripezia creazionale: la costruzione dell’opus. Kandinskij in-
15
mi . Vediamo affiorare, scomparire e ancora ritornare dei bran-
veste lo spettro cromatico di qualità mentali insistendo sulle
delli di immagine, secondo un ritmo che essi stessi producono,
leggi di contrasto, poiché le dissonanze, il battito degli opposti
irrompendo o svanendo dalla scena. In questo senso la misura
creano le condizioni del movimento. Ne vien fuori inoltre una
“cronometrica” lascia il posto ad una pluralità di stati dinamici,
drammatica della discesa e della risalita in senso sostanziale.
irradianti dentro un insieme.
Nel colore è da vedere un luogo di patimento per l’anima che
L’artista ama dire, a proposito della spazio, che certi motivi re-
può incontrarvi la caduta o la resurrezione.
stano sospesi, senza appoggi, e che una figura sta librata in
Se la vita dei colori ‘semplici’ sta, com’egli dice più volte, fra gli
qualche posto eccedente la prospettiva, fuori dal mondo ottica-
estremi della nascita e della morte18, che cosa viene a mostrare
mente definito. Così un atto crea da sé il tempo nel succedersi
il cerchio delle trasformazioni luminose che troviamo disposto
puntiforme degli istanti. Più eventi in rapporto ritmico tra loro
tra il bianco e il nero e che il pittore subito interpreta nella ca-
modellano la propria forma di relazione, una rete temporale che
denza mitica dell’Ouroboros, il serpente cosmico “simbolo del-
617
l’infinito e dell’eterno”? Non è certo la valenza ottica (o questa
sarà l’Oriente ad essere convocato) sta a significare la ripresa di
soltanto) ad interessarlo. Il fatto è che un simile nastro è anche
un segreto ancora incompiuto che la modernità, forse, riuscirà a
il cerchio dell’anima, la sua geometria emotiva e passionale, sì
conquistare: il segreto di cui parlava Nietzsche nella Gaia Scien-
che facendo agire una cromìa si disserra la dynamis interiore.
za, quel potere di incantamento e di trasvalutazione del corpo,
Psiche risuona ed il suono non può essere che l’agire di una mi-
che Kandinskij ha certo presente quando scrive lo Spirituale23.
stica follia di conoscenza.
Dacché poi la danza ‘vera’ è una lingua che nell’atto di manife-
È forse per caso che il Klang, collocato d’esempio alle soglie
starsi, si appaga di sé, è sinolo indissolubile di contenuto e
dell’”arte monumentale”, è gelb, giallo? Perché non un valore
forma, ‘figura’ senza scopo, ma in definitiva una figura decanta-
diverso quando l’autore disponeva già di altre partiture? Solo la
ta in cifra formale, Kandinskij finisce per riattivare in area espres-
passione è capace di far uscire la coscienza da se stessa, di di-
sionista (e di quell’orfismo che appartiene al Cavaliere Azzurro),
sperderla. Ed il giallo è, nell’interpretazione dell’Artista, una
il sogno mallarmeano del geroglifico spirituale e disincarnato.
energia espansiva, un qualcosa di terrestre che si brucia freneti-
Velo e trasparenza. E se è pur vero che il gesto prende quota da
19
camente nella disragione .
(e in) una manifestazione sensibile, lasciandosi contenere nel-
Ma a parte le identificazioni troppo strette, che il soggettivismo
l’involucro fisicamente pregnante di corpi e cose in movimento,
della tastiera kandinskiana rende spesso impervie se non indi-
questa densità è comunque intenzionata altrove ed obbedisce al
mostrabili, quel che appare in ogni modo sicuro è la caratteriz-
processo di specie visionaria che vi è sotteso. Dislocata su un
zazione del colore come sistema autonomo di significazione,
piano diverso, la materia mostra tutto un altro volto, allucinata
sganciato dall’esistente. Ed accanto al colore, con analoghe ca-
com’è dai sortilegi del ritmo, e spinta a tradursi in scrittura aerea.
ratteristiche, sta la danza.
L’effetto ‘sorprendente’ nasce proprio dal non appartenere più a
questo mondo pur abitando in esso e nascendo da lui. Epoché
Anche di essa, come della pittura (ma l’argomento verrà ripreso
20
in Punto, linea e superficie) , si traccia una storia secondo lo
dell’esistente ad opera della danza. Non un al di là, un fuori dal
schema evolutivo per balzi che è caro all’autore: schema della
mondo, ma un fuori ‘dentro’ il mondo. Ancora una volta veniamo
peripezia e dell’avanzamento irresistibile dei valori spirituali
perciò ad imbatterci nella pratica del capovolto e del sospeso.
dopo l’epoca delle copie. La prima fase orgiastica in cui il gesto
Quando l’Autore analizza le posizioni della danza, si comprende
sessuale del danzatore venne a confluire nella sacralità delle ce-
subito che lo fa a partire da una esperienza speciale, come se
rimonie iniziatiche (quale “mezzo” di ispirazione e “tecnica” del
fosse posseduto da un sortilegio, da una sorta di choc di disan-
culto), è stata seguita da un assoluto oblio21. Ma è dal riannoda-
coramento. Sta nella realtà ma vede altro: l’elevarsi di qualcosa
mento alla grecità che può venire la salvezza del moderno.
dal carcere della corporeità. Una fantasmagoria di linee.24
Quale grecità esattamente? Kandinskij, come sempre stringato
Della nuova danza scrive: “è l’unico strumento che consente di
quando richiama settori lontani dallo specifico figurativo, dice
utilizzare l’intero significato, l’intero senso interiore del movi-
pochissimo in proposito. Un nome tuttavia lo fa ed è un chiaro
mento nel tempo e nello spazio”, volendo dire, in parallelo con
riferimento alla danza ritmica e asemantica, nettamente antipit-
Schönberg, che una lingua può imprigionare una incalcolabile
toricistica, tanto vicina ai teorici del movimento: Isadora Duncan.
progressione di rapporti in sede compositiva: davvero infinita
Lo stesso nome invocato da Dalcroze e Craig, in un ambito che
perché si sottrae ai registri del prospettivismo e mette in gioco
22
va dal tardo Jugendstil all’espressionismo, antiedonistico .
tutta una riserva di elementi combinatori. Senza lo choc del di-
L’accenno rapido (ma denso di sottintesi, tanto è preciso il riferi-
stacco provocato dal tempo sospeso, non sarebbe però possibi-
mento alla “ginnastica ritmica del futuro”) rinvia ad un Origina-
le. Come potrebbe altrimenti autofondarsi? Proprio dall’incanto
rio, o meglio ad un dionisismo rifatto e tecnicizzato nei myste-
prende vita l’astrazione: “un lavoro collettivo anche semplice
ria, da rilanciare, spingere ancor più avanti grazie alle forze dei
(come i preparativi per spostare un grande peso), quando lo
tempi nuovi. Il nostos suggerito dalla Duncan (ma altre volte
scopo ci sia ignoto, ha effetti così decisivi, misteriosi, drammati-
618
ci ed emozionanti che involontariamente ci arrestiamo come da-
compositore russo riconosce al solo Kandinskij l’idea del proget-
vanti ad una visione, ad una vita che si svolge su un altro
to; e la sua stessa formulazione teorica dell’anarchia musicale,
25
piano .”
pubblicata sull’Almanacco del ’12, è un frutto del rapporto in-
Inoltre l’altro piano del movimento non costituisce un privilegio
tensissimo col pittore, quasi uno svolgimento kandinskiano28.
esclusivo del corpo. Da un passo assai sintetico, ma capitale, del
Collaborazione delle arti, piuttosto che regia multipla o giustap-
saggio sulla composizione scenica riusciamo ad intendere quale
posizione di artisti all’interno dell’opera unitaria, opus insomma
energico intenzionamento demiurgico Kandinskij imprima alla
leonardesco: questo assunto intorno alla ideazione (ed alla
partitura coreutica. Demiurgismo nel senso, beninteso, di un’ars
messa in scena) vien fuori chiaramente da un altro passo del
mystica26, affatto opposta al tecnologico ed al macchinico. Per
saggio preliminare, là dove si afferma che uno solo debba esse-
l’artista tutto è ‘materiale’ di composizione, lo è un attrezzo sce-
re il creatore del dramma in musica, secondo un’indicazione già
nico non meno di un corpo danzante, purché obbediscano en-
data da Wagner e ripresa dalle avanguardie. Citando dal “Mani-
trambi ad una ritmica superiore, di modo che l’apparato sceno-
festo tecnico” redatto da Pratella, Kandinskij colloca lo stesso fu-
grafico, fin dove e per quel poco che continua a sussistere, viene
turismo musicale nel solco tedesco dell’opera d’arte “dell’avveni-
tuffato interamente nelle coordinate della danza. “La sonorità
re” e richiama a proprio sostegno, almeno su questo punto, “la
del corpo e dell’anima e il loro movimento” – così scrive – ven-
necessità assoluta che il musicista sia autore del poema dram-
gono espressi “per mezzo di figure umane e di oggetti”. Dunque
matico o tragico per la musica”29. La tecnica enarmonica di Pra-
anche un elemento dipinto o plastico può far parte del gioco.
tella lo trova evidentemente d’accordo se anch’egli cerca di ri-
Come intendere questa dichiarazione? Non rientra certo nel ra-
fondare il rapporto tra le arti sulle leggi del contrasto. Se andia-
dicalismo di un Brjusov o di Craig, poiché mai, in nessuna circo-
mo poi a confrontare quanto scrive Schönberg, troviamo un’ul-
stanza, Kandinskij si è espresso contro la presenza dell’uomo
teriore ed energica conferma. Non solo il maestro viennese con-
sulla scena né ha dimostrato qualche simpatia per il teatro degli
cepisce il dramma (altra cosa sono i Lieder provocati dalle sono-
oggetti. La risonanza psico-fisica, del corpo e dell’anima, physi-
rità di George)30 come prodotto dal medesimo artista, stenden-
sche und seelische, non può fare a meno dell’uomo, per altro
do lui solo musica e libretto, ma gli affida in toto anche la parti-
sempre presente nei suoi progetti scenici. Il fatto è invece che lo
tura visiva: un protocollo che oltre ad esprimere un’originale in-
spazio intero deve far parte dell’evento “cosmico”. Nulla viene
venzione del colore e dello spazio, funziona tassativamente da
abbandonato all’inerzia ed ogni punto confluisce nel vortice vi-
didascalia registica. Basterà scorrere gli appunti in margine alla
sionario dell’artista creatore. La sintesi delle arti nasce sì (o do-
Mano felice e il dossier relativo alla messa in scena per consta-
vrebbe nascere) dal simultaneo incrociarsi dei linguaggi, ciascu-
tare chi sia l’autentico demiurgo31. Una volta fissato sugli sparti-
no operante nella propria strutturale specificità, ma allo stesso
ti, lo spettacolo non dovrà scostarsi in nessun punto, per quanto
tempo un solo creatore dà loro forma, li modella secondo un’uni-
minimo, dall’idea e dalla struttura voluta dall’autore. L’esecuzio-
ca necessità. Detto in altri termini, l’artista ideale di Kandinskij (a
ne teatrale è una pura conseguenza, essendo la messa in scena
dispetto di alcuni passi che sembrerebbero dire qualcosa di di-
un medium subalterno all’artista dal momento che la regia gli
27
verso o che lasciano aperta la questione) è tendenzialmente
viene attribuita a priori ed a lui pertiene fin dall’inizio. Non certo
polimorfo, un super creatore capace di articolare i linguaggi e di
rigettata32.
farli interagire contemporaneamente. La collaborazione con Har-
Così, nel dar corpo al mysterium, ogni elemento (il danzatore, il
tmann e l’esito di questa collaborazione sono indicativi in propo-
mimo o un oggetto) si incarica di portare all’evidenza qualcosa
sito. Se cercò di ricorrervi, fu per sopperire alle proprie insuffi-
che lo precede strutturalmente.
cienze musicali, sperando di unificare due competenze in un
L’atto sovrano della visione appartiene ad un altro ascolto, alla
unico sogno. Cosa che pare riuscisse anche se è problematico
immaginazione di chi sa sprofondarsi nel flusso vitale e compe-
giudicarlo dopo la perdita degli spartiti di Hartmann. Del resto il
tere con esso, accogliendolo: l’artista-compositore. Modellare la
619
nuova lingua è difatti un esercizio difficile, competitivo, di incon-
todo mistico della rimozione degli impedimenti, sono essenziali
tro e di scontro. Qui il sapere negativo della mistica avvolge il
dall’arte. Da lì viene l’oggettività che Schreyer riconosce alla pit-
progetto. L’amore è annientamento. Per vedere occorre scompa-
tura kandinskiana, oltreché – più in generale – ad ogni arte os-
rire, morire all’io, abbandonarsi al Sé ed al suo dettato. L’artista
sessionata contemporaneamente dall’”Erlebnis dell’inconscio
patisce ed insieme rimodella il processo della creazione, giacché
nella vita della coscienza” e dalla necessità impellente di testi-
la solarità di un nuovo giorno proviene solo dal padroneggia-
moniarlo in una forma duratura35. Comunque lo si voglia chia-
mento della notte in cui ci si è avventurati.
mare, astrazione o irrealtà, oggettività o grande realismo, que-
Ecco come viene recitato il mito: “La semplice volontà, anche se
sto sentire coincide con la fine del Soggetto e lo rende eccentri-
trasfigurata dall’amore, non [basta]. […] Si ha un incontro fecon-
co. L’arte è la riemersione del veggente dal tuffo nell’inconscio,
do esclusivamente quando a questa volontà pura […] si con-
anzi questo stesso ardente sentire che si manifesta, “parla”
trappone un’altrettanto pura volontà trasfigurata anch’essa dal-
avrebbe detto Kandinskij, nella forma. Qualcosa che sta a metà,
33
l’amore .”
un mondo intermedio tra la “pelle” delle cose e ciò che corre
Che l’eros sia, nelle concezioni ontologiche dell’”arte come
sotto di essa.
splendore originario”, l’impulso fondamentale ed irresistibile a
Con la ripresa della metafora dei cavalli e dell’auriga36 il pittore
partire dal quale l’io si riconosce in quanto soggetto mancante e
concentra in una ormai celeberrima immagine la natura conflit-
si espone, facendo leva sul proprio desiderio, all’ammaliamento
tuale del dramma, in cui chi domina è a sua volta dominato,
di un’immagine, appare evidente anche in Kandinskij.
‘portato’ dall’altro: la coscienza dall’istinto e questo dalla volon-
Espressioni come mancanza, desiderio, amore sono in lui fre-
tà di forma37. Tutt’uno di forma e contenuto.
quentissime. ‘Udire’, ‘ascoltare’, ‘vedere’ sono altrettanti sinoni-
Per agire c’è bisogno di metodo, strategia dell’anima, costrizio-
mi, relativi al momento dell’abbandono per raggiungere l’eidos.
ne. Ed a questo punto “non si presenta forse la necessità di in-
L’arte stessa è la bocca dell’originario, una creatura vivente, la
tegrare i metodi [positivi] con metodi sconosciuti (o dimentica-
forma attraverso cui lo Spirito ‘parla’, si manifesta ed irrompe.
ti), che facciano appello al subcosciente, al sentimento, metodi
Gran parte dello Spirituale è impegnata a fare dell’artista un
definiti spesso mistici ?”. “Tendete l’orecchio alla musica, aprite
orecchio che sente l’Urbild, che vede il suono ed ascolta la luce,
l’occhio alla pittura. / E… non pensate!”38.
annodando indistricabilmente, come vuole la dottrina estatica
La “voce misteriosa” potrebbe essere tradita.
del patire sinestesico, rilanciata da Wagner nel Tristano, la vista
Dove sta il pericolo? Dove il terrore di Kandinskij ed infine la sua
all’udito. Spazzati via l’ottico e l’acustico, vale a dire le maniere
tristezza? Proprio nel constatare che la coscienza è soggetta alla
esteriori del percepire, l’avvertimento emozionato della profon-
tentazione di sapere. Articola l’indivisibile in concetti. Non lo
dità non può non tramutarsi nella esperienza dell’unica respira-
‘vive’ più, lo segmenta, se ne separa. Così la feconda prossimità
zione che sta alla ‘radice’ delle cose, di ciò che Kandinskij chia-
ed il conflitto con lo Sconosciuto vengono meno. Quando la
ma, variando la tastiera delle parole, ora inconscio, cuore, vita,
menzogna39 dell’astrazione presume di avere l’autorità della vita,
ora divino e spirito. È Inconscio infatti lo spirito perché non si dà
l’arte si tramuta in ‘cattiva’ scrittura. Anziché risanare, corrompe.
mai totalmente a conoscere e pulsa lontanissimo sullo sfondo
Di qui l’urgenza di anticipare la frode annidata nelle lingue del-
della manifestazione; il divino è l’inconscio, anzi lo Sconosciuto
l’arte. Occorre fissare subito, quando ancora se ne ha memoria,
per eccellenza, non solo perché la ragione è impotente a peri-
anzi nel suo medesimo corso, il movimento che scuote le mappe
metrarlo ed il sentire deve perciò rimuoverne tutte le determi-
della ragione, il corpo, lo sguardo, i sensi; e contenerlo con la
nazioni, decostruire il concetto, ma perché è “colui-che” non ha
massima esattezza, avvertirlo e ‘parlarlo’ con pazienza, atten-
“apprendimento intellettuale” ed “ha posto la tenebra come suo
derne la ‘voce’. Il leitmotiv della precisione, questa geometria
34
nascondiglio” .
della sensibilità, attraversa la stagione espressionista e continua
Le maniere apofatiche e negative della conoscenza, ossia il me-
in Schlemmer fin dentro gli anni Venti. Né si comprende tanta
620
ansia di rigore trascurandone l’accensione linguistica, il carattere
do nella sua essenza sepolto e irraffigurabile.
di bruciatura e stimmata.
Dal caos44 all’ordine v’è un salto apocalittico e devastante. L’Uno
Vibrante, scrive Kandinskij. Ed è il suo modo di sentirne il batti-
si frantuma articolando la prima opposizione e da questo due
to e di restituirlo alla grammatica della composizione: un vibra-
vien fuori il principio della dissonanza, ossia la legge assoluta del
re che sconfigge il male e sorregge il progetto di riunificazione.
logos: la guerra. Polemos, come recita l’aforisma eracliteo, “di
Tutto l’universo, ogni creazione in definitiva è una lingua. Quan-
tutte le cose è padre”45. E Kandinskij lo ribadisce, trasferendone
do l’apeiron della filosofia presocratica, la forza inconsapevole, il
il movimento nella morfologia astratta: “Ogni arte ha origine
Destino, quel silenzio che sta nel cuore del dio sconosciuto, si dà
nello stesso modo in cui ebbe origine il cosmo: attraverso cata-
nella luce e nel suono, diventa insomma mondo, l’emanazione
strofi che dal caotico fragore degli strumenti formano infine una
segue le leggi del numero. Manifestarsi significa articolare delle
sinfonia la quale ha nome armonia delle sfere. La creazione di
matematiche e delle geometrie. La natura è l’universo per ec-
un’opera d’arte è la creazione di un mondo.”46
cellenza, un Regno in cui tutto tiene, organico, ed in quanto tale,
Ogni evento artistico sarà dunque processualmente polemologico
non riproducibile. Solo una cultura “parassitaria”, sostiene Kan-
e a maggior ragione ciò caratterizzerà la Grande Sintesi, somma di
dinskij, può pensare di appropriarsene, ma ciò facendo si collo-
tutte le forme espressive, l’Opera d’arte monumentale.
ca nell’ultimo gradino della creazione, nella logica del ri-produr-
Ecco perché nel cerchio dei colori troviamo subito – spartiti tra
40
re, dell’Abbild .
l’essere e il non-essere – tre contrasti fondamentali, uno dei
Mentre le creazioni del divenire, una volta separate dal proces-
quali accompagna significativamente il preludio e la fine di Der
so che le ha fatte nascere, costituiscono un solo deposito di
gelbe Klang: il blu e il giallo: il colore più profondo ed il più folle,
forme vuote, la natura conserva il suo intimo respiro. L’impietra-
il divino ed il terrestre, il concentrico e l’eccentrico.
mento è una perdita del numero, del ritmo che ordina la strut-
Rottura e successiva fusione. La dissonanza, figlia della guerra,
tura vivente. Fisicità decaduta e apparenza, fantasmi del Reale:
avvia una peripezia amorosa di incontri. Ravviva le attrazioni e
così restano le cose capitalizzate dallo sguardo ‘positivo’. Ma
magnetizza i contrari. Li chiama, dice Kandinskij. Da sola, una
41
nella sua essenza la materia contiene dell’elettrico , ne è anzi
cromia è inefficace47 e perciò ha fame di relazioni.
una condensazione. “Tutto è materia? Tutto è spirito? Le diffe-
Ne viene una sintassi dell’incentivare in cui l’ossimoro è figura
renze che stabiliamo fra la materia e lo spirito non possono es-
retorica più potente del parallelismo, anche se quest’ultimo può
sere solo gradazioni della sola materia o del solo spirito? […] Ciò
ancora svolgere un ruolo insostituibile nel rafforzare gli accordi
che la mano non può percepire fisicamente è solo spirito?”42.
timbrici48. Nel tempo capovolto la sottrazione vale infatti più del
Questa domanda, posta a margine del capitolo sul movimento,
raddoppio, insieme alla diagonalità e al lavoro di più nuclei con-
introduce anche il motivo della gradatio e mostra come Kandin-
temporaneamente.
skij sia orientato a concepire il paesaggio creaturale secondo
Costruire una nuova organicità (in senso strutturale) a partire dal
un’idea scalare, per piani o centri concentrici, più vicini o più lon-
“fragore del caos” è d’altronde un’ambizione che va al di là dello
tani dal vertice generatore. Nonché essere proposta con la me-
stesso Kandinskij. Si pensi all’atonalismo in musica ed agli svol-
tafora del “triangolo” fin dai primi paragrafi dello Spirituale, que-
gimenti che ne ha dato la Scuola di Vienna. Anche in questo caso
sta idea è variamente ripresa in altre pagine, compresi gli ap-
si riparte da una crisi, dentro le rovine del sistema armonico clas-
punti a fianco del libro di Steiner, Luzifer-Gnosis, dove sono indi-
sico (come il pittore russo dai frantumi della pittura imitativa),
cativamente riassunti i sette stadi di risalita dal “corpo fisico” al-
per lavorare ad una texture senza centro visibile, caleidoscopica
43
l’uomo spirituale, l’atman, il Cristo della Gnosi o Uomo cosmico .
e fluttuante tra l’espansione e la contrazione. Una premessa co-
Il numero è nella natura della lingua. Strappandosi dalla immo-
mune consiste nel far tesoro della dissolvenza e ricavare princi-
bilità, lo Sconosciuto si ‘getta’ nel limite e parla. Grazie al ritmo
pi inediti dall’isolamento nucleare degli elementi49.
si offre in figura. Scuote la vita sensibile, la assesta, pur restan-
Si configura una vegetazione di forme. Con la splendida metafo-
621
Da Wassily Kandinskij, “Tutti gli scritti 2. Dello spirito nell’arte. Scritti critici e autografici. Teatro Poesia”, ed. Feltrinelli, Varese 1974, pag. 173.
Riproduzione con appunti di lavoro di Francesco Bartoli.
622
ra del labirinto e della selva Schönberg fa il punto su una simile
struttura. Per lui vedere sta immerso nel materiale, totalmente
confuso con le figure in gestazione. “L’opera d’arte è un labirinto, in ogni punto del quale l’esperto sa trovare l’ingresso e l’uscita, senza nessun filo rosso che lo guidi. Quanto più fitto e complicato è l’intrico di viottoli, tanto più sicuramente egli raggiunge la meta sorvolando ogni vita50.”
Non che manchi un cuore (un senso). C’è. Ma si muove trasversalmente o per sottrazioni. Sfugge alla presa delineando come
una traiettoria di echi. Ciò che si lascia afferrare è il crescere dell’opera in se stessa. Oltre al Suono giallo, si osservino i quadri
coevi di Kandinskij. L’andirivieni di flutti e mareggiate è di continuo bloccato e rilanciato. Il seme “profondo”, per dirlo con un
aggettivo dell’autore, si lascia cogliere soltanto a fatica, lentamente, suggerito dall’insieme delle relazioni. E neppure si circoscrive un perimetro netto, per distribuire da lì pesi e misure.
Viene piuttosto trasportato dalle tensioni e le accoglie, reagendovi. Resta sospeso da qualche parte, per lo più velato da una
scala di sconfinamenti lineari e cromatici51.
La medesima oscillazione è nei movimenti coreutici attorno, di
fianco, in diagonale ad una figura emergente/sparente nella
composizione scenica, per esempio nel V Quadro, dove un personaggio “bianco” esce da una folla danzante in cui prima era
confuso, per ordinarne le forze. E di nuovo dissolversi.
Viene ad operare, nell’ordito compositivo, qualcosa di simile ad
una serie ritmica. Non più un tema prospetticamente determinato e determinante, ma un leitmotiv fluido, mai uguale a se
stesso. L’irrigidimento del materiale combinatorio rientrava infatti, secondo Kandinskij, nei “difetti” del sistema wagneriano:
“L’ostinato ritorno di una frase musicale a lungo andare – aveva
osservato – perde forza […]. Ed alla fine il sentimento si ribella
ad applicazioni così conseguenti e programmatiche di un’unica e
medesima forma52.”
Quanto alla sintesi scenica, sarà l’idea che vibra simultaneamente nei differenti ‘sentieri’ a stabilire i rapporti fra gli elementi, restando ‘occultata’ in ciascuno di essi e dettandone gli
sviluppi in rapporto ad una partitura di spazi e di tempi. Antitesi
e cooperazione si manifesteranno ciclicamente, per contatti reattivi, secondo una logica della coralità che riconosce a ciascun
materiale una specifica modalità di svolgimento.
623
Il ‘divino’ vive nella lingua. Ed ancora: la buona forma ha imma-
segni-simboli, un vocabolario sacro. Premuta tuttavia, com’è, fra
nente la forza. È dunque vero che il mito della pienezza sostie-
due opposte maniere artistiche, la buona lingua stenta a farsi
ne il sogno sintetico e determina al tempo stesso il rigetto del
largo. Da un lato il realismo, lo stile dell’oggettivo, il supplemen-
formalismo, l’art pour l’art, insieme alla critica dei segni svuota-
to, e dall’altro il geometrico-quantitativo, l’arte dei “tappeti”
ti. Ma mostra anche il paradosso di una lingua ‘ispirata’ che di-
fanno precipitare verso il basso, operando entrambi a favore di
venta piena nel momento in cui parla di altro, per l’Altro.
un sistema chiuso e determinato. Se si tien conto però (così con-
3. Ornamento e astrazione
tinua la diagnosi) del collasso che li sta investendo e del fatto
“A conclusione del periodo oggi appena agli inizi si svilupperà
che il reale viene allucinato dai nuovi pittori, da certi artisti iper-
forse una nuova arte ornamentale, la quale non consterà però di
concreti, questo doppio muro può essere oltrepassato. A ‘rifare’
forme geometriche”. Questa frase, posta al centro dello Spiri-
l’uno e l’altro opera il senso del grande, dell’inconsueto, una ine-
tuale e quasi a cardine del capitolo sulla Teoria, segnala la via
dita maniera del sublime. Qui Kandinskij ha in mente gli Adami
da percorrere per la costituzione della forma salvifica. La segna-
della modernità, i pittori di corpi e di cose, di ultra-corpi, capaci
la tra un forse, in cui si condensa la difficoltà dell’utopia, e un ne-
di afferrare un’evidenza concreta e di ‘trasvalutarla’.
gativo, il non geometrico, che esprime l’atteggiamento reattivo
L’Adamo agisce come se il paesaggio fosse pieno di dèi. Perciò
di Kandinskij nei confronti di un ‘ornamento’, quello Jugendstil,
ingigantisce il concerto, restituendolo al magico e all’ipnotico. In
ancora mimetico e aritmicamente sfibrato, legato in definitiva ad
quanto è e per il solo fatto di esistere la cosa ammalia, senz’al-
un’idea di supplemento. Sparsi lacerti del mondo, connessi geo-
tra veste che il proprio contorno. Qui “il reale colpisce per la sua
metricamente, sono i risultati dello stile recente: “La confusione
insolita imponenza”. Ed è Rousseau, il semplice ed “ottuso”
di un caleidoscopio”, dove il reale viene mineralizzato e si am-
Rousseau, il primo che ha saputo ascoltare la voce della moglie
putano dei corpi. È lo stile della pietra; ed anche un’arte dei
defunta nelle cose, i segnali dell’oltremondo.
nervi, risultante dall’addizione di motivi ritagliati dalla vita, di co-
Anche Marc lo ribadisce, attribuendo agli oggetti la passione del
lori e linee sì autonome, ma prive di collegamento interiore. Arte
supplizio: “mi aggiravo tra le cose e quelle che vedevo si tra-
fredda, applicata, che “rimane principalmente nel campo dei
mutavano, mostravano la loro infelicità e fuggivano dal loro es-
nervi, provocando vibrazioni psichiche, scosse spirituali troppo
sere senza verità. Un albero, che io guardavo, cominciò a sospi-
53
deboli” .
rare tormentoso e si spezzò. […] Chi mi ha riscattato dal duro es-
Sembra di avvertire l’orrore e la bruciante deplorazione di Adolf
sere-albero non cerchi la mia anima nel seme della mela, né
Loos, il suo stesso pathos antisecessionista contro la simulazio-
nella volontà di forma, bensì nel tormento di essere albero, nella
ne del movimento, contro l’impuro, l’erotico, il grossolano décor;
sofferenza e nella costrizione dell’informe56.”
contro la menzogna e la maschera54. Anche qui v’è un lessico del
E dopo Rousseau, Burliùk, i pittori dell’arcaismo, la Münter, so-
disgusto, accompagnato da un’analoga insofferenza per i tran-
vraccaricano l’apparenza, portandola, scrive Kandinskij, verso un
sfert ornamentali. Eppure quest’orrore non arriva alle medesime
fantastico superiore57. Al polo opposto, come s’è detto, la Ner-
conclusioni. Anzi accade esattamente il contrario, poiché Kandin-
venkunst, che si è fatta latrice di vitree composizioni e di un ar-
skij, subito dopo aver rigettato il diorama esteriore e il gelo geo-
tificiale allo stato sidereo. Mentre i “magici” operano diretta-
metrizzante, cerca una via d’uscita e la trova partendo dalla
mente sulla “carne” del mondo (un universo che appare co-
netta distinzione tra il crimine decorativo e ciò che potremmo
munque simile ad un glossario di cifre e lettere corporee), i se-
chiamare la verità dell’ornamento. Che cos’ha di tanto radical-
condi assumono, ingigantendola a loro volta, l’antinatura, la
mente diverso il secondo? Che cosa lo salva? Non solo: ne fa uno
“convenzione” del segno come tale. Ma anziché esplorarne sol-
strumento di salvezza? La risposta, immediata, batte sulla ta-
tanto il funzionamento (e il fondamento) tecnico-formale, è si-
55
stiera simbolica . Si salva perché dissolve la funzione utilitaria
gnificativo che Kandinskij apra tutta una serie di esercizi vibrato-
ed acceca l’esteriore. È una lingua geroglifica, un universo di
ri, grafematici, ‘concreti’ sul significante58: esercizi che fanno su-
624
In fondo la divaricazione fra decorativismo ed opera astratta può
bito pensare alla pratica dello zaùm; ed anche alla eterizzazione
59
della parola e del colore indotta da Steiner .
essere ulteriormente leggibile nell’alternativa fra arabesco e ge-
Primitivismo e magia, orientalismo nell’un caso e nell’altro.
roglifico, essendo quest’ultimo e non il primo, una espressione
Da che parte sta l’Autore? Se è vero che l’astratto costituisce l’op-
ieratica in presa diretta col movimento inconscio della vita: il ge-
zione maggiore, non trascura di sondare molteplici tipologie fi-
roglifico come respiro “numeroso”, accordo e ritmizzazione del
gurative dell’immagine, le icone a largo contorno, le “sagome”
Nome. Colore e linea, cioè pulsazione primaria e contornamen-
e i “campi” provenienti dai territori della miniatura persiana o
to, funzionano nello stesso rapporto dinamico che, nella poetica
del disegno infantile, convinto, com’è, che “oggi siamo ancora
di Novalis, avevano le vocali e le consonanti.
strettamente legati alla natura esteriore e ad essa dobbiamo at-
“Chi risuona veramente, il corpo o l’aria? Non è forse il fluido ela-
60
tingere le nostre forme .
stico la vocale e il corpo la consonante? L’aria, il sole e i corpi i
Vien fuori, per dirla in modo diverso, una paura dell’astratto, della
pianeti? Quella la prima voce, questi la seconda?”63.
sua feticizzazione, dell’ornato “senza merito” che egli cerca di
E non sono anche le immagini, le silhouettes del Suono giallo, il
esorcizzare con le fonti “magiche” dell’arte. Non si spiegherebbe
fiore o i giganti, le colline o le nubi, dei campi cromatici? Pozzi
altrimenti l’appassionata difesa dei pittori di cose che attraversa gli
di colore perimetrati da sagome? Profili ed involucri agitati da
scritti degli anni Dieci. Da Rousseau e dai primitivi, dai loro tratti
correnti?
feriali, dai contorni e gusci di una quotidianità ipnoticamente fis-
Giganti, colline e nubi compaiono d’altronde anche sulle tele, di
sata, scaturisce un magistrale insegnamento ritmico.
modo che, tra i dipinti e gli scenari corre, quanto meno, una
È questa lezione esercitata sul guscio ad interessarlo. Lui stesso
stretta solidarietà tematica che non può non riverberarsi da un
se ne appropria, lavorando sugli involucri e deformandoli sino a
territorio all’altro, aiutando a comprendere l’intermittente traiet-
chiuderli nell’esiguità di una cifra primaria o di un ideogramma.
toria di un racconto comune. Quando poi singole figure s’innal-
La via verso la composizione pura, inclusa quella scenica, passa
zano sulle altre, fan vedere in quale processo di combustione
da Monaco a Murnau attraverso una favolosa riduzione del reale,
siano forgiate, librandosi dentro o ai bordi di nebulose colorate.
di paesaggi, figure e cose. In più mette in moto l’affabulazione
I contorni vengono eccitati da un frastagliarsi di volute o al con-
dell’artistico, vale a dire una tipologia delle immagini, riversa poi
trario fluttuano lentamente. Tengono/non tengono. Una forma
accanto ai segni astratti, come prova l’iconografia, anche biblica,
(un limite) pencola tra zone ghiacciate ed altre in effervescenza.
del Suono giallo con le sue icone paragonabili ai “primi” Nomi,
“Freddo calcolo, macchie che scaturiscono disordinatamente, co-
in tutto simili a presenze universali, depsicologizzate, senza
struzione matematicamente esatta, chiaramente visibile o na-
volto. Involucri di forze.
scosta, disegno silenzioso, squillante, elaborazione scrupolosa,
Su questa linea Ernst Bloch parlerà di nuova “produzione” del si-
fanfara di colore, pianissimo di violino dello stesso, superfici
gillo e di monogrammi segreti, citando esplicitamente Kandin-
grandi, quiete, oscillanti, frantumate. Non è questa la forma?”64.
skij61. Nello spirito di Sais, entro cui si muove tutta un’ala della
Nell’andirivieni delle partiture si ravviva un geroglifico, una cer-
cultura monacense, quella teosofica della Münter, Campendonck,
niera, un profilo: sono loro a sopportare l’urto dell’informe e a
Jawlensky, la lingua pura viene ad assumere la portata di un
trattenere, quasi bruciandosi, le schegge di senso.
evento geroglifico. Edenico ed etereo. In virtù dell’ipostasi che
In più la figura può sortire da un’immagine mentale, divenendo
compenetra visivo ed acustico, il sogno di Novalis, il suo proget-
così l’effetto sintetico della memoria o dell’emozione costruttiva.
to “vocalico”, entra in dialogo con quello “cromatico” della Far-
Casi tipici, ben evidenti nei quadri e commentati negli scritti,
benlehre. Musica ed ornamento, colore e suono diventano le re-
sono certi grafemi ritagliati entro una iconografia immaginaria,
gioni espressive della speranza. E lo diventano a patto che la si-
per esempio i “giacenti”, le città celesti, i cavalieri o le “trojke”:
nestesia recuperi il timbro apocalittico, un volto cosmico e comu-
lingua inventata, trasgressiva, inedita, ma nondimeno fondata e
62
nitario, quella percussività che metta a fuoco l’intero quotidiano .
garantita dal riferimento sotterraneo ad un sistema rappresenta-
625
di domande insoddisfatte… / Moto del cielo… e fondersi… delle
tivo esistente (le iconostasi bizantine, i dipinti su vetro, le scrit65
ture egizie) .
pietre…”, sono i versi energicamente pausati dell’apertura70.
Quale che sia la genesi delle forme, a poco a poco viene deli-
Il muro sta per crollare! Questa battuta, in una larga serie di va-
neandosi lo sfondo dell’azione scenica, un luogo d’aria e di fuoco.
rianti, fa da refrain ossessivo a più d’una scena delle composi-
È lo spazio tumultuoso dell’Apocalisse.
zioni. È inoltre un luogo tematico tra i più insistenti della poeti-
4. L’utopia in scena
ca, una metafora anche personale, che l’autore trasferisce nel
Vediamone i ‘motivi’.
teatro, come se gli scarni interventi della vocalità avessero il
Benché tutti appartengano alla medesima costellazione del pro-
compito di spazializzare il leitmotiv del pensiero, drammatizzan-
digioso e dell’enigma, ce ne sono di due categorie. Alcuni ven-
dolo finalmente in un itinerario. La stessa cosa si ripete poi nelle
gono da lontano e riguardano soprattutto le metamorfosi del
poesie, tematizzata nelle visioni della porta chiusa, delle catene
buio e della luce. Altri, i più numerosi e differenziati, agiscono da
e del carcere, degli ostacoli e dei sentieri bloccati, delle città-pri-
vicino, variamente distribuiti tra la funzione coreutica e quella
gioni o degli edifici finalmente abbattuti.
scenografica. La musica, come le voci del coro, scaturisce da un
È il muro della città negativa, della ragione strumentale e del
66
luogo invisibile, che se per quest’ultima è il retroscena , per l’or-
materialismo, come sembra voler dire un passo dell’ultimo sce-
chestra è un oscuro “golfo mistico”, a stretto contatto con la sala.
nario (in realtà più poema in prosa che costrutto scenico in senso
Inoltre è sempre la luce (o un accordo musicale) a promuovere
stretto), proprio in chiusura: “Questo muro, che solo lo spirito può
il movimento, con la sola eccezione del quarto quadro, intera-
attraversare, non è una semplice immagine. Separa l’uno dall’al-
mente avvolto dal silenzio. Già poter distinguere un doppio
tro due mondi immensi”71.
piano, celeste e terreno, è di per sé significativo, poiché appar-
Il muro ha a che fare poi con la città aerea (castello o Gerusa-
tiene alla natura del mysterium disporre di stazioni stratificate,
lemme celeste), così frequente nelle tele coeve, dove, commi-
in cui la dimora dell’uomo è doppiata, in prospettiva simbolica,
sta alle memorie delle città d’infanzia, di Mosca o Odessa, e ad
da un riferimento oltreumano. I fatti diventano exempla quando
emblemi profetici, segnala i luoghi eminenti dell’immaginazio-
si caricano di spessori ‘figurali’ che vengon ribaditi dalla comici-
ne; o anche struttura il dipinto su una cerniera, spartendolo in
tà dello sfondo: una entità partecipe ed avvolgente che non
due zone, quasi fosse un bivalve o un dittico medievale del Giu-
commenta tanto ciò che accade in primo piano, ma lo inonda, vi
dizio, in cui convivono faccia a faccia due volti dell’esistenza, la
si lega, lo trasforma e interagisce. Qualcosa come una coniunctio
guerra e la pace, la dissonanza e l’armonia72.
della terra col cielo, che feconda ogni elemento.
Altri ideogrammi appartengono al medesimo giro catastrofico
Nulla resta immobile: le montagne si spaccano, le colline tra-
del pensiero che ruota intorno a tempeste, battaglie, giudizi uni-
scolorano e ingigantiscono; dormienti ed automi danno segni di
versali, apocalissi, diluvi, cadute angeliche e cavalieri dell’ultimo
risveglio. L’impietrato si scioglie annunciando una seconda na-
giorno; contemporaneamente a presagi di redenzione, arcobale-
scita delle cose.
ni e giardini dell’Eden.
Che il mondo, un vecchio universo crolli è il tema ininterrotto
È specialmente notevole che molti segni tempestosi vengano ri-
delle cinque composizioni sceniche redatte da Kandinskij all’epo-
baltati in positivo e lascino intravedere delle immagini felici,
ca del Cavaliere Azzurro: tema enunciato dai cori, dalle voci fuori
‘gloriose’, nell’atto stesso di esprimere un crollo o un annienta-
67
campo, dal mendicante di Suono verde o dalle battute ora in-
mento73.
credule ora atterrite di alcuni personaggi feriali di Viola68, oltreché
Dal tema dell’”inno” vien fuori una chiave importante, se non
dalla magia degli elementi naturali, da piante e rocce che rab-
addirittura il filo conduttore di questa utopia. Laddove per altri i
brividiscono sotto la sferza di soffi invisibili, di una voce che torce
bagliori del crepuscolo inducono i sortilegi di una notte demoni-
69
l’anima della natura, muove gli alberi e rende liquidi i cristalli .
ca, spettrale ed infera, portatrice di caligini e di vuoti, per Kan-
“Sogni duri come la pietra… e rocce parlanti… / Zolle con enigmi
dinskij invece quei bagliori segnalano le fiamme di una laborio-
626
e Kandinskij raccolgono indirizzi, voci, prove, sì che quel primo
sa città angelica. Poiché non un tramonto qualsiasi illumina
74
l’orizzonte, ma un grande crepuscolo anticipatore , un fuoco che
ed unico numero può ben dirsi una messa a punto della gram-
prepara il Giorno e ne canta appunto la ‘lode’. In altri luoghi let-
matica apocalittica in tutte le arti. Quando Marc, tre anni dopo,
terari i muri sono rovine, emblemi luttuosi lungo i sentieri degli
scrive gli aforismi della Seconda vista, trasferendo nelle fiamme
esuli; e la pietra resta pietra, deserto allegorico di frasi sbriciola-
di una guerra per lui “folle” le attese di una generazione, non fa
te e di polvere. Qui la roccia entra in stato di fusione e ribolle.
che coniugare ulteriormente una teleologia della fine radiosa77.
Ha della liquidità ardente e una motilità vegetale75; infine si
Quella stessa che ispira da un capo all’altro le pagine del libro co-
smaterializza in moti aerei. Come nelle visioni paoline o giovan-
mune, variegato di pronunce differenti, ma teso a stringere in un
nee, lo sguardo coglie nelle fiamme il disegno della “patria”, il
solo nodo Occidente ed Oriente, a legare in particolare il pen-
tratteggiarsi dell’Heimat nella configurazione di un miraggio.
siero russo della redenzione, caro a Kandinskij, all’apocalittica te-
Non per nulla v’è un espandersi sempre più grande di luci e di
desca. Sotto la regia dell’artista viene aperto il dialogo con Rò-
roghi. Se i respiri della creazione sono sette come i gradini sa-
zanov, Burljùk, Sabanev, Kubin, Hartmann e progettato l’inter-
pienziali, chi vive nello slancio utopico sa di percorrere le prime
vento di Bulgakov78, uno dei massimi rappresentanti della nuova
stazioni del viaggio in risalita e fa di ogni tappa una soglia del
teologia, insieme a Berdjaev e Florenskij: tutte voci che declina-
tempo futuro. Che è poi, almeno in parte, il senso di ciascun qua-
no millenaristicamente il tema della rivoluzione, anche di quel-
dro del Suono giallo. Il suo non è soltanto un tendere a, ma già
la sociale, e la potenza dell’Utopia79.
un far accadere preveggente, uno stare nella creazione, nei suoi
La modernità vi trova correzione e inveramento. È lo Spirito ad
tempi, numeri e quadri, Due, quattro ed anche sei tempi, come
imprimere un “vero” progresso alla storia, catapultandola verso la
le scene in cui viene scandito il passo della rappresentazione.
Fine, in un futuro pieno di promesse. Perciò il “diluvio” è invoca-
Sarebbe però azzardato (oltreché arbitrario) fissare dei nessi
to nella sua totalizzante forza di annegamento e di corrosione,
causali fra un passo e l’altro, poiché il meccanismo recita sem-
perché non lasci residui impuri, scorie, infezioni. Anarchia nella
pre una dinamica del balzo; e lo “Stationendrama”, lo si è ricor-
musica, nella pittura, nel teatro vuol dire anche questo: scom-
dato più volte, non delinea una parabola quanto una scansione
messa sull’efficacia del progetto globale. Sintesi senza antitesi.
di lampi e salti, un saliscendi, una linea segmentata dalle frattu-
Che cos’è lo scenario del Suono giallo? È incendio luminoso e
re. A rimbalzare è sempre lo stesso fragore, la medesima cata-
giudizio. Nulla sfugge alla ‘passione’ del giallo, alla sua corsa
strofe, ma con un volto differente in ciascun quadro: una fanta-
verso il fuoco, al suo crocifiggersi per gli altri. Nella scenografia
smagorica ora dell’impazienza, ora della nascita ed ora (anche)
animata il paesaggio si popola di giganti e di nani, la terra si
della tristezza e del silenzio. Giacché l’utopia è pur sempre an-
fende, ospita delle nascite. È collina, rupe, montagna, valle e
cora uno stare al di qua, prima o sul confine del muro; ed il suo
pianura. Ingrandisce e decresce. Tutte le modalità del naturale,
miracolo consiste nel far esplodere dei fulmini nel manifestato,
ma in accezione archetipica. Analogamente la tastiera dei colori
gettare la storia fuori da se stessa, sprigionando monstra e figu-
investe i gruppi danzanti, sperimentando una gamma larghissi-
re dell’Altro sull’orlo delle cose.
ma di combinazioni enarmoniche/armoniche.
La presa, pur incompleta, è la forza del progetto, insieme alla
Dissonante, perché innesta la fatica dell’origine, il motivo cen-
sua angoscia e all’ansia, come continuerà a dire Kandinskij negli
trale del secondo quadro, il fiore, con le sue trasformazioni. Il re-
ultimi anni, ancora calato nel sogno della produzione edenica e
gistro compositivo batte sulle antitesi oscillanti, alterna fluidità
nondimento consapevole delle opacità cui soggiace l’andirivieni
ed arresti, spesso molecolarizza e frammenta, senza produrre
visionario: “dei suoni / lungo silenzio. / Dove sei, / catena im-
mai, però, una Spaltung radicale. Quando una partitura assume
76
brogliata?” .
un andamento ‘confuso’ (talora fino all’insopportabile, come nel
Con l’Almanacco viene tentato nel ’12 il punto sull’Utopia. Si vuol
V quadro), quel ribollimento non rimane chiuso in se stesso, ma
misurare il cammino dello Spirituale dentro la modernità. Marc
viene controbilanciato dal suo opposto, riassestato nell’economia
627
generale dell’azione: il rumore dal silenzio, l’agitazione dalla
Far sì che l’oggi abbia un simile “cuore” è il progetto di Kandin-
spossatezza, il frantumato dal fusionale, secondo diagonalità
skij nella sua epoca – egli dice – “tragica”, più intensamente
(più che simmetrie) di tensione. In più l’universo ‘prodigioso’ che
drammatica e stürmeriana, intendendo per tragico il massimo
quel registro mette in campo non ha l’emergenza deformante
sprofondamento nella grammatica conflittuale degli elementi e
ed aggressiva, subumana e temibile di un intermondo appesta-
nell’urto compositivo; e più precisamente: nell’andare il più lon-
to, come hanno invece i paesaggi di Kubin e di Ensor, e in parte
tano possibile dall’uomo, da qui, in una regione remotissima, as-
anche lo scenario di Schönberg nella Mano felice80. V’è semmai
soluta; una regione che perciò stesso egli chiama glaciale, disu-
lo smarrirsi di fronte al più che umano, uno sgomento di natura
mana, freddissima, al di là degli stati d’animo e dalle forme cor-
sublime. Kubin, in qualche modo, risospinto verso l’alto.
poree riconoscibili: “È questa la tragicità cosmica della quale
Sono forme del desiderio queste che plasmano l’inorganico e il
l’elemento umano è soltanto un suono, solo una voce che s’in-
vegetale secondo gli archetipi del giardino e della città; forme
serisce in un coro più generale, e nella quale il centro viene spo-
81
della speranza apocalittica nel segno della combustione. Natu-
stato in una sfera che si approssima al divino.85”
ralmente giardini e città incipienti, appena visibili e subito sva-
Una tragicità, o per dir meglio un sublime, di fronte ai quali ar-
nenti, illusioni di una ‘festa’ spesso interrotta e minacciata, an-
retra pensoso lo stesso Klee (ad un tempo affascinato e interro-
cora da costruire. L’immagine dell’uomo che brucia, dell’uomo
gativo), interpretandoli come una risposta vertiginosa dell’ascesi
che porta fiaccole o fiori, del fiore abbagliante ne è l’espressio-
alla discontinuità e alle contraddizioni del presente, specialmen-
ne precipua, benché si tratti ancora di una figura turbata, anzi
te nei modi che Marc andava praticando, più di quanto non fa-
convulsiva e sonnambula, perfino paralizzata, rotta da crampi.
cesse Kandinskij, per tentare l’assoluto dell’astrazione dentro il
Anche morente. Ma il morire è in realtà un patire profetico, uno
naturale “infelice”86.
stare nella passione per guadagnare lo Sconosciuto. Se i giganti,
E Klee commenta: “Si abbandona questa zona e in compenso si
nel penultimo quadro, svaniscono lentamente nel buio, inghiot-
va più in là, dove ogni anelito può essere soddisfatto. Astrazio-
titi dall’oscurità di una notte sacra, il loro svanire è però quello
ne. Il freddo romanticismo di questo stile senza pathos è inaudi-
stridente di un fuoco che va consumandosi e di una materia che
to. Quanto più è spaventoso questo mondo, come oggi, tanto più
vive nell’arsura. La loro essenza ha del braciere e del lume.
è astratta l’arte, mentre un mondo felice produce un’arte dell’al
“Danno l’impressione di spegnersi come una lampada”, precisa
di qua.87”
il testo82. Né questo morente scompare poi nell’abisso della pro-
Ma i pericoli del puro tragico, dell’annichilimento nell’indifferen-
pria morte e nella singolarità di un solo sofferente. Subito dopo
ziato, sono ben presenti anche a Kandinskij, che difatti li affron-
rinasce per arroventare nel suo incendio tutta la scena.
ta tenendoli in certo modo a distanza attraverso l’esercizio della
Altrove nuove emergenze apocalittiche sono date da nubi, dal-
forma. Cancella l’oggetto, la figura concreta, la cosa riconoscibi-
l’uccello verde-azzurro, dal cavallo dagli zoccoli ‘risonanti’, dal
le, ma non quel segno primario, quel geroglifico che è in grado
83
vento e dalle trasformazioni celesti .
di recuperarne la memoria88. Segno senza dubbio orfico, ma che
È invariabilmente inscenato un caos intenzionato alla luce. Co-
intanto fa i conti con l’insostenibile.
smica l’opera in senso pregnante perché mette in moto una
È un momento di massimo rischio perché l’ascolto potrebbe tra-
combinatoria universale e perché affida al potere dello sguardo
dursi in annientamento e la lingua non nascere. Eppure neces-
interiore l’incarico di fare un mondo, molteplice ed uno a somi-
sario. L’Altro va fatto erompere se si vuole che possa donarsi, es-
glianza di quello di Dio, in parallelo ad esso, per ripeterlo nello
sere contenuto e mostrato. Ed agisca nell’opera. Trattenerlo den-
specchio della rappresentazione; ma fa, opera direttamente, dis-
tro un limite è la contromisura dell’arte. Limite tanto più freddo
serra materie e le combina; ed a costruirlo è quel divino che è
quanto più forte è l’attrazione.
nell’uomo, la sua parte Sconosciuta, quella ‘voce’ che lo sguardo
“Ho attenuato l’elemento tragico […]. Cercavo di contrapporre
84
alla tragicità dei colori la grandiosità della forma grafica”89.
interiore ha saputo cogliere e spingere alla manifestazione .
628
Resta tuttavia che la stagione degli scenari cade nel piano di una
trico bilanciamento di motivi ed intende invece esprimersi come
‘drammatica’ dell’urto da cui Kandinskij stesso cercò la risalita al-
correlazione delle parti di un involucro cangiante, caleidoscopico,
l’indomani del ’14.
‘confuso’. Si tratta oltretutto di un mito caro all’artista, quello
5. Fuochi e suoni
stesso per cui egli distingue – anche a livello spirituale – l’ordine
Che cos’è l’oscurissima notte invocata dal coro, “l’ombra di viva
latino dal sentimento orientale dell’unità; o dà senso fantastico
luce” che scaturisce dal buio, se non il deus absconditus della
alla memoria infantile di Mosca91. Eppure anche la macchinazio-
mistica negativa?
ne segmentata ed orbitale dei segni, così vorticosa da impedire
Ogni volta che il lampo compare (e può essere lo scoppio lace-
che un solo elemento possa custodire la linea di sviluppo degli
rante di una vocale generatrice di lingue, la a di una parola sco-
altri, mostra non solo di avere dei “fuochi”, ma di saperne di-
90
nosciuta) , le presenze in scena sono assalite dallo sgomento.
sporre per stabilire speciali euritmie, corrispondenze, cadute di
Dimentiche di sé precipitano in uno stato di trance che ha effet-
tensione e climax. Non la fabula determina lo svolgimento del
ti duplici di spossessamento. O una figura si arresta in una sorta
tessuto scenico, ma la forma del testo crea la storia, è la storia.
di esaltazione fissata, nell’immobilità o comunque nell’automa-
A parte Viola, costituito di sette quadri, due intermezzi e una
tismo di una marionetta colpita da sincope, oppure si scatena in
apoteosi, biforcata poi in due quadri estremi, gli altri scenari
moti eccentrici, in gestualità confuse e dilaganti.
poggiano su una articolazione dei segmenti teatrali, da due a
Alla dizione inespressiva, ‘monotona’ ed automatica del coro, fin
sei, come nel caso del Gelber Klang il cui preludio ha davvero
dall’inizio, fanno da pendant i passi petrosi delle persone velate,
una funzione allegorica, incorniciando la totalità della rappre-
dei danzatori e dei mimi. Designata dall’abbagliamento, l’attesa
sentazione e facendo agire rapidamente tutto ciò che sulla scena
dei corpi e degli oggetti è letteralmente ‘legata’ da una forza
si riverserà più tardi dall’alto e dal di fuori; in breve, l’atmosfera,
che li costringe a diventar parte di un gioco più alto, dapprima
il piano celeste, lo sfondo, il coro. Mette in campo un attante, lo
nella forma di uno choc che arresta e frantuma, di uno scuoti-
mostra senza ancora farlo agire in rapporto con gli altri: la luce
mento latore di dissonanze, come ribadisce costantemente la
bianca emergente da una profondità insondata, dal blu, emble-
poetica dello Spirituale. Ed è da un simile stato originario di ab-
ma dell’increato. L’imperimetrabile per definizione.
bandono, di tramortimento, di crampo psichico, che si mette in
Il bianco. Ecco quel che l’autore ne dice sulle pagine dell’Alma-
moto il congegno scenico totale, ricaricando il dispositivo ad in-
nacco, a ridosso dell’exemplum: “Il valore spirituale inizia la sua ri-
tensità sempre maggiore. Da questo punto di vista Il Suono gial-
cerca di materializzazione. […] Questa ricerca è la Positività, la
lo nasce da ciò che potremmo chiamare il dramma dell’ascolto,
Creatività; è il Bene: il raggio bianco che feconda. / Il raggio bian-
cioè dallo scarto dissociante che porta l’esperienza a sospender-
co determina l’evoluzione, l’elevazione. Dietro la Materia, dentro la
si nello spazio prospettico, dentro e al tempo stesso fuori del
Materia, si cela dunque lo Spirito creatore, lo Spirito attivo.92”
reale: lo spazio del sonnambulismo. Salvo poi a constatare che
Dietro/dentro: e difatti il bianco verrà da fuori e dal cuore della
la dissociazione è soltanto lo stato preliminare di un eccitato mo-
scena, alternativamente o insieme, moltissime volte, prendendo
vimento creativo, circolante e fusionale.
corpo in emblemi talora circoscritti, quali, per ricordare soltanto
Forse l’immagine dell’orbita, di un’ellissi rotante, per quanto
gli essenziali, i fiori, la figura bianca danzante del V quadro, il
provvisoria e manchevole, può dar conto della complessità strut-
bambino del IV e il volto del gigante nell’ultimo.
turale della composizione scenica. Tutto alla periferia si muove,
Di singolare rilievo strutturale è proprio l’immagine del bimbo,
ma è a sua volta in trasformazione il nucleo generatore, o lo
perché costituisce uno di quei nuclei fluttuanti, una figura cresciu-
sono più nuclei, delle invarianti in certo modo metamorfiche,
ta su altre e produttiva di nuove metafore, che incerniera il testo
mai al centro esatto di un cerchio, quanto piuttosto oscillanti, ta-
e lo organizza saldamente. Proposto dopo le scene della natività,
lora in eclissi, su questo o quel “fuoco” del sistema. L’unità, l’as-
ci aspetteremmo che ne fosse la conclusione. E lo è effettiva-
sillante Einheit drammatica, è cercata difatti lontana dal simme-
mente, ma nel modo di un “fuoco” ellittico che subito trascolora
629
Da Wassily Kandinskij, “Tutti gli scritti 2. Dello spirito nell’arte. Scritti critici e autografici. Teatro Poesia”, ed. Feltrinelli, Varese 1974, pp.176-177.
Appunti di studio di Francesco Bartoli.
630
631
e rimanda ad altre immagini. Le richiama lasciandole sospese,
ta scena. Vale la medesima cosa per la magia della a o gli ac-
anzi facendo di nuovo il vuoto, alla maniera di un’icona incom-
cordi su due note musicali di contrasto.
piuta. Presente/assente, la figura del bambino, collega e rinvia. È
E via di seguito. Ma veniamo ora al secondo fuoco, all’altro mu-
lì infatti, davanti a noi, nell’atto di suonare una campana, eppure
tevole perno del dramma. È il Klang che dà titolo al testo, la so-
impotente ad agire. Muto, circondato dal silenzio ed obbligato a
norità “gialla”.
tacere da un personaggio in nero, incombente e massiccio.
Strategicamente assente nei due tempi dell’attesa, vale a dire
In questo quadro che ha un’insolita esclusività visiva, ogni moti-
nelle caselle semivuote dell’introduzione e del quarto quadro (di
vo appare bloccato, mal costruito, fatto a metà. V’è il tempio, ma
nuovo, la frattura), apre e chiude prepotentemente l’azione. In-
è chiuso e senza finestre; il campanile è di un colore simbolica-
sieme al bianco, col quale ha in comune certi valori intensivi (lo
mente pregnante, il blu, ma è sghembo ed esile. La sua campa-
splendore accecante, l’avanzamento, eccetera) e nel quale per
na di latta. L’uomo nero che grida: “Silenzio!”.
altro tende a risolversi, rappresenta una polarità magnetica fon-
L’azione s’arresta, quasi fatta girare su se stessa e ripiegata all’in-
damentale. Sappiamo già quale sia il carico simbolico: è “il tipi-
dietro, press’a poco a metà della composizione, se badiamo alla
co colore terreno […], rappresentazione cromatica della follia,
lunghezza effettiva delle scene, nei modi – vien fatto di pensare –
ma non della malinconia, […] eccesso di furore, della frenesia,
dei cardini strindberghiani del dramma che dissolvono nel mezzo
[…] una forza folle”. “Ardore spirituale”93. Questo fuoco dentro la
di un tragitto quanto è cresciuto fino a quel punto in verticale. Car-
materia, se così possiamo riassumere, investe la ribalta, il cen-
dini vuoti anche qui, se non fosse che l’arresto è solo temporaneo,
tro, il retroscena, l’alto e il basso del luogo teatrale. È luce che
una casella vuota soltanto a metà, poiché il legame viene anno-
piove e straripa, s’annoda al celeste, danza sopra e dentro i corpi.
dato per sottrazione e dislocato altrove in positivo.
Li smaterializza. Soprattutto si consegna all’iter della sofferenza,
Il tropo, ora macroscopico e tanto evidente da diventare addirit-
configurandosi nelle due macroimmagini della rivelazione che
tura la materia di un quadro, è fra le tipiche procedure ‘negati-
sono il fiore e i giganti.
ve’ di Kandinskij. Creare un agglomerato puntando sugli sbilan-
Nelle ‘operazioni’ del giallo, più che altrove, prende ala la fatica
ciamenti, sui meno e sulle parti mancanti, rientra nella retorica
della conoscenza (o inversamente, per effetto del rovesciamen-
dell’asimmetrico, programmaticamente lontana dai soli rafforza-
to simbolico, la “gloria” del divino nel dono dell’incarnazione).
menti paralleli dei segni. È su questi meno, oltretutto, che vien
Chi sono i giganti? Difficile dirlo. Certo v’è affinità con i dormien-
giocata la riforma della tradizione wagneriana.
ti, le grandi figure estatiche e i meditativi delle tele composte fra
La stessa divisione in scene non tragga in inganno. È la totalità,
’10 e ’1394, anch’essi situati fra le rupi o giacenti su un declivio.
il senso del tutto, a guidare lo sviluppo ineguale dei quadri. La
Senza dubbio presenze profetiche. Avanzano sulla scena trasci-
partizione in stazioni, gli stacchi durissimi del nero, sono ricuciti
nati da una forza estranea (“spinti fuori”, herausgeschohen, dice
dal veloce movimento a spoletta dei rimandi interni, dal fascio
il testo), come sospesi sul suolo o avvolti da una luminescenza
dei rapporti di somiglianza/dissomiglianza, in una parola dal
che li rende indistinti. Ricettacoli e “lampade”. Disegnano gesti
principio della trasformazione. Il come dell’intermittenza dipen-
rallentati ed elementari, quasi articolassero nel portamento iera-
de dalla contrattura o dall’allentamento dei fili, dal grado di ten-
tico e nel sommesso “balbettio” le lettere dell’”antichissima” lin-
sione che viene a crearsi tra questi e i fuochi in spostamento
gua. Uno degli spostamenti più tipici li porta dal fondo verso la
nella maglia compositiva. Tutta una serie di “ponti” viene lan-
ribalta, per bruciare in questa zona di contatto comunitario la
ciata da un quadro all’altro, sonori, cromatici, coreografici, tanto
loro “pazzia” e in certo senso sacrificarsi per gli altri. Ed è movi-
da comporre dei robusti bilanciamenti in una struttura dinamica
mento che prefigura sia l’incandescente conclusione del dram-
esternamente multipla. Il fondale dell’ultimo quadro, ad esem-
ma sia il télos d’una utopia, come s’è detto, totalizzante. Il ritor-
pio, è lo steso del primo, così come il quinto ripete il terzo, su-
no del Sé.
perando d’un balzo lo scomparto musicalmente vuoto della quar-
Quando non li vediamo in scena, la sonorità subisce una meta-
632
morfosi, diventa fiore, immagine concentrata del travaglio, dove
mondo la sua forma di esistenza sensuale, ed ora in esso sem-
fatica della natività, parola enarmonica e dono fecondante si of-
brano vivere in catena, sono invero le cause della sua vita e le
frono contemporaneamente allo sguardo delle figure circostanti
fonti di ogni attività100.”
(le persone in abiti lunghi, multicolori, ancora informi). È l’attimo,
Un simbolismo analogo ritorna in Kandinskij, che doveva certa-
allora, di una visione che sostituisce, durante una tappa, le icone
mente conoscere il valore ‘nuziale’ di un numero caro a tutta la
gigantesche ed in crescita, dei profeti95.
tradizione pitagorica, ierogamico incontro del pari e del dispari,
Fra le trasformazioni luminose, molteplici e non riassumibili, una
del positivo e del negativo, del verticale e dell’orizzontale101, così
comunque va segnalata per il suo carattere di redoublement, co-
come valori geometrici contrari si sommano nella forma ton-
mune sia ai corpi che agli eventi celesti. Si tratta del movimen-
deggiante del fiore e nell’acuminata profilatura della sua unica
to dal bianco al giallo, attraverso il rosso (delle sue combinazio-
foglia, “spinosa e stretta”.
ni e rovesciamenti), come dire che scaturendo da una forza ec-
È stato osservato che anche un dramma rosacrociano di E. Schu-
centrica, il processo può risalire e scendere, chiudersi in un peri-
ré, messo in scena da Steiner poco prima del ’10, a Monaco,
metro terrestre o purificarsi. I fiori bianchi, per esempio, diven-
nella medesima cerchia frequentata da Kandinskij, si concludeva
tano gialli. Poi di nuovo bianchi ed infine rossi, “come se fosse-
con l’emblema igneo della croce, installata nel cuore di una stel-
96
ro colmi di sangue” . Oppure: “luce rossa […]. La stridente luce
la fiammeggiante102. Ma il topos dev’essere più antico e com-
gialla è concentrata (oltre che sui giganti) soltanto sul bianco se-
plesso, se lo stesso Blake poneva termine al Matrimonio con la
duto. Di colpo scompaiono tutti i colori e una bianca luce crepu-
figura dell’angelo che spalanca le braccia; ed è a questo tema
97
scolare invade tutta la scena” . Tanto basta per segnalare
gestuale, al farsi croce del corpo ed all’ardente amplificarsi del
l’emergenza di una polarità attiva, bianco/gialla, migrante lungo
giallo, più che alla statica presenza di un’immagine, che la com-
le scene. I fuochi si cercano, venendo uno dalla profondità e il
binatoria di Kandinskij meglio si avvicina. È l’atto del bruciare nel
secondo dalle cose. Distribuiscono pesi e relazioni nello spazio e
suo diapason, una trasformazione di forze in cui convergono la
nel tempo.
scrittura del mimo e quella del colore, finalmente sommate103.
Come sempre v’è un gioco a scacchiera, un funambolico eserci-
Ed anche il suono, giacché la musica in quel momento esplode
zio di equilibri instabili, di più e di meno, la cui posta sembra es-
“in armonia con l’azione scenica”.
sere la conquista della luminosità piena, del bianco assoluto.
Schreyer che ne diede l’interpretazione più ravvicinata (ed an-
La grande scoperta, un Eccomi! di quegli anni stürmeriani pare
cora in buona parte convincente), insisteva sulla cifra sacrale. Per
proprio situarsi nella seduzione di questo colore “primi-genio”,
lui quel dramma coincideva col processo stesso dell’opus
nella “leggerezza della sua forza interiore”. L’intera pittura – ri-
novum, la nascita della grande forma, la Scrittura dell’Avvenire,
corda Kandinskij – ne venne capovolta98. Da allora (e testimo-
essendo il giallo una metafora della rivelazione e della sapienza
nianze ben evidenti si trovano nelle poesie), comincia l’insegui-
artistica. Così veniva celebrato, sotto la specie simbolica di un
mento della radianza.
sogno “astrale”, una sorta di calvario cromatico, la Passione della
luce nella fucina dello sguardo. “È la crocifissione del mondo
Sulla scena è però il giallo il protagonista principe. Ora fiore ed
99
ora gigante fuoriesce dallo scuro , grida la propria sete di vita.
della luce nella creazione. È questo il senso del Suono giallo: il
Stretto nell’alternativa del sì e del no, tra i poli della volontà e
mondo della luce viene crocifisso, si crocifigge, affinché la crea-
del destino, patisce il macinamento degli opposti. I giganti sono
zione della forma vinca. È l’antichissimo segreto della mistica
cinque come quelli raffigurati da Blake nel Matrimonio del Cielo
che si palesa: solo attraverso la crocifissione della luce la vita di-
e dell’Inferno. “Nell’Uomo non c’è un corpo distinto dall’Anima;
venta manifesta. L’azione della luce è la passione della luce e la
il cosiddetto Corpo è una parte dell’Anima che i cinque Sensi,
passione della luce è l’azione della luce104.
maggiori antenne dell’Anima in questo evo, discernono.”
Crocifissione dunque dell’Arte in funzione dell’uomo nuovo, da
Ed il poeta inglese continuava: “I Giganti che diedero a questo
cui le sei stazioni potrebbero ricevere un ulteriore significato. Sei
633
8. Ibidem, p. 273.
9. A. Schönberg, Il rapporto col testo, in Kandinskij – Marc, Il Cavaliere Azzurro…, p. 58.
10. TS, vol. II p. 83.
11. Ibidem, p. 174.
12. Ibidem, p. 162.
13. W. Grohmann, dopo aver ricordato che G. Vantongerloo aveva riprodotto
nel suo libro del 1924, L’art et son avenir, la Composizione VI, affiancandola
con la Caduta degli angeli ribelli di Bruegel, commenta: “è veramente sbalorditivo vedere quanto siano simili le forme piane e a punta dei due quadri
– facendo astrazione dall’oggettività di Bruegel – e quanto siano affini la costruzione e il ritmo delle due opere. Anche in Bruegel c’è una caduta e un
inno” (W. Grohmann, Wassili Kandinskij, trad. it. di R. Cantoni Dessì, Milano
1958, p. 136). Ma ancor più sorprendente è che vi sia un’altra tela del 1913,
il Quadro con bordo bianco, in cui il testo del pittore cinquecentesco ci appare ripreso in versione rovesciata col grande cerchio di luce bianca fatto
scaturire dal basso e trasformato in una mareggiata (il “bordo”), che risale
poi verso l’alto fino a dissolversi in un estremo arricciamento “dentato”. Fu
proprio la corrente “bianca”, questo speciale svolgimento del tema ad impegnare più a lungo il pittore, com’egli testimonia in una pagina volta a spiegare la genesi del dipinto: una pagina in cui il nome di Bruegel non è mai
fatto, come del resto non era stato fatto neppure per la Composizione VI (cfr.
W. Kandinskij, Sguardo al passato, in TS, vol. II, pp. 178-79). Altri particolari,
lineari e cromatici, come aste e frammenti di ali, incoraggiano a proseguire
nell’accostamento, per una persuasiva verifica dell’ipotesi che ci sembra oltremodo suggestiva.
14. TS, vol. pp. 86-87.
15. È il tema della “costruzione occulta” che sotterraneamente tiene legati i
motivi formali, “gettati a caso”, ma solo in apparenza, sulla tela. Cfr. il VII cap.
Dello Spirituale nell’arte, in TS, vol. II, p. 128. Quanto al tempo “globulare”
rinviamo a G. Bachelard, L’intuizione dell’istante, trad. it. di A. Pellegrino,
Bari 1973, e all’ampio commento di G. Sertoli, Le immagini e la realtà, Firenze 1972, specialmente alle pp. 169-77. Cfr. anche G. Baratta, s.v. Ritmo,
in Enciclopedia Einaudi, Torino 1981, vol. XII, pp. 185ss.
16. Cfr. L. Tinti, Georg Fuchs e la rivoluzione del teatro, Roma 1980, pp. 99ss.;
U. Artioli, Autonomia e eteronomia della scena all’epoca della “riteatralizzazione”, “Quaderni di teatro”, III, 9 (1980), pp. 5ss.
17. J. W. Goethe, Opere, Firenze 1962, vol. V, p. 317; Id., La teoria dei colori,
introduzione di G. C. Argan, a cura di R. Troncon, Milano 1981, p. 183. Quanto alle riprese kandinskiane dalla Farbenlehre, cfr. il recente fascicolo de “Il
Verri”, a cura di R. Troncon, interamente dedicato alla teoria dei colori di Goethe, 22-23 (1981), pp. 59ss.
18. TS, vol. II, pp. 107ss. e passim.
19. Ibidem, pp. 109-10.
20. W. Kandinskij, Punto linea superficie, trad. it. di M. Calasso, Milano 1968,
pp. 199ss.; e TS, vol. II, pp. 325-27.
21. TS, vol. II, pp. 126-27. Il tema dello sviluppo per salti ed illuminazioni è
una costante che si applica a tutte le arti. Cfr. ad esempio TS, vol. II, p. 169.
Notevole l’affinità con Lo spirito dell’utopia di Ernst Bloch. Quando delinea
questo sviluppo discontinuo, per linee segmentate, Kandinskij fa immediatamente scattare l’associazione col tempo religioso. Anche per lui l’artista padroneggia i materiali della “risurrezione”, fa storia autentica adunando nella
propria opera il sapere dell’Antico e restituendolo al presente dell’intera comunità (e non del singolo). “L’arte è per molti aspetti simile alla religione.
[…] Il suo sviluppo consiste in improvvise illuminazioni, simili al lampo, in
esplosioni che scoppiano in cielo come i razzi di un fuoco d’artificio per comporsi in un intero mazzo di varie stelle luminose. Questo lampeggiare indica
con luce accecante nuove prospettive, nuove verità, le quali non sono sostanzialmente altro che lo sviluppo organico della sapienza anteriore. […] Il
Nuovo Testamento sarebbe possibile senza l’Antico? Il nostro tempo potreb-
e non sette, poiché il compimento vi è solo prefigurato.
Sesta giornata per l’inveramento della Modernità: ma nel dirlo
siamo già sulla soglia degli sviluppi comunitari del Bauhaus di
specie “Sturm”, la cui profezia è appena leggibile, in controluce,
sullo sfondo intermittente del Suono giallo.
* Il saggio è stato pubblicato in U. Artioli, Il ritmo e la voce, Milano 1984, pp.
239-76, e raccolto poi in”Figure della malinconia e dell’ardore”, Università
degli Studi di Trento, Dipartimento di Scienze Filologiche e Storiche, 1998.
1. W. Kandinskij, Der gelbe Klang, in L. Schreyer, Expressionistiches Theater
– Aus meinen Erinnerungen, Hamburg 1948, pp. 69-80; W. Kandinskij, Sulla
composizione scenica, in W. Kandinskij – F. Marc, Il Cavaliere Azzurro, a cura
di K. Lankheit, trad. it. di R. Calzecchi Onesti, Bari 1967, p. 182; ed anche: W.
Kandinskij, Tutti gli scritti (d’ora in poi abbreviato: TS), a cura di P. Sers, trad.
it. di L. Sosio – N. Pucci – B. e E. Chilò, 2 voll., Milano 1974, p. 267.
2. Cfr. U. Artioli, Teorie della scena, Firenze 1972, spec. al cap. VI, pp. 249ss.,
e A. Appia, Attore musica e scena, a cura di F. Marotti, Milano 1975.
3. L’allargamento della composizione scenica all’architettura e la discussione
intorno al culto religioso come forma anteriore di sintesi artistica si precisano negli scritti composti all’epoca del Bauhaus, tra il 1923 e 1927. Cfr. Sulla
sintesi scenica astratta e Alcune nozioni sull’arte sintetica, in TS, vol. II, pp.
271-80. È tuttavia una costante, fin dai primi articoli, il riferimento kandinskiano alla spettacolarità della chiesa russa, specie nelle manifestazioni popolari, apprezzamento che egli ha in comune con i maggiori esponenti del
teatro russo del Novecento e la rivista “Mir Iskusstva”, sul cui primo numero
comparve per altro una sua corrispondenza da Monaco. K. Lankheit nell’Appendice critica alla riedizione dell’Almanacco del Cavaliere Azzurro (cfr. n. 1),
rifà la storia di questi rapporti. Tra le immagini più suggestive che l’Autore ha
lasciato del suo gusto per l’imagerie sacra, si può ricordare la descrizione
dell’”angolo rosso” in Rückhlick (Sguardo al passato, 1913), in TS, vol. II, p.
161. Cfr. anche M. Volpi Orlandini, Kandinskij, Roma 1968, pp. 13ss e 147ss.
4. Il tema dell’”accumulo”, e della “somma” è costantemente ripreso nei
saggi sull’”opera d’arte monumentale”. Si tratta però di una “somma” qualitativa, di un incontro fra i molteplici nastri della scrittura scenica, a fini intensivi. Pur obbedendo ciascuno alle proprie regole formali, gli specifici artistici convocati sulla scena totale, rinunciano a svolgere un motivo spettacolare in chiave separata. Interagiscono, Kandinskij scrive: si sacrificano obbedendo all’imperativo della vibrazione fondamentale, che ciascun “mezzo”
restituisce con la propria “voce”: vibrazione che non può non appartenere,
come vedremo, ad un Artista sovrano. Ne viene che la struttura di relazione
può essere alternativamente fondata sul parallelismo e sulla antitesi. “Una
serie di combinazioni, comprese tra i due estremi: cooperazione e azione
contraria. Concepiti graficamente, i tre elementi possono percorrere vie totalmente indipendenti, esteriormente separate l’una dall’altra” (TS, vol. II, p.
270). “Le arti che continueranno a condurre una vita propria […] possono
svolgere nei confronti della scena un servizio di tipo puramente sintetico. In
questo caso esse rinunciano ai fini propri per sottomettersi alla legge della
composizione scenica” (ibidem, p. 273).
5. Ibidem, p. 83.
6. Cfr. su questo motivo M. Cacciari, Krisis, Milano 1976, che rilegge in chiave wittgensteiniana la formatività di Kandinskij, mostrandone i contatti (ma
anche certe differenze sostanziali) con la pratica compositiva di Schönberg
(ibidem, pp. 149-58). Quanto alle analogie teoriche intorno alla corrispondenza suono-colore, cfr. L. Rognoni, La scuola musicale di Vienna, Torino
1966, pp. 50ss. e passim.
7. TS, vol. II, p. 84.
634
Kunstwende, a cura di H. Walden, Berlin 1918, pp. 22-28.
36. Platone, Fedro, in Dialoghi, Torino 1970, XXIV-XXXV, pp. 536-37.
37. TS, vol. II, p. 163.
38. TS, vol. I, p. 206.
39. Ibidem, p. 139: “La menzogna (astrazione) deve dire la verità. Verità
piena di salute che si chiama Eccomi”.
40. Schreyer, Das Gegenständliche…, p. 24. Cfr. P. Chiarini, L’espressionismo:
storia e struttura, Firenze 1969, p. 87.
41. TS, vol. II, p. 81.
42. Ibidem, p. 78.
43. Cfr. S. Ringhom, Die Steiner-Annotationen Kandinskijs, in catalogo
Kandinskij und München, Städtlische Galerie, München 1982, pp. 102ss. L’appunto trascritto è il seguente: “Der Mensch besteht aus: 1) Phys. Leib – Sthula Sharira 2) Lebensleib – Linga Sharira 3) Empfindungsleib Kama rupa –
Astralkörper 4) Verstandesseele – Kama manas – niederer Manas 5) Bewußtseinseele – höherer Manas – die das “Ich” gebährt 6) Lebensgeist – Budhi
– Spiritueller Körper 7) Geistesmensch – Atma”.
44. Un salto, ma non una opposizione dialettica, poiché il caos qui viene inteso nell’accezione cosmogonica di germe ed origine di tutte le cose. Potremmo anche chiamarlo fatalità e destino. Occorre perciò distinguere fra il
caos come scaturigine del mondo e il caos come antitesi e disordine, concetto, quest’ultimo, articolato dal ragionamento per via negativa su quello di
cosmo. Abbiamo a che fare dunque con una energia e non con un’idea. Chi
ha posto con forza questa differenza di principio a fondamento della propria
teoria è stato Klee, nei preliminari della figurazione: “Il caos quale antitesi
non è il caos autentico. Il vero caos […] non potrà mai essere messo sul piatto della bilancia, ma sempre resterà imponderabile e incommensurabile” (P.
Klee, Teoria delle forma e della figurazione, vol. I, Milano 1959, p. 3). G. Manacorda, Introduzione, in P. Klee, Poesie, Milano 1978, pp. 19ss. Cfr. anche P.
Cherchi, Paul Klee teorico, Bari 1978, pp. 88-95. La nozione è pressoché analoga in Kandinskij, che si avvicina a Klee in numerosi punti della teoria pittorica, ma vi imprime poi uno sviluppo differente in rapporto al suo speciale telos astrattizzante.
45. Eraclito, Frammenti, in I presocratici, a cura di A. Pasquinelli, Torino 1958,
vol. I, 14 (53), p. 178. Sui riflessi del pensiero presocratico nell’arte contemporanea cfr. il bel libro di E. Grassi, Arte come antiarte, Torino 1972.
46. TS, vol. II, p. 165.
47. Ibidem, p. 101.
48. Cfr. Denkler, Kandinskij et le théâtre…, p. 99 (cfr. Inoltre H. Denkler, Introduzione, in H. Denkler – L. Secci, Il teatro dell’espressionismo, Bari 1973).
49. T. W. Adorno, Filosofia della musica moderna, introd. di L. Rognoni, trad.
it. di G. Manzoni, Torino 1959, pp. 37ss.; J.-J. Nattiez, s.v. Tonale/atonale, in
Enciclopedia Einaudi, Torino 1981, vol. XIV, pp. 318ss.
50. Schönberg, Testi poetici e drammatici…, p. 200.
51. TS, vol. II, p. 178 e passim.
52. Kandinskij, Della composizione scenica…, p. 268. W. Kandinskij – F. Marc,
Sulla composizione scenica, in Kandinskij – Marc, Il Cavaliere Azzurro…, p.
167.
53. TS, II, p. 122. Per i legami con Van der Velde, Riegl, Worringer intorno alla
questione dell’ornato, cfr., tra l’altro, M. Cacciari, F. Masini, P. Cherchi citati
poco fa.
54. A. Loos, Parole nel vuoto, pref. di J. Rykwert, trad. it. di S. Gessner, Milano 1972, pp. 217-55.
55. Risoluzione comune a tutto il gruppo del Cavaliere Azzurro, dove il simbolo viene quasi sempre associato ad una grammatica di segni elementari,
ad un repertorio di archetipi formali a valenza multipla: astrale, pitagorica, lirico-musicale (cfr. M. Calvesi, La questione dell’Orfismo, in A. Cavallaro, Il Cavaliere azzurro e l’orfismo, Milano 1976, pp. 70-71). Simbolo e sintassi nucleare delle forme costituiscono poi un trait d’union particolarmente stringente, anche se la parentela era con ogni probabilità ignota ai due autori, fra
be essere quello della terza rivelazione se non ci fosse stata la seconda? Esso
è una ramificazione del tronco originario, da cui tutto comincia”. Così anche
la sapienza della nuova danza convoglia nell’ultima Forma i segreti delle due
“fasi” anteriori (Ibidem).
22. “La danza non è un divertimento ma una religione, un’espressione di
vita”, eccetera (I. Duncan, La danza del futuro, in Lettere dalla danza, trad.
it. di C. Bertotti, Firenze 1980, p. 35.
23. “Il rovesciamento dei valori è stato avviato dalla genialità di Nietzsche e
ciò che prima era immobile si è messo in moto. Nell’anima è come se fosse
avvenuto un terremoto, ed ecco che questa tragedia e questo spostamento,
questa incertezza e cedibilità del materiale si riflettono con chiarezza nell’arte proprio come inesattezza e dissonanza” (W. Kandinskij, Dove va l’arte
‘nuova’, articolo comparso su “Odesskie Novisti” nel febbraio 1911: TS, vol.
II, p. 45).
24. Gli esempi di traduzione (ed analisi) lineare dei movimenti corporei, tesi
anche qui ad abbozzare il “basso continuo” del danzatore, diventano particolarmente fitti all’epoca del Bauhaus. Nella scenografia per Quadri di
un’esposizione di Musorgskij (1928; la regia era anch’essa affidata a Kandinskij), questo esercizio è come trasvalutato nei costumi e nei fondali, fatti
comparire o sparire nel gioco di luci. A proposito di danza e “Hieroglyphensprache” cfr. F. Masini, La mistica dell’astrazione in W. Kandinskij, in Dialettica dell’avanguardia, Bari 1973, pp. 145ss.
25. TS, vol. II, pp. 124-25.
26. F. Masini ha acutamente mostrato con quale profondità agisca nel comporre kandinskiano il procedimento mistico della similitudine, indicando tutta
una serie di analogie strutturali fra l’intelligere, l’intus-legere delle dottrine
medievali (specialmente riferite ad Eckhart) e la “necessità interiore” dell’artista (Masini, La mistica dell’astrazione…, pp. 133ss.).
27. Negli articoli del ’23 e del ’27 la cosa è aperta alla sperimentazione.
Resta tuttavia il fatto che, alludendo agli sviluppi acrobatici della danza in
Germania e in Russia, Kandinskij faccia subito ricordare la biomeccanica mejercholdiana o le pirotecniche di Taìrov, ossia il teatro registico. Tutto il tono
del discorso riflette il dibattito ispirato da Gropius a Weimar, con richiami abbastanza espliciti anche alle soluzioni cabarettistiche e del circo. D’altra parte
Ball aveva fatto rifluire il Suono giallo nell’ideologia della “festa” aurorale e
comunitaria, istituendo un collegamento fra il sacro del Cavaliere Azzurro e
la sua visione dell’Aurora. Cfr. H. Dankler, Kandinskij et le théâtre, “Obliques”,
6-7 [s.d.], pp. 95ss., e L. Valeriani, Dada Zurigo – Ball e il Cabaret Voltaire,
Torino 1971, pp. 39ss.
28. Cfr. Lankheit, Appendice critica…, pp. 221-22.
29. TS, vol. II, p. 267. L. Scrivo, Sintesi del Futurismo – storia e documenti,
Roma 1968, p. 33 (ed anche pp. 34-37).
30. Cfr. G. Manzoni, Arnold Schönberg. L’uomo, l’opera, i testi musicali, Milano 1975, pp. 42ss., M. Cacciari, Musica, voce, testo, in Dallo Steinhof, Milano 1980, pp. 76ss.
31. A. Schönberg, Testi poetici e drammatici, a cura di L. Rognoni, trad. it. di
E. Castellani, Milano 1967, pp. 27-34, 227-30.
32. Era stata prevista anche una versione cinematografica di Die glückliche
Hand, tale da fissare una volta per sempre la scrittura visiva dello spettacolo. Ad ogni modo Schönberg non ammetteva varianti che mettessero in discussione la partitura da lui preparata. Ecco qualche stralcio di una sua lettera al regista F. Turnau sui criteri dell’esecuzione: “Voglia dunque capirmi: in
un’opera che dura solo 22 minuti non si può cancellare nulla, oppure tutto.
Cose secondarie qui non ve ne sono. […] La cosa migliore sarebbe rifarsi alla
mia descrizione”, eccetera (Schönberg, Testi poetici e drammatici…, pp. 22829).
33. TS, vol. I, pp. 135-36.
34. Dionigi Aeropagita, Teologia mistica, in Dionigi Aeropagita, Opere, a cura
di E. Bellini, trad. it. di P. Scazzoso, Milano 1981, p. 407.
35. L. Schreyer, Das Gegenständliche in der Malerei, in Expressionismus. Die
635
la scena cinetico-visiva di G. Craig e la configurazione astratta di Kandinskij.
Sulle analogie morfologiche si è a lungo soffermato Artioli in un capitolo di
Teorie della scena…, pp. 314ss.
56. F. Marc, I cento aforismi – La seconda vista, a cura di R. Troncon, introd.
di G. Franck, Milano 1982, p. 84.
57. TS, vol. II, p. 128.
58. In Il problema delle forme, per esempio, Kandinskij invita a fissare le lettere tipografiche come se fossero “cose”, distinguendo fra macrostruttura e
dettagli, in modo da cogliere l’unità “interiore” del materiale nei rapporti di
configurazione (TS, vol. I, pp. 124-26).
59. R. Steiner, Euritmia come parola visibile, trad. it. L. Gentilli Baratto, Roma
1967, pp. 37ss.; L’essenza dei colori, trad. it. I. e D. Vigevano, Milano 1977.
Cfr. S. Ringhom, Kandinskij und das Okkulte, cat. Kandinskij und München…,
pp. 85ss., R. C. Washton Long, Kandinskij and Abstraction: the role of the bidden image, “Artforum”, vol. X, n° 10 (june 1972), pp. 42-48. Quanto ai rapporti con lo zaúm cubofuturista il tramite privilegiato è costituito da Burljúk,
autore di un articolo sul fauvismo russo pubblicato nell’Almanacco del ’12,
ed estensore di tutta una serie di manifesti sulla “parola come tale”, insieme a Chlèbnikov e Krucënych, o in parallelo ad essi. Cfr. G. Kraiski, Le poetiche russe del Novecento, Bari 1968, pp. 98-116; A. M. Ripellino, Majakovskij
e il teatro russo d’avanguardia, Torino 1959, pp. 31-34 e passim.
60. TS, vol. II, p. 123.
61. E. Bloch, Spirito dell’utopia, a cura di V. Bertolino – F. Coppellotti, Firenze
1980, spec. pp. 15-43.
62. L’appello allo spettatore come co-autore costituisce la premessa stessa
della sintesi scenica. Il fruitore è colui che prolunga e continua dentro di sé
“l’opera creativa”: “Se il mezzo dell’arte” è quello giusto, “produce una vibrazione quasi identica nell’anima del ricevente. / È una cosa inevitabile.
Questa seconda vibrazione è più complessa. […] Le corde dell’anima che vibrano più spesso danno il loro suono anche ogni volta che vengono toccate
altre corde. Il loro suono è talvolta così forte da sovrastare quello originario”
(TS, vol. II, p. 266). E altrove: “Questo paese dell’anima […], che l’artista è costretto a svelare ai suoi simili che, nonostante tutto e tutti, egli deve rendere concreto, è stato creato in forza della volontà del destino, non a beneficio
dell’artista ma soltanto dell’osservatore in quanto l’artista è lo schiavo dell’umanità” (ibidem, p. 222). Possiamo osservare che, in parallelo a quanto
dirà poi Bloch, anche qui l’imperativo etico, la volontà del destino, oltrepassa il cerchio dell’egoità e fa della perfezione del singolo una tappa incompiuta, un momento di transizione verso l’Apocalisse.
63. Novalis, Frammenti, introd. di E. Paci, trad. it. di E. Pocar, Milano 1976, p. 294.
64. TS, vol. II, p. 257.
65. TS, vol. I, p. 145; vol. II, pp. 26-27, 110, 162.
66. TS, vol. II, p. 282.
67. Verde è la figura femminile che entra in scena quasi alla fine dell’azione, avanza con passo lentissimo e fissa gli spettatori. Abbandonerà poi la ribalta col calare del buio totale. Parzialmente verde è l’”enorme” collina del
primo quadro. Associato alla terra e al femminile, il verde ha qui il senso
della paralisi, ma anche dell’attesa, di una possibile rianimazione, in associazione col rosso (paesaggio). L’ingresso della donna è accompagnato dal
lamento del mendicante, uscito poco prima insieme ad una folla variopinta
dalle mura di una città fantastica. Figura dell’errante, cieco e zoppo, uomo
che ha varcato il muro e tuttavia ti interroga su una missione che dispera di
poter compiere. Il vivere per gli altri, com’egli dice nel canto, ne fa un’immagine solidale col destino del teatro: “Ancor prima che al mondo venissi /
della vista privato ero già. / Solitario i miei giorni conchiudo, / sono vivo soltanto per gli altri. / Ancor prima che al mondo venissi / a qualcuno fui utile
già” (Ibidem, p. 291). Il motivo è rifuso poi in Viola (p. 315). Cfr. n. 62.
68. La pièce, molto più ampia delle altre, è un curioso mescolamento di elementi realistici, popolari, astratti e perfino da avanspettacolo.
69. Questo vento corrosivo ha alcunché di biblico, un segno in sé (manife-
stazione del divino) e un portatore di messaggi. Cfr. Nero e bianco, IV quadro (TS, vol. II, pp. 295-96).
70. Ibidem, p. 282.
71. Ibidem, p. 319.
72. V. Grohmann, Wassili Kandinskij…, pp. 122-24.
73. “Nulla sarebbe più sbagliato che etichettare [il] quadro come la rappresentazione di un evento”. Tuttavia “un grande tramonto, che agisca in senso
oggettivo, è anche un canto di lode che vive di vita autonoma e distinto nel
suono, come un inno della nuova nascita” (TS, vol. II. P. 176).
74. Crepuscolo e tramonto designano l’ora tipica della sintesi: “Sulla scena un
crepuscolo blu scuro” eccetera (Ibidem, p. 282); “la caligine blu cede gradualmente alla luce”, eccetera (Ibidem, p. 283).
75. “Le plan de composition scénique accélère l’épanouissement quasi organique et végetal du tableau scénique et semble posseder dans la synesthésie appliquée la loi de catalyse de toute action scénique tout en cherchant à élever le spectacle d’élements scénographiques coordonnés au rang
d’une fête sacrée pleine de vision et d’énigmes, et dont les fluctuations exacerbent les sens” (Denkler, Kandinskij et le théâtre…, p. 89).
76. TS, vol. II, p. 387.
77. Cfr. G. Franck, “L’ora dei vincitori”: astrazione e purezza in Franz Marc, in
Marc, I cento aforismi…, pp. 7ss.
78. Cfr. Lankheit, Appendice critica…, p. 242.
79. Alcune tesi del libro di Bulgakov, Dva grada (Due città, 1911), trovano
più di un’eco nelle pagine dell’amico Kandinskij. L’arte, per esempio, assume
caratteri mediatori, analogamente alla funzione sociologica della dottrina divina di Bulgakov. Così la ripresa dell’ascetismo come via gioiosa di santificazione per la carne, la rivalutazione della fede popolare, gli interessi per l’etnologia e l’economia. La Grande Radice come Sofia divina è un punto fermo
dello Spirituale. Alla fine di Sguardo al passato, nel corso della distinzione
fra cattiva e buona forma (Il “virtuosismo” e la “composizione”), Kandinskij
riconduce questa biforcazione ad un contrasto storico e morale fra paganesimo e cristianesimo, fra concezione romana del diritto e visione evangelica.
E precisa: “Il crimine in assoluto non esiste”. Ed ancora: “ogni azione è indifferente. Essa sta in bilico. La volontà le dà una spinta e la fa cadere verso destra o verso sinistra. La flessibilità esteriore e la precisione interiore sono in
questo caso assai sviluppate nel popolo russo. […] L’osservazione superficiale consente di vedere in questa vita, che appare strana all’occhio estraneo,
soltanto la mollezza e la flessibilità esteriore, le quali vengono considerate
mancanza di principi, mentre la precisione interiore rimane in profondità”
(TS, vol. II, pp. 169-70, 182: il corsivo è nostro). Cfr. S. Bulgakov, A proposito
del cristianesimo primitivo, in P. C. Mori – P. Bettiolo, Movimenti religiosi in
Russia prima della rivoluzione, Roma 1978, pp. 185ss.
80. Per esempio: “La scena è quasi completamente oscura. Sul davanti, l’uomo è coricato col viso rivolto a terra. Sulla sua schiena sta seduto un mostro
favoloso dall’aspetto felino (iena con grandi ali di pipistrello) che sembra
aver infisso i denti nella sua nuca” (Schönberg, Il rapporto col testo…, p. 27.
Per una analisi della Mano felice cfr., oltre alle pp. di L. Rognoni, L. Cammarota, La main heureuse, “Obliques”, n° 6-7 [s.d.], pp. 137ss.).
81. “Abbiamo tre tipi di organizzazioni di miti e di simboli archetipici. In
primo luogo il mito non trasposto, che di solito tratta di dèi o di demoni e
prende la forma di due mondi contrastanti di totale identificazione metaforica, l’uno desiderabile e l’altro indesiderabile. […] A queste due forme di organizzazione metaforica diamo rispettivamente i nomi di apocalittica e demonica”, eccetera (N. Frye, Anatomia della critica, Torino 1969, pp. 182ss.).
82. TS, vol. II, p. 287.
83. È stato osservato (ed è rilievo significativo) che alcuni emblemi dell’iconologia kandinskiana vengono assottigliati o tolti dai suoi sviluppi quando
vengano ad esprimere un male inassimilabile e si oppongano radicalmente
al “progresso” dell’armonia. Dei quattro cavalieri dell’Apocalisse, ad esempio,
ne scompare uno, in accordo con la lettura steineriana di S. Giovanni: ed è il
636
99. TS, vol. II, pp. 282-83.
100. W. Blake, Visioni, trad. it. di G. Ungaretti, introd. di A. Tagliaferro, Milano 1973, pp. 103 e 121.
101. Cfr. J. Chevalier-A. Gheerbrant, Dictionnaire des symboles, Paris 1974,
vol. II, pp. 39ss.
102. “Au moment où les legionnaires s’approchent, l’Etoile flamboyante apparaît au-dessus des amants. Une Croix de feu brille à son centre”, eccetera da Les enfants de Lucifer, in E. Schuré, Le Théâtre de l’âme, Paris 1900,
p. 158 (la segnalazione è di Washton Long, Kandinskij…, p. 47).
103. Curiose configurazioni formali quelle dei giganti. Fanno pensare ad oggetti scenici e a pantomimi contemporaneamente, talora a sagome animate. Kandinskij non precisa di che cosa si tratti, salvo dire in un passo del saggio che abbiamo già richiamato, che la risonanza psicofisica del movimento
è affidata ad oggetti e danzatori. Se pure v’è, in esordio, un essere spinte in
scena (verbo indubbiamente connotato anche in senso tecnico), le immagini ricevono dallo spartito registico una pressoché continua attivazione, come
se sul palcoscenico ci fossero delle persone e non delle cose. D’altra parte
questa osservazione vale a contrario per mimi e ballerini, a loro volta iscritti dentro una partitura geometrica, se non addirittura automatica e mineralizzata dei movimenti. Non sempre, ma di frequente. Si direbbe che l’Autore voglia omologare i corpi all’attrezzeria e l’attrezzeria ai corpi, mescolandone le caratteristiche in un’unica mappa ritmica, che è poi la “serie” astratta
delle combinazioni. Quasi ovvio ribadire che la geometria in questione ha più
di una parentela con la danza liberata (e libera) della Duncan, comprese le
implicazioni che essa avrà sui ri-teatralizzatori. L’insistenza con cui Kandinskij
ricorre al termine della combinatoria quando descrive le scene corali (specie
nel terzo e nel quinto quadro) ne è la riprova convincente. Resta il fatto tuttavia che la serie “astratta” mantiene vivi degli spessori psichici e simbolici,
come nel caso appunto dei giganti. Se così non fosse, non potrebbero esprimere azioni anche fisiognomicamente pregnanti quali fissare gli spettatori,
lamentarsi o bisbigliare. Questa ritmica ambivalente che assimila l’oggetto al
corpo rende plausibile l’ipotesi che alcune figure del Suono giallo vadano intese come geroglifici astratti e parimenti come corpi potenziati, assai vicini
ai grandi manichini della successiva teatralità di Schreyer. Non va dimenticato che l’accrescimento del corpo nel corso dell’azione appartiene in modo
specifico sia al fiore che ai giganti. Ma anche le immagini paesistiche sullo
sfondo, o meglio certi archetipi del paesaggio, subiscono un analogo ingrandimento. In tal modo verrebbe chiaro un ulteriore anello di passaggio dal sistema kandinskiano e gli svolgimenti successivi in area astratta, fino a
Schlemmer, nel senso che quel “sistema” è in grado di accoglierli nella propria linea teorica. Va comunque detto, per finire, che le figure di Kandinskij
sono in primo luogo delle condensazioni luminose, dei corpi quanto più possibile aerei e smaterializzati, da riportare in linea di principio ad una sintagmatica del simbolo e del colore.
104. Schreyer, Expressionistisches Theater..., p. 81.
quarto, simbolo della guerra (Washton Long, Kandinskij…, p. 48).
84. “Io sono Dio. Tanto di divino si è accumulato in me che non posso morire. La mia testa arde da scoppiare. Uno dei mondi che vi si cela vuol venire
alla luce. Intanto, prima che si compia, devo morire” (P. Klee, Diari, pref. di
G. C. Argan, trad. it. di A. Foelkel, Milano 1960, p. 54).
85. TS, vol. I, p. 147.
86. Per Kandinskij, a differenza di Marc, il Regno della natura è autonomo e
non va redento dall’artista. Ciò spiega, insieme ad altre ragioni, il diverso atteggiamento di Marc nei confronti della “scienza” goethiana della natura
(afor. 69). Anche nella teoria dei colori, o meglio nell’abbozzo di una teoria,
Marc ribalta l’ordine simbolico dei colori proposto nella Farbenlehre. Il rosso,
per esempio, non è più un vertice, qualcosa di sacrificale. Non ha “dignità”.
Designa al contrario lo stato più basso della creazione: “Rosso la materia,
brutale e dura, e sempre il colore che deve essere combattuto e vinto dagli
altri due!” (dal giallo identificato col principio femminile e dal blu, il maschile): cfr. J. Nigro Covre, Franz Marc. Dal pensiero alla forma, Torino 1971,
p. 52.
87. Klee, Diari…, p. 316.
88. Va segnalato a questo proposito il largo dibattito, all’interno del gruppo
“Sturm” sulla maniera kandinskiana di afferrare gli archetipi della forma. R.
Blümner lo riassume in questo modo: alcuni “sostengono che anche la pittura assoluta di Kandinskij sarebbe oggettiva, ovviamente non nel senso
quotidiano. Egli non dipingerebbe le cose che siamo abituati a vedere nella
pittura precedente e neppure una qualsiasi cosa della realtà, bensì forme che
ci ricordano in maniera ora più vicina ora più lontana tali cose […]. Una notevole confutazione di questa tesi ci viene proposta da Rudolf Bauer, anch’egli propugnatore della pittura assoluta nel suo saggio intitolato Il movimento cosmico: tutte queste forme sono primarie, le cose con cui vengono
associate sono secondarie. La forma uovo era prima dell’uovo naturale, il
lampo è possibile solo perché prima di lui esisteva la forma-lampo. Certamente l’artista non può creare che le forme già presenti nel cosmo. Ma chi
di quei quadri kandinskiani vede l’oggettività, o li associa con cose reali, non
vede solo le forme, ma pensa contemporaneamente alle medesime e analoghe forme poste al di fuori del quadro. Sarebbe più giusto parlare invece
che di forme non-oggettive di forme astratte, o di forme primarie in contrapposizione alle forme concrete e secondarie” (Der Geist des Kubismus und
die Künste, Berlin 1921, p. 22).
89. TS, vol. I, p. 146.
90. TS, vol. II, p. 285: “D’improvviso dietro le quinte risuona una voce di tenore stridula, piena di terrore, che grida molto rapidamente parole del tutto
incomprensibili (si sente spesso la a: ad esempio calasimunafancola!)”. Il
grido viene ripetuto un’altra volta nel V quadro.
91. “Mosca: la duplicità, la complessità, la massima mobilità, l’urto e la confusione dell’apparenza esterna, le quali formano in ultima analisi un volto
proprio, unitario; le stesse qualità si osservano nella vita interiore, incomprensibile allo straniero […]; eppure anche qui si ha un’uguale peculiarità e
in definitiva una compiuta unità. A quest’immagine complessiva, esteriore e
interiore, di Mosca faccio risalire l’origine dei miei tentativi artistici. È il mio
diapason pittorico” (TS, vol. II, p. 171).
92. TS, vol. I, p. 118 (Kandinskij-Marc, Il Cavaliere Azzurro…, p. 122).
93. TS, vol. II, pp. 109-10.
94. Cfr. Grohmann, Wassili Kandinskij…, pp. 53ss. e R. – C. Washton Long,
Kandinskij’s Vision, in The life of Vasili Kandinskij in Russian Art. A study of
‘On The Spiritual in Art’, Newtonville, Mass. 1980, pp. 63ss.
95. TS, vol. II, p. 284: il tema della “visione” interiore è svolto, nel II Quadro,
anche nel canto del gruppo in scena: “I fiori coprono tutto, coprono tutto, coprono tutto. / Chiudi gli occhi! Chiudi gli occhi! /”, eccetera.
96. Ibidem.
97. Ibidem, p. 287.
98. TS, vol. I, p. 147.
(1) Il saggio è stato pubblicato per la prima volta in U. Artioli, Il ritmo
e la voce, Shakespeare and Company, Milano 1984, pp. 239-276 e
successivamente in F. Bartoli, Figure della melanconia e dell’ardore,
Università degli Studi di Trento, Trento 1998, pp. 163-208.
637
1985
Da Domenico Gentile
ad Albano Seguri
Sul filo del colore
Domenico Gentile
Racconti sul nero
Carlo Cioni
Fantasma
Ferruccio Bolognesi
Paesaggio & Paesaggio
Visioni liminari
Appunti
Chiara Dynys
Echi riflessi
Carlo Bondioli Bettinelli
Suggestivi sviluppi
Pino Castagna
In nome del fluido
Mariella Bettineschi
Nella luce e nel buio
Mostra collettiva
Slittamenti di figure
Albano Seguri
Sul filo del colore
Domenico Gentile
Da una parte si trattava di salvaguardare le radici emotive - et(1)
niche, se si vuole - dall’altra di prendere in considerazione un linguaggio più avanzato, sull’onda della contemporaneità.
Ritengo sia stata una mossa azzeccata quella di avere indicato
Si aggiunga poi l’ancora recente salto culturale dal Sud al Nord,
nel "colore" la qualità saliente della pittura di Domenico Gentile.
dove il pittore continua ad ascoltare qualche ‘voce’ d’origine:
Non era, infatti, facile cogliere l’elemento connettivo, o comun-
Gatto, Menna, Carotenuto. Poco più che ventenne Gentile aveva
que il dato più resistente, di un’opera che, nonostante i trent’an-
fatto registrare una partenza fulminea, piena di promesse, fitta
ni dichiarati ha pure subito qualche fase di stasi e quindi di ri-
di risentimenti ‘romani’ da Scipione a Mafai: uso evocativo del
prese.
colore, atmosfere dai toni smorzati, dove già emerge il principa-
Un lungo silenzio tra la fine degli anni ’60 e la metà degli anni
le tema ispiratore, il paesaggio.
’70 senza vere e proprie interruzioni, ma certo con ‘abbandoni’.
Qualche tempo dopo irrompono le inquadrature neorealistiche e
Motivati abbandoni, da sfiducia negli ideali e nelle poetiche che
le analisi del paesaggio ‘urbano’ e il colore diventa plumbeo, fer-
avevano sostenuto in precedenza la pittura del Gentile.
ruginoso come i complessi industriali che spesso rappresenta.
È fatto ben noto che la fine degli anni ’60 vide il crollo del rea-
Soprattutto si assiste allo scontro tra sguardo e oggetto, al loro
lismo a cui egli aveva aderito come tanti altri, specie al Sud.
reciproco aggredirsi. Il colore non respira più, catturato, inchio-
Il problema del Gentile, fuori dal mercato, era, in quegli anni dif-
dato dai segni di contorno. È il silenzio totale, compensato in una
ficili, di duplice natura.
terza fase dai variegati sondaggi di partiti compositivi che riemergono finalmente senza peso.
Quanto sia contata poi la lunga ‘pausa’ lo si vede ora con la libertà con cui le immagini vengono ‘rilanciate’ sul filo della emozione.
Colori e forme riacquistano la capacità gioiosa - talvolta onirica di espandersi, di moltiplicarsi. Persino l’ironia ha il suo peso nella
caduta del dramma. Mettendo in frizione sogno e divertimento,
artificiale e naturale (la felice osservazione è di Giovanna Barbero) l’occhio cerca ora panoramiche disinibite, aeree, spesso solamente ‘pirotecniche’.
L’immaginazione riplasma il reale, anche il più intossicato e desertico, trasformandolo in una sorta di luna-park. Persuadono
perciò i successivi accumuli di figure disossate, senza peso, quasi
levitanti, insieme ad alcuni paesaggi imparentati - in qualche
misura - con le prime meditazioni pittoriche.
(1) Articolo comparso sulla Gazzetta di Mantova del 12 gennaio 1985 e
nel catalogo della mostra “Domenico Gentile. Tatuaggi 1990 – 2000”,
tenutasi al Palazzo del Senato a Milano nel 2001.
D. Gentile, La balaustra, 1982, acrilico su tela, cm 80x60.
640
Racconti sul nero
Occorre poi aggiungere che la tela (la scena) tende alla massima
Carlo Cioni
semplificazione. Pochi elementi sono difatti sufficienti per far po-
(1)
sto al dipingere, grazie ad una severità di impianto che ha acLa prima impressione è di entrare in una camera oscura. Ogni volta
compagnato il pittore fin dalle prime esperienze, portandolo ad av-
che osservo la pittura di Cioni avverto questo effetto sconcertante:
valersi soltanto di quel minimo che consente alla scena di essere
mi pare di guardare attraverso un velario, come se i fatti visivi che
tale, senza altre impalcature, addobbi e presenze che non siano
mi accerchiano, si spegnessero improvvisamente ed invocassero
il nudo sfondo e il segno.
il silenzio. Non trovo da nessuna parte uno spazio agibile, una res
Detto in altri termini, ciò che importa è il configurarsi della ma-
extensa, qualcosa che il mio corpo (il mio sguardo) sappia per-
teria luminosa su uno schermo indifferenziato ed oscuro, quasi che
correre secondo misure comuni. Devo anzi dimenticare la pesan-
Cioni cavasse dalla notte, da un ventre senza fondo ma pregno di
tezza fisica dello sguardo, la sua fame di colori, per andare nel cuo-
virtualità e potenze, tante figure dormienti, e le spingesse a ma-
re della rappresentazione e soltanto allora, quando ho accolto la
nifestarsi.
costrizione dell’opera, ri-vedo quel che ho perduto. O meglio: lo
Le tira fuori ma non le esaurisce, giacché mentre le invita ad
riconosco ad un livello diverso, saltando di piano e sciogliendo un
esporsi, contemporaneamente fa in modo che si mantengano allo
gran numero di legami con il mondo contingente.
stato nascente, restino diafane, simili a germogli. Tant’è vero
Al posto del quotidiano e delle percezioni provvisorie si sono in-
che, pur adottando i protocolli dello scrivere e del disegnare, ri-
sediati altri motivi, immagini e nomi più intimi: le figure in certo
balta sistematicamente il criterio rassicurante del nero sul bianco
modo essenziali del pensiero. Capisco che la cornice del quadro
della pagina. Impedisce che l’immagine prenda radici, diventi una
delimita una zona appartata dove vivo una vicenda di riconosci-
cosa computabile e conclusa. Magari la pianta su un’ombra o la
mento e finisco con l’imbattermi nei segnali di contatto, un con-
attraversa con un raggio. La rende fluida, alonata, fluorescente, li-
tatto sia pure riflesso e mediato dall’immagine, fra la mente e la
quida, al punto che la nerezza tradizionale del disegno si spande
parte nascosta della realtà.
negli andirivieni lattiginosi dei filamenti e degli sfumati, rovesciando lo scuro nel chiaro e generando tracce labirintiche sulla voragine del fondale.
A riprova di una così spiccata atemporalità dello sfondo, si veda
come l’autore sospenda lo spazio e crei l’intervallo quando compone le piccole sculture di filamenti, i reticoli di cubi, ellissi, forme
ovoidali, modellandoli col gusto della araldica e delle imprese. Lo
spazio è insomma zittito, reso muto e impredicabile. Senza tempo.
Che vuol dire questa struttura compositiva, tutta giocata nel dialogo del retroscena notturno con la peripezia della figura, del supporto con ciò che vi appare? Non vi è forse adombrata un’idea
della pittura come narrazione continua, altalena del segno sull’orlo
dell’ignoto? Non è la lingua sorpresa nel momento aurorale? Il
tema scorre, si snoda, delinea topografie e percorsi, accendendo
della sua temperatura tutta una varietà di atmosfere mentali.
Di-scorre ed un simile peregrinare è la sua storia: tesse la tela
sempre pencolante sulla vastità di un fondo lasciato enigmatico
ed aperto ad ulteriori domande.
C. Cioni, Tutto sotto controllo, 1979, rame e stagno, cm 21x21x21.
Proviamo ora a dar corpo a questa rappresentazione, un corpo vo-
641
glio dire mitografico.
dal vento depose un uovo da cui «balzò fuori un dio con le ali
Una delle più antiche leggende sull’origine del mondo (ed è Ke-
d’oro, chiamato Eros, dio dell’Amore»; divinità che i greci chia-
rényi a proporla in Miti e misteri) parla dello spazio cavo e tutto
mavano Fanete, nome col quale «si alludeva a ciò che il dio aveva
spalancato, del caos e della figlia del caos, dalla quale nacque
fatto appena nato: egli aveva portato alla luce e aveva mostrato
l’universo visibile. Questa figlia era Nyx, la Notte, che fecondata
quanto fino a quel momento era nascosto nell’uovo d’argento, cioè
C. Cioni, Dal pendolo immobile 7, 1983, acrilico su tela, cm 70x70.
642
C. Cioni, Dal pendolo immobile 9, 1983, acrilico su tela, cm 100x70.
643
il mondo intero. Sopra, una concavità: il Cielo; sotto: il resto», la
cornice di due versanti in frizione: quello delle cose appartenenti
Terra.
al tempo lineare e l’altro delle forme ispirate al tempo fuori dal
Inutile continuare. Quel che si è trascritto basta a dar conto della
tempo, del chiuso e dell’ ‘aperto’), di Kronos e del Caos.
sintonia tematica di Cioni con il racconto arcaico e soprattutto del
Perché altrimenti adotterebbe i materiali tecnologici, il plexiglas,
fatto che, adottando costantemente il motivo della genesi, l’arti-
l’acciaio, i colori acidi? O le formule algebriche, i ritagli di stampa?
sta si serve della grammatica del mito e di una logica che si
Non è certo per caso che in una tela dell’82 i meccanismi del-
esprime per mezzo di figure: figure, questa volta, della pittura, del-
l’orologio vengano smontati, dispersi e fatti brillare come una co-
l’occhio e della superficie. Difatti il fondale, operando in parallelo
stellazione sconosciuta.
col mitologema che la leggenda verbale consegna alla parola
L’ansia di restituire all’oggi il senso della precarietà, riportandolo
Nyx, metaforizza l’oscuro grembo del quadro, giacché l’abisso, per
al confronto con ciò che ha rimosso, si fa particolarmente strin-
sua natura indicibile, si lascia percepire nei traslati: qui negli stati
gente negli ultimi anni, da quando, pressapoco intorno al ’79 - ’80,
allusivi del dipingere, in quel nero partoriente e al tempo stesso
il dettato pittorico ha coinvolto esplicite questioni semantiche, cer-
minaccioso che vediamo steso in un gran numero di tele e che di
candosi nel contesto delle icone già date, nella storia del museo
recente l’artista è tornato a frequentare con insistenza, insieme alle
e della rappresentazione.
immagini delle tempeste e dei luoghi sommersi.
Ne è nato improvviso (ed imprevisto) un ciclo di paesaggi e di
Naturalmente sa bene che il mito non è ciò che vuol rappresentare, ma soltanto una modalità espressiva per avvicinarsi al proprio oggetto, un gioco di specchi, una finzione. Crede però nella
tensione che lo genera e nell’ostinato pronunciarsi dei segni,
nella forza ‘indicativa’ di cui sono carichi, pur essendo condannati
a restare ai margini del nucleo che vorrebbero afferrare. Se il primo
e fondamentale dialogo avviene dunque tra il fondo e il racconto
che lo interroga, corteggia e commenta, quest’ultimo da parte sua
mette in moto un meccanismo costruttivo legato all’antitesi e alla
complementarità degli opposti. Come nell’uovo dischiuso da Eros,
due parti si affrontano e si attirano, ora trovando delle possibilità
d’incontro ed ora restando cieche di fronte ad esse. Non sempre
il Cielo, per servirci di una metafora, si ricorda della Terra; o la Terra
della Luna. Se il pittore considera la sterminata produzione di immagini che l’occhio ha tramato per secoli, si accorge anche dell’infedeltà alla buia sorgente del linguaggio. Vede il bivio che distingue le differenti tradizioni pittoriche e decide per quella della
memoria, imboccando una via pensosa degli archetipi figurali e
delle invarianti simboliche (il mandala, la cupola, la stele), che promettono di superare l’angoscia dell’ignoto mediante una ritmica
armonizzante. Non per questo tuttavia lascia cadere l’impegno ad
esistere qui ed ora, nel disagio della storia contemporanea, poiché è vero invece il contrario. Cioni fa i conti col presente. Vi si tiene dentro e lo vuole cambiare di segno. Se non fosse così, non riusciremmo a spiegarci la simultanea presenza entro una medesima
C. Cioni, Dalle cose fuori, 1981, tecnica mista, cm 46x33.
644
nudi, una serie figurativa composta di effigi riconoscibili e di ma-
l’alto. Le case sono dure, cristalline, fredde, quasi ritagliate con una
teriali dotati di senso comune. Sono paesaggi, però, mentali, af-
lama. Eppure si animano grazie al calibratissimo passaggio dal-
fidati alla tensione del campo pittorico, ricomposti nel principio del-
l’oscuro al chiaro al brillante, nell’intimità dello stesso colore. È il
l’alone, della luce radente, della mitica potenza di Phanes. Ed ha
campo, con la sua scansione tripartita, a renderle significanti. Tutto
ragione Sergio Salvi allorché sostiene, in un suggestivo ragiona-
il resto, raggio compreso, prepara, mette in situazione e fa scat-
mento intorno all’azzurro (un azzurro, si badi, partorito dal nero),
tare quel battito unitario.
che senza i rapporti di «campo» la pittura di Cioni appare incom-
Altrimenti si consideri la versione di una Venere tizianesca iscritta
prensibile. Senza quell’«abisso» che avanza e sprofonda, si spe-
in una ottenebrata forma ovoidale. Anche lì c’è il racconto, il ful-
gne e s’accende, il segno perderebbe ogni forza propulsiva e ci da-
mine che precipita sul corpo sdraiato, in controcanto per altro col
rebbe unicamente una smorta evidenza iconografica; nel caso
Cupido dell’olio originario. Ma ancora una volta si tratta di un pre-
migliore, indicherebbe le ragioni di una poetica, ma non quelle
ludio, poiché l’effetto ultimo e sintetico è dato dall’arrossamento
della pittura.
che invade la scena in dialettica col nero della finestra-perimetro.
Un esempio fra i tanti. Si prenda la tela dell’83 scompartita in tre
Il corpo, la grotta, il volto, la città: ecco in breve i temi che si al-
fasce orizzontali, col profilo oltremare e blu degli edifici (tra i quali
ternano nei quadri e nelle carte dopo l’Ottanta, riverberandosi gli
una torre) nella parte mediana. Un filo d’oro lega una cuspide al-
uni sugli altri e in certi casi sovrapponendosi, specie nei collages.
Segno che tra loro lo sguardo stabilisce una stretta correlazione,
se non una coincidenza. Edificare la casa vale quanto dar forma
ad un’identità psichica e culturale. Non ci sarebbe neppure bisogno di ricordarlo, tanto è evidente. Quel che va piuttosto sottolineata è la proiezione aurea, diamantina e spirituale inseguita dall’artista; e il pensarla come rinascente dai tracolli del tempo. Per
questo e non per altro, mi sembra, ha dirottato il viaggio nei paesi
dell’arte. Rivisita Brunelleschi, Beato Angelico, Cranach, Bellotto e
tanti altri autori fino all’appartato e scontroso Rosai, guardandoli
con l’animo di chi sta in bilico tra due epoche, tra immagini spezzate, inondate, travolte dallo scorrere delle ore e la possibile ripresa. Li chiama «pretesti», occasioni di rifacimento. Il che vuol dire
anche testi anticipanti, luoghi che ritornano, per far leva insieme,
dopo essere stati sommersi o restando appunto sommersi, sulla
soglia della ‘camera oscura’.
Per concludere, vorrei lasciare ad un’opera il compito di introdurci
oltre il velario, un’opera tra le più riuscite di questo biennio e per
me la più toccante: la cascata d’acque dal cielo d’oro; con le sue
rocce cupe, leonardesche, cifrate di cristalli. Vi è condensato il
senso di una stagione che ha sperimentato il doppio senso del
naufragio. L’idea del diluvio come fine e ricominciamento.
(1) Scritto in occasione della mostra “Carlo Cioni”, Sala d’Arme di Palazzo Vecchio,
Firenze, 12 gennaio-24 febbraio 1985.
C. Cioni, Dal pendolo immobile 4, 1983, acrilico su tela, cm 100x70.
645
Fantasma
Ferruccio Bolognesi
mandargli. Potrei dire anzi che, se in altre circostanze erano stati
(1)
versi e musiche di artisti barocchi a suggerirgli la trama di un
percorso fantastico, questa volta (e probabilmente in aggiunta
Fantasma è parola sulla quale Ferruccio Bolognesi è tornato a
dalla memoria dei vecchi ascolti) la spinta gli è stata fornita dalla
soffermarsi con passione e senza riserve in questi ultimi mesi.
normalità sonora della prosa scritta e al più dialogata nei collo-
L’ha ascoltata, soppesata e pronunciata in tanti modi possibili.
qui di un’estate con l’autore di quei saggi.
Infine l’ha tradotta e visualizzata in una galleria di immagini,
La genesi della mostra sta in buona parte lì, nel fervido rilancio
spinte a reagire già mentre nascevano, con una famiglia di voci
e nell’accalorata commistione di echi nuovi e meno nuovi che si
che due testi per lui carichi di suggestione, Sulla pelle dello
sono conquistati lo spazio sufficiente per diventare scenario. Il
specchio e Costumi come simulacri, non hanno smesso di ri-
che spiega, secondo me, come e perché le immagini non ab-
F. Bolognesi, Suonatrice d’arpa, 1984, tempera su tela, cm 60x70.
646
F. Bolognesi, Costume per una favola, 1974, tecnica mista su carta, cm 51x36.
647
biano potuto imboccare e tantomeno concludere un itinerario or-
stata la freccia del tempo.
dinato, ma abbiano assunto al contrario una dislocazione inter-
Già qualche anno fa, nella messa in scena della Dafne di Marco
mittente, analogica, evocativa, e di fatto, una volta esposte,
da Gagliano, il piacere della pausa prevaleva di gran lunga sulla
diano vita tutte insieme ad una sola grande ombra, ad un unico
rapidità consecutiva. E la stessa cosa avveniva nel Combatti-
‘fantasma’ appunto, che si prolunga in differenti posizioni.
mento di Tancredi e Clorinda, dove i personaggi obbedivano si-
Così, per quanto alcune figure (per esempio i costumi delle "In-
gnificativamente al regime del mistero e balzavano come d’in-
grate") lo invitassero a circoscrivere dei luoghi privilegiati o a
canto nella scena, deserta sopra due trapezi volanti, nel buio as-
scandire un racconto, un minimo di sequenza e di storia, a dram-
soluto e quasi in stato di levitazione. Movimenti lenti, lentissimi
matizzare insomma lo spazio, magari in ossequio a certo folklo-
e bloccati: ecco i tempi prediletti fin da allora (e ben documen-
re della sartoria teatrale, il non-racconto ha finito col prevalere.
tati nei fogli di regia), a dimostrazione del fatto che l’emozione
E se una trama è sopravvissuta, la vedo sempre intermittente,
è intensa quando fa tutt’uno con l’istante dilatato, quando le fi-
discontinua. Un’ombra anch’essa.
gure stanno sospese in atmosfere sognate e sonnamboliche.
Teatro statico, quello ora proposto, nel senso che mette tra pa-
Forse l’antefatto più pertinente delle immagini composte di
rentesi la parabola ascendente dei fatti per puntare subito su
getto negli ultimi mesi dobbiamo vederlo nei disegni eseguiti
un’apparizione centrale, sugli stupori che un accadimento spri-
nell’81 per illustrare i Luoghi dell’Eneide tradotti da Annibal Caro,
giona quando è osservato al rallentatore. Ferma l’azione, contra-
non soltanto perché il segno vi esibisce un andamento retratti-
F. Bolognesi, mostra Simulazioni d’ombre / fili, lamiera, pittura, teatro, Casa del
Mantegna, 1985 (foto di Franco Piavoli).
F. Bolognesi, mostra Simulazioni d’ombre / fili, lamiera, pittura, teatro, Casa del
Mantegna, 1985 (foto di Franco Piavoli).
648
le, si contorce e ondeggia in ghirigori che sembrano fatti appo-
guineità diretta, un efficace andirivieni immaginativo. Tutto il
sta per volatilizzare l’ordine del racconto (come spesso era acca-
resto, griglia compresa, ha valore strumentale, fa da ponte fra di
duto per scene e costumi), ma per la loro stretta discendenza sti-
loro. È uno smorto attrezzo. Dico smorto perché l’ombra avanza
listica e strutturale da quelle grafie. A forza di scavare, appiatti-
invece viva, mobile e respirante. Recita in modo diverso a se-
re e sottilizzare i corpi scenici, Bolognesi è arrivato a modellare
conda dei luoghi e delle intensità luminose.
un esiguo telaio visivo, una griglia di fili metallici e di veli in fun-
È vero che il suo movimento è silenzioso, appena percettibile. Un
zione dell’ombra. Oggi i personaggi e gli oggetti vivono in rap-
alito. Ma intanto arriva dappertutto per via di trasparenza. Così il
porto alla luce teatrale che li attraversa e ne riverbera le sago-
buio esce, per dir così, da sé stesso, e vien portato alla luce,
me nella cavità degli ambienti. Giocano sulla scala dello spetta-
come avviene per il vuoto e per gli intervalli.
tore e, oltre a ciò, quasi si trattasse di grafemi sfuggiti all’anco-
A proposito poi dell’acromatismo non sono sicuro che sia proprio
raggio dei fogli, trasferiscono nello spazio aperto delle stanze il
assoluto. Certo il colore come pigmento non compare. E questa
filo secco del disegno puro, senza sfumato, acromatico. Se non
mi sembra la differenza più marcata con le figure dipinte di al-
fosse per la proiezione ingrandita che cala sui muri e talvolta ci
cuni anni orsono. Eppure la timbricità che l’artista aveva portato
sfiora, non ci accorgeremmo neppure della rigidità della griglia
ad un alto grado sonoro nell’uso del colore non è del tutto per-
metallica.
duta.
Dunque è tra il disegno e l’ombra che si stabilisce una consan-
È sottesa ai riverberi, oltre la soglia del pittoricismo.
F. Bolognesi, mostra Simulazioni d’ombre / fili, lamiera, pittura, teatro, Casa del
Mantegna, 1985 (foto di Franco Piavoli).
F. Bolognesi, mostra Simulazioni d’ombre / fili, lamiera, pittura, teatro, Figaro, Casa
del Mantegna, 1985 (foto di Franco Piavoli).
649
F. Bolognesi, Cavallo di Troia, 1989, legno grezzo, cm 240x220x65.
650
F. Bolognesi, mostra Simulazioni d’ombre / fili, lamiera, pittura, teatro, Casa del
Mantegna, 1985 (foto di Franco Piavoli).
F. Bolognesi, mostra Simulazioni d’ombre / fili, lamiera, pittura, teatro, Marte, Casa
del Mantegna, 1985 (foto di Franco Piavoli).
Se l’occhio ha rinunciato alle cromie, non credo che l’abbia fatto
Non so di che cosa si tratti esattamente. Né mi importa saperlo.
perché i fantasmi, stando ad una paurosa superstizione, sono in-
Mi basta vedere che l’ombra gioca e che Ermes può essere un
vidiosi del colore. Una simile versione del fantasma non trova
clown.
credito da Bolognesi.
L’importante è che sia chiaro.
L’ombra per lui è un’altra cosa: è magica. Quindi possiede tutte
E che sia finzione, cioè “spogliazione di carne che raddoppia il
le virtù di trasformazione per far circolare il più potente degli os-
melos del melodramma”, come Gino Baratta aveva anticipato.
simori, quello del buio che, zampillando nell’aperto, diventa luce;
del latente che si fa figura.
Poco fa ero quasi tentato, osservando le trine e i veli, di parlare
di messinscena al bianco, ma ora respingo la tentazione, anch’essa superstiziosa e di fatto estranea all’intima sostanza delle
immagini. Questo scenario è chiaro (finalmente l’aggettivo giu-
(1) Scritto in occasione della mostra “Simulazione d’ombre. Fili lamiera
pittura teatro”, tenutasi presso la Casa del Mantegna, Mantova, 18 maggio-30 giugno 1985.
sto), di una chiarezza, diafanità e trasparenza che appartengono
ai momenti inaugurali di un qualche spettacolo.
651
Paesaggio & Paesaggio
È la loro, si direbbe, una trasmissione indiretta, fatta soprattutto
Visioni liminari
di echi discreti, di rimbalzi e riverberi, anziché di effigi clamoro-
(1)
se e troppo definite, ma cionondimeno resta viva la trama di seRestando sulla soglia delle immagini adunate in questa mostra
gnali che hanno lanciato: una trasmissione ancora in viaggio e
e ponendoci volutamente sul limine di una stagione, la nostra,
da ascoltare con attenzione; o da riscoprire anche negli effetti
che torna a riflettere, almeno in figuris, sulla dicibilità del pae-
che sta determinando.
saggio, ci pare suggestivo e al tempo stesso necessario convo-
Ora, quel che di simili sguardi importa, al di là della comune con-
care alcuni sguardi singolari e irripetibili, straordinariamente in-
giuntura generazionale e nonostante la imparagonabilità delle
tensi che, mentre si sottraggono al gioco delle conseguenze e
loro esperienze, ciascuna delle quali si è connotata nel tempo di
dei ricalchi immediati (sguardi che senz’altro non fanno accade-
un suo specifico percorso, è l’uso di un tòpos, il paesaggio ap-
mia), fermentano più o meno in segreto nel corpo della pittura
punto (ed il paesaggio in senso fortemente antitecnologico),
attuale: non in tutta, certo, ma in qualche zona fra le più risenti-
come di un ‘luogo’ favorevole alle visioni. Visioni folgoranti che
te e meditative.
trasformano, attraversano gli orizzonti, li capovolgono, se non
Emilio Tadini, Il posto dei piccoli valori, 1983, acrilico su tela, cm 150x200.
652
addirittura svuotano e traducono in spoglia quel luogo di emo-
ne le risonanze, facendo respirare le pause in cui sono avvolti e
zioni. Anzi lo tramortiscono spesso, ma per farlo rinascere.
gli inevitabili vuoti del discorso.
Senza dubbio a questi occhi solitari, innamorati del silenzio, altri
Proviamo ad allinearli provvisoriamente secondo un ordine
potrebbero essere accostati. Ma lasciamo che siano essi stessi a
esterno, anagrafico, nel giro dei cinque anni che li videro nasce-
richiamarli, per necessità interna. Da soli bastano ad incentivar-
re: Guidi, Licini e De Pisis. E da quest’ultimo accogliamo la prima
Renzo Schirolli, Ora più che mai, paesaggio 1285, 1985, olio su tela, cm 280x280.
653
indicazione, quell’idea della fantasmaticità degli oggetti e del
parola. E che De Pisis invece, insieme ai “metafisici” di Ferrara,
paesaggio che qui importa evocare. Scriveva nel ’20 l’autore
intendeva riattingere attraverso un segno reso di nuovo efficace
della “Città dalle 100 meraviglie”: “Per il nuovo artefice quello
dalla febbre della sua stenografia amorosa e medianica. Un
che sussiste soprattutto è il problema spirituale. (...) Più della
segno covato nei riti interiori della “camera ottagonale”.
forma delle cose gli interessa la loro psicologia e non sentimen-
Che ne è ora di quel sogno? È forse naufragato nel diffuso disin-
tale e aneddotica, ma semplice e per così dire spettrale di real-
canto della tarda modernità?
tà incommutabili”, aggiungendo poco dopo che “il più grande ar-
Se così fosse, perchè mai continua a toccarci, custodito, com’era,
tista di domani” riuscirà a suscitare “i demoni celati nelle cose”.
già al suo nascere, dall’ironia e dalla reticenza, in qualche modo
Quei medesimi demoni, forse, quella “vita più alta” degli esseri
difeso dal silenzio? Quei segnali (quei sogni) corrono. E corrono,
muti, che von Hofmannsthal aveva visto fermentare davanti a
si badi, senza lasciarsi addormentare nelle acque torbide di una
sé, disperando di poterla avvicinare per l’inadeguatezza della
superstiziosa irrazionalità. Restano limpidi e magici, di una
Concetto Pozzati, Lassù sulle montagne, 1970, olio e acrilico su tela, cm 175x200.
654
Tancredi, Senza titolo, 1953, tecnica mista su carta intelata, cm 70x100.
magia che non è mai né cieca né sregolata. Tant’è vero che
“Tu sai - leggiamo nei versi dell’ Età improbabile - che il moto
sempre si sposano con una sorvegliata disciplina del segno e
del sole / sublime e testardo,/ disegna il cerchio / che accoglie
dell’esperienza, invocano il rigore formativo della pittura, perfino
tutto e tutti; / tu sai che la sola certezza, / la sola bellezza / è
la geometria, ma una geometria per nulla coincidente con quel-
in quella immensa / combustione di fuoco”.
la ‘amministrativa’ delle cose.
Il cerchio, si potrebbe pensare, è l’emblema perfetto del compi-
Soprattutto, di quegli sguardi, importa indicare l’approccio al pae-
mento e della immobilità. Ma in Guidi non è soltanto così. Vivo
saggio secondo l’ora e il tempo, prospettato da distanze incom-
nel dinamismo ciclico del ritorno, la sua “bellezza” (certamente
mensurabili, mentali, fantastiche o, al contrario, da prossimità
intrisa di nòstos classico) è turbata, anzi nutrita dall’ansia: vuole
estreme agli oggetti e quasi ‘fissate’ nella tensione della con-
il dubbio e una perpetua morte, cerca l’improbabile nei corpi e
centrazione riflessiva.
nelle ombre; non può vivere senza incarnarsi. Per questo si co-
Vien da Guidi, per esempio, l’incrocio dello spazio con l’ora me-
niuga col paesaggio, che è una delle sue ombre necessarie.
ridiana, con la luminosità a picco, zenitale, che non è mai chia-
Per intenderne il tragitto tumultuoso, basterebbe ricordare l’agi-
rezza d’atmosfera, ma dilatato respiro di un luogo e pulsazione
tato combattimento col presente, l’attitudine all’ira e alla ven-
del colore; cosmogonica fatica di un principio generativo in pe-
detta, il terrore di fronte ad un mondo senza dei.
renne (chiasmatica) incandescenza.
In un’epoca imprigionata nell’inerzia e percorsa dai venti del-
655
l’Accidia e del Malanimo, sospesa “tra il nulla e il tutto”, in
alito, battito del funambolo lunare.
un’epoca in cui “è scaduto anche il delitto”, il dubbio, con la sua
Fin dal principio, dagli Angeli e dagli Arcangeli, dai paesaggi di St.
“formidabile coda di fuoco”, attizza il desiderio di risalita e la
Tropez e Monfalcone, le figure liciniane invocano la liberazione dai
sete di luce. Così, in questo giro ‘insicuro’ dell’esperienza, il pae-
pesi, le linee del movimento e la grazia del volo. E non è certo per
saggio, un certo paesaggio, si offre come un alveo materno, di-
caso se la prima scelta formale si orienta rapidamente verso il
venta l’appoggio salvifico. È l’ombra che splende nel punto esat-
montaggio arabescato e sospeso. Nei paesaggi la linea ondulante
to in cui verticale e orizzontale conoscono l’istante eccezionale
dell’orizzonte assume presto un andamento inclinato, mobile,
dell’equilibrio: non un orizzonte qualsiasi, ma quello ritornante e
oscillante, rompendo con i punti di vista e le distanze tonali.
inconfondibile della marina, il solo specchio capace di catturare,
Poi, man mano, la spazialità si dilata, si consuma la traslazione
senza incenerirsi, una vita altrimenti inattingibile.
dal concreto all’astratto all’astrale, senza che un simile tragitto
E se alcune immagini si incaricano di testimoniare il dramma
acquisti il valore e il senso di una disincarnazione. Infinite volte
della separatezza e dell’ascesa, ve n’è una, nata negli ultimi
si compie il percorso dalla terra al cielo o dal cielo alla terra,
anni, che recita - in termini di paesaggio ancora terrestre - lo
come se lo stare in bilico (tema ossessivo in Licini) volesse dire
scontro col “potere infernale” del Nulla: il “nulla” devitalizzato
porre in ‘miracoloso’ equilibrio due mondi, incernierare risonan-
dell’ “immensa società anonima” in cui “si deforma il secolo”. Ed
ze contrarie. Ma precipitare nell’ossimoro il puro e l’impuro è
è allora una metafora singolarmente autobiografica a prendere
anche un modo per conferire respirazione ed anima all’Ignoto,
quota sulle tele: la figura dell’albero che può anche crollare: “Ho
all’immenso vuoto dello spazio esterno, o - antifrasticamente -
visto in sogno la natura / atterrita, / massacrato il suo volto
per scavare misteri nelle “verdi lande” della terra. Non solo il
verde; / ho visto fuggire i monti, / e oscurarsi la luce, / e in-
paesaggio reale contiene i segreti delle costellazioni, i misteri
quinarsi le acque”.
della notte, ma splendide e irraggianti geometrie si annunciano
Viene da pensare allora che, accanto e dopo le marine e gli oriz-
nei profili delle campagne e dei paesi, nelle rare presenze ani-
zonti assoluti (che pure bruciano al rosso), proprio la fragilità del-
mali. E soprattutto le Marche, tante volte dipinte nel periodo
l’albero guidiano, questa presenza combattiva e talvolta “massa-
‘realista’, custodiscono il presagio del croissant lunare, della T,
crata”, si riveli consanguinea a certi turbamenti odierni della pit-
dei tralicci aerei.
tura. Come se si caricasse di responsabilità epocali e avvertisse
Certo, dopo il viaggio nell’“oltretomba”, la memoria mitica tra-
il sempre più soffocante accerchiamento di simulacri e di opache
finzioni, l’imago cresce solitaria, vive e s’innalza a dispetto della
tempesta che la circonda.
Situato nella zona di confine fra l’inautentico e l’attesa dell’implausibile luce, in un esilio da cui rimbalzano gli accenti biblici
della vanitas, le memorie del Qohélet e di Giobbe, l’albero insinua
nel deserto la scintilla di un’ostinata e problematica ansia: “Forse,
bella parola: “forse”
eguale a speranza”.
Di genesi assai diversa, se non addirittura divergente, avendo
come scrigno ispiratore l’imagerie notturna, sono invece i pensieri sulla fragilità di Licini: una fragilità che non è più misura
marginale, bordo da cui si resiste e dal quale si testimonia, ma
costruttivo punto centrale a favore dell’Irrealtà.
Enrico Baj, Montagne sur tapisserie rose, 1958, tecnica mista, cm 130x162.
Fragile, per sua stessa natura, il segno, il fantasma, la pittura:
656
svaluta ogni possibile orizzonte in esperienza mentale, ma non
ai bordi del silenzio, ma non astratto e incenerito. Il pittore in-
per questo lascia cadere ogni associazione col sensibile.
terpella i poteri ultimi del segno e li sonda fino al limite di rot-
Ma se si oltrepassa la mirabile stagione dei simboli, il récit dei
tura dei simboli.
traghettatori, degli Olandesi volanti e delle Amalassunte, è forse
A tanta altezza (o profondità) prende forma un paesaggio astra-
illecito chiamare paesaggi le ultime visioni di Licini, i notturni, le
le, una visione di pura intensità e vibrazione, dove giocano,
marine, gli estatici fondi dei Missili lunari, composti fra il ’54 e il
come ha osservato Zeno Birolli, memorie e analogie col vivente,
’57? Non ci sembra. Il fatto è che le cose vengono (anche leo-
con l’ora e i cicli del tempo: “il colore sale alla sua massima pre-
pardianamente) immaginate da un parapetto altissimo, teso fino
senza (...), è fatto di sé, dei suoi propri vapori e respiri, della sua
Giosetta Fioroni, Paul’s garden, 1983, olio e smalti su tela, cm 200x230.
657
Pier Achille (Pirro) Cuniberti, Dai racconti del meteorologo P., 1983, acrilico, matite colorate e china nera su masonite, cm 32x28.
658
diretta analogia variabile con i momenti del giorno: un’alba, un
o la linea azzurra, marina, della Natura morta con penna, scuo-
notturno, il dipinto”.
tono i gusci del visibile, agitando drammaticamente gli accordi
Dunque le cromie, per quanto si rifrangano (ma meglio sarebbe
fra le figure, ma perché tutta l’opera mostra un esemplare per-
dire: risuonino) vertiginosamente sulla curva ormai capovolta
corso nelle regioni magiche della spettralità. Ore di ‘brivido’, di
della terra, non la perdono di vista. Semmai la traducono, tal-
androginia fantastica e di fosforica cigliazione, quelle del Mar-
volta nel riscontro di un breve tratto obliquo d’orizzonte, in mu-
chesino pittore, dove il fremito dei “nervi e del sangue” deter-
sicale emblema visivo, in un segno raro e prezioso che ne con-
mina l’incontro col mondo.
serva per virtù ermetica, come suggeriva Licini con amabile re-
Anche quando si avvale delle proprietà centripete della camera
ticenza, il ritmo e il quintessenziale sapore.
ottica, l’assetto delle vedute mantiene allo stato di fusione il tes-
Quanto a De Pisis (senza dimenticare l’ostinato, ascetico e irridu-
suto dei segni e delle barre luminose. E nella febbre pulviscola-
cibile scavo morandiano sulla diafanità delle immagini), la qua-
re l’emozione panica suggerita da uno spettacolo naturale, da
lità fantasmatica del paesaggio assume addirittura un valore te-
una piazza o da una contrada, finisce per coabitare con le appa-
stamentario. E non soltanto perché le opere tarde ed estreme,
rizioni interiori.
gli albatri sulla spiaggia, le larve bussanti ai vetri di Villa Fiorita
È un montaggio imprevedibile, un moto quasi di risacca visiva.
Mario Schifano, Bambino pittore (I), 1985, tecnica mista su tela, cm 160x220.
659
Giorgio Bellandi, L’albero del mio inverno, 1975, olio su tela, cm 200x200.
660
Graziano Pompili, Paesaggio col fico, 1984, terracotta bianca dipinta, cm 75x50.
661
Davanti all’occhio, proprio sulla soglia, vengono ad arenarsi le figure immaginarie. Si ingrandiscono per via
d’amore, dettando pause, distorsioni prospettiche, differenti angolature espressive. Ad associarle è la volontà di
comunione, una spinta del ‘cuore’ che vale anche per le
icone sfinite, trovate per caso, perfino petrose. Statue,
pagine di libro, fiori, pesci e crostacei. Sempre agisce il
“bisogno d’amore, sia pure per cose morte e fantasmi”.
Possiamo considerare davvero De Pisis “il più grande vedutista del secolo”, accogliendo il suggerimento di F. Arcangeli? Un vedutista, si badi, non un paesaggista, che fa
ebollire i fuochi visivi.
C’è infine un ‘omaggio’ che val la pena di rammentare,
fra tanti riferimenti prediletti del pittore, quello a Kokoschka. Un omaggio che nasce dal trar partito, dal surriscaldare le spoglie della natura, e che ci consente di evocare quello “sguardo di Dario” che l’autore austriaco
aveva sorpreso in un dipinto di Altdorfer, sentendosi ri-
Gastone Novelli, Nel cielo blu, 1964, olio su tela, cm 160x160.
svegliare “da ciò che gli altri chiamano vita quotidiana”.
“Senza averne intenzione - leggiamo nel saggio Sulla
natura delle visioni - , io estraggo qualcosa dal mondo, e
sono cose. Poi io non sarò più nulla, sarò soltanto un’immaginazione. In tutte le cose, l’immaginazione è quindi
ciò che è naturale. L’immaginazione è natura, visione, è
vita”.
(1) Scritto da Francesco Bartoli e da Umberto Artioli, in occasione della mostra “Paesaggio & Paesaggio”, Palazzo Ducale, Mantova, 19 maggio-28 luglio 1985.
Vasco Bendini, La ballata dei dieci cieli (V elemento), 1983, olio su tela, cm 190x190.
662
Appunti
dal lento al veloce, dall’isolato al rinfoltito. Ha camminato e
Chiara Dynys
(1)
forse (data la sostanziale ininfluenza del fondale) pencolato
sul vuoto.
Comunque la si consideri, dalla parte dello spazio o da quel-
Dapprima ha sondato il senso degli appoggi intermittenti,
la del tempo, la pittura recente della Dynys ha a che fare con
sfiorando appena il campo cromatico (le “tracce”), poi ha ir-
ritmo. Intessuta di scaglie e screziata come un serpente, vive
robustito le pronunce, incorpato le materie per sovrapposi-
sull’iterazione del colore-timbro. Più che il movimento conti-
zione. E talvolta, ridando fiato ad una battuta, ha abbozzato
nuo, più che il morbido fluire del pennello, cerca la battuta; e
un gesto di annientamento di quel che s’era sedimentato
insieme alla battuta, lo stacco e il taglio.
sulla superficie e l’ha annegato in una mareggiata di smalto
Osserviamo la mano ritrarsi dopo aver toccato la tela. E se lo
come in un’estrema colata di accelerazione.
sguardo afferra il motivo per subito abbandonarlo, se lo in-
Ora la pittura cresce per assiepamento. Mentre, fino a qual-
terpella e torna a lasciarlo, ciò dipende dall’essere, il dipinto,
che mese fa, un medesimo tema nucleare, costruito in ge-
un esercizio puro di tesi, arsi e cesure, un andirivieni in punta
nere su un blocco serrato di timbri giustapposti, ondeggiava
di piedi sull’orlo del visibile.
lentamente per fasce orizzontali o diagonali, nuotando in
Si direbbe una mano che cammina. Tant’è vero che, nel giro
certo modo al di sopra del fondo, oggi l’assembramento di
di un anno o poco più, ha scandito varie partiture del passo,
barre ha fatto svanire nel nulla l’idea di un luogo, sia pure distante, di riferimento, ha chiuso la finestra entro la quale osservare e iscriversi.
Conta il riverbero, il pullulare del colore. E il cagliarsi. Il solo
orizzonte possibile lo si coglie infatti in avanti, nella precaria
emergenza e nello sbattere delle paste in primo piano.
All’assolo di un dato germinale è subentrato l’agitarsi corale
delle pellicole prive di attracco. A strappi e addossamenti balena uno scenario di tessere: un mondo senza radici che si
sforza di insistere sulle virtù agglutinanti del ritmo. Si sfoglia
e ricompone. Stringe relazioni. Soprattutto fa corpo in se stesso, inventando le proprie cadenze.
Da ultimo, dopo gli accenti smaglianti delle “sovrapposizioni”
con le loro godute e scoperte movenze decorative, un severo partito cromatico sembra essere calato sulle opere. I rossi
e gli incarnati, così frequenti in passato, sono introvabili. Resistono soltanto i neri e i bianchi, gli argenti di piombo, gli ori
e gli azzurri: colori che, pur attraversandosi e lavorando gomito a gomito, appaiono fermi, serrati come tessere. Fanno
pensare a frammenti di lontane pitture: cieli a pezzi degli antichi.
(1) Il testo, senza data, è stato rinvenuto in forma dattiloscritta. Non
è stato possibile risalire alla data certa. Si ritiene possa essere stato
scritto nel luglio 1985.
C. Dynys, Senza titolo, 1985, acrilici su tela.
663
Echi riflessi
Carlo Bondioli Bettinelli
Nel primo caso mi pareva chiara la volontà di annullare il pre(1)
sente. L’occhio e la mano erano infatti impegnati a ripristinare
una situazione perduta, a far sì che dal foglio rimbalzasse ancor
Avevo annotato qualche tempo fa due curiosi esercizi di Bondio-
viva la medesima condizione sentimentale e operativa, fisica e
li: uno era volto a rileggere, anzi a rifare su lastre per acquafor-
mentale di una lontana stagione. Non solo: l’immagine veniva
te i disegni di tanti anni prima, combattendo una sorta di lotta
interrotta su un terreno disomogeneo (l’acquaforte invece del di-
contro il tempo; l’altro consisteva invece nel trascrivere grafica-
segno), in un regime, per così dire, di doppia ripetizione, visto
mente delle nature morte immaginarie e impossibili. Dico ‘im-
che all’incisione, ossia alla ‘prima’ copia, sarebbe seguita la
possibili’ perché l’oggetto da ritrarre era il prodotto di un artifi-
stampa.
cio, si componeva cioè di alcuni cartoni ritagliati e di minuscoli
Da quei passaggi avrebbe poi dovuto emergere l’ ‘originale’, o
solidi geometrici che l’autore collocava uno accanto all’altro
quanto meno un’entità carica degli stessi calibri e respiri di un
come se si trattasse di personaggi astratti, forse di essenze degli
tempo. Intatta. Ed era sorprendente per me constatare che ciò
oggetti stessi.
avveniva, tanto che se l’artista non mi avesse segnalato alcune
C. Bondioli Bettinelli, Natura morta, 1985, china su carta.
664
minimali (e volute) differenze, non mi sarei accorto di nulla ed
Nella serie delle chine nere e seppia, tutte legate da un solo filo
avrei considerato omogenei, equivalenti e soprattutto identici i
conduttore, il paesaggio è scomparso. E con esso l’immagine del
due gruppi di lavori.
corpo. Per una volta compare la mano, ma è la mano di un ma-
Stando così le cose, ne viene che la copia e la ripetizione non in-
nichino. Tutto è disseccato, prosciugato, ossificato. Dilaga la nuda
troducono dei sostituti nel senso usuale della parola. Ri-fare per
evidenza oggettuale e una simile scarnificata oggettività coabi-
Bondioli non vuol dire tradire, così come tradurre non significa
ta talvolta con forme spoglie, altrettanto essenziali che sembra-
alterare. C’è dunque uno stato privilegiato in cui le immagini
no uscite da un manuale di pittura olandese del Seicento. Alla
possono ri-presentarsi come se fosse sempre la prima volta,
De Vries. Gli stessi reperti animali, i frammenti ossei e i crani, ap-
quasi venissero sottratte al fluire del tempo.
partengono ormai all’universo minerale. Al teatro delle idee.
Capisco allora (almeno in parte) anche le ragioni del secondo
Una natura morta più estrema di questa credo sia arduo da tro-
esercizio. Per quale motivo ritagliare delle sagome, perché di-
vare.
sporle in un certo modo e ‘fissarle’ in una apparenza definitiva
Eppure non si tratta di una immobilizzazione definitiva. Gli og-
ed unica, se non per secernerne una visione permanente, in-
getti mandano degli echi e vivono nello sguardo che li ha so-
commutabile ed originaria?
spesi e si è confuso con loro. Per convincersene basta conside-
Se ora mi chiedo quale sia la condizione emotiva in cui la visio-
rare l’atmosfera spirituale in cui sono immersi o, per essere più
ne si manifesta, devo tener conto di un fatto singolare. A parte
esatti, che da essi promana. È simile ad un alone. Questa atmo-
la radicalità del ‘secondo’ esercizio che ho appena ricordato, l’au-
sfera è un’aura e un campo di forza. Un’emanazione che si mo-
tore non ha mai praticato esplicitamente l’astrazione, l’aniconismo. Sempre l’ho visto porsi davanti a realtà concrete, a corpi,
oggetti, figure e paesaggi ben riconoscibili; a motivi colti per di
più in presenza, catturati al vivo, perfino in plein air. Il fenomeno lo ha cercato, lo hanno trascinato le ore, certi momenti del
giorno, particolari tagli d’atmosfera.
Li ha anche voluti, questo è certo. E vi si è addossato per carpirne i valori che custodivano.
Quali valori?
Che cosa è rimasto del vivente?
La prima impressione, la più forte, che l’occhio prova davanti ai
disegni è quella di una trasparenza gelata, sotto vuoto. La stessa che si potrebbe sentire, forse, quando arrestiamo per lungo
tempo le ciglia, in stato d’ipnosi, e lo sguardo scorre lentissimo
da un punto all’altro della superficie.
Si potrebbe dire che anche gli oggetti (le loro immagini, anzi)
vengano anestetizzati, fatti levitare come sonnambuli. Così che,
una volta preso un certo ritmo, la figura si costruisce da sé, automaticamente, abbandonandosi alla regolarità di un tratteggio
che ondeggia in varie direzioni, si dissimmetrizza lievemente,
ma per pacificarsi alla fine nell’ordito armonico di una composizione. In un ovale, in un cerchio o nella perfetta giuntura della
C. Bondioli Bettinelli, Vegetazione 1, s.d., acquatinta, mm 425x228.
verticale con l’orizzontale.
665
C. Bondioli Bettinelli
Teschio di pantera, s.d.
inchiostro, cm 24x30.
dula differentemente in profondità e in estensione a seconda
contorno. Così gli oggetti non hanno più confini e contano sol-
dell’oggetto: ora circolare ed ora modellata per vibrazione, irre-
tanto gli aloni, le onde dei tratteggi e le loro pause. Pause che
golarmente.
non sono però arresti, ma irruzioni di chiari. Fredde (purissime)
In qualche caso l’occhio gioca a raddoppiare una figura, a scopri-
ferite inferte al tessuto delle grafie. Sospensioni della mano.
re che cosa succede collocandola di fronte ad uno specchio. Ed
In tal modo la mente sottrae al fenomeno l’anima che vi sta sot-
allora può accadere che il riflesso allarghi il campo, aggetti la
tesa. La fissa, mostrando nel contempo, su tutta l’ampiezza del
cosa o la faccia retrocedere. Neppure le metamorfosi sono esclu-
foglio, il suo alitare per afferrarla. E mentre è lì, fusa con l’im-
se e il motivo diventa altro da quel che avevamo percepito guar-
magine, può anche credere in un miraggio, giacché, mentre l’oc-
dandolo. Silenziosamente si tramuta in un emblema attraversa-
chio si insinua negli interstizi e nelle ombre degli oggetti, acco-
to dalla luce e dall’ombra, in una distanziata incandescenza.
glie la suggestione del lontano.
In definitiva osserviamo tanti fuochi lontano. Fuochi eterici in cui
Da quattro lanterne nasce un Oriente: un’architettura di cupole e
l’oggetto si disincarna (e forse si redime) in un corpo sottile e
di minareti.
ideale, in un puro concetto di forma.
Un ghiacciaio di visioni.
Tanto forte è un siffatto principio d’emanazione, questo sistema
di trasmettere per via eterica i segnali provenienti dalle cose,
che pesi, corpi e sostegni vengono necessariamente cancellati.
Si comincia col dare al bianco, col lasciare vuoto di segni (lumi-
(1) Scritto in occasione della mostra “Carlo Bondioli Bettinelli”, Libreria
Galleria “Einaudi”, Mantova, maggio 1985.
noso) il piano d’appoggio e si prosegue sottraendo le linee di
666
Suggestivi sviluppi
portanza dell’imperativo corporeo così ricco di implicazioni e di
Pino Castagna
suggestivi sviluppi nel lavoro recente.
(1)
Aver riconosciuto che le immagini sono dei “personaggi” piantaIl corpo, i corpi, le cose: nel discorrere del lavoro di Castagna vor-
ti nella carne del mondo va ben oltre la carica analogica delle
rei insistere su questi motivi perché sono convinto che vada rin-
parole. C’è la metafora, ma c’è anche qualcosa di più. Quanto
tracciata proprio qui, nell’ostinato e approfondito rapporto con le
meno si dà conto di due essenziali inclinazioni espressive: una,
strutture della presenza, nello scavo esercitato dall’artista dentro
rivolta a scandire i dinamismi delle materie lavorate, quel che in
il nocciolo fisico e misteriosamente complesso della realtà, una
termini scenici potremmo chiamare gestualità e fors’anche reci-
delle radici più robuste della sua ispirazione.
Ogni volta che osservo le grandi sculture lignee, i costrutti di ferro
e cemento (ma non solo quelli, anche le raffinate ceramiche destinate al plein air, i Sassi giapponesizzanti o i Canneti), sento che
vi si agita l’impulsivo dinamismo degli elementi primari. Avverto
pressioni, crolli, avvitamenti e frecciate in risalita. E quel che più
importa sento che pongono in questione ed interrogano la mia
stessa presenza, il mio star lì di fronte ad essi, costringendomi ad
uscire dalla distanza contemplativa per assumere misure completamente nuove, a rimacinare il metro che mi è abituale su una
scala diversa: una scala che, se pure esige cadenze inconsuete e
spesso sorprendenti, non mi appare mai snaturata (minacciosa sì,
talvolta), nonostante l’enormità dei paragoni, gli scarti e gli assestamenti ai quali lo sguardo è obbligato.
C’è come una solidarietà nella dismisura.
Quand’anche infatti veda davanti a me un unico elemento, un
solo oggetto sul filo del paesaggio, magari un Iroko o una “pietra fiorita”, vengo catturato in un circuito potenziato di relazioni.
L’oggetto provoca una catena di confronti intensivi che non mi
lasciano neutrale. Mi trovo coinvolto in una sorta di triangolazione percettiva, preso nella rete di un inquietante rapporto a tre,
fra la scultura, l’ambiente e me che osservo.
La qual cosa basterebbe già di per sé a dire quanto sia forte la
carica comunitaria che vi è custodita e da quale stretta ci si senta
afferrati, anche psichicamente, per effetto di quel darsi e quasi
irrompere di tensioni nello spazio circostante, sia esso un luogo
di natura o di storia, il declivio di una collina oppure una piazza.
Un interprete fra i più avvertiti, L. Magagnato, scriveva qualche
tempo fa che le “sculture di Pino Castagna sono personaggi di
questo mondo, nati da idee germinanti (...) entro un paesaggio
che ne determina assai spesso forme e dimensioni”. La ritengo
P. Castagna, Tre figure, 1964, alluminio, cm 250x70x70.
un’osservazione preziosa e vorrei servirmene per ribadire l’im-
667
tazione, e l’altra intesa a sondare le potenze intime dell’univer-
spazialità aperta di tutto il vivente. L’esserci e il fare dell’uomo.
so naturale, le forze latenti sotto la pelle dei corpi e nelle masse,
La cultura insomma si interseca con la natura e nell’annodarsi
nella pietra e nel metallo, per estrarne emergenze, personaggi
strettissimo delle due polarità, prende forma un pensiero plasti-
appunto (e ancor meglio persone, forme che risuonano, per-so-
co ostile ad ogni finzione antropocentrica.
nant), cariche di un’aura incantata e inattesa. Come dire che il
È vero che lo scultore è andato esplorando alcuni luoghi deputa-
nudo gesto, il “corpo silente” della statua fa vibrare le corde
ti dell’inventio (penso, per esempio, alla serie delle Piazze e a
della fantasia mitica.
tutto il ciclo delle memorie storiche). Ed è altresì vero che l’am-
Quali miti esattamente?
bientazione urbana ed il confronto diretto con ambienti ed ar-
Se consideriamo l’arsenale iconografico dell’artista, lo vediamo
chitetture sociali costituiscono un tema ricorrente. Cionondime-
popolato di figure che sono andate progressivamente spoglian-
no si tratta di una socialità che recupera contro il mentalismo
dosi, soprattutto da dieci anni a questa parte, specie dopo il
degli arredi metropolitani, contro l’artificialità dei programmi, i
tema degli “abbracci”, di connotazioni antropomorfe. Eppure non
grandi gesti fondamentali, biologici e psichici, dell’esistenza e,
v’è dubbio che l’icona umana sia presente, tuffata e rifusa nella
tra questi, per servirci di una categoria antropologica inventariata da Durand nel suo lavoro sull’Immaginario, la dominante di
‘posizione’ connessa allo slancio verticale.
Questa invariante è, per dir così, sorpresa allo stato nascente,
messa a nudo, investigata e rilanciata con tutta l’energia possibile. Ed ecco che per conquistarla, Castagna ricorre ogni volta ad
un esercizio di dissezionamento, ad un’operazione simile ad uno
scandaglio chirurgico, traendo fuori dal guscio degli organismi la
‘sostanza’ che lo interessa. Non per nulla tagli, estrusioni e spaccature sono tanto frequenti. Mette in mostra la fatica, le stazioni critiche ed estreme dell’azione. Moti che blocca in una posizione culminante dei quali cerca la durata, nel punto in cui stanno per arretrare o avanzare, nell’istante del loro rivelarsi.
Così capisco l’insofferenza per un’imago che non duri e svanisca
come un battito di ciglia; che è poi, a guardar bene, insofferenza e ostilità nei confronti delle pellicole spettacolari.
Ma c’è qualcos’altro che desidero porre in evidenza dal mio
punto di vista ed è il sistematico ritorno allo studio della figura
umana. Uno studio cui affida un ruolo - com’egli ama dire - propedeutico e inaugurante. Serve a “rifargli la mano”, a renderlo libero. Altrettanto libero da progetti vincolanti quanto appare, per
quanto ho potuto vedere, nei disegni ispirati ai movimenti delle
nuvole e alle storie naturali dei cieli. Due estremi tematici, questi, che danno luogo periodicamente a fitti capitoli disegnativi,
destinati per lo più a rimanere segreti, se non in gran numero
distrutti, ma di cui tuttavia val la pena di tener conto per comprendere la genesi di buona parte della stessa scultura.
Nella contrapposta tentazione del cielo e della terra, del grave e
P. Castagna, Tre grazie, 1969, pietra morta, cm 215x50x100.
668
dell’aereo, la figura funziona per molti versi da tramite. Soprat-
ricuce, ‘buca’ l’opacità dell’effigie. Ed è curioso osservare come
tutto il corpo femminile.
scompaiano via via i dettagli fisiognomici, le peculiarità psicolo-
Da questo irrinunciabile topos ricomincia infatti la caccia di nuovi
gistiche e sentimentali. Non solo: i piedi, le mani, la testa scivo-
segni. Centinaia e centinaia di fogli lo testimoniano: fogli che
lano fuori quadro. Scompaiono per lasciar posto ad una sola evi-
mentre risarciscono la mano di tante censure precedenti (rego-
denza, quella del tronco, del corpo riplasmato in totem.
le beninteso di stile), mettono in chiaro al tempo stesso un la-
Parrebbe disumanizzazione, ma non lo è. Nello scorrere dei fogli
borioso processo di conoscenza. Andando dall’esterno verso l’in-
registriamo invece la fervida pronuncia d’una volontà speculati-
terno, dalla periferia al centro, l’occhio indaga febbrilmente il
va, la stessa forse, se stiamo ad una delle matrici della scultura
‘motivo’ nei particolari più minuti, come in una iniziazione. Alla
moderna, che aveva spinto l’autore del Penseur (“un homme ca-
fine resta l’essenziale. Una struttura portante e irriducibile.
pable de penser le monde”), Rodin, a mutilare di testa e braccia
Arrivata nel cuore plastico dell’immagine, la fantasia lo lavora a
L’homme qui marche; e la medesima, anche, cui si affiderà più
tutto pieno. Fa rimbalzare spessori, apre ‘finestre’, spezza, tende,
tardi il mimo Decroux, nel mirabile sforzo di farla finita col servilismo illustrativo della pantomima “pervertita” per riattivare,
nel silenzio, il linguaggio pieno del gesto.
Saper “evocare la vita mentale mediante il solo movimento del
corpo” era il programma dell’uomo acefalo, di quel tronco simile ad “una statua greca che - diceva Decroux - cambia di forme
sotto la luce”.
In una simile dichiarazione di principio colgo una sintonia, come
un segnale di viaggio, pur nella differenza dello specifico. Perché
mai allora – si potrebbe chiedere – la figura umana è confinata
nel laboratorio del disegno e quasi diserta la struttura negli ultimi nove-dieci anni? Fatta accezione per i due Nudi dell’80-’82 e
per la recente Guardata straordinaria nel suo triplice scatto ed
avvitamento nello spazio, manca l’immediatezza del riconoscimento.
Perché poi l’eclissi del volto?
Ma proprio ciò è garanzia della sintassi funzionale: l’inabissarsi
del sapere del corpo (e non il suo svanire, restare inerte) nello
spessore delle materie. C’è, come dire?, un’attiva dimenticanza
dell’involucro della pelle, del suo estremo splendore, a vantaggio del nucleo.
È la struttura che conta, l’ ‘albero’ sotteso alla carne.
Si consideri a riprova uno dei grandi Nudi dell’Ottanta. Non è forse
l’architettura dorsale, la mobilissima ‘spina’ l’elemento formalmente risolutore? La forma più toccante? La ‘chiave’ che incerniera, cifra e mobilita i blocchi corporei? Lì e in nessun altro punto,
vedo ardere il ‘fuoco’ che dà vita al respiro delle masse, all’andare e venire dei pieni. Quei pieni che sono fermati, spalle e fianchi,
P. Castagna, Iroko prigione, 1975, legno di iroko, cm 600x110, Museo Scaligero
di Verona.
da una secca cesura ritmica. Che ciò avvenga, che il lavoro proce-
669
da in questa direzione, al di là d ’ogni superficiale indice di somiglianza (e a questo proposito sarebbe da vedere il più segreto dei
paragrafi di studi sulla modella, quello del corpo spiato dal basso),
sta ancora una volta a significare una volontà di congiunzione, una
parentela sempre più stretta fra cose e persone.
So bene che c’è anche un’altra anima di Castagna. Un’anima più
svagata, ironica, attenta al gioco; un’attitudine che fa da copertura alla prima e le ridà fiato. Ed è utile che il divertimento svapori gli eccessi, calibri le misure, segnalando il divario fra puro e
semplice gigantismo (che non interessa, credo, neppure l’artista
e anzi vi ironizza) e la grandezza significativa.
Su quest’ultimo versante si sprigiona l’effetto autenticamente
comunitario. Mi riferisco all’efficacia di taluni manufatti ultimi in
rapporto a possibili, ristretti e organici, interventi sociali. A quel
che ne potrebbe ricavare un’arte comunitaria per eccellenza
quale è il teatro. Non si tratta di un’illazione.
Come la scena fissa antica, alcune strutture (ed il prototipo va
visto senz’altro nel Muro dell’83 ’84) una stretta zona di recitazione, un’area per l’attore: meglio, un proscenio per la voce. Se
fino ad ora ho insistito sull’intima radice corporea delle sculture
(ed aggiungerei ora: il valore mitico e culturale di molte di esse),
l’ho fatto pensando alla consanguineità col corpo vivente, di cui
l’attore è (o dovrebbe essere) la quintessenza.
Si faccia conto oltretutto della ricorrenza di alcuni elementi simbolici, come steli, colonne, fronti, soglie e porte, di cui Frons
scaenae ci dà quasi un campionario.
E si consideri inoltre dove portino le sintesi visive culminanti nel
motivo del tronco. Due temi almeno vi si innestano: da un lato
il potenziamento e dall’altro la totemizzazione. Poco importa che
si raffigurino energie naturali. Il processo è sempre il medesimo.
Se la funzione principale della maschera (quella arcaica o tragica studiata con particolare sottigliezza da Kerényi), consiste nell’intuire un legame magico con l’ambiente; se essa non solo nasconde o spaventa, ma incentiva una “trasformazione unificatrice”, questa funzione non è poi tanto lontana dagli incrementi
tensionali cercati dall’autore.
Si direbbe che un effetto generale di ‘maschera’, nel senso che
abbiamo appena evocato, attraversi gran parte delle sculture.
D’altronde, dopo il Muro Castagna ha creato altri plastici (questa
P. Castagna, Colonna, 1975, ceramica e cemento, cm 300x45, Villa Reale di
Monza.
volta in scala ridotta). Uno suggerito dal Macbeth, “La foresta di
670
Birnam”, la selva che avanza, un ”incubo che si muove” e travolge; ed un secondo, non meno apocalittico, ancora da intitolare, il cui nome provvisorio riecheggia una catastrofe.
Sono espressioni competitive all’interno dell’orizzonte naturale,
forme di fronte alle quali l’uomo comune soccombe. Sono “mostri” per usare il lessico di chi le ha pensate, che non lasciano
scampo: monstra, cioè apparizioni terrificanti, e insieme prodigi,
accumuli aggressivi-miracolosi.
Sono anche emblemi e simboli. Sculture-scenario, alle quali,
però, risulta totalmente estranea tanto l’idea di scenografia
quanto quella di spettacolarità. Non illustrano, sono l’evento che
incarnano. Per questo, più che col teatro come luogo dell’illusione, hanno a che fare con ciò che, dovendo pur usare un’espressione impropria, chiamiamo “teatro arcaico” e rappresentazione
antica.
Culto.
Una scena dove il chiaro e lo scuro, il cemento ed il ferro articolano il contrasto ciclico del buio e della luce, del nero e del bianco. Forse un passaggio di epoche, una ‘crisi’ del tempo.
Solo l’attore vi può prendere posto: una presenza ipertesa, ingrandita, col volto coperto da una maschera, vale a dire da un
attrezzo al servizio della parola e della sua potenza.
Scena per la voce dunque. E per il suono. L’immagine, come dice
Castagna, è scultura, durata, non effimero gioco di suggestioni
visive.
(1) Scritto in occasione della mostra “Pino Castagna 1964-1985", Palazzo Te, Mantova, 20 ottobre 1985.
P. Castagna, Memoria neoclassica, 1982, alluminio, cm 225x75x60.
671
In nome del fluido
Mariella Bettineschi
ture stesse e gli strappi, le incisioni e le bruciature alle quali le
(1)
materie vengono sottoposte, sfumano nella trasparenza.
Si direbbe che le immagini, nell’atto di modellarsi, abbiano avuto
Quasi sempre i lavori di Mariella Bettineschi si dispongono lungo
a che fare col vento tanto appaiono lievi. Fili aerei, tenui lamine,
tracciati significativi. Delineano percorsi e sequenze simboliche.
bave di carta che un soffio può mutare di posto. Forse anche
Tuttavia, ancor prima di cogliere il sottile disegno sotteso ai suoi
sono sabbie e polveri figuranti deserti.
calcolati allestimenti (in genere il disegno di un viaggio menta-
Il fatto è che la Bettineschi insegue il frastagliato, il pulviscolare,
le), colpisce la qualità intima di un segno che nasce per evane-
l’elemento volatile dell’immagine. Anzi traduce le cose in battiti
scenza e resta sospeso nell’allusione. Né sai se sia più sfibrato
ed aliti. Quasi volesse schiodare il visibile e catturarne il segreto,
che tenero, più secco e prosciugato che morbido, poiché le frat-
cerca la geografia dei fiati dentro la perimetrata solidità delle fi-
M. Bettineschi, Grande porta, 1985, cm 90x100.
672
M. Bettineschi, Arca, 1985, cm 100x80.
673
gure. Corrode e liquefa in nome del fluido.
la cancellazione di ciò che è, nell’attesa di far posto ad una nuova
Per una simile attitudine, per un così pronunciato avvertimento
visione. Ed è allora, soprattutto nei lunghi reliquiari, che il registro
dei valori minimali, capisco lo sua predilezione per il personaggio
sospeso dell’immagine trova ampio svolgimento. Non per nulla le
di Paolo Uccello fantasticato da Marcel Schwob nei Ritratti imma-
teche che custodiscono i “presagi”, i segni in certo modo son-
ginari: per un occhio, voglio dire, capace di disfare l’inerte petrosi-
nambolici intuiti dalla mente, si stirano e tendono come feritoie.
tà del mondo, ossessionato dalla vertigine della cigliazione e tanto
Acquistano anch’esse l’andamento di un sentiero e ‘camminano’,
perduto nel movimento delle linee e dei colori da derubare la
starei per dire, sul filo dell’orizzonte. Ecco: sono paesaggi, posti di
donna che lo amava e tutti gli esseri dei loro tratti, per gettarli, fi-
osservazione, luoghi desertici fatti apposta per contemplare.
nalmente liberati, nella laboriosa fucina delle forme e rinnovare in
Perfino rocce, gole, montagne che raccontano l’impervio avanza-
tal modo il miracolo della creazione. Egli “non conosceva la gioia
mento di un pensiero che insegue una sua lontanissima imago.
di limitarsi all’individuo, non dimorava in nessun luogo; voleva al-
Lì mentre si spia in un chiarore appena sufficiente per districare
zarsi al di sopra di tutti i luoghi”. Ed alla fine “nessuno capiva più
profili e sagome buie, si diffonde una luminescenza di grotta, li-
i suoi quadri. Non si vedeva più che un intrecciarsi di curve. Non
minare, come sprigionata dal basso, negli interstizi e nelle pieghe
si scorgevano più né terra, né le piante, né gli animali”.
di cenere. A volte incontriamo invece una pagina nera di cielo. Ed
Solo una ragnatela di elementi, di frange, linee, punti. O meglio,
è il velario di una costellazione fantastica, una pellicola del suolo
una tessitura di forme in cui vedi figure allo stato aurorale in una
trascinata per aria da code di aquilone, dove una forma terrestre,
sorta di rinnovato principio delle cose.
sfumando, trasmigra in nebulosa e galassia. Un corpo astrale, ma
È una mitografia dell’inventio, questa, che aiuta a decifrare la ri-
intriso ancora di ricordi sensitivi e talora sfiorato dalle felpate mo-
cerca di quel fondo e gorgo d’immagini che trascina l’artista.
venze di un’animalità aggraziata e feroce. Paiono segnali di corpi
Contiene la metafora creazionale del trar fuori un continente
divinizzati in stella; un’alitare di chiome, piume, pelurie, refoli,
sommerso; un mondo lontano col quale ricongiungersi.
come accadeva nella fantasia degli antichi. E nell’incernieramen-
In un’intensa pagina di appunti, scritta mentre stavano nascen-
to immaginario della carne con una parvenza d’eterno, dei suoi
do i tesori che ora vengono esposti, leggo questa veloce osser-
echi col senza-tempo, viene spazializzato l’ ossimoro, per dirlo con
vazione: “Negazione, esplosione, negazione. / Negare il mondo.
le parole dell’autrice, “fantapittorico” delle “costellazioni dei leo-
Vitalità del negativo. Erme. / Poi il mondo esplode di nuovo,
pardi”. A proposito del quale val la pena di osservare che già l’in-
come gesto e segno numero”.
stallazione dell’Orfeo di qualche anno fa, con la sua grande ala
Dunque l’apparenza va sgretolata, infranta, macinata; la fissità
nera, calante ed infine adagiata sul pavimento, disfaceva le anti-
corrosa a vantaggio del vibratile. Ed il ‘mondo’, una volta eclis-
tesi collegando certi motivi della tenebra con gli umbratili dia-
sato, fatto prorompere di nuovo ad un livello più alto: nella sa-
frammi di un polittico di garze. Univa in cerchio caduta e risalita. E
pienza appunto, di quel che lo pittrice chiama “numero”. In que-
lo si leggeva, questo legame sognato tra la medusea attrazione
sta dichiarazione, a parte l’evidente “solve, et coagula” evocato
del profondo, tra il nero e la levità delle piume, su uno spartito
alle spalle delle parole, interessa in particolare far conto della
posto al centro della composizione: era il tema del lavoro (forse il
fortissima nomenclatura, considerando che termini come “esplo-
motivo principale), volto a mutare le materie in canto, le loro cor-
sione” e “gesto” non stanno certo dalla parte di una quintes-
renti selvatiche ed oscure in volantes sirènes.
senziale ed eterea qualità dell’esperienza o di un’asettica disin-
La pittrice, occorre insistere, non acceca totalmente l’evidenza cor-
carnazione. C’è un’ansia di legare i contrari, un desiderio di far
porea degli elementi. Ne conserva tattilità e cromìe. In fondo
combaciare l’organico con l’idea, che ha di mira i sensi, il corpo,
cerca l’euritmia che presiede, pur nello svenimento e sfacelo dei
la fattura concretamente materiata delle opere.
fenomeni, all’ordine naturale. E la vuole viva, ancora respirante.
Quando, a proposito delle Erme, affiora l’esercizio negativo, quel
Abbassandosi alle risorse della pittura che tanto sono vicine alle
negativo è tutt’uno col diroccamento dell’esistente, col silenzio e
promesse del mito, tenta di coglierla nell’attimo in cui appare. Non
674
è una figura né un oggetto in particolare, ma lo splendore di cui
fervido procedimento tecnico) ha tratto una lussuosa sovrab-
una figura talvolta si avvolge e che essa sola può testimoniare.
bondanza. Le carte non sono più carte, ma trafori, squisiti lavori
Tremiti, motilità, ardori trasmessi alle materie sono le prove del
di oreficeria, ornamenti degni di Shéhérazade.
cuore che il dipingere rende visibili. Vien da loro, solo da loro, il
Guardandoli ho l’impressione di rivedere le maschere d’oro o gli
pregio (e il prezzo) di una così intima passione di scavo.
scrigni di Micene. I gioielli barbarici d’un altro tempo e d’un altro
Ebbene, ora, dopo le Erme e i successivi Avvistamenti, vien fatto
spazio quando non era ancora diviso l’Oriente dall’Occidente. Fi-
di registrare uno scoppio di luce. Dopo l’attesa e il segmentato
bule, nastri, misteriosi attrezzi.
cammino sull’orlo della grotta, è arrivato qualcosa di simile ad un
Nell’empito della trasformazione Mariella Bettineschi sa spostare
incendio del vedere. La forma ha cominciato a crepitare ed ar-
il presente, questo momento e questa carta, nel favoloso lontano.
dere; le opere si sono trasformate in doni dall’apparenza regale.
Lo sospende in un diverso che assomiglia all’arcaico. Ma non è,
A ragione l’artista può chiamarli tesori, essendo i ricordi, fissati
credo, il selvaggio ricavato dai consunti reperti museografici del
nell’oro, del suo viaggio.
sopravvissuto. È invece il ‘qui ed ora’, cambiato di segno, che ha
Quale oro? È la serie delle metafore solari composte con gli stru-
assunto la lucentezza di un eden ritrovato e fa balenare il fondo
menti più semplici, con carte e vernici. Dal poco (mediante un
circolare ritornante delle immagini che assediano il desiderio.
M. Bettineschi, Tesoro, 1985, cm 43x45.
675
M. Bettineschi, Vascello, 1985, cm 40x32.
Se ha la sembianza dell’antico, ciò accade perché è già una me-
animali e aquiloni, ale, maschere e paesaggi, montagne e ad-
moria per il futuro. E, quel che più importa, stringe ancora una
dobbi. Ma al di sopra si eleva sempre quella figuratività vibrati-
volta in unico modo impulsività e raffinatezza, matericità e stiliz-
le che l’artista ha inseguito (da cui, più esattamente, si è lascia-
zazione, giacché non si potrebbe immaginare nulla di più fragil-
ta accerchiare) nell’ascolto del suo originario: le fibre e i grovigli
mente prezioso di queste lamine dalle quali trasudano irruenti
dei paesi in ombra.
configurazioni. Nella ragnatele di chimere che anche il fuoco ha
Perciò è vero quel che mi dice: “oggi capisco di aver sempre di-
contribuito a modellare, imprimendovi concreazioni di smalti, af-
pinto, senza saperlo, dei paesaggi, nient’altro che paesaggi”.
fiora sempre l’ossimoro, il sogno del selvaggio coltivato nell’ ‘alchimia’ pittorica.
(1) Scritto comparso in “Mariella Bettineschi. Dai ’tesori’ 1985”, Edizioni “Spazio Temporaneo”, 1986.
Grazie ad un simile vincolo si allarga il ventaglio dei sensi: sono
676
Nella luce e nel buio
È peraltro singolare che, andando a scavare nei primi documen-
Mostra collettiva
ti del loro lavoro, si scopra in tutti, all’inizio, una comune inter-
(1)
rogazione intorno ai valori della materia e dell’ ‘azione’ pittorica.
Una antologica presenta sempre, per sua stessa natura, dei mar-
Dopodiché è avvenuta una sorta di scissione, un divaricamento
gini di arbitrio. Richiede delle scelte ed in quanto tale implica
della ricerca. Da un lato si è approfondito (ed ancora si appro-
delle rinunce talvolta dolorose. Nel nostro caso, dovendo far leva
fondisce) il tema percettivo della visione e delle sue metafore
su un numero limitato di presenze, senza far torto alla qualità
intensive, dell’altro si dà spazio alle immagini interiori. Al sim-
delle opere, si è deciso di apportare un buon numero di tagli nel-
bolico. Ed anche su questo punto si assiste ad una ulteriore bi-
l’attuale tessuto delle arti a Mantova. Tagli innanzitutto cronolo-
forcazione fra simboli, per così dire, drammatici e figure conci-
gici (gli esordi degli autori risalgono al massimo, per i più anzia-
lianti del ‘meraviglioso’ onirico, fra scontro e consolazione.
ni, alla fine degli anni Cinquanta). Poi, in discreta misura, anche
Gli esiti recenti lo confermano una volta di più. Mentre Madella,
tematici e stilistici.
ad esempio, fa leva sulla dissonanza, sulla competitività quasi
Quel che ne esce costituisce, credo, un campionario senz’altro si-
espressionistica del contenuto figurale, sul violento urto psichico
gnificativo, ma in nessun modo una sintesi e neppure una ten-
e fisico che l’immagine provoca in chi guarda (il suo “Icaro” ha
denza precisa. Sono convinto anzi che, se avessimo proposto le
difatti la tensione di un dio suppliziato, crocefisso dall’energia so-
immagini di certi artisti che qui non figurano, si sarebbe potuto
lare), Margonari al contrario spinge la pittura, le colature del co-
ordinare una rassegna altrettanto vitale ed incisiva.
lore e le trine della forma, nelle regioni del piacere. Fa in modo
Che cosa si è voluto fare allora?
che inscenino uno spettacolo sgargiante e pirotecnico di inflore-
Nient’altro, da parte nostra, che dar corso ad un primo atto di co-
scenze fantastiche. Ironico e godibile, sempre disteso nonostan-
noscenza. Favorire un approccio, un rapido stazionamento su al-
te lo humour e gli enigmi.
cune esperienze visive, in parte già consolidate ed in parte na-
Dramma e rappacificazione si danno il cambio anche negli altri
scenti, ma già abbastanza chiare da meritare il prezzo di una
due autori che operano sul piano più strettamente percettivo. Il
scommessa.
loro leitmotiv è l’effervescenza luminosa. Una luce che, nell’atto
Inutile dire, forse, che nel contemporaneo mescolamento dei lin-
di dissolvere i contenuti troppo immediati e terrestri, trasferisce
guaggi, nel dilatarsi degli orizzonti e nel confronto sempre più
il dipinto nel circuito delle vibrazioni e delle essenze cromatiche.
ravvicinato di posizioni, risulta incongrua per gli artisti una dife-
Per entrambi la superficie si configura come un ‘campo’ solida-
sa ad oltranza delle radici locali. Non perché i genii loci abbiano
le, ‘teso’ e sonoro, benché una simile intensità derivi in ciascu-
cessato di agire, ma per il fatto che essi dialogano con altri fan-
no da un differente, quando non antitetico, principio costruttivo.
tasmi, si scambiano segnali sulle linee di confine dando vita a
Schirolli lavora sugli elementi armonizzanti. Rarefà la materia
nuovi connubi ed avventure.
entro la geometria ideale del cerchio e del quadrato, laddove
Abbiamo a che fare insomma con storie aperte in cui si è depo-
Sermidi fa balenare delle opposizioni. Eccita degli antagonismi.
sitata una memoria individuale (e collettiva) che ha rotto antichi
L’uno ‘stende’, filtra, stempera, lasciando affiorare di tanto in
perimetri e si dirama in varie direzioni, tornando poi a rimacina-
tanto fremiti e rapide increspature tonali, l’altro ‘solca’, ara, feri-
re nel silenzio, questo sì, suggestioni tanto diverse.
sce. Sicché può accadere che uno stesso motivo formale, calan-
Che il panorama sia aperto lo si constata subito osservando le
dosi in una divergente peripezia della luce, finisca per significare
tele dei quattro pittori che hanno saputo imprimere una svolta
cose totalmente lontane. Intenerimento e bruciatura.
importante, fin dal Sessanta, negli indirizzi dell’arte a Mantova.
Così si capisce come uno, preso nel giro delle forti pulsazioni,
Madella, Margonari, Schirolli e Sermidi.
non possa che stare ‘prima’ dell’immagine, dentro l’arsura di un
Ciascuno con un suo accento, chi un po’ prima e chi lievemente
processo che non tollera soste prolungate: al di qua di un riposo
dopo, ha spezzato i vincoli con i modelli naturalistici.
che, essendo invece consentito all’altro itinerario, fa approdare
677
Schirolli sul ciglio di figure riconoscibili e, perfino, a ben guarda-
templative intrise di rèverie. Quel che interessa è salvare l’im-
re, atmosferiche e virtualmente ambientali. L’ambiente, il
maginazione e non per nulla ci si richiama alle seduzioni leg-
mondo naturale, le nubi, il cielo, l’aria: ecco un pensiero capace
gendarie delle sirene e della notte (Castelli). Crescono le mappe
di agitare la pittura. Ma come?
disegnate, le trame fitte di segni stemperati, alonate di bianchi.
Da quando lo scenario tecnologico ha investito la quotidianità,
Fantasie sulla carta, tenui e pazienti, che passano in rassegna
l’immaginazione ha cominciato a percorrere sentieri deserti. In-
con un’ovattata trepidazione, i ‘luoghi’ canonici della pittura del-
terroga l’esilio ed il vuoto in cui la physis è stata cacciata. All’ar-
l’Immaginario, Bosch, Bruegel. Dürer. E non lo fanno per convo-
tista non restano che spoglie di una pienezza perduta, nient’al-
carne le folgori cromatiche, quanto per tradurli nei materiali si-
tro spesso che parole, segni, frasi un tempo ricche di senso. Al-
lenziosi d’una intenerita contemplazione. Anche in dèco.
lora può tentare di custodirle, farne l’elenco, salvarle in una gal-
Diversa è poi la notte di Gradi. Il suo è il buio terremotato del
leria intima di tracce e ricordi. Oppure rinuncia anche a questa
corpo, il nero del gesto pittorico. Una tenebra di vernici, di ma-
estrema cerimonia. Non si illude più e cammina col cuore arido
terie scure (ma cangianti di riflessi), rotte e sovrapposte in cui il
in un universo frantumato di relitti che, se una volta parlavano
giovane autore sgomitola miraggi dell’altrove. “Zanzibar” si inti-
di miti genuini, ora mostrano impietosamente d’essere soltanto
tola una sua serie recente. Cioè il suo lontano, l’esotico, il tropi-
convenzioni artificiali.
cale. Ma tropicale non è soltanto l’immagine. È soprattutto il
Questa doppia via, tracciata sulla faccia ‘esterna’ dell’esistenza e
gesto, il flusso ‘barbaro’ dei tracciati. Una pittura-selva da cui si
connotata dal disincanto, è stata imboccata da Capisani e Pe-
attendono sviluppi in velocità.
drazzoli. È una strada in certo modo gelata, avvolta dalla nebbia,
Infine nella direzione del primario e degli archetipi junghiani si
dove incontri uno strano erborista intento a raccogliere steli, fo-
snoda il percorso ‘labirintico’ dell ’unico scultore presente nella
glie e radici per farne dono alla pittura. Li deposita sulla tela e
mostra [Italo Lanfredini]. Qui siamo al di sotto del visibile. La
ne ricava sembianti, pallidi ricalchi ed ombre. Ma c’è pure chi si
mano esplora cavità e protuberanze. Tasta il ventre delle cose.
rivolge al paesaggio tramite la scrittura. Mette in causa le gran-
Ciechi del tutto, restiamo immersi in una spazialità avvolgente,
di parole, i lemmi decomposti e ricomposti di una possibile evo-
ovulare, generativa. La plastica è una prigione organica che po-
cazione: “sole”, “mare”, “alba”, “aria”. E adunati certi caratteri ti-
trebbe anche non concedere mai la risalita.
pografici (ossia le nostre effigi verbali), li immerge in bagni di
È la materia in fermento in cui si scandisce la articolazione ele-
tinture. Strappa carte e superfici, riordinandole alla fine in una
mentare della scultura, il ‘sì’ e il ‘no’ del pieno e del vuoto: il
composizione di quinte sospese, in bilico tra il rispecchiamento
grembo, il vaso.
di una situazione in frantumi e il progetto ricostruttivo.
Altri (Bassignani), partendo dall’universo entomologico, traduce
gli spunti narrativi nella dimensione del fantastico, magari di un
racconto ‘nero’ e spettrale. Lì, dentro un mondo miniaturizzato,
l’occhio registra lo scatenarsi di passioni elementari. Ritrova un
microcosmo aggressivo che è l’esatto pendant di quello umano:
un umano spostato che egli cerca (forse) di esorcizzare con l’eleganza della grafia e comunque di esprimere nella sequenza di
una fiaba crudele.
Come si vede, lo sguardo vuole il risarcimento dell’estetico. Talora si affida alle risorse della decorazione (Troletti) e della grazia.
(1) Scritto in occasione della mostra collettiva tenutasi a Osnabrück nell’ottobre 1985 e, successivamente, alla Casa del Mantegna, Mantova, e ad
Asola (Mantova).
Ne fa un motivo di godimento.
Così nascono tavole di sogni e iconografie avventurose o con-
678
Slittamenti di figure
a fuoco speciale, un elemento in più o in meno.
Albano Seguri
Può essere che una mano si contragga, il ventre si arrotondi o un piede
(1)
assuma la secchezza d’un artiglio e ciò basta perché sia avvenuto uno
spostamento importante grazie ad una torsione o ad un minimo scarto:
Un corteo senza fine, un’eccitata selva di grafie: ecco quel che
sono, considerati nell’insieme, i disegni di Seguri.
quel tanto insomma che marca il processo di deriva.
Tracciati quasi sempre di punta con un movimento rapidissimo
Se non si tenesse conto di questa spinta temporale, potrebbe sfug-
della mano che pare inseguire un oscuro e febbrile arabesco, ta-
gire il senso di una ripetizione così ostinata. Non si capirebbe il per-
lora velati da qualche sprazzo di colore o adombrati da una sot-
ché del presentarsi e ri-presentarsi di un tema che, mentre fa af-
tile inchiostratura, essi accompagnano da sempre i fantasmi delle
fiorare l’ossessione dell’uguale, sprigiona contemporaneamente i
opere plastiche. Dico accompagnano, perché la loro funzione va
succhi, altrettanto inquietanti, del diverso e dell’inatteso. Ma se le
al di là dello schizzo al servizio della scultura. Non provvedono che
figure fluiscono, ricompaiono e cambiano, chi in realtà (o che cosa)
di rado a determinare uno specifico modellato da tradurre nella
sta al centro? Qual è il motore?
terza dimensione e neppure si interrompono quando una figura
In termini tematici, lo abbiamo accennato, questa invariante è la
ha preso corpo nel gesso o nella creta. Tra la scultura e il disegno
donna. È il corpo, lo spettacolo della sua presenza. Una presenza,
(e da una certa epoca in poi, la pittura) vive invece un rapporto
a dire il vero, polimorfa, proteiforme, cangiante.
di complicità e di eccitamento reciproco. L’una illumina l’altra e, ap-
Un esserci che si squaderna nei movimenti, giacché ciò di cui si
punto, l’affianca con notevole libertà d’invenzione. Vien da preci-
fa questione è proprio il suo apparire. E già l’apparire di per sé,
sare anzi che il disegno si è ritagliata una sua autonoma (e per
qualora volessimo cercarne le riprove nelle stesse sculture, si ac-
taluni versi più costringente) zona di scavo, una zona cui accedono
soltanto pochissime immagini (la donna in primo luogo), dove,
una volta entrato, il fantasma vien sottoposto ad un martellamento
che non concede vie di fuga.
Forse è vero, però, anche il contrario: forse è l’immagine ad assediare lo sguardo ed a provocare un interminabile combattimento
con la forma.
Comunque stiano le cose, certo è, ad ogni modo, che sfogliando
le centinaia di fogli che invariabilmente si accumulano in ciascuna
fase attorno ad un medesimo tema, occorre riconoscerne la struttura, tener conto del fluire del segno e ‘leggerne’ il tempo, cioè
le interne ragioni di scorrimento. Occorre pensare alla insaziabilità di una visione che mai si accontenta di imbozzolarsi una
volta per tutte in un perimetro del proprio motivo, ma quel motivo tallona in una sequenza di appostamenti; ed ha sete di penetrarlo e scandirlo in una catena di istanti, dato che solo così può
misurarlo in progressione.
Simili a tanti battiti di ciglia, ad una serie di colpi e di flash immaginari, le inquadrature corrono a scatti l’una dietro l’altra, avvertendoci che la ripetizione è parimenti significante e apparente.
Anche nel giro di poche carte non si dà la stessa identica posa. O
meglio: la stazione è la stessa, ma con una variante, una messa
A. Seguri, Figura femminile, anni ‘80, terracotta, cm 80x50x50.
679
campa anche lì come l’evento essenziale. Difatti l’immagine
implicata nella avventura permanente della metamorfosi. A parte
sfugge al tutto concluso delle superfici, covando degli slanci nella
il ricorrente principio della danza (anch’esso latore di un ampio ven-
stessa definizione del riposo. La si osserva emergere da un fondo
taglio di esibizioni), si può dire che essa rappresenti un campo to-
indistinto: avanza per spigoli, graffi, tagli, nodi e ribollimenti. È ma-
tale di investimenti. È nell’effigie della donna che l’artista interroga
teria surriscaldata che s’affaccia e cresce per strati.
il mondo e lo abbraccia. È lei il materiale originario e il territorio di
Nelle terrecotte dei cardinali esposte nella mostra, ad esempio, le
tutte le costruzioni. Lo schermo, per dir così, universale.
ginocchia, i volti e le tiare sprizzan fuori, quasi per maligna epifa-
Più che un femminile esteriore è allora in causa la materia. Il
nia, dall’ameba degli addobbi. Son diverse ed uguali. Forano lo spa-
blocco organico e la pasta delle cose. Quando la riprende, Seguri
zio in avanti, aggettandosi dal grembo dei paludamenti. Se poi tor-
pare scandagliarne le forze nascoste, le correnti e i fenomeni di
niamo a considerare la figura femminile nei vari capitoli disegnativi
germinazione. Ha di fronte la “chimera” (un suo tema capitale ne-
e plastici che l’hanno caratterizzata nella storia di Seguri, la vediamo
gli anni Cinquanta e Sessanta), la medusa, sentina di tutti gli stu-
A. Seguri, Figura femminile, anni ‘80, olio su compensato, cm 140x90.
A. Seguri, Figura femminile, anni ‘80, olio su compensato, cm 140x90.
680
pori e gli spaventi.
che di insensato, di crudele e insieme di festivamente clownesco
Sorprenderla, mostrarla e farla esibire vuol dire entrare nel segreto
vi si trova. Nei colori e nei sapori.
delle trasmutazioni. Perciò la provoca e al tempo stesso l’assoggetta
Neanche deve ingannare la pronuncia immediata delle cromie,
alla tortura dello stile. In uno spettacolo di vestizioni.
poiché il controllo è garantito alle spalle dal severo esercizio
E sono apparizioni grottesche, poiché il grottesco ed il comico, nella
delle varianti, con i voluti effetti d’abbozzo e di improvvisazione,
atmosfera di primordio o, all’opposto, di vitalistico sfacimento convo-
di pittura esplicitamente cercata a lato della scultura. L’induttore
cata dall’autore, forniscono la chiave per inscenare la metamorfosi.
fantastico non è, in sostanza, lo sciamano, ma il suo rosso cardi-
Le tensioni fanno esplodere i corpi compatti, le superfici levigate,
nale; oppure è il travestimento, la donna rosata o verdastra d’una
le tristi bellezze della quiete. Il fantastico incerniera i contrari can-
gigantessa, talvolta tutta testa e gambe come un “grillo” medie-
cellando i rassicuranti confini tra gli elementi.
vale o un robot montato da Baj.
Guardiamo i volti e i corpi: è forse possibile dare un’età e addirit-
La meraviglia sta custodita nel “basso materiale” ed è capace di
tura un genere a queste presenze? Nelle “donne con cane”, nelle
schiudere quadri iridescenti, rendendo preziosa come un topazio
“ragazze” che passeggiano, si contorcono e fanno acrobazie, vedi
la melma del quotidiano. E se si vuole un possibile parallelo, lo si
attivo il chiasmo dell’ adolescenza e della dissoluzione, del puer
veda - tra gli altri - nell’accidente capitato ad Ingravallo a metà del
senex. Scorgi il monstrum, la belva, l’animale acquattato. E nei car-
Pasticciaccio: “un cioccolatinone verde intorcolato alla Borromini
dinali l’agguato aggressivo dentro la vecchiezza scimmiesca. Né
come i grumi di solfo colloide delle acque àlbule: e in vetta uno
sai se la donna sia più umana del cane e dove finisca il funam-
scaracchietto di calce, allo stato colloidale pure isso, una crema
bolico circuito delle simbiosi.
chiara, chiara di latte pastorizzato pallido”.
La materia ibridata ed eruttiva, il mitico ‘calderone’ del mondo è
dunque il vero luogo di lavoro per l’artista. Il suo laboratorio.
Questo smontaggio-ricomposizione, che ha radici in un originale
ripensamento della cultura figurativa romana del Trenta (in Scipione, per esempio) e nella fucina espressionista di “Corrente”, oltreché - secondo quanto è stato opportunamente ricordato dai critici - nella straordinaria lezione di Martini, è passato attraverso la
grammatica picassiana dello scomporre. Ma subito dopo, molto
prima che un tal modulo divenisse accademia, Seguri ha avvertito il mutamento della cultura e s’è avvicinato, in una temperie
tutta sua, agli svolgimenti materici od oggettuali di un Chadwick
o di un Afro, ai costrutti potenti di Wotruba. Ed è stato, quello, un
momento ‘forte’ e di energica espansione. Soprattutto ha preso
quota per via interna la scoperta del colore: un cromatismo acceso,
plastico ed irradiato, che può trovare alcuni elementi di sintonia
col gruppo “Cobra” (Jorn in particolare).
In definitiva viene da dire che non è più questione di nomi e di
temi. Non contano le donne e i cardinali, quanto e di più i loro cerimoniali cromatici, le modalità grafiche, le matasse dei gesti e dei
(1) Scritto in occasione della mostra “Albano Seguri”, Libreria Galleria “Ei-
moti. Dentro di loro si è calata la storia dei tempi, quella parte
naudi”, Mantova, 1985 e ripubblicato per la mostra “Albano Seguri.
Opere 1940-1990”, svoltasi presso la Casa del Mantegna, Mantova, 21 dicembre 1991-19 gennaio 1992.
della storia che può essere precipitata nel gorgo delle trasformazioni e diventare una sembianza del monstrum. Voglio dire quel
681
1986
Da Renzo Margonari
a Giuliano Giuman
Sulla nascita di alcune acqueforti
Renzo Margonari
Bazar
Lorenzo Pezzatini
Una stanza e una riva, la pittura
Fernando Malavasi
Passione - malinconia nelle geometrie
di Lucio Saffaro
Paesaggi con Baubo
Vasco Bendini
Per una “malinconia” attiva
Gabriella Benedini
Misteriose rivelazioni
Adriano Castelli
Dipingere come assediare
Sergio Romiti
Musica in bianco e nero
Giuliano Giuman
Sulla nascita di alcune acqueforti
Tutti titoli, mi pare, che ben poco hanno di descrittivo in relazio-
Renzo Margonari
ne a quel che si vede sulla tela. Non avvisano quale sia il signi-
(1)
ficato dell’immagine da rintracciare (anche se talvolta un fantaLeggendo certi titoli di Margonari mi tornano alla mente, per
sma può esservi adombrato), ma contengono piuttosto una ca-
pura assonanza fonetica, taluni passaggi di Alice, dove gli epite-
rica reattiva ed esprimono - mi vien da pensare - l’effetto voca-
ti vengono articolati nel piacere di una pronuncia inaspettata e
le che il dipinto ha provocato. Più che emanati dal quadro, si trat-
risuonano di un movimento verbale che all’improvviso conden-
ta di elementi rilanciati dall’esterno. Funzionano come una ri-
sa una sequenza di consonanti e di vocali. Al tempo stesso, però,
sposta del pittore a se stesso, una delle tante, una volta che si è
quei titoli mi sembra di averli già sentiti, come se fossero le bri-
staccato dall’opera ed è diventato spettatore come gli altri.
ciole di sintagmi passati attraverso la chiacchiera e il brusio dei
Nominare risulta perciò un’illazione momentanea, un istante rag-
nostri giorni. Chiacchiera spesso esterofila, commista di parole
grumato in sillabe. E proprio qui, in questa parcellizzazione del
straniere e di esclamativi strappati ai riquadri di un racconto a fu-
tempo (non certo a livello di un senso ultimo), vedo le ragioni del
metti. Voglio dire che c’è una miscela di freschezza e di banali-
loro intimo rapporto col dipinto. Infatti, sia nell’effetto-parole che
tà, o meglio una specie di divertito andirivieni in mezzo ai detri-
nei modi della pittura, vale il principio dell’evento molecolare, in
ti del vocabolario.
virtù del quale poco importa che la forma sviluppi un fascio con-
Ecco qualche esempio: Plack-Plock, l’m a Ding Dong Daddy, Fro-
tenutisticamente compiuto di motivi, mentre interessa, all’oppo-
zen nodding plume, Olè!
sto, entrare nel germe dei segni, per coglierli senza l’impaccio di
Così anche, con un che di odoroso e colorato insieme, Strawber-
un prima e di un dopo e dunque nell’attimo in cui stanno per ge-
ry syrup by Valentina.
nerare, ma non lo sono ancora, delle immagini.
Come poi Margonari manipoli formalmente l’argomento ‘istante’
è, direi, tutt’altra faccenda. Poiché se l’occasione iniziale e le conseguenze del dipingere hanno a che fare con il puntiforme, l’esecuzione vera e propria percorre un tragitto diverso. La tela, per
essere finita, richiede ore ed ore di pazienti aggiustamenti. È
fatta di minuzie che via via si aggiungono, di velature, contornamenti ed acrobazie che da un lato assecondano e dall’altro interpretano ed assestano il tema di partenza.
Qualcosa di simile, accade, forse, quando osserviamo un muro e
l’occhio si arresta su un particolare, su una muffa o su una sbrecciatura. Dimentica tutto il resto e si fissa su quel motivo parziale; oppure, scorrendo uno scritto, si ferma su poche lettere e le
interroga isolatamente. In tal modo il punto si trasforma in un
mondo capace di attirare, nel contro-tempo dell’arresto, una infinità di minuscole osservazioni.
C’è inoltre da aggiungere che la finzione si prende la rivincita nei
confronti dell’immediatezza: la ‘macchia’ indossa una forma e l’informe, il non-ancora-pittura, diventa dipinto. Né sai fin dove arriva la finzione, perché ogni tratto appare, al contempo, falsamente germinante e spontaneamente finito. Istantaneo e lavorato.
R. Margonari, Giglio d’acqua, 1983, tecnica mista, cm 60x50.
Tenendo conto di questo, credo valga la pena di ricordare, sia
684
R. Margonari, Tuttaté, 1985, tecnica mista, cm 120x100.
685
pure alla lontana, il frottage, su cui l’artista si è più volte soffer-
Sono i gesti, se vogliamo dire, delle figure, poiché le acqueforti
mato nel corso delle esperienze precedenti. Solo che oggi fa
mettono allo scoperto dei movimenti: ora lo snodarsi di flussi o
agire l’inganno. Non vuol tanto interpellare il segno come ma-
il battere d’una forza, ora l’apparire dell’idolo senz’occhi come un
trice di racconto, quanto farne la sorgente della tecnica del dipin-
fiore ardente.
gere. Il colpo di spugna imbevuta di tinte, lo spruzzo di colore e
Quanto a procedimenti ‘misti’, risultano evidenti nell’incontro
i grumi schizzati sulla tela servono a ‘chiamare’, incentivandole,
delle morsure pulviscolari e delle linee secche con le penombre
le energie mimetiche del pittore, il suo sapersi insinuare nelle
e le luminescenze, della tecnica al nero, cara ad Alberto Marti-
pieghe dell’informe, mettendo in campo i vari procedimenti di
ni, con l’acquatinta e l’acquaforte.
cui dispone. Non una sola tecnica d’emulazione, ma due e più,
Ancora una volta la pazienza di uno stile composito ha fatto sì
tra loro intrecciate e fuse, nel medesimo luogo di intervento.
che il frammento prendesse corpo nella durata.
La qual cosa aiuta a capire (ed è qui che volevo arrivare) un capitolo recente. Mi riferisco alla breve serie di incisioni, sei in
tutto, con la quale Margonari ha illustrato nell’85 l’Epistolario
amoroso di Dino Campana e Sibilla Aleramo.
Di tutte le lettere, redatte quasi sempre in modo telegrafico da
Campana e discorsive invece, pur negli intermezzi lirici, da parte
della Aleramo, tanto irregolari le une quanto le altre appaiono
ragionate, l’artista non ha dato una interpretazione circolare ma
vi si è accostato nella prospettiva dell’istante scegliendo delle
molecole significative. E se è vero che il procedere per dissoluzione sonora della frase appartiene più alla verbalità di Campana che alla scrittura romanzesca della sua interlocutrice, si potrebbe allora dire che, nell’estrapolare dalla corrispondenza le
espressioni per lui notevoli, l’incisore ha adottato una chiave
preferenziale, vicina al poeta di Marradi o quanto meno più consona a lui che alle condizioni della Aleramo.
In tal modo l’epistolario, riletto in alcuni segmenti e riverberi nucleari, si è tramutato in una sorta di parete punteggiata di riflessi e di incidenti luminosi. Ma il fatto curioso, tale da suonare come un risarcimento, è che, tra i frammenti dichiarati, soltanto
due appartengono a chi si firmava con l’appellativo di Cloche,
francesizzandosi al punto da infastidire una corrispondente che
aveva fretta di concludere senza troppe metafore.
Idolo senz’occhi e La forza dell’aquila sono le immagini-macchia
provenienti da Campana, mentre con maggiore scioltezza sentimentale e sintattica continuano a girare le parole dell’amata: l’erica e la stella, non ho saputo che abbracciarti e le mie trecce snodo.
Come per i titoli dei quadri, nonostante la diversa qualità della
provocazione, la consonanza viene proposta per analogia emo-
(1) Scritto in occasione della mostra “Renzo Margonari. Opere 19801985”, Casa del Mantegna, Mantova, 13 aprile-11 maggio 1986.
zionale. Sono i predicativi impliciti o espliciti a fare da stimolo.
686
Bazar
Lorenzo Pezzatini
tà dell’uguale ed ogni spiraglio gli serve per far scattare una falsa
(1)
omologazione, una mossa (ma distonica) di pareggiamento.
Ho l’impressione che il paesaggio contemporaneo appaia ai suoi
Giusto dieci anni fa, nel ’76, Pezzatini decideva la sua prima ridu-
occhi come una nebulosa di punti impazziti, senza centro, formi-
zione pittorica stendendo una sopra l’altra tre compatte superfici
colanti. Un paesaggio soffice, spugnoso, pellicolare che puoi at-
di colore, gialla, blu e rossa. E più tardi, non bastandogli quella
traversare in tutte le direzioni. Dove non ci sono corpi, ma sol-
semplificazione di pigmenti, poneva tra parentesi anche lo statuto
tanto abiti, travestimenti e sopravvesti.
del quadro. Rinunciava alla tela e congegnava una ridottissima
Che fare allora? Come non accogliere la sfida delle maschere af-
‘macchina’ cromatica consistente nella fabbricazione di un filo,
frontandole sul loro terreno?
tutto a spine e simile ad un rampicante, con i tre colori primari.
La nostalgia - dicevo - sembra assente e dunque, se il passato ri-
Considerato il momento, si poteva essere indotti a giudicarla
torna, non ha l’autorità, il peso, le gerarchie che la storia gli ha as-
un’opzione analitica e concettuale. Ma se il proposito andava par-
segnato. Semmai, più che la storia, è l’arsenale della post-storia ad
zialmente in quella direzione, si è visto in seguito e con sempre
irrompere, cioè un tempo fatto anch’esso rimbalzare, al pari dello
maggiore chiarezza dopo l’Ottanta, che altre ragioni finivano per
spazio, in maniera intermittente, antilineare, ondulatoria.
prevalere, perché il filo svolgeva sì, per certi versi, un pensiero
Un’ opera si intitola: I am not afraid of blue yellow & red, come
sulla struttura del dipingere, ma era al tempo stesso un versatile
dire: Chi ha paura del filo? Perché temere il sistema della Pittura?
materiale costruttivo, particolarmente adatto a commentare degli
Se attiriamo il demiurgo (l’arte) nel gioco del mondo, anche la sto-
spazi reali, a calarsi sulle cose e ad imbrigliarle in un intrico di pro-
ria degli stili, con tutti i loro monumenti, può acquisire la legge-
spettive. Osservandone la fattura, veniva inoltre da sospettare che
rezza della favola e dell’incanto. Può, ringiovanendo, essere un
l’autore, con quel suo ripartire da una elementare soglia cromati-
dono spiritoso, trasferito sullo scaffale di una vetrina. Ed il passato
ca, volesse in qualche modo battersi ad armi pari con gli onnipo-
(la sublimità del passato, strappato alla presunzione dell’originario
tenti processi tricromatici del video e della stampa di consumo.
e dell’intoccabile), rivivere per via di affettuose e sottili citazioni
Era infatti troppo evidente l’ironia (talvolta la divertita condi-
nello spazio dell’esistenza. Che è quel che appunto succede alle
scendenza) con la quale l’artista annodava al filo e quasi, direi,
minuscole colonne doriche e agli archi di I am not afraid.
prendeva all’amo certe ricorrenti mitologie, eroi e sogni fatti cir-
È una questione di levità, di sapienza nel volo (di “dolci” pastic-
colare sul mercato delle immagini, per non pensare che egli si
ci, anche) dell’immaginazione.
lasciasse guidare da un’idea di confronto con i luna-park e i fan-
Ogni volta che mi avvicino ai lavori di Pezzatini, sono costretto a scar-
tasmagorici ingorghi dell’universo metropolitano.
tare di lato, a spogliarmi di alcune persuasioni. Soprattutto mi con-
Oggi, come allora, egli si muove con disinvolta noncuranza e
vinco che, assieme a pochi altri, egli faccia sopravvivere un’arte del-
senza apparente rimpianto in mezzo all’inautentico, fra i prodotti
l’intrattenimento, cordiale e difficile, che i più hanno dimenticato.
di plastica, fra copie e ripetizioni. Ha il gusto del bazar, della finta
Provo ad adunare gli elementi del gioco e a leggerne le proce-
confiserie, del gioiello da contrattare al mercato delle pulci. Ed
dure. Tutta l’attrezzeria, pur così variamente congegnata, pittori-
abile, com’è, nel truccare le forme, dà spettacolo (a volte delle
ca ed extrapittorica, finisce per ribadire un’invariante tematica o,
performance in miniatura), lavorando di cosmesi sulla cosmesi
per dire meglio, la centralità di una figura.
esistente. Afferra al volo un segno, lo manipola, rimpasta ed infi-
La “valigia” col suo tesoro mandalico, il “Filo-kit”, le “Spille”, gli og-
ne rilancia provocando rapidi cortocircuiti nella rete delle abitudi-
getti da tasca, le macchine volanti (o le molecole di filo) dipinti sui
ni. Di recente ha cominciato a far uso di friendly plastic, una spe-
manifesti pubblicitari e le numerose installazioni nei luoghi comu-
cie di gomma attaccatutto, con la quale agglutina frammenti ed
nitari, questi ed altri interventi, che cosa vengono a testimoniare,
inventa connubi ‘impossibili’ seguendo la provocazione contenuta
quale ritratto delineano se non quello, per impiegare la bella
negli oggetti. Il caso lo attrae come un varco aperto nell’uniformi-
espressione di Jean Starobinski, dell’ artiste en saltimbanque?
687
Di tutte le possibili definizioni che pure servirebbero a spiegare
le chiedersi chi sia l’autentico detentore del movimento: se l’ar-
il lavoro del pittore, questa pare reggere fino in fondo. È la sola
te o l’artista, il filo o il funambolo. Nel continuo scambio di ruoli
capace di abbracciare, raccogliendoli in un unico nodo, una mol-
può avvenire infatti che l’attrezzo sfugga ed assuma la vita indi-
teplicità di elementi che altrimenti rischierebbero di disperdersi.
pendente di un personaggio.
Del resto è nella stessa natura del funambolo la dispersione dei
In una serie recente di acquarelli ed acrilici si è affacciata una co-
segni, il badare ai processi più che alla conservazione, il far conto
stellazione di temi, per così dire, fraterni e ruotanti intorno ai mo-
su un perpetuo ricominciamento.
tivi, qui complementari, dell’infanzia e del volo. Come se inse-
Tra apparenza e apparenza, fra trucco e trucco ecco il movimen-
guisse un autoritratto immaginario dislocato su diversi piani e
to della sfida. Da un lato il flusso e la corrente delle merci: lo
tempi, lo sguardo percorre tappe d’adolescenza e di crescita,
spettacolo urbano. Dall’altro l’esercizio del prestigiatore, il salto
mentre sciamano attorno, su altre carte, fantastici stormi di mac-
dell’acrobata, la catena delle metafore tessute sul poco e talora
chine volanti. Il gioco del bambino si alterna ai volti di oggi, ve-
sul niente; la coscienza, se si vuole, che ogni salto avviene sem-
lati da una tempesta di punti. All’esercizio di equilibrio con i ba-
pre nel vuoto. Tant’è vero che la figura protagonista, quando
stoni da viaggio succede una mareggiata di acrilici. A generarli è
vien fatta parlare di se stessa, nella finzione di un testo (per di
la stessa tessitura della forma, quel tre, assunto come seme e
più “miniato”) che mima la confidenza poetica, si esibisce nella
cellula creativa, che fino a poco tempo fa veniva offerto e di-
povertà e nella perdita d’equilibrio: l’artista è - dichiara - a pup-
sperso in scambi simbolici. Dalla semina è scaturita una folla di
pet, una marionetta. Cammina sul precario. Eppure non si perde
erranti. E quel che più interessa, forse, è che tutti insieme contri-
mai del tutto perché resta sospesa nella macchinazione del filo.
buiscono a delineare i contorni del pittore-mimo e saltimbanco.
Esso contiene - aggiunge - la forza che salva, l’oro dell’arte,
Una serie di transiti agita la rete delle somiglianze: transiti dal
“creatore del cielo e della terra”. Per parte sua l’attrezzista non
passato al futuro, passaggi dalla memoria personale a quella col-
può esserne che il custode e l’interprete.
lettiva, andirivieni fra la città e la casa, tra il pubblico e il privato.
Data una simile consanguineità operativa, è naturalmente inuti-
Pezzatini porta a contatto i diversi.
Avevo dubitato (devo confessarlo?) che egli non avesse più radici e non ci tenesse neppure ad averle. Avevo temuto che lo
scenario moderno avesse inaridito in lui le risorse della memoria. Ed invece non è così. I ricordi li porta con sé, miniaturizzati,
tascabili, pronti a lanciarsi in acrobazie.
Avendo compreso che il destino delle immagini può essere affidato
alla rapidità della metamorfosi e del trucco, adotta la destrezza del
clown. Amletico e solo in abito punk, sprigiona umori palazzeschiani, più risentiti di quanto immaginassi, nei paesaggi che attraversa.
Ci prepara ad un viaggio consegnandoci una attrezzeria ed un
vestiario e se lo seguiamo, ci porta sopra le nuvole, in una astronave alla velocità della luce.
Niente orizzonti e parapetti. Facciamo tuttavia attenzione:
l’astronave siamo noi. Il vero viaggio avviene, come sempre, in
una stanza, mentre il carillon fabbricato ad Hong-Kong e comprato in America si trasforma in una piccola visione.
(1) Scritto in occasione della mostra “Lorenzo Pezzatini”, Libreria Galleria “Einaudi”, Mantova, 1986.
L. Pezzatini, Senza titolo, 1986, serigrafia.
688
Una stanza e una riva, la pittura
la cui garanzia il segno non raggiungerebbe mai la densità di
Fernando Malavasi
pronuncia che gli è necessaria. L’idea del testo come luogo cir-
(1)
coscritto, segregato, ribattuto in se stesso.
Sarei tentato, approfittando della secca cesura intervenuta nella
Si guardino i dipinti. Non ce n’è uno che si abbandoni a traietto-
ricerca di Malavasi a cavallo fra il Sessanta e il Settanta, di figu-
rie di sconfinamento e debordi dal limite che gli è assegnato. Ep-
rarmi due fasi divergenti e quasi contrapposte: una ancora lega-
pure la visione è tutt’altro che statica, anzi addirittura vibrante e
ta al tema della rappresentazione, intenta a sondare attraverso
talvolta presa in una effervescenza di combustione. I segni oscil-
il paesaggio le strutture del visibile, l’altra ripiegata invece al-
lano, brulicano, si agitano, fomentando scorrimenti senza fine. E
l’interno, centripeta, prevalentemente introspettiva. Aperta, la
cionondimeno il campo visivo rimane demarcato, rigorosamen-
prima, sul ventaglio dei sensi, cromatizzata, espansiva, atmosfe-
te ‘chiuso’. Una sottile cintura di vuoto si stende tutt’attorno e
rica; analitica l’altra, sospinta verso gli estremi dei buio e della
non è consentito oltrepassarla: una periferia impalpabile, che
luce, arduamente disciplinata, riduttiva e mentalistica. Una di-
spesso non è neppure figurata e comincia semplicemente, con
stinzione, questa, che mi sembra reggere abbastanza bene, so-
un taglio secco, là dove la superficie finisce. Oppure, quand’è in-
prattutto guardando le cose da lontano e tenendo conto degli
dicata, la si riconosce in virtù di un’assenza, per via di un ele-
esiti tipici, più radicalizzati sul primo o sul secondo versante. Ma
mento disanimato e di quell’esigua porzione di fondo che è ri-
nell’osservare poi i dipinti da vicino, seguendoli nelle loro se-
masta scoperta.
quenze e articolazioni di serie, le differenze appaiono assai
La mano si arresta sul margine, ferma il passo. In tal modo segna
meno contrastanti. Una caratteristica sfuma nell’altra e si scopre
i confini del proprio respiro, come accade a chi abbia scelto di
che si tratta di una dialettica presente in entrambe le epoche,
agire nello spazio concluso di una stanza; stanza beninteso im-
naturalmente secondo accentuazioni e polarità, intersezioni e
maginaria perché i muri non esistono e viene a mancare il prin-
scambi che mutano di peso nel corso degli anni. Non solo: in cia-
cipio stesso di una materialità che incornici e tenga insieme a
scuna fase si disegna una sorta di curva delle emozioni, come un
forza, presenza più robusta delle emergenze che verrebbe a
movimento ripetuto, prima largo, poi esplodente e accelerato,
contenere, le icone consegnate all’interno.
che va dai sensi alla mente con una risoluzione, in ambedue i
Come spiegare un simile, inconcreto contornamento? Questo
casi, della pittura in impulso segnico e calligrafico. Solo che (ed
stare e insistere e far tremare le forme circondandole di niente?
è questo il motivo, per me, dominante a partire dal ’77-’78)
E per di più l’adesione progressiva al pastello-pagina? Un’ipotesi
sempre più incalza, per effetto di un ridotto e perciò stesso for-
plausibile è che il dipingere eserciti una funzione selezionatrice
temente ribadito ventaglio di elementi compositivi, specie i co-
e purificatoria: condensi gli spazi nel minimo e li sprema per ri-
lori, il processo di saturazione timbrica. Lo spazio si impregna di
cavarne le soggiacenti figure intensive.
forze contratte, portate all’essenziale, che in certo modo premo-
Quanto alla testualità, serrata, come si diceva, e ribattuta in un
no e bruciano in silenzio.
fitto reticolo di evidenze formali, essa va proprio ad incontrarsi
Ora, di tutto questo lungo itinerario, la mostra propone il momen-
col suo contrario. Con qualcosa che denominare motilità o agita-
to intermedio, a ridosso dell’interruzione che ho appena ricordato,
zione è troppo poco, avendo a che fare con balenamenti e scin-
cinque-sei anni prima del ’67 e il biennio della ripresa, con i pa-
tille, frantumazioni, schianti e incenerimenti.
stelli ispirati all’isola d’Elba, tralasciando di proposito quel che
Spinta e controspinta: una lotta dello stile per tenere testa al ri-
ormai, nel caso di Malavasi, ci si è abituati a chiamare "lavagne"
schio di sperdersi, cui lo sguardo è costantemente esposto per i
e "scritture". Fantasmatiche radiografie e mappe del bianco e del
fenomeni che osserva. E lo si vede, dato che sulla superficie tra-
nero assoluto. Tavole, si potrebbe dire, di meditazione.
bocca l’enigmatico ordito della natura. Ordito vitale, ma anche
Una caratteristica è comunque, allora e oggi, ben ravvisabile:
friabile e in decomposizione. Cieco e illuminato; alternativamen-
l’invariante formale (vedremo poi che c’è anche un tema), senza
te disarmonico, in schegge, oppure rasserenato e splendente.
689
La pittura si abbandona, tenendo viva, però, una misura di resi-
un’ansia maggiore di figure. Non perché la luce si affievolisca. È che
stenza. Il che avviene facendo leva sulla strategia del ritaglio e
il riarso, il corroso, il disanimato sprigionano degli allarmi, incenti-
della sonda. Fissando appunto i confini, una zona di approdo.
vando il bisogno d’una chiarezza più secca e cristallina.
Un’immagine, questa, della spiaggia e della proda (ma potrei
Non so come sia avvenuto, ma a un certo punto le immagini si
anche dire cammino e sentiero), da segnalare subito perché at-
raggrumano intorno ad un perno fantastico e scatta l’analogia,
traversa come un filo rosso innumerevoli dipinti, quando non pre-
l’intimo legame fra le differenti sponde del visibile. È il tema as-
sti loro perfino la sua medesima configurazione. Cos’altro mai è in-
sediante del bordo e della riva. Anche il bosco diventa uno spa-
fatti, in molti casi, il riquadro dei pastelli se non un lembo inten-
zio di risacca, un nastro di tracce e di detriti.
sificato del paesaggio? Una ‘stanza’ ricavata sul filo delle cose?
Nei pastelli del ’63, in coincidenze con le prime marine, il segno
A volerne cercare l’antefatto, lo vedrei in quell’allargamento del
ha modo di fissarsi a lungo su una veduta per afferrarla. Va alla
primo piano che in taluni ultimi quadri del Cinquanta attira la
ricerca dell’immagine per tradurla in emblema e correlativo og-
vista e la tiene ferma al suolo. Fa in modo che l’occhio, attac-
gettivo. Da quel momento, come si vede nei cinque fogli che,
candosi alle terre e ai verdi, addensi quel che trova a distanza
uno dopo l’altro, mettono a fuoco il medesimo oggetto senza
ravvicinata, secondo la lezione del naturalismo moderno di un
mai variarne l’angolazione (dei relitti d’albero sulla spiaggia), le
Morlotti o di un Mandelli, ma con qualcosa anche di nuovo e par-
cose cominciano a essere indagate anche per le associazioni che
ticolare, consistente in una presa, come dire?, orizzontale e ‘qua-
poeticamente custodiscono.
drata’ del paesaggio. Rispetto inoltre ai densi calibri morlottiani,
Le forme si consolidano e, al tempo stesso, risplendono. Acqua,
i colori rivelano nei loro germi una ricerca di diafanità; sono sma-
sabbia, legni assumono una consistenza vetrosa. Promanano luci
teriati e intimi, segreti e opalescenti come certi fuochi bianchi
fredde. Contengono contrari, ambivalenze.
che Renato Birolli andava dipingendo a quell’epoca. Il luogo in-
Nel giro del ’65 e del ’66 si fa largo un itinerario che non è im-
somma resta una ‘visione’. È Tobey, però, che determina lo scar-
proprio considerare drammatico per le stesure dissanguate dei
to decisivo. Con lui si corre nel continuo.
colori. Che sono gli stessi di prima, ma calcinati e bruciati. Tra-
Scompaiono gli assi e i centri, le differenze di principio fra le pul-
dotti in crete. Le correnti aeree si sono mutate in solchi, fendi-
sazioni del colore e quelle della grafia. Si assesta l’idea di
ture, canali lenti e affaticati.
campo pittorico, cioè l’"approdo", col quale si entra nel vivo del
Il chiaro ha una valenza di cenere e la vegetazione, quando
ciclo esposto.
viene riplasmata sulla tela, si caglia in fibre grosse e larghi nodi
Ed ecco il nuovo inizio: un’avventura nei sottoboschi del Garda, fra
di cellule. Quasi dappertutto si insinua una lattiginosità fatua,
tronchi, erbe, sassi, insetti, mezze luci, profumi, odori. Il secco e
uno splendore pallido di gusci abbandonati dai corpi, assieme ad
l’umido, ma soprattutto la natura formicolante, asciutta e trasluci-
azzurrità, acquamarine, zafferani illividiti.
da, intrisa d’aria e di vento. Le cromìe si mettono a vibrare come
Più che sentieri, le grafie disegnano strozzature. Sembrano ser-
girandole. Alitano e si frangono in trasparenze. Ho in mente (e le
penti torpidi. Rifluiscono e stagnano. Si ha il sospetto che stiano
porto ad esempio) due o tre carte del ’62 e ’63, dove fibre, sca-
tessendo oscure allegorie, di cui traspaiono soltanto incerti indizi.
glie e filamenti vanno e vengono in un’unica, vaporosa folata, di-
In realtà il loro senso sta nell’essere metafore dell’impaluda-
radata in qualche punto e più condensata in altri. Respiri che pro-
mento e del groviglio, anche se alla fine, tra vaporosità acide di
pagano moti perpetui. Fremiti della "bellezza del mondo".
giallo e di indaco, affiora esplicitamente dal giro di una forma la
In casi come questi si distende per intero il nastro dell’iride. C’è un
figura sospesa di una vanitas. Ed è l’estrema, non più oltrepas-
accordo di faville lungo le corsie del movimento. Dominano sì i gial-
sabile effige, l’ultima parola dell’approdo, nel ’66.
li e i verdi, ma intrecciandosi con gamme di rossi, viola e azzurri.
È vero che Malavasi continua a dipingere, ma di contraggenio e
Quel che accade invece quando lo sguardo si addentra più a fondo
in modo curiosamente sperimentale, lontano dai toni effusivi e
nel sottobosco e scopre le macerie del vitale, provoca - credo -
intensi che gli sono propri. Rinuncia alla ‘stanza’ e agglomera
690
frammenti, sforzandosi di plasmare a forza di contenuti per altro
gia, ne scopre uno nuovo dentro di sé.
rivelatori (parapetti, linee d’acqua e di sabbia, ringhiere, eccete-
Ha accumulato abbastanza sapere e coraggio per inoltrarsi in un
ra), un edificio che non sta in piedi. Lui che s’è sempre affidato
mondo che soltanto per convenzione definiamo astratto. Lo
alle energie di condensazione, opta per il mosaico e il montag-
guida la sua immagine centrale, tuffata nei fantasmi interiori.
gio.
Che la si chiami "riga", "scrittura" o altro, non importa. È pur sem-
L’estremo che ha toccato, l’insopportabile negativo del "caos",
pre ‘la riva’ su cui sbattono i frangenti dell’impulsività e della co-
come egli stesso chiarisce, gli fa temere d’essere sprofondato in
scienza, ciascuno con risorse proprie, minacce di cadute e crolli.
una regione senza ritorno.
Forse sono i "sensi e la mente", e - per dirlo con Malavasi - "la
La ‘paura’ del disordine e dello sperdimento lo spinge a scostar-
mano e il cuore". Ora si tratterà di far fluire la pittura su questi
sene, a prendere le distanze dal pericolo. Ed occorre tempo (e si-
puri registri, di ‘viverla’ e di ‘pensarla’.
lenzio) perché quel gorgo venga aggirato. Si sa che la riva è un
luogo di ambivalenze, di doppi sensi, di grandi rischi e di altrettanto grandi conquiste. Non per niente questa duplicità ha ossessionato la fantasia dei poeti che l’artista non ha mai smesso
di frequentare. I ‘fabbri’ della parola e i decifratori del naufragio
come Eliot, Pound e Montale, autori dei quali ha talora riportato
i versi fra i colori: versi letti e riletti, trasferiti, come raramente
capita di vedere, in modo così riservato, acuto e personale.
Si capisce perciò come la ripresa non possa scaturire che dallo stesso mitologema. Direi anzi che quando, nel ’75-’76, il pittore ricomincia, conclude davvero la seconda parte del suo confronto col caos.
A Marina di Campo, nell’isola d’Elba, il mare fa irrompere la polarità attesa, promessa dalla riva. La baia, il cielo, l’acqua deflagrano in
luci senza peso. Basta una variante nell’attacco al paesaggio perché punti e virgole colorate roteino generando risplendenti campi
di irradiazione. Sbattimenti, sussulti, fuochi policromatici. E la lucentezza viene incrementata dal fatto che le cose (anche la vegetazione e la terra) sono diventate specchi solari. Tutta la superficie
è soglia radiante. Accoglie la pioggia della luce e la rimanda.
Il ‘miracolo’ è tale, così sovrabbondante e gioioso lo spettro colorato, che sempre - restando in fusione - l’occhio può tentare
esercizi di analisi e far cadere sulle carte alcune misure di quell’emozione: graticole e brevi scie di colore, che sigillano dei gradi
nella scala della luce.
Le traiettorie sciamano per proprio conto, bianche, lievissime,
segmentate, brucianti nei primi fogli del ’77. Cominciano ad intersecare spazi liberi oppure (è il motivo che ritorna!) zone di
cerniera fra lo scuro e il chiaro. Sapendo quel che in seguito è
avvenuto, vien da dire che l’artista chiude definitivamente la par-
(1) Scritto in occasione della mostra “Fernando Malavasi”, Libreria Galleria “Einaudi”, Mantova, 1986.
tita col paesaggio. O meglio: abbassa le palpebre e, per analo-
691
Passione–malinconia nelle geometrie di Lucio Saffaro
(1)
cronistica e perfino sospetta, quando non si considerino i pochi
e tuttavia mirabili esempi di chi ha saputo nel Novecento far
Descrizione del tempo si intitola la vasta antologica di Lucio Saf-
poesia interrogando gli enigmi della geometria e della mate-
faro alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna: mostra
matica. Un sospetto che l’autore avverte certo con acutezza, ma
con la quale si ha la rara opportunità di abbracciare per intero
che non si cura nemmeno di rintuzzare nei modi facili e mon-
un percorso artistico ormai più che trentennale. Nel Mantovano
dani della polemica, fidando piuttosto sull’eloquenza del silenzio
potrei ricordare di lui soltanto un paio di sortite, rimaste per di
e sull’intimo spessore del proprio linguaggio estetico.
più senza seguito nonostante l’interesse che avevano suscitato:
Aveva ragione F. Arcangeli. Quel che interessa, oltre al “fascino
una nel ’67, con la rassegna viadanese “Ricupero del fantastico”
letterario ed esistenziale della sua arte”, è “l’ineliminabile spe-
e la pubblicazione del “Trattato del Modulo”; la seconda, a late-
cificità della pittura”, una qualità che subito persuade visitando
re del bimillenario virgiliano, con la conferenza a Palazzo Te sulle
la mostra. Nel ripercorrere a Bologna un cammino che appare
strutture numerologiche dell’ Eneide. Dunque pochissimo, ma
sempre stringente e serrato da un’indefettibile logica creativa, in
abbastanza (se si aggiunge la bella e compatta esposizione di
uno spazio affollato di geometrie sospese e rarefatte, vediamo
Castel Vecchio nel ’79) per far nascere il desiderio di conoscere i
le immagini avanzare su se stesse; lucide, febbrili, in trasforma-
presupposti e le articolazioni del suo discorso.
zione. Si resta come avvolti e trascinati dai passi che loro stesse
Fra gli artisti di oggi Saffaro è una figura singolare, tutt’altro che
hanno compiuto nel tempo. Ed è questo un modo per coglierne
facile da inquadrare. Triestino di origine (un dato culturale che
la ricchezza di sviluppi interni, la mobilità di segno, le variazioni
forse può servire), studioso di fisica pura, saggista, pittore e
cromatiche.
poeta, sembra riproporre una forma di intellettualità quasi ana-
Si dirà che tutti i pittori esigono una lettura totale, ma nel caso
di Saffaro questa esigenza si avverte con urgenza particolare
perché la sua invenzione è costituzionalmente sorretta da una
sorta di meccanismo continuo e periodico. Nessun segno sta mai
per sé. Un foglio disegnato o una superficie dipinta, per quanto
artisticamente compiute, fanno parte di una struttura circolare.
Sono elementi di un mosaico che respira per capitoli, sezioni e
paragrafi. Sintomatica, ad esempio, la Disputa ciclica durata tre
lustri; la serie di Opus; o il gioco di specchi e riflessi fra le tavole del “Polifilo”; oppure, in poesia, il gettar ponti e prolungare i
tragitti verbali fra testi lontani e diversi. Quando, nell’ultima sezione pittorica, si incontrano i due grandi poliedri azzurri che a
forza di intersecamenti e germinazioni sfiorano i limiti dell’armonia sferica, è quello stesso pensiero ciclico e poetante ad affacciarsi visibilmente. Quieto, sereno e immobile soltanto in apparenza, poiché procede nel silenzio di un calcolo intellettuale,
esibisce il fervore di cui sono carichi i luoghi mandalici. È rosa
minerale, labirinto cristallino, loto e cerchio della conoscenza.
Dai primi lavori metafisici, illuminati da luci di De Chirico, Mirò e
Klee, fino agli ultimi, è un continuo sdipanarsi, ragionato e visionario insieme, delle figure astratte della mente. Una ricerca in
forma di viaggio – ha scritto Paul Ricoeur -, impossibile da rias-
L. Saffaro, Monumento a Keplero, 1975.
692
L. Saffaro, Il poliedro M2, 1985.
693
L. Saffaro, Ritratto di Velázquez, 1963.
L. Saffaro, La Quinta degli innocenti, 1976.
sumere. In casi come questo, così largamente alimentati da fonti
l’intelligenza artificiale può aiutare a far fiorire un giardino di
antiche e moderne, l’interpretante finisce con l’essere coinvolto
“rose”. Descrivere il tempo significa probabilmente raffigurare le
in infiniti rimandi. Eppure si ha - anche - l’impressione che al
mappe aperte delle immagini pure, in attesa di toccare il nodo
centro stiano poche immagini fondamentali, interrogate senza
ineffabile dei problemi: vuol dire disegnare con ansia plotiniana
sosta, sfaccettate dai paradossi ermeneutici. E ciò accade perché
le figure dell’esilio nel tempo della ricerca.
l’artista trasferisce la mathesis contemporanea negli universi
ambigui dei simboli, con uno scarto spirituale che ricorda i neoplatonici del Rinascimento.
Oltre alle argomentazioni complesse di una spazialità non più finita e prospettica, tipica della scienza post-euclidea, di profondamente attuale e nostro vi è l’inquietudine del domandare. Vi
è l’idea che il perfetto cerchio speculativo sia irraggiungibile, pur
dovendo l’uomo d’oggi abitare nel movimento che lo cerca. Vengono allora in mente Benjamin e Wittgenstein. Voglio dire la loro
tristezza (il che non esclude però la passione) che in Saffaro assume, come in loro, un volto laborioso. Numeri, segni e parole
(1) Articolo comparso su “La Gazzetta di Mantova” il 20 dicembre 1986.
definiscono le questioni. Servono a metterle in forma ed anche
694
Paesaggi con Baubo
creazionali: coloro che, come Klee a esempio, pur essendo con-
Vasco Bendini
sapevoli della fragilità degli stati creaturali, non hanno esitato a
(1)
dichiarare: «Io sono Dio. Tanto di divino si è accumulato in me
Il frenato e chiuso splendore dello stile, la forma in sé e per sé
che non posso morire. La testa mi arde da scoppiare». Potrei
non interessano certo Bendini. Qualcos’altro infatti gli preme di
evocare l’occhio-spia di Duchamp. La fessura da cui ha inscena-
più e più a fondo.
to, in occasione dell’ultima opera, una versione moderna del mi-
Sotto la scorza di figure riconoscibili o frante, sotto le ondulate
stero di Demetra e della Kore: e perfino, benché tanto formal-
linee dei corpi evocati in questi disegni a lembi e frammenti, re-
mente lontana, la pittura ‘sporca’ e oggettiva di Courbet, la cui
stituiti, si direbbe, per via di liquefazione e quasi irradiati nella
Origine du Monde è qui più volte riecheggiata.
bianchezza dei fogli, si scopre un motivo ostinato: un proposito
Ci sono dettagli dell’ album, certi movimenti dell’immaginazio-
che non saprei definire altrimenti che come un immergersi nelle
ne e dello stile che invitano a tenerne conto, cosi come una ra-
acque del pensiero e uno sporgersi dello sguardo nei segreti not-
pida consonanza tematica nell’ ostensione dei nudi può far rim-
turni della creazione.
balzare l’eco di un mito comune (n. 9): la scena della divina in-
Sento la meraviglia annodarsi al travaglio: un’unione, un fare e
decenza, per esempio, il mito di Baubo. Ma se anche mancas-
patire insieme, che sta all’origine dell’insolita ‘gioia’: stupore
sero le tracce (e ci sono) di simili incroci, l’importanza del pen-
della coscienza che vede affacciarsi «storie naturali infinite» nel
siero ‘creativo’ vien fuori in continuazione nel lavoro di Bendini.
fondo stesso di ciò che è cieco, dentro le gravitazioni surriscal-
Con tanta frequenza anzi che si desidererebbe mettere a con-
date dei sensi. E l’illuminazione è lì, pronta a risplendere ogni
fronto grafie, dipinti e oggetti per scoprire in quali epoche le
volta che un moto d’origine comincia a pulsare nel ricercato con-
carte dettate dall’ eros abbiano conosciuto una redazione più
tatto del «mio» corpo col mondo. Ecco, potrei citare a sostegno
folta ed insistita; se esse, come viene da supporre, siano uscite
di questa temperie altri autori, assediati anch’essi da fantasmi
in folla nei momenti di maggiore autoriflessione, accanto ai
V. Bendini, Senza titolo, 1984, matita su carta, cm 24x34.
V. Bendini, Senza titolo, 1984, matita su carta, cm 24x33.
695
volti, agli scandagli gettati attraverso lo specchio (penso all’in-
senza misura, di una presenza aperta, spostata, negata. E ugua-
stallazione di Com’è), ai «sudari» e ad altri nuclei pittorici.
le dis-centramento accade nella peripezia amorosa dei corpi dis-
Intanto, per questo gruppo in particolare, non si può tacere la con-
sigillati dal disegno.
comitanza con la grande Ballata dei cieli, con una serie, voglio
Neppure un’immagine resta prigioniera del proprio contorno. Si
dire, compatta di quadri ispirati alla genesi e al tòpos cosmogoni-
va sotto o si esce. Oppure l’immagine si ripete moltiplicandosi.
co, dove la mente percorre in cerchio una sequenza di strappi e
Tutto acquista la trasparenza dell’aria o la complicazione del ger-
addensamenti come se fossero una sola ininterrotta stanza sono-
moglio. Vengono liberati i frammenti (le maschere per la recita-
ra. Né si può dire che essa rappresenti la parafrasi di un qualche
zione del corpo amoroso), che hanno il carico fantastico dell’in-
testo, magari biblico. Non lo si può dire perché l’ordine delle figu-
tero. E l’effetto è poi questo: che lo spazio vuoto, in rapporto alle
re deriva soltanto da un’intima e imparagonabile stazione d’avvio
sorvegliatissime misure dei neri, gode di una straordinaria riso-
e da lì si svolge seguendo una propria cadenza. Segno evidente
nanza, simile a quella di una vocalità fatta finalmente espande-
che il processo comincia da dentro, per espandersi in strati imma-
re da un macinato grumo di fonemi. Il fatto è, mi sembra, che
ginari e ritornare infine al nucleo ‘drammatico’ in metamorfosi.
partendo da un punto, la grafia corre ritmicamente e accelera il
Del resto, che l’idea di creazione faccia tutt’uno con quella di co-
passo per autogenerazione (n. 9), onda su onda, da un’incre-
noscenza e che questa proceda per salti di piano e passaggi da
spatura a un successivo dilatato arricciamento, in maniera che
una sfera all’altra, percorrendo in certo modo i profili dei corpi e
l’impulso iniziale finisce per elettrizzare tutta la pagina. E rie-
spalancandoli su altri orizzonti, lo si vedeva in alcune tele del ’69
cheggiare nel bianco.
-’70 adunate intorno a un autoritratto in ebollizione.
Per questo parlerei di passi leggeri di una mano guidata dalla forza
In quel caso la vista, intensificandosi, apriva involucri, strati e so-
espansiva della maschera; dell’effetto globale, come ha ben os-
glie. Scuoteva i perimetri e li rendeva fluidi.
servato Paolo Fossati, del ritaglio: di sguardi che sfiorano, accarez-
In Bendini, anche quando compaiono le cose, si assiste al para-
zano e rimodellano le forme. Poiché se l’immagine è il campo di
dosso della non-estensione o, che è lo stesso, di una latitudine
intervento, la frammentazione erotica vi introduce la logica del-
V. Bendini, Senza titolo, 1984, matita su carta, cm 24x33.
V. Bendini, Cirri, nubi, 1984, matita su carta, cm 24x33.
696
l’intermittenza. Di un intero fa balenare soltanto i punti vibratili, gli
piano il fervore di entrambi i ‘principi’. Lo convoca col suo ven-
unici che sappiano terremotare o lievitare la geografia dei confini.
taglio di tensioni opposte, con i segni ora oscuri e ora lucenti, con
Che cosa diventa il corpo dell’ altro? E che cosa il ‘mio’ corpo?
tutti gli incroci e le x, formali e tematiche, da cui le pagine sono
Bocconi, come una duna, talvolta la forma femminile. Tal’altra
abitate e che, nei momenti di maggiore indistinzione, sono presi
una nuvola, un dirupo, una valle, una trama intricata di sentieri,
nel giro di un solo movimento.
una cometa, una costellazione. Un cumulo anche di profili e
Allora, all’interno di una così solidale danza di punti e segmen-
spessori (n. 6). La sineddoche non ha limiti. Sprofonda nel buio
ti, di fili e molecole, il piacere della sequenza scuote a fondo lo
oppure fa il contrario. Cerca cammini elevati, ultrasensibili. Nel-
spazio. Il moto della mano appare sciolto da pesi: una succes-
l’intensità abbandona le vie di mezzo e batte i tasti dell’infero o
sione di azioni (n. 12); e vien da pensare che il moto così libe-
del sublime, gli opposti che circolarmente rinviano a un medesi-
rato assista alla propria dilatazione creativa; che guardante e
mo punto di rottura.
guardato, coscienza e manifestazione coincidano come i battiti in
Basta sfogliare il quaderno per constatarlo. Quante volte si ripete
uscita ed entrata del cuore.
l’episodio misterico che fece sorridere, nell’antico racconto, la
Cuore cosmico, ben s’intende.
madre di Persefone: il gesto di denudamento di Baubo. Quante
E anche tema del proprio ascolto, tanto importante in Bendini.
volte il sesso è esibito e rivelato: esibizione, stando alla tempera-
Dopo e oltre l’arsura delle seduzioni, si espande «la tranquilla e
tura del segno, demonica, sacrale, ctonia, mai inerte, ipofanica ap-
superiore condizione integrata di Ermafrodito». «Orgasmo bian-
punto, da cui fioriscono presto le cadenze ritmiche della forma. Gli
co, silenzioso, che affiora in leggeri trasalimenti e si ricompone
umori che si rapprendono in perle (n. 10). Il «nero», poiché di ne-
in un’attenzione contemplativa, analitica e capillare, avventurata
rezza e di macerata orditura in certi casi si tratta (nn. 15, 16), si di-
nella magia di ombratili microcosmi». Queste parole di Maurizio
pana in refoli di vegetazione e paesaggio. Dà luogo a terre inva-
Calvesi risultano ancora indispensabili per comprendere il clima
se dalla luce e a girandole astrali. Scopro nel minimo l’ordine del
spirituale dell’ autore, l’alto grado del suo registro epifanico.
grande e dell’universale, il principio delle gravitazioni, l’andare e
Quanto a quello basso, più esibitivo e drammatico, innerva dia-
venire degli elementi (nn. 17, 20). Intanto la passività stessa è
letticamente, mi pare, l’impazienza del ritorno. Per questo c’en-
un’azione e l’azione un patire e assecondare la forza che accerchia.
trerebbe ben poco una lettura in chiave «produttiva», mentre è
Chi pensasse alla docilità di un femminile costretto a procreare,
rilevante l’uso del piacere, o meglio la figura di quest’uso, nella
di una materia senza pensiero, è subito smentito. Quel corpo-so-
prospettiva della riflessione sull’Essere.
glia è animato da un’intenzione spettacolare e coreutica. Atten-
Si risale imaginalmente al luogo d’origine, «sempre più addie-
de, avanza, provoca, fa. Vuole, per dir cosi, oltrepassarsi nell’al-
tro», scrive l’artista. Dunque niente fecondità, ma desiderio di in-
tro. Esso è ciò che non solo si rivela, ma vuole farsi vedere. È
contrare la luce, anche nel suo volto meduseo.
l’innesco, il portatore della metonimia.
E goderne anche, «come Dio», per analogia, quando i sensi e la
Ombra forte in emersione, oscurità che viene alla luce lottando. E
mente «ardono tanto da scoppiare».
se in alcuni fogli mostra una ferinità senza nome, ciò dipende
dalla radicalità con cui fa recitare la sua energia di avanzamento.
Come se delineasse una collana di tappe, Bendini scandisce piani
d’esperienza. Fa scorrere i gesti del basso accanto alle metafore
cosmiche. E poiché sa dove vanno scovati i luoghi d’un naturale
che è stato rimosso, riattizza lo scontro-attrazione dei contrari.
Evento unificante, azione che coinvolge nello stesso tempo almeno due attori, l’eros allontana la memoria assillante della se-
(1) Contenuto in “Venti disegni erotici (1956–1984), con una dichiarazione di poetica”, Mantova, Gianluigi Arcari Editore, 1986.
paratezza, la ferita inferta all’archetipo felice, e convoca in primo
697
Per una “melanconia” attiva
Magari un riflesso etereo e una trasparenza stellare, da perla,
Gabriella Benedini
preziosa e distillata nella compagine delle velature, ma pur sem-
(1)
pre un’eco da inseguire.
Discesa e risalita fra allegorie e simboli: non saprei abbracciare
Si veda come le immagini vengano alla pittura da lontano, in
altrimenti che con queste parole il lungo, ostinato e interminabi-
uno spazio d’acquario, e come germoglino fragili negli aloni di
le scavo interiore di Gabriella Benedini. Uno scavo che, mentre
luce incerta, di mezza-luce, di crepuscolo imminente o già in
si affida, ad ogni tappa, alle risorse e, per dir meglio, al movi-
atto. Di fase in fase, di livello in livello, l’ombra torna a rifluire col
mento inquieto dell’intuizione, non può fare a meno di cercare
sue carico malinconico, che tuttavia garantisce, per l’incertezza
il possesso chiaro, quanto più lucido possibile, dei motivi che va
che convoglia, l’ambiguo e poetico pullulare delle interrogazioni.
indagando. E l’afferra, questa chiarezza (e geometria), ma per
Ed allo stesso modo il segno, talora incrudito e sbrecciato come
calare quasi subito nel giro di un turbato ritorno.
uno scisto fibroso, resta in bilico fra le opposte maniere della
Infatti quel che un segno limpidamente eseguito pareva avesse
pietra in frantumi e del cristallo.
calamitato e rinchiuso nel campo della tela, si rivela poi, nella
Mi interessa questa mezza-luce: luce di taglio, trasversale, ra-
distanza dal processo e dall’opera, un segnacolo ed un riflesso.
dente, inceppata, messa in croce, riavvolta infine in perimetri di
G. Benedini, Teatro delle mutazioni, 1984, tecnica mista su cartone, cm 73x102.
698
buio. Giacché non di una luce delle cose evidenti si tratta, non di
paesaggi e spettacoli quotidiani, ma di un inclinarsi tutto mentale e fantasticato, lungamente rimuginato, delle forme. Forme
che attraggono le figure del pensiero e sono appunto, se così
posso dire, i personaggi di una lingua interiore.
Se, come credo, le mappe della mente assumono per la Benedini la complessa geografia della biblioteca visionaria, ad introdurmi in quest’universo è la sua acuta passione per il linguaggio
geroglifico. Ed una prova ulteriore viene dall’ansia grammaticale
(da retore occulto), con cui articola emblemi, bussa alle porte ermetiche delle idee e visita, insieme ai maestri di Saturno, gli edifici impervi, per lo più abbandonati e desertici, tante volte ‘mancanti’ e silenziosi, della cultura visiva.
Quando ripenso alla serie delle “lettere” e alle “annunciazioni”
che hanno così efficacemente preparato, con i loro fermenti costruttivi, l’assetto dei “Teatri” di oggi, mi viene naturale coglierne centro e cuore in un luogo di intensa sostanza pittorica.
Se c’è stata, in un particolare momento, la lettura (e la dis-lettura
anche) di un’immagine antica, di Piero o dell’Angelico, ecco che,
G. Benedini, Teatro dell’annunciazione, 1984, tecnica mista su cartone, cm 120x100.
attorno ad essa, è cresciuto un altro dipinto, un genere insolito di
glassa e di cornice figurale. È fiorito il commento che si è fatto
testo, somma di commenti, collana in trasformazione dei segni.
provocato un confronto e un nuovo giro. Se le immagini muoio-
Con ‘vere’ lettere puoi discendere e risalire - insegna la mistica
no nella linearità cronologica, rinascono però nel fluire circolare
- la scala della manifestazione, purché tu abbia coscienza del
della memoria e del mito. Che è quel che ‘mostrano’ poi le ore
loro ritmo generativo.
assolute, fissate fuori del tempo, e i pendoli, simili a scrigni e a
Né la reinvenzione s’arresta perché il tempo ha in molti casi fe-
tanti magneti, della Benedini.
rito mortalmente un’immagine. Penso anzi che il naufragare
Come interpretare, ora, l’improvvisa ed oscura folata che viene
delle figure abbia reso ancor più febbrile il lavorio della forma,
addensandosi nel cavo della scena? Certo v’è implicato il senso
schiudendo di recente la più larga fonte delle opere al nero.
di un’epoca esangue. Un crollo di figure e di allegorie. Eppure val
Il primo dei “Teatri”, composto dopo l’incontro con Schifanoia e
la pena di insistere sul fatto che l’intero evento, con la sua folla
il trobar ‘aspro’ dei ferraresi, si è legato proprio ad un’assenza. Si
di metafore, sia stato ricondotto entro il cerchio della pittura.
è sovrapposto ad essa e rivelandola, dandola in figura ha sapu-
Conta l’intervento ‘forte’, cerimonialmente diretto sui tropi del
to riportare nell’alveo dei segni lo spazio nudo di una spoglia-
vedere. Cosa a tal punto vera che a trovarvi posto sono gli ele-
zione. ”La scena è vuota, gli attori sono scomparsi”, scrive l’arti-
menti dell’arte e le materie dell’operare.
sta. L’attraversano soltanto “alcuni fili calati dall’alto”. Come dire
Non per nulla nel breve film che accompagnava il Teatro chimi-
che anche l’oblio può essere riassorbito nelle maglie di un silen-
co di novembre, entrava in campo la mano dell’artista. Vi appa-
zio denso, pieno di riverberi.
riva per pochi attimi, con reticenza e trepidazione, per scandire
Quel corpo a corpo col tempo, con un tempo profano, rettilineo
il passaggio del tempo su una tavola cinquecentesca di eclissi. E
e violento, ha avuto (ma altre volte in passato c’erano stati epi-
tracciato un cerchio su una parete chiara, vi scriveva col gesso,
sodi di un analogo combattimento) una funzione decisiva. Ha
bianco su bianco, la parola “albedo”.
699
Così il tema processuale veniva consegnato fisicamente al rito;
co, estratto dal piombo, la base d’ogni coloritura: “una segnatu-
erano un’ombra lavorata, tradotta in figura, ed un chiaro operan-
ra di Saturno” quasi pura, sulla quale, come in un’azione sacrifi-
ti nella chimica dell’immagine.
cale, venissero a posarsi e reagire le mescole dei colori.
Si considerino i grandi spartiti delle messinscene: non un punto
Ebbene, nei “Teatri” del cielo e della nerezza le cromie plumbee,
resta abbandonato all’inerzia, coperto di tinture opache o allo
metalliche e minerali, i chiari di zinco formano una sorta di basso
stato di abbozzo. Tutto vi appare franto e levigato dalla mano.
continuo della composizione. Il colore della pietra gelata, ma di
Preso inoltre in un circuito di relazioni.
una pietra, si badi, insieme ctonia e stellare, si insinua dapper-
E la mutazione sta lì, nel cambiamento di stato dei colori, so-
tutto. Pietra di luna, si direbbe, caduta come un meteorite nello
spesa tra il sì e il no della luminescenza.
spazio gravitazionale della tela. Data una simile risonanza del
Ha notato Emile Zola nelle sue “Meraviglie della natura” che una
colore sento ricorrere la suggestione della metallurgia e dei la-
tipica procedura del pittore di icone consisteva nel fare del bian-
pidari. Gli azzurri hanno ben poco del comune azzurro. Evocano
G. Benedini, Teatro chimico di novembre, 1984, particolare della fascia centrale, tecnica mista su tela.
700
G. Benedini, Teatro chimico di novembre, 1984, tecnica mista su tela, cm 300x215.
701
il lapislazzulo e una velatura di bianco chiama il mercurio o la polvere d’argento. Il
Noi restiamo fra i pezzi di piombo, i gusci e
nero macinazioni e ceneri.
la ragnatela delle linee, mentre la vista li
Sarebbe tuttavia un errore ricavarne un proposito di annientamento. L’ombra è viva,
sorpassa per carpire uno spettacolo cosmo-
magnetica, formicolante. Si sposta dall’alto in basso, arretra ed avanza. Da qui e da
gonico.
nient’altro deriva il suo aggettarsi in scena.
Si fa leva sull’acutezza dell’occhio.
Nell’Opera al nero e nel grande Teatro di Saturno un quadrato mandalico si è inne-
Citando il Limex, la pittrice ha ribadito que-
stato sull’impianto del boccascena classico, rinascimentale. Quinte e tende incorni-
sta fiducia nello sguardo. Non solo: se un
ciano, squadernandole, le viscere della rappresentazione, i telai interni e le nicchie.
edificio doveva occupare l’epicentro del-
Quanto alla quarta parete, alcuni fili trapassano il proscenio, dirigendosi verso lo
l’opera, non poteva trattarsi, per lei, che di
spettatore.
una vista potenziata e di un osservatorio.
Visti nell’insieme danno l’impressione di macchine mentali per ripensare i miti di ri-
Perciò hanno tanta importanza i velari, che
generazione, non del corpo, ma della nostra visione del mondo. La scommessa della
segnalano, con i loro gradi d’apertura, l’in-
Benedini, la sua ‘favola’ poetica consiste allora nell’ipotesi che il sapere della pittu-
tensità del lavoro. Ora richiusi ed ora se-
ra possa restituire unità e senso alle fantasmagorie senza centro dell’immaginario
miaperti o spalancati, metaforizzano il mo-
moderno.
vimento del conoscere.
E per farlo, indaga sulla mente come su uno specchio dell’universo. Ne pone in rap-
Intanto corrono sullo sfondo ventate minera-
porto le lingue e i poteri costruttivi. Cerca somiglianze, parentele, sintonie. Invoca un
li di materie, vapori secchi, elementi in for-
patto di alleanza.
mazione. Gli oggetti stessi dell’arte, trattati al
Dopo i ferraresi, l’inchiesta sul laboratorio delle figure l’ha portata verso l’officina
pari di pietre e talismani, orbitano secondo
melanconica ed enigmatica di Dürer. Ha tolto il putto, il cane e l’angelo della Cab-
direttrici planetarie: ruota il diedro ed alitano
bala, perché immagina che il teatro riattivi, al di qua delle quinte, in chi osserva, la
polveri di scritture, leggibili e illeggibili.
stazione ‘generosa’ dell’artifex.
Potrà rinascere una nuova lingua?
La risposta sta nel colore e nella grafia, singolare commistione di linea che incide e di
pittura che vela.
È la promessa della fosforescenza e della
mezza-luce.
(1) Scritto comparso in “G. Benedini ,‘Teatri della
melanconia’”, Edizioni Spazio Temporaneo, Milano 1986.
G. Benedini, Teatro di Saturno, 1985, tecnica mista su tela, cm 80x100.
702
Misteriose rivelazioni
vi centrali, dilatandoli e intensificandoli nelle conseguenze visi-
Adriano Castelli
ve. Per di più personaggi e figurine sono quasi del tutto scom-
(1)
parsi, dissolvendo l’ordito ad episodi e lasciando avanzare a
pieno quadro le vedute immaginarie.
Fino a qualche tempo fa una molteplicità di vedute e di personaggi popolava le carte di Castelli. Come in un mosaico di visioni
Colpisce nella nuova serie dedicata ai sogni e ai fantasmi dell’esta-
simultanee le immagini svolgevano una sorta di racconto ad in-
te il ricorrere fra altri costrutti, di un edificio ambivalente, al tempo
castro ricco di metafore, nel quale si indovinava spesso anche un
stesso casa e torre, fortezza e cattedrale. Architettura abbarbicata
soggiacente proposito morale e perfino allegorico. A dare questa
al suolo e slanciata verso l’alto, ora ripresa nella poderosa consi-
impressione era il raccordo insistito fra alcune ben note figure
stenza della pietra ed ora, al contrario, spalancata fin nelle radici ed
dell’immaginario religioso (citazioni - poniamo - dal portale di
eruttante fasci di luce, come si vede nel drammatizzato impianto
San Zeno o dalla cripta di Assisi) e i motivi più strettamente per-
della casa di Ascoltando mia madre, dove tutto sembra trasalire al
sonali dell’autore, in genere affidati a squarci di paesaggio e a
fluire del tempo e sprigionare misteriose rivelazioni.
memorie delle stagioni. Temi, gli uni e gli altri, accostati con no-
È chiaro che qui e altrove vengono giocati dei simboli. Ma occor-
tevole libertà associativa all’interno di un disegno generale che
re anche dire che una simile configurazione, in cui l’antico fa da
procedeva per opposizioni, storie di cadute e di annunci, rivela-
cornice al presente, traduce soprattutto delle atmosfere emotive
zioni e presagi; temi nel contempo riplasmati dal tratteggio fittissimo delle matite: un tratteggio morbido come i vapori di una
nube, evanescente e allusivo, quasi si trattasse di fragili fuochi
fatui da imprimere con leggerezza su una parete di garze.
Tenuta in equilibrio fra l’emergere e lo svanire dei segni, la levità
del comporre introduceva subito nel tratto stilistico più originale di
Castelli, mentre l’ordine del racconto con le sue tessere avvicinate
sul filo della somiglianza faceva ripensare alle cadenze di un illustratore di luoghi deputati che si fosse lasciato guidare dalle ragioni del sogno. Tavole e fogli parevano nascere dalla incantata ripresa di elementi soggettivi sullo sfondo (e sul controluce, forse)
di una cultura artistica volutamente arrestata sulla soglia della modernità. L’iconografia composita, da medioevo fantastico, quale
poteva risentirla un occhio intriso di neoromanticismo, si frangeva
in una serie di momenti che le larghe folate dei bianchi contribuivano a tenere insieme in un giro unitario. Di modo cioè che erano
proprio i vuoti e le zone più chiare dei fogli ad esercitare la maggiore suggestione su chi guardava.
Oggi, a confronto di quegli intrecci tematici, l’artista ci fa assistere ad una forte semplificazione. Non che egli abbia abbandonato l’emozionata tessitura di bianchi (e correlativamente dei silenzi) che costituisce la sua risorsa più genuina, e nemmeno la
galleria delle immagini alle quali ha lungamente lavorato. Ciò
che mostra è invece un drastico rallentamento narrativo, un
A. Castelli, Il diluvio, 1982, incisione all’acquaforte e acquarello, cm 29,5x22,7.
gusto della pausa mediante il quale cerca di far respirare i moti-
703
anziché chiudere il discorso in immagini definite ed esaurienti. Se
zio, irruzione e vuoto, caligini e luci si materializzano, oltreché nei
l’estate, come osserva il pittore, è per lui stagione di sogni, tempo
colori dell’ocra, del viola e dei bianchi, nella seghettata impagina-
della luce febbrile che inonda e fa ribollire la superficie delle cose,
zione della tenda di uno spettrale carro barbarico: tenda e sipario
epoca di visioni e di mormorii, di figure prossime al suono, quel
lacerato che poi non si percepisce più come tale, ma diventa tut-
che domina è allora il sentire liquefatto, indefinito, indistinto, co-
t’uno con le folate in tempesta del cielo.
municabile soltanto con correlativi e analogie.
Le dominanti cromatiche del ciclo, gli azzurri e le terre, spiega-
Da qui, credo, l’uso di una tecnica ‘lenta’, estenuata nei minimi
no come le sensazioni ruotino attorno a poli dialettici e perché
dettagli del segno e nelle fibre della carta, attenta ai passaggi in-
Castelli abbia scandito la mostra nelle due stanze del giorno e
finitesimali ed in certi casi rafforzata, sopra i tracciati delle matite,
della notte. Stanze che non si oppongono, ma rinviano l’una al-
dalle tinte ad acqua. Un adagio esecutivo che, mentre chiede al
l’altra. Perché se è vero che ciascuna ha un istante centrale (nel
lettore la stessa concentrazione, non esclude però momenti di tu-
giorno Il posto delle api) è altrettanto evidente facendo il giro
multo. Anzi l’effervescenza viene incanalata e accresciuta dall’im-
delle opere che lo sguardo ha scrutato dentro le fasi intermedie,
piego di diagonali ed incroci nel corpo delle figure, oppure dall’at-
di preludio e passaggio, spiando l’arrivo degli istanti cruciali. In
tivazione di un doppio fuoco ellittico ai confini degli edifici. In una
questo senso le architetture funzionano da tralicci e schermi per
delle carte più riuscite del ciclo, Il vento del Nord, rumore e silen-
le apparizioni: ancora una volta non valgono per se stesse. Simulacri che si animano per il trascorrere dei segnali captati dai
sensi. Accolgono le provocazioni delle ore e fanno riflettere sul
passare del tempo.
Dati i numerosi significati che vi si possono attribuire, eviterei
tuttavia di appesantirli con eccessivi allegorismi. Quel che in
fondo interessa è l’eleganza (e la trepidazione) d’una fiaba personale, l’estate sa ancora suscitare gli stupori dell’infanzia, e la
casa è un luogo materno dal quale osservare i moti del cielo e
le voci del vento.
(1) Scritto in occasione della mostra “Adriano Castelli”, Casa di Rigoletto, Mantova, 1986.
A. Castelli, Il mattino, 1985, pastello su carta, cm 140x100.
704
Dipingere come assediare
sentire scorrere dentro i minuti spilli dello scheletro, una ragnatela
Sergio Romiti
d’ossa”. Del resto come potrebbe altrimenti sussistere questa soli-
(1)
tudine con l’attiva partecipazione che la precede di così poco?
Dunque Romiti vuole che distogliamo lo sguardo da lui e osserviamo
Chiuderà tra pochi giorni la mostra antologica di Sergio Romiti,ordinata presso la Galleria d’Arte Moderna di Bologna da Maurizio Cal-
unicamente le tracce di una riflessione, del suo pensiero per im-
vesi con l’appoggio di Guido Salvatori. L’avarissima nota biografica
magini. Ma è difficile dire, considerandolo tale, se ci troviamo di
in catalogo dice soltanto: “Incomincia a dipingere nel 1946. Dal 1947
fronte all’atto di nascita o al declino, alla morte della visione. Pro-
partecipa attivamente alla vita artistica. Non ha mai fatto parte di
babilmente a tutte e due le cose insieme, ad una condizione che
alcun gruppo”: enunciato troppo scarno per ricavarne qualche indi-
vorremmo chiamare di crepuscolo e di veglia, proprio per distin-
zio rivelatore, se si eccettua quel non aver mai fatto parte di alcun
guerla dalle culminazioni dell’inconsapevolezza notturna e dalla
gruppo, è proposizione sicuramente dettata da un abito mentale,
chiarezza solare dell’ora meridiana. Alba e tramonto al tempo
da una cocciuta difesa della solitudine da parte del pittore. Ma sarà
stesso, appunto crepuscolo, ora incerta, nel senso etimologico e non
subito bene precisare, come fa il prefatore, che una simile solitu-
letterario del vocabolo. L’occhio lavora al chiuso, dietro uno schermo,
dine non è isolamento eremitico né arcadica evasione. Una solitu-
lasciando filtrare del mondo soltanto le architetture essenziali, la
dine voce di ‘pura’ introspezione: anche fisica, tattile, di un io av-
scheletratura portante e vitalmente sotterranea dei fenomeni visivi.
vezzo a “guardarsi intorno e a guardarsi la pelle, fissandosi fino a
Ci chiediamo se si possa parlare di nevrastenia e di intolleranza del
S. Romiti, Tavolo, 1951.
705
S. Romiti, Composizioni in grigio e bruno, 1959.
guardare in rapporto agli altri sensi, la vista in Romiti cancella altre
prigione un privilegio, un luogo di riflessione concentrata e nuda di
forme di conoscenza. Non ci sembra che vi siano dubbi. Questo
distrazioni. Ciò che avvertiamo è l’interpellanza degli assenti, la vio-
sguardo ha un’attitudine totalitaria, assorbente e per ciò stesso vio-
lenza della recisione. Non si chiude per difendersi. Al contrario: ana-
lenta: sospende le cose, le spolpa e ne dissecca l’umore, imprigio-
tomizza e seziona i fenomeni che per passare lo sbarramento, de-
nandole dentro le mura delle ciglia. Gusto, udito e profumo sono va-
vono prima perdere peso e spessore, lasciarsi sfogliare. Se è così,
lori che non lo interessano; persino il tatto quando non sia disposto
se cioè il fuori si presta a ricoprire il ruolo della materia passiva, a
ad assottigliarsi in pellicola luminosa. Per questo, forse, le immagini
chi appartiene l’intervento se non al soggetto che si è volontaria-
mancano di rotondità plastica, sfuggono al tutto tondo, si agitano
mente barricato, alla pupilla che costruisce feritoie e grate, apre fes-
in assenza di prospettiva e di suono. Ma precisiamo: avvertiamo an-
sure e spiragli offensivi? Chi in realtà assedia?
che la mortificazione e il lamento di ciò che l’isteria ha negato,
Le parole hanno un senso. Non c’è da dubitarne, anche se ad usarle
messo ai margini ed escluso dal perimetro dello sguardo; lì com-
è un’artista che fa professione di sordità, o perlomeno non pratica
prendiamo, tuttavia, perché Romiti ha fatto paradossalmente della
pubblicamente la scrittura. Qui l’indizio è minimo, ma serve, poiché
706
non è certo irrilevante constatare almeno una esegesi del tallona-
accanto al movimento in entrata dei segni, pulsa un sincronico bat-
mento, che una delle prime opere cade precocemente sotto la de-
tito in uscita, un brillamento espansivo del polverio cromatico. La
nominazione di “carcasse”, spoglie, cadaveri. È una traccia da non
materia frantumata delle immagini ha la densità psichica di una
lasciar perdere: ci rivela che fin dall’inizio la pittura assume come
esplosione profonda, di una distonica emergenza di pulsioni. Per
metodo d’azione il tropo, la figura stilistica del sottrarre, del privare.
questo si è proposta all’inizio la parafrasi ribaltata dell’assedio, di
La carcassa, ossia la materia caduta sotto la lima dello sguardo, è
un corpo visivo che volutamente si fonde per riversarsi al di fuori.
qualcosa che la visione, prendendone possesso, ha ridotto in pol-
Ma la contaminazione è contagiosa, implica anche la segmenta-
vere ed incenerito. Ma annotiamo subito che anche la visione si è
zione e lo smantellamento, dall’interno, delle impalcature for-
messa a repentaglio: a sua volta si decompone e scorpora, diven-
mative della pittura. Lo sguardo deraglia e lancia un vortice di sco-
tando flusso, motilità e puro scorrimento pulviscolare. Anche i titoli
rie, i segnali di un’avventura rischiosamente affrontata sul piano
sottolineano in progressione questo calcinarsi della materia del-
della esperienza. Sia pure costretto in forme, nella specificità
l’occhio, la condizione della bruciatura e della sospensione: macel-
delle metafore consentite da un linguaggio (quello della pittura
leria, mensola, libreria, cucina, nello spazio, verticale, orizzontale,
), il soggetto è messo in causa. Lo sguardo in processo, già pros-
eccetera. E lo dicono finché Romiti, negli anni Sessanta, non decide
simo all’incandescenza, si dispone alla perdita, consuma energia.
di limare e corrodere anche le parole, di stornare le indicazioni orien-
Non è forse questo uno dei possibili significati dei corvi neri, della
tative e in qualche modo organiche dei suoi scheletrici cartigli, ed
tempestosa nuvolaglia di battiti di cui si compone la terza ed ul-
adotta il termine assolutamente neutrale ed asciutto di composi-
tima sezione della mostra bolognese? E non si torna in tal modo,
zione. E difatti il quadro, già sottoposto al regime del secco e del vo-
oscuramente, a sentire ciò da cui Romiti voleva distogliere la no-
latile, ancor più si volatilizza e brucia. La nigredo lo possiede fino in
stra attenzione? Sull’inquietudine del formicolio ha particolar-
fondo. Scompaiono i colori teneri, le cromie si ritraggono ai due
mente insistito M. Calvesi, traendone, sulla traccia dell’immagi-
estremi dello spettro analitico e a qualche, ambigua, contamina-
nario durandiano, una diagnosi di ansietà, un giudizio che non ha
zione: bianco, nero, grigio. Sul quadro, come sul piano di un’asse da
potuto non riflettersi sulle certezze stesse della lettura; intendiamo
stiro, si stampano soltanto le tracce delle carcasse, degli oggetti
le abitudini cristallizzate dell’esegesi. L’interprete-complice non si
scheletriti, delle immagini ossificate. Il resto della sostanza bru-
è certo sottratto alla suggestione dell’opera, ma ha anche ritagliato
ciacchiata si è, in certo senso, fusa e aderisce alla superficie, stando
un margine sia pure minimo, di lucidità nell’adozione della sincope,
lì a testimoniare un passaggio, la trascorrenza fulminea di un’icona,
creandosi delle zone bianche di respiro e dandosi alcuni punti di
la scoria annerita e biancastra, per eccedenza di colore, di una pre-
stazione. Solo così gli è riuscito l’inseguimento delle catene me-
senza allontanata. La metaforologia dell’assedio si arricchisce. Il qua-
taforiche, sfogliando l’atlante iconologico del dipinto ma lasciando
dro è una macchina che incendia e mette a fuoco letteralmente gli
anche aperti dei varchi alla mobilità fertile dell’invenzione. La sin-
oggetti, conservandone soltanto le grafie sepolte sotto la superfi-
cope, figura retorica dell’anatomia critica, della griglia discorsiva,
cie. Non sorprende allora il richiamo, tanto insistentemente ripro-
segnala anche l’alterità fatale di un discorso. Decifrare non vuol
posto in sede critica, alla camera oscura, al cinema e alla fotogra-
dire esaurire. Calvesi sa bene quanta oscurità si nasconda nel-
fia. La luce è l’equivalente dell’energia ignea, della fiamma
l’iceberg simbolico: perciò ha interrogato il testo, lo ha anche cir-
depuratrice: fissa alcuni riverberi e ombre, aggancia grumi interni
cuito e massaggiato le articolazioni nervose, scoprendo una peri-
delle icone e contemporaneamente scioglie o condensa, fa sparire
gliosa costellazione di immagini (scheletro, traccia, stria, uncino,
o porta allo stato cristallino certe porzioni delle materie pittoriche.
appiglio, gancio, ombra animata, eccetera) e una testualità aperta
E poiché si tratta anzitutto di una diminuzione del ‘dentro’, di un af-
ed imprendibile.
finamento della visione nel momento in cui riflette se stessa sulla
traccia delle registrazioni, il processo è ben lontano dall’esaurirsi soltanto nella esplorazione dell’oggetto esterno. Lo ribadisce il fatto che,
(1) Riflessione sul lavoro di Sergio Romiti, 1986.
707
Musica in bianco e nero
Non per nulla i dipinti si snodano sulle vicende del movimento
Giuliano Giuman
e dell’arresto, sul trapasso delle figure in immagini. Tuttavia non
(1)
coaguli fissi e immobili, poiché l’immagine appare sempre in
Il procedimento del prelievo ha nell’opera di Giuman un signifi-
qualche modo turbata, fragile, appena percepibile, direi sfoglia-
cato particolare e importante. Estrarre un frammento dal suo
ta e sospesa sul proprio alveo, così da favorire l’incontro col suo
contesto serve infatti a portare in luce un elemento carico di va-
opposto, distendendosi in scambi e interferenze.
lori espressivi e toglierlo dallo stato di latenza in cui si trova spin-
Un universo di risonanze, ma che cosa per l’esattezza? Probabil-
gendolo ad emergere nella vita dei segni.
mente è anche un costrutto fantastico emozionato dalla memo-
Questa esplorazione di virtualità si manifesta in vari modi, ora in-
ria. È l’eco (e l’uso della fotografia credo lo confermi) di ciò da
sistendo sulla rivelazione di aspetti nascosti dell’immagine ed
cui, e con cui, vengono forgiate le espressioni finalmente di-
ora operando sulle parentele della visione con la lingua dei
schiuse della pittura. È ombra dei corpi. [...].
suoni: o in altre maniere ancora. In ogni caso la forza dell’istan-
Grazie a tanti motivi convergenti viene movimentato il repertorio
te custodita dal frammento costituisce sempre un motivo del
costruttivo, tutto ciò che necessita per dar corpo all’esperienza.
fondo del metodo creativo: un istante propulsivo, denso di ener-
Torno a sfogliare “Musica” e mi accorgo che dovunque il pittore
gia e capace di generare col suo potere espansivo la durata del-
disponga il tema inaugurale del dipingere, ha l’aria di interro-
l’opera.
garlo con la trepidazione di chi ascolta un annuncio. Più che de-
Quando poi, come accade nelle opere più complesse (i cicli e le
installazioni), l’estendersi del tempo è materialmente attivo
nelle forme, è il risultato ancora una volta d’una lunga risonanza. È intreccio e cumulo di riverberi. Il nucleo generativo, irradiandosi tutt’attorno, si dilata in un’ampia costellazione e continua a vibrare. I riflessi si potenziano man mano che avanzano e
spesso vanno circolarmente, tuffandosi per un momento nella
loro sorgente per rinnovare lo slancio dell’illuminazione.
Tutta la serie recente e in progress del libro “Musica” può essere perciò paragonata a una catena senza fine di abbagliamenti
e di fuochi. Dalle molecole della scrittura musicale (una musica
contemporaneamente operante sul piano invisibile del mito e su
quello ben più fisico delle notazioni e dei suoni) scaturiscono le
correnti esplosive dei colori e dei segni. E a questo proposito si
potrebbe dire, impiegando concetti cari a Kerényi e a Jesi, che
alla radice delle forme ci sono figure di sostanza musicale, interiori e fluide: e che attorno ad esse, uscendo all’aperto, nascono
le immagini, astratte fin che si vuole, ma per loro natura pronte
a rapprendersi nel sigillo di una forma. Sicché la singolarità di
Giuman si ricava proprio dal suo collocarsi all’incrocio dei due
piani, fra il ‘fiume’ delle figure profonde, fatte di materia liquida
e malleabile, e l’evidenza dei segni che le rifrangono in una lingua sensibile, percettivamente strutturata. Lingua che è ancora
iniziale gesto espressivo e non ancora parole conclusa.
G. Giuman, Senza titolo, 1986.
708
scriverlo, lo eccita, lo turba e mette in agitazione. E poiché la so-
guendosi nei luoghi della pittura. Quando, alcuni anni orsono,
glia è tutt’uno, per una decisa scelta poetica, con un frammento
l’incontro avveniva nel genere della performance e con l’impli-
dell’universo sonoro, il presagio contenuto nella scrittura musi-
cazione diretta di un esecutore, né l’una né l’altra poteva vanta-
cale (ma non solo in essa) entra in ebollizione. Talora si tratta di
re un primato generativo. Era anzi il giro concreto della scena a
una zona circoscritta e quadrangolare, una tessera colma di
connetterle insieme, favorendo per mezzo della gestualità il con-
schegge, dove si agitano segni liquefatti, note, ritagli, gesti-fan-
tatto-contagio della doppia vibrazione. Ma ora Giuman ha rare-
tasma e strumenti-ombra. Un concentrato riverbero dell’officina
fatto lo spazio praticabile, esiliando il corpo e chiedendo un at-
creativa in movimento, per cui ha ragione Alberto Veca nel sup-
teggiamento più mentale e contemplativo. Lascia che il suono
porre una quasi-autobiografia.
avvolga gli schermi dipinti; ne segni i movimenti e i trapassi.
Da lì sprizzano fuori i percorsi imprevedibili della linea e del co-
Nulla esclude tuttavia che lo scambio avvenga anche in altro
lore: sorprendenti, eppure in chiave con la matrice. Vanno e ven-
senso: forse è proprio il dipingere che, abitando nei suoni, ne
gono da quel solco, senza il quale non avrebbero radice e orien-
scandisce le pulsazioni.
tamento.
Una stilistica del riflesso è quanto meno comprovata, per citare
Gli spunti presi dal passato, da pagine, oggetti e segni in varia
un’opera, dalle figure della compenetrazione adottate nell’in-
misura sostanziati di promesse che la tradizione conserva, oggi
stallazione simbolica e avvolgente dedicata a Sciarrino, con le
si moltiplicano. Cresce su se stessa la memoria operativa, ani-
sue innumerevoli diagonalità, frecce e rotazioni incrociate. Ed
mando i temi conduttori e facendosene a sua volta investire.
ancora in Fratres, di cui l’autore sottolinea, con richiamo ad Arvo
So di progetti legati a pittori e musicisti dell’età moderna e con-
Pärt, la struttura diamantina, traslucida e fascinatoria, la tenue
temporanea, isolati o in parallelo. Ho ascoltato e visto Requiem,
brama dello spartito compare due volte, perduta negli azzurri e
Tutto tutto e Fratres, con riferimenti a ben individuate pagine so-
negli ori. Al centro l’esile traccia è sorretta da un armonico in-
nore, non di rado composte dallo stesso artista. E se ripenso a
contro di motivi diagonali, mentre la luce fluisce circolarmente
certi lavori del Settanta, come quelli dedicati al chiostro perugi-
dai congegni elettrici sull’uno o sull’altro cardine di un partito
no di Santa Giuliana, così intensi nel portare a confronto i gesti
compositivo che si regge sull’intreccio e sulla fusione.
del presente con i luoghi della memoria, non mi coglie impre-
Mi pare che ne scaturiscano moti sintetici e che la processualità
parato questo scuotere le reti del tempo. Parafrasando un vec-
dell’azione visiva, quel che della musica può disegnarsi in proie-
chio titolo, potrei parlare di uno sguardo che scava nella distan-
zione di pagine, gesti e strumenti, si disponga per intero nel
za e si addentra nel segreto di un’immagine partendo dal suo
corpo della pittura.
cono d’ombra, da proiezioni aeree e sciolte da pesi.
Se è così, se il suono innesca l’irraggiamento, si spiega la rispo-
Basta un riflesso, il suggerimento di una nota o di uno strumen-
sta isomorfica dello sguardo mediante montaggi taglienti di
to, per aprire lo spazio dell’ ‘esecuzione’. Per analogia esce una
piani e di quinte. Oppure nel segno della diffusione.
tessitura di grafie o un campo cromatico, tante molecole di spa-
Teatro interiore del riverbero.
zio quanti sono i punti ‘aperti’ nel tempo. Un intero viene dato
per radianza di alcuni semi essenziali, interpretando timbri e
toni, voci e strumenti. Per esempio l’aura di un canto d’amore è
suggerita a partire (le dodici tavole di Koromgae) dalle materie
vibranti in cui un pensiero musicale si è ritrovato. Altre volte la
scena si dilata in ‘stanze’ pittoriche che fasci di luci in movimento, effondendosi e spegnendosi come respiri, articolano in
un itinerario di visioni. La musica l’inaugura e l’accompagna. Ma
(1) Scritto in occasione della mostra “Musica in bianco e nero”, tenutasi presso la Galleria “Arte Centro”, Milano, 1986.
è arduo sapere se essa faccia dono di sé trasferendosi ed estin-
709
Indici
Volume primo
Volume secondo
Volume terzo
Indice
VOLUME PRIMO 1967-1978
7
Un rigore esemplare
Fiorenza Brioni, Sindaco di Mantova
Paolo Gianolio, Assessore alla Cultura del Comune di Mantova
9
L’attualità del suo impegno
Maurizio Fontanili, Presidente della Provincia di Mantova
Roberto Pedrazzoli, Assessore alla Cultura della Provincia di Mantova
11
Coscienza critica della cultura mantovana
Luigi Frezza, Presidente della Fondazione Banca Agricola Mantovana
13
Un’avventura condivisa
Eristeo Banali
25
Il Centro Internazionale d’Arte e Cultura di Palazzo Te. “L’irrinunciabilità di questa presenza”
Francesco Bartoli: trascrizione di un intervento in Consiglio Comunale
27
L’area Mantovana: primo approccio ad un’ipotesi di attivazione
Francesco Bartoli
1967
32
34
36
38
Renzo Schirolli e Sergio Sermidi
Inquietante, illimitato. Rodolfo Aricò
Sotto il segno della rivelazione. Emilio Scanavino
Pop Art. Lichtenstein, D’Arcangelo, Dine, Phillips, Rosenquist, Warhol, Wesselmann, Jones, Ramos
1968
42
49
55
58
60
Disegni di Giuseppe Facciotto
Seconda rassegna d’arte. Linee di ricerca. Di Capi, Bergonzoni, Madella, Olivieri, Perina, Schirolli, Sermidi, Vago
Le cose trovate. Renzo Schirolli
Astrattismo geometrico e cultura popolare. Alfonso Frasnedi
Vanità. Valentino Vago
1969
64
66
69
71
84
86
98
101
104
Contro un tempo e uno spazio pubblici. Gianni Madella
Grammatica espressiva. Sergio Sermidi
Formatività dell’immagine. Piero Vignozzi
La fabbricazione del senso. Concetto Pozzati, Valentino Vago, Piero Vignozzi
Appunti di viaggio. Ferruccio Bolognesi
Tradizione figurativa. Giuseppe Facciotto
La retrospettiva di Facciotto
Incontentabilità costante e ricerca nella pittura di Scaravelli. Giordano Scaravelli
L’evento descritto. Carlo Poltronieri
1970
108
123
Semanticità contraddetta
Pensieri per un ambiente. Renzo Schirolli
1971
128
130
133
La suggestione arcaica di un universo popolare. Giuseppe Motti
L’ “inedito”. Sandro Bini
Come un uccello di fuoco vola la pittura di Turcato. Giulio Turcato.
1972
136
138
141
143
Agitazione e sospensione. Roberto Pedrazzoli
Parola e calligrafia in Gastone Novelli
Oggetti per un territorio luminoso. Michele Canzoneri.
Iconicità comune. Edoardo Bassoli
1973
146
148
153
155
156
158
161
162
Disegni. Carlo Bondioli
L’oggetto e l’immaginario. Virgilio Guidi
Arte come antiarte. Ernesto Grassi
Teatralizzazione. Lucia Tampellini
Uno sguardo precipitato nella natura. Giulio Perina
La pittura di Ruberti e gli oggetti del costume di casa. Francesco Ruberti
Normalità. Artoni Mario (detto Aspiro)
La pittura come specchio. Renzo Schirolli
1974
166
168
186
L’utopia cartesiana di Bondioli. Carlo Bondioli Bettinelli
Figure dell’incastro e metafore dell’aria nel linguaggio di Licini. Osvaldo Licini
L’autoamputatore e l’assassino. Van Gogh, l’orecchio ombelicale
1975
192
193
199
201
204
Cortocircuito. Anna Ruggerini
Cinque nudi di Perina. Giulio Perina
Costruire per rima. Kossakowski
I troni. Gianni Madella
Dal chiarismo all’astrazione lirica. Maddalena Nodari
1976
208
212
224
235
242
250
Hermes, la pratica del furto. Gino Gorza
La contrazione visionaria. Renato Birolli
Il vuoto e lo sguardo. Gastone Novelli
Quadri come scene. Roberto Pedrazzoli
Sperimentazione artistica e istituzioni culturali
Scrittura visuale
1977
260
261
263
266
269
270
L’arabesco sospeso. Horiki Katsutomi
La gabbia dorata. Pino Mantovani
Il filo e il testo. Marcello Morandini
Una lunga adolescenza. Aldo Bergonzoni
Pensieri visivi. Francesco Somaini
Recitazione. Giovanna De Sanctis
1978
274
276
294
296
298
302
303
306
310
311
315
Il manichino e l’uomo disumanizzato
Il reale e il possibile. Renato Birolli
Occhio ipnotico/ghiacciato. Roberto Pedrazzoli
Lo sguardo “periscopico” e visionario di Perina. Giulio Perina
Il mito delle origini e A.R. Giorgi. Antonio Ruggero Giorgi
La “Mail Art”
Una ghirlanda di tavole, dei doni. Ferdinando Capisani
Tra irrazionalismo e storia. Un intervento sul dibattito tra Arbasino e Sanguineti all’Aldegatti
La camera, l’ospite, i doni. Renzo Schirolli
Una pittura del divenire. Pio Semeghini
La pittura come teatro muto
VOLUME SECONDO 1979-1986
375
Per una lettura delle arti: gli scritti
Eristeo Banali
Da Gino Gorza a Giuliano Giuman
(dal primo volume: Presentazione)
1979
380
382
383
388
393
394
Figure e calchi. Gino Gorza
Disegni come bruciature. Carlo Bondioli Bettinelli
Marionetta, cuore. Giosetta Fioroni
Il disegno e la scena
Raffigurare per indizi. Lucia Tampellini
La fatica della pittura
1980
406
409
412
414
425
426
437
443
446
450
Distrazione (nota). Gianni Del Bue
Natura e memoria. Giulio Perina
“Angelo Giuseppe Facciotto. Scritture (1943-1945)”
Irrealtà del naturale. Giuseppe Facciotto
Racconti per trasparenza. Cristina Kanz
Pittura come ornamento e irrealtà. Osvaldo Licini
La natura, la iena e l’equilibrista. Osvaldo Licini
Raccontare per frammenti. Fotopoesie di Fulvio Milani
Presagi della scena. Rodolfo Aricò
Arte temporale e arte spaziale. Pittura
1981
462
464
471
475
476
478
485
Modi del comporre. Domenico Gentile
La scena come cantiere del possibile. Leonardo Mosso
Chi recita? Elio Marchegiani
“Campionario”. Mostra di alternative
Filo annodato. Gianni Del Bue
La forma dell’invisibile. Carlo Cioni
Materie e cerniere. Renzo Schirolli
1982
492
498
501
509
Un sistema magico. Ferruccio Bolognesi
Di piombo e di cera. Paolo Cotani
Ai confini dell’astratto. Giordano Di Capi
Il codice del nulla. Giuseppe Botturi
1983
512
518
521
523
528
537
538
540
543
547
Ritmiche dell’ascesa. Valentino Vago
Dopo il tutto. Concetto Pozzati
Ad occhi chiusi. Sculture di Nenci al Te
Svolte e ritorni. Giovanni Bernardelli
L’occhio del cielo. Miraggi. Carrozzone Magazzini Criminali
Sulla soglia delle figure. Sonia Costantini
Fotografare come un gotico. Christian Schad
Risanare l’ombra. Renzo Schirolli
Cere come stanze mentali. Giovanni D’Agostino
Cartomagie. Yasmin Brandolini d’Adda
1984
550
553
555
576
577
578
579
580
581
582
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585
586
587
592
596
598
607
608
612
615
Spiamenti. Pino Guidolotti
Dall’immagine alla luce: Sergio Sermidi
Disegno mantovano del ’900. Secondo itinerario
Disegno mantovano del ’900. Sandro Bini
Disegno mantovano del ’900. Michele Besson
Disegno mantovano del ’900. Lanfranco Frigeri
Disegno mantovano del ’900. Cesare Lazzarini
Disegno mantovano del ’900. Gianni Madella
Disegno mantovano del ’900. Renzo Margonari
Disegno mantovano del ’900. Aurelio Nordera
Disegno mantovano del ’900. Claudio Olivieri
Disegno mantovano del ’900. Mario Pecchioni
Disegno mantovano del ’900. Teresita Vincenzi
Cammino tra i riflessi. Maddalena (Nene) Nodari
I “Mesi mancanti”. Gruppo “Metamorfosi”
(Gabriella Benedini, Alessandro Bonelli, Lucia Pescador, Lucia Sterlocchi)
Sensazioni di uno scultore chiarista. Ezio Mutti
Nel silenzio della scienza. Vasco Bendini
Continuità impressionista di Amedeo Rossi
Itinerari nella camera chiara. Luca Alinari
Disegni e abbozzi. Enzo Nenci
Kandinskij tra apocalisse e astrazione
1985
640
641
646
652
663
Sul filo del colore. Domenico Gentile
Racconti sul nero. Carlo Cioni
Fantasma. Ferruccio Bolognesi
Paesaggio & Paesaggio. Visioni liminari
Appunti. Chiara Dynys
664
667
672
677
679
Echi riflessi. Carlo Bondioli Bettinelli
Suggestivi sviluppi. Pino Castagna
In nome del fluido. Mariella Bettineschi
Nella luce e nel buio. Mostra collettiva
Slittamenti di figure. Albano Seguri
1986
684
687
689
692
695
698
703
705
708
Sulla nascita di alcune acqueforti. Renzo Margonari
Bazar. Lorenzo Pezzatini
Una stanza e una riva, la pittura. Fernando Malavasi
Passione-malinconia nelle geometrie di Lucio Saffaro
Paesaggi con Baubo. Vasco Bendini
Per una “malinconia” attiva. Gabriella Benedini
Misteriose rivelazioni. Adriano Castelli
Dipingere come assediare. Sergio Romiti
Musica in bianco e nero. Giuliano Giuman
VOLUME TERZO 1987-1997
727
Per una lettura delle arti: gli scritti
Eristeo Banali
Da Mario Lipreri a I tre tempi di Rodolfo Stranieri
(dal primo volume: Presentazione)
732
733
735
737
738
740
742
Origini. Mario Lipreri
Il volto rinato. Ernesto Treccani
I Passatempi del voyeur. Carlo Bonfà
Notizia biografica. Sandro Bini
Corporeità. Gino Salvarani
Immagini scritte. Danilo Guidetti
Immagine cercata e chiamata. Luana Trapè
1987
1988
748
752
755
766
768
Come in un cabaret. Carol Rama
Mitogramma. Gino Gorza
Il personaggio liciniano: un invito al silenzio. Osvaldo Licini
Il pensiero dell’antico. Aurelio Nordera
A che punto siamo con i fiori. Concetto Pozzati
772
794
796
807
809
Dai “sogni” alla scena metropolitana. Defendi Semeghini (1852-1891)
I tre passi di Pirro. Pirro Cuniberti
Natura e artificio. Mostra collettiva
Una via secca della pittura. Giovanni Battista Ambrosini
Dalle cose in frammenti al vortice della natura. Lucia Pescador
1989
1990
814
819
831
833
837
Il giardino quadrato della poesia. Giosetta Fioroni
Carte e disegni: un giardino di essenze. Regina
Nodi e nuovi flussi. Franco Girondi
La pittura è una sirena. Carlo Bondioli Bettinelli
L’angelo, la modella. Concetto Pozzati
1991
842
843
846
847
849
Il senso del frammento in Paola Violati
Mitologie. Teresa Noto
“Giardini d’inverno”. Renzo Schirolli
Acquetinte. Carlo Bondioli Bettinelli
Assedio d’amore. Augusto Morari
1992
854
855
856
Paesaggio e figura. Monica Ferrando
Conversazione. Giannino Giovannoni
La realtà magica di Francesco Vaini
1993
876
879
Bestiario. Quaranta disegni di Ferruccio Bolognesi
Pastelli (1992) e disegni colorati (1993). Renzo Schirolli
882
884
888
Un “notturno” di Bazzani nei pastelli di Schirolli
Dipingere per salvare. Francesco Ruberti
Il corpo, l’ala, il vento. Aurelio Nordera
1994
892
910
911
914
916
924
925
Campi di grano, acque e fantasie moderne. Giuseppe Lucchini
Paesaggio addio. Riflessioni sulla rassegna di Gonzaga
Il colore come pneuma. Claudio Olivieri
Amalassunta, la luna di Melisso. Osvaldo Licini
Dalle colline mantovane alle acque del Garda
“Della mano”. Lucia Pescador
Pittura a Mantova nei primi cinquant’anni del Novecento
1995
948
950
952
954
L’esercizio della memoria. Ente Manifestazioni Mantovane
Nel mito della genesi. Sergio Sermidi
Chiarismo in giardino. Carlo Bondioli Bettinelli
Vocativo. Sordello da Goito
1996
958
962
974
976
977
979
Le pitture nere. Conversazione con Renzo Schirolli
“L’età felice” e il primo viaggio a Parigi. Renato Birolli
A proposito di un saggio di Gianni Carchia sul rapporto arte e bellezza
Balthus, il gioco degli sguardi
Apeiron. Ernesto Lojero
Il grande nodo. Gilberto Re
1997
982
983
995
1001
1002
Fausto Melotti, scultore angelico. Musiche della creazione in uno straordinario ciclo di “teatrini”
Un pittore del “puro”. BUM - Umberto Baldassari
Scritture nere e dorate. Carlo Bonfà
Motivi di scultura mantovana del ’900. Italo Lanfredini
I tre tempi di Rodolfo Stranieri
1007
Nota bio-bibliografica
a cura di Umberto Artioli
1015
Quella testa di scimmia
Mario Baroni
1017
Tengo la rotta
Ida Panicelli
1019
A ritroso
Annarosa Baratta
1022
Una lettera mai spedita
Gian Maria Erbesato
1025
Trentaquattro scatti
Finito di stampare nel mese di maggio 2009
dalla Publi Paolini, Mantova