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scienza Il fallimento
REPORTAGE Egitto,
in piazza con i black bloc della ditta Freud
avvenimenti
N. 7 | 23 febbraio 2013 left + l’unità 2 euro (0,80+1,20)
da vendersi obbligatoriamente insieme al numero di sabato 23 febbraio de l’Unità.
Nei giorni successivi euro 0,80+il prezzo del quotidiano
the
winner
is
Le elezioni nel racconto
a fumetti di Mario Natangelo,
Alessio Spataro
e Sergio Staino.
Reportage dalle piazze
di Sofia Basso
settimanale left avvenimenti
poste italiane spa - SPED. abb.
Post. - D.L. 353/2003 (conv. in l.
27/02/2004 n. 46) ART. 1, COMMA
1 DCB roma - ann0 XXv - ISSN
1594-123X
,
l inCONTRO Scarpati:
alla sinistra vorrei dire
left.it
left.it
left
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Donatella Coccoli
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Direttore responsabile
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LA TESTATA FRUISCE DEI CONTRIBUTI
DI CUI LA LEGGE AGOSTO 1990, N. 250
2
la nota di
Manuele Bonaccorsi
Lo Stato azionista
e le cattive azioni
S
i parla di nuova Tangentopoli, ma
sarebbe meglio dire “aziendopoli”. Perché della crisi italiana l’economia è l’epicentro, molto più che la politica. Tra l’ondata di arresti che affossò
la Prima Repubblica e il susseguirsi di
scandali che sta accompagnando la fine della seconda, c’è una differenza fondamentale. Nel ’92-’93 comandavano i
partiti; oggi comanda l’economia. Baldassarri non aveva certo tessere in tasca e i suoi raggiri non si nascondevano dietro un “ideale”; Mussari finanziava il Pd, è noto, ma non prendeva ordini
dalla segreteria dei Democrat; Scaroni
e Orsi hanno sponsor nei governi, ma il
loro potere prescinde da questo o quel
partito, dal singolo alto dirigente o ministro o notabile. Una classe di boiardi di
Stato, senza alcuna idea di Stato, capace di galleggiare coi cambi di governo.
Molti dei quali muovevano i primi passi proprio dentro la prima Tangentopoli, spesso uscendone con macchie indelebili e dimenticate (emblematico il caso di Scaroni). Hanno agito coperti dal
silenzio dell’azionista - lo Stato appunto
- sui temi che contano realmente. Cioè i
piani industriali, gli investimenti, i progetti di sviluppo economico. Attenzione, la politica c’entra, c’entra sempre.
Per i mancati controlli e per l’assenza
di chiare indicazioni di sviluppo industriale: per quale motivo, ad esempio,
il governo Monti, nonostante i numerosi segnali della marea crescente, non
ha cambiato prima dell’arresto di Orsi il
management di Finmeccanica? Come
mai nessun ministro ha bloccato il progetto di vendita del settore civile di Finmeccanica, agevolando così la concentrazione della holding nel settore “spor-
co” degli armamenti? Cosa ha fatto il
governo per spingere Eni ad affrontare di petto la crisi energetica che investe l’Italia, le cui imprese pagano costi
più alti degli altri Paesi europei? E ancora, perché il vertice della Consob, ex viceministro di Tremonti - avvertito per
tempo da Bankitalia, da articoli di giornalisti, da esposti anonimi - non ha fatto
nulla per portare allo scoperto la sporca matassa di Monte dei Paschi? Il prossimo governo dovrà affrontare di petto
il problema. Sapendo che la debolezza
economica del Paese è legata a stretto
filo con la sua “questione morale”. L’Eni
e Finmeccanica non sono solo produttrici di tangenti, ma asset fondamentali per lo sviluppo e la crescita del Paese,
per le sue tecnologie e infrastrutture.
Nella crisi della Seconda Repubblica,
mala politica, imprenditoria malata, assenza di politiche industriali e di sviluppo, sono legate in un groviglio inestricabile. Una buona economia pubblica è
la soluzione. Non il “privatizziamo tutto” ripetuto in ogni buona occasione da
tutti gli schieramenti. Ma un intervento strategico dello Stato. Che leghi nuove politiche industriali a un ricambio radicale dei Cda delle aziende a controllo
pubblico, molti dei quali scadranno tra
il 2013 e il 2014 (ma le nomine potrebbero certo essere anticipate). E che, nella
gestione delle aziende partecipate, sperimenti nuovi criteri di trasparenza e democrazia. Finmeccanica ed Eni, come
Montepaschi, e ancora Terna, Enel, Fs,
Poste, non sono solo gli azionisti. Sono
anche nostre, di tutti i cittadini. Il pubblico dovrebbe controllare non solo il
loro capitale azionario, ma anche le loro
(buone o cattive) azioni.
16 febbraio 2013
left
left.it
left.it
sommario
ianno XXV, nuova serie n. 7 / 23 FEBBRaio 2013
copertina
lavoro
ARte
Al voto, dunque. Il racconto delle piazze di Milano per la chiusura della campagna elettorale
del centrosinistra, del Pdl e di
Grillo. Mentre le matite acuminate di Sergio
Staino, Mario Natangelo e Alessio Spataro
raccontano le ansie e le paure dei leader.
Due milioni e mezzo di meridionali
hanno lasciato le loro città negli
ultimi vent’anni, in cerca di lavoro. Precarietà e crisi economica
hanno contribuito alla crescita del numero
degli emigranti “pendolari”. Ci si sposta
giusto per il tempo del contratto.
Nato nel 1984 come innovativo
progetto di incontro fra arte e
ricerca industriale il Castello di
Rivoli è in grave crisi. Ma anche
altri musei dedicati al contemporaneo in Italia
versano in difficoltà economiche e gestionali.
A causa di nepotismo e miopia della politica.
the winner is
16
la settimana
02
04
05
06
La nota
spigolature
lettere
fotonotizia
l’incontro
12 Scarpati: alla sinistra vorrei dire
di Tiziana Barillà
copertina
16 Elezioni a fumetti di Sergio Staino, Alessio Spataro, Mario Natangelo
20 Piazza bella piazza
di Sofia Basso
mezzogiorno di vuoto
28
IDEE
08 altrapolitica
di Andrea Ranieri
09 La locomotiva
di Sergio Cofferati
10 terzo tempo
di Pietro Spataro
11 Ti riconosco
di Francesca Merloni
54 TRASFORMAZIONE
di Massimo Fagioli
società
26 Nicola Zingaretti: la rabbia diventi energia di Giommaria Monti
28 Mezzogiorno di vuoto
di Tiziana Barillà
32 Piovono promesse
di Benedetto Antuono
mondo
36 Pietre contro Morsi di Davide Illarietti
foto di Yusuke Harada
42 Il naufragio dell’Occidente
di Cecilia Tosi
left 23 febbraio 2013
sos musei d’avanguardia
52
RUBRICHE
di Giuseppe Benedetti
a cura della redazione Interni
a cura della redazione Esteri
33 La scuola che non c’è
34 Cose dell’altritalia
44 newsglobal
58 puntocritico
cinema di Morando Morandini
arte di Simona Maggiorelli
libri di Filippo La Porta
60 bazar
Teledico, buonvivere, tendenze,junior
61 in fondo di Bebo Storti
62 appuntamenti
a cura della redazione Cultura
cultura e scienza
48 La mente liberata
di Gianfranco De Simone
52 Arte contemporanea. Rivoli di sangue
di Simona Maggiorelli
56 Cescon e Andò, viva l’impegno
di Camilla Bernacchioni
Chiuso in tipografia il 20 febbraio 2013
Foto di copertina: 123rf
3
[email protected]
spigolature
left.it
Proiettili sulla storia
La guerra siriana colpisce anche i patrimoni dell’umanità. Il
6 febbraio due autobombe hanno colpito una struttura militare e ucciso 19 persone a Palmira, una città antichissima,
che conserva le rovine romane più spettacolari del Medio
Oriente. All’attacco kamikaze sono seguiti colpi di mortaio
e granate, che secondo gli attivisti della zona non hanno risparmiato il sito archeologico. È dal 2011 che la città è teatro di scontri tra ribelli e fedeli al regime di al Assad.
ok
Ha faticato a riprendersi
dalle contestazioni, ma
poi ha portato a casa il risultato. Maurizio Crozza ha registrato il picco di ascolti a Sanremo e nessuno potrà più
guardare in faccia Ingroia senza pensare alla sua
imitazione scoglionata.
Cinquanta mila firme raccolte in sei mesi per l’introduzione del reddito minimo garantito. Sottoscrizioni che servono per la presentazione di una proposta di legge di iniziativa popolare che dovrebbe istituire questo strumento di welfare - già molto diffuso in Europa - anche in Italia. Promotori dell’iniziativa: associazioni di precari e partiti politici (Sel, Rifondazione, Pdci). «Si tratta di un sistema di sostegno necessario per una generazione composta da 5 milioni di precari», ha spiegato Marco Furfaro fondatore di Tilt, una
delle associazioni promotrici e candidato alla regionali
del Lazio con Sel. «In Europa manca solo in Grecia e in
Italia, e il Parlamento europeo - ha detto Furfaro - ci ha
chiesto di adeguarci».
© vallin/photomovie
Reddito minimo garantito
Ha riutilizzato vecchie
gag, frullate e condite
di demagogia. Per raccogliere gli applausi
del pubblico Claudio
Bisio si è trasformato in un Grillo senza verve, invitando
tutti i politici a vergognarsi e ad andarsene.
© D’Alberto/lapresse
Bugie da Oscar
Sarà dura per Giannino fermare il suo declino.
Dopo lo scivolone delle false lauree e di un inesistente master, urlare ancora “Stato ladro” diventerà difficile. Se non impossibile. Avrebbe
dovuto saperlo che, persino in un Paese di inquisiti come il nostro, le bugie hanno le gambe corte. Unico gradito segno di “normalità” è
che, colto nel sacco, Oscar ha chiesto scusa e
offerto le sue dimissioni.
i.b.
ko
330
milioni
Il numero di giocatori
online in Cina. Secondo
le autorità, circa metà
di questi (150 mln)
avrebbero meno di 19 anni
Il 24 ci sarà la rivoluzione. In libreria
Sono lettori, librai, bibliotecari, editori. Gente mite, ma dalle idee incrollabili come l’acciaio. Come quella della campagna e/leggiamo. E che il 24 febbraio si traduce nella “rivoluzione in libreria”. Proprio così. Il Forum del libro ha promosso per la domenica delle elezioni l’apertura di molte librerie indipendenti in tutta
Italia (l’elenco su www.forumdellibro.org). L’obiettivo è quello di far firmare ai
cittadini un appello in cui si chiede un impegno concreto per il libro e la lettura.
Verrà mandato al nuovo governo e al nuovo Parlamento. Con l’invito a fare una
legge ad hoc. Tra i punti “rivoluzionari”: la valorizzazione della biblioteca scolastica, il riconoscimento delle biblioteche comunali come luoghi di socialità da
salvare contro la spending review. Un piano generale per la lettura. Perché fare
sconti in libreria non serve se solo il 45, 3 per cento degli italiani legge un libro.
4
23 febbraio 2013
left
left.it
[email protected]
Borletti Buitoni
precisa
Dopo gli articoli di left
(n.5 del 9 febbraio) relativi al Fai e alla candidatura della ex presidente Ilaria Borletti Buitoni per
Scelta civica con Monti per
l’Italia, riceviamo e pubblichiamo.
La mia candidatura ha certamente sollevato un dibattito che per altro ha riguardato anche il Wwf (Stefano
Leoni candidato con la lista
Ingroia) ed altri esponenti del terzo settore. Le critiche però sono state nel mio
caso, e credo anche in altri,
ampiamente bilanciate dagli incoraggiamenti. Capisco che da chi parte dal presupposto che io sia in malafede anche questa mia affermazione possa essere
contestata. Ma i fatti sono
questi. Certamente la presenza nella prossima legislatura di una componente forte del terzo settore è,
in questa brutta campagna
elettorale, un motivo di fiducia per molti cittadini.
“Io ho ignorato la cultura”: quando lo avrei fatto?
In che modo avrei “ignorato” la cultura? Viene riconosciuto il lavoro che ho fatto
per il Fai portando, nel solco di una grande tradizione
voluta da Giulia Maria Crespi, la Fondazione ad essere percepita su tutto il territorio italiano e non ultimo avviando una crescita
di aderenti non indifferente
in un momento di crisi. Le
giornate di Primavera come tutte le manifestazioni
del Fai hanno, grazie al lavoro di tutto lo staff, avuto
in questi ultimi due anni risultati straordinari. Quindi
ripeto la domanda: quando
avrei “ignorato” la cultura?
Vengo anche criticata, per
left 23 febbraio 2013
left.it
brevi
usare una parola lieve, per
le mie presunte ambizioni a
voler ricoprire il ruolo di ministro dei Beni culturali.
In questa feroce e pessima
campagna nella quale i temi hanno lasciato il posto a
urla, slogan e attacchi più o
meno personali la domanda che frequentemente mi
hanno fatto è quella relativa ad un mio possibile ruolo nel prossimo governo. Un
futile e anche assurdo toto
ministri al quale ho ritenuto
di rispondere in modo anche lieve proprio per sottolineare l’inutilità di questo
esercizio. Infine riguardo
al programma, che in versione comprensibile anche
a chi non è esperto di beni
culturali è visibile sul mio
sito, il filo conduttore è certo la necessità di riportare la tutela dei patrimonio
culturale in mano allo Stato
evitando quella pericolosa
sovrapposizione di competenze che altro non ha favorito che l’ulteriore distruzione del paesaggio. Ilaria Borletti Buitoni
Ringraziamo la signora
Borletti Buitoni per l’attenzione che ci dedica. E ci dispiace che si risenta di critiche che non le abbiamo
rivolto (ad esempio “che
lei ha ignorato la cultura”)
avvenimenti
mentre non risponde nel
merito alle osservazioni
che le hanno fatto gli intellettuali e gli addetti ai lavori intervistati da left.
s.m. e r.v.
Scaricare
le fatture
non fa evadere
Ho letto con attenzione
l’articolo scritto da Alberto Cisterna apparso sull’ultimo numero di left, “Trovare gli evasori”. Condivido
quanto sostiene in quel suo
scritto per portare avanti una efficace lotta all’evasione fiscale. Solo che anche Cisterna, non parla, come tutti, della necessità di
arricchire gli strumenti legislativi, per portare avanti una seria lotta all’evasione, di uno strumento come
lo scaricamento delle fatture. Questo metodo, tanto semplice e adottato in
tutti i Paesi occidentali, si
è rivelato valido. Poter portare in detrazione le spese
del meccanico, del falegname, dell’affitto, dell’imbianchino, ecc., non costerebbe
nulla allo Stato, ma consentirebbe nel momento della
denuncia dei redditi, di pagare le tasse sul netto che
rimane in tasca alle famiglie, agli individui. In Italia
invece ci si ostina a inven-
tare mille stratagemmi, tutti peraltro farraginosi, che
fanno perdere tanto tempo
agli italiani, i cui risultati
tragicomici sono dinnanzi
a tutti noi. I governi di ogni
colore politico che si sono
succeduti nel corso degli
anni, ne hanno inventate di
tutti i colori, dimostrando
peraltro una fantasia davvero senza limiti. Il risultato: siamo il Paese con l’evasione e la corruzione più alta e di molto, di tutti gli altri
Paesi occidentali.
Renato Casaoli
Errata corrige
1) Nell’ultimo numero di
left (n.6 del 16 febbraio) l’articolo di apertura della rubrica Cose dell’altritalia, a
pagina 34 invece che a Sardinia Post è stato attribuito
a RadioPress.
2) A proposito del convegno nazionale dei ginecologi di cui abbiamo dato notizia sull’ultimo numero di
left, precisiamo che l’associazione promotrice è la
Laiga (Libera associazione
italiana ginecologi per applicazione legge 194) e che
le date del convegno sono
l’8 e il 9 marzo a Roma.
Ce ne scusiamo con gli interessati e con i lettori.
abbonati
a left.
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o scrivi ad [email protected]
5
fotonotizia
6
left.it
23 febbraio 2013
left
fotonotizia
left.it
Una gara
all’ultimo sangue
© paolo pellegrin/magnum Photos
left 23 febbraio 2013
Cifre da capogiro: 5.666
fotografi, 124 nazionalità, 103.481 immagini per la
56esima edizione del prestigioso premio World press
photo, che ha decretato i
migliori fotogiornalisti del
mondo. Ha vinto, come ogni
anno, il sangue e la disperazione. La guerra in Palestina e in Siria su tutto. Mentre
le altre notizie, la crisi economica o l’elezione di Obama, sono rimaste sullo sfondo. La competizione premia
principalmente foto singole, che non lasciano spazio
a una lettura approfondita.
Un fotogiornalismo “mordi
e fuggi”, sempre a caccia dello scatto più drammatico e
sensazionale. In cui l’essere
umano diventa carne da macello e vittima di uno spettacolo. La foto vincitrice è dello svedese Paul Hansen, che
ci racconta Gaza tramite i funerali di due bambini portati
per le strade da un gruppo di
uomini, con i visi gonfiati da
una luce artefatta, che arriva da tutte le parti. Un miracolo, certo, ma della tecnologia. E del fotoritocco. Fortunatamente World Press
premia anche le storie. Tra
i pochi esempi di giornalismo più riflessivo, c’è il romano Paolo Pellegrin, della
Magnum. Con Crescent ha
scelto di raccontare la città di Rochester (New York)
teatro di omicidi e violenze. L’immagine che abbiamo
scelto ritrae un uomo arrestato per tentato omicidio.
Non c’è sangue ma il dramma si sente.
a.c.
7
altrapolitica
di Andrea Ranieri
il taccuino
Rimettere in moto le intelligenze
Dopo il voto ci sarà bisogno di fatti, ma anche di parole. Quelle che connettono tra di loro
le persone. Perché ci vorrà tanta democrazia: al governo e nella società
N
on riesco nemmeno a immaginare che non vinciamo. Quale futuro toccherebbe all’Italia se dalle urne non uscisse una maggioranza chiara e netta al centrosinistra. E anche in queste ultime ore dovremmo provare a farlo vedere questo futuro
impossibile anche a quelli dell’altra Italia, a quelli che votano Grillo per “darci una lezione”; a quella parte di povera gente che vota Berlusconi perché gli piace sognare i
sogni dei ricchi; a quelli che non vanno a votare perché “tanto sono tutti uguali”, e che
si accorgeranno come meno uguali per reddito, per diritti, per opportunità saremmo
tutti se l’Italia sarà lasciata in balia della crisi. E a quelli che votano scheda bianca per
non sporcare. Non è mai troppo tardi per parlare col vicino di casa, col tassista, col
cugino che è tanto tempo che non lo sentiamo. Ci proveremo, lo faremo, vinceremo.
E poi dovremo affrontare i problemi drammatici dell’Italia e dell’Europa mediterranea, dentro la crisi più grande e più grave con cui ci è toccato di fare i conti. Ce la faremo se riusciremo a mobilitare le energie e le intelligenze del popolo italiano, a mettere in campo, oltre che un buon governo, un popolo di riformatori. Perché la crisi che
stiamo attraversando richiede non soltanto intelligenti misure di governo, ma anche
un cambiamento sostanziale del nostro modo di pensare, dei nostri stessi stili di vita.
Dopo anni in cui siamo stati invitati a concentrarci sul nostro particolare dovremmo
imparare a mettere al primo posto l’interesse generale, il bene comune. Finita la sbornia della crescita senza limiti che ha sprecato persone, ambiente, territorio, dovremmo lavorare per ricongiungere l’economia alla società, al benessere e al buon vivere
delle persone. Ci vorranno fatti, ma ci vorranno anche parole, per raccontare e raccontarci un altro mondo possibile dopo la crisi del turbo capitalismo liberista. Quelle
parole che mettono in moto energie, che connettono tra loro le persone, che raccontano l’intrinseco legame tra l’uguaglianza e la libertà, tra produttività e qualità del lavoro, tra diritti e responsabilità. E che assumono la crescita dei livelli di istruzione e di
cultura delle persone come la leva più importante per lo sviluppo, ma anche come un
suo fine imprescindibile. Quello che più di ogni altro ne misura la sostenibilità sociale e il carattere democratico.
Perché di tanta democrazia ci
sarà bisogno. Democrazia nella
trasparenza e nella condivisione delle scelte di governo, e democrazia nei luoghi del
lavoro, dello studio, della vita. Su un muro di via Balbi a Genova, vicino all’università,
una mano anonima, al tempo dell’onda studentesca, ha lasciato un pensiero su cui sarebbe bene meditare. “Basta fatti, vogliamo promesse”. C’era evidentemente la giusta
ironia verso un presidente che andava in televisione a snocciolare i suoi “fatto” immaginari per ogni paragrafo del suo programma, ma c’era forse qualcosa di più. La consapevolezza che nessun fatto, nessun percorso di cambiamento reale, è oggi possibile
se stiamo dentro i vincoli entro cui l’economia dei liberisti ha costretto per tanti, troppi anni il nostro pensiero e le nostre vite, se non si cambiano i riferimenti fondamentali con cui interpretiamo il mondo e la realtà. Un sano realismo ha oggi più che mai bisogno di immaginazione, di fantasia, di creatività.
Finita la sbornia della crescita senza limiti
il popolo dei riformatori dovrà lavorare per ricongiungere l’economia alla vita dei cittadini
8
23 febbraio 2013
left
la locomotiva
di Sergio Cofferati
il taccuino
Il dovere del futuro
Ogni voto dato secondo coscienza è utile. Ma solo quello per la coalizione di centrosinistra
può consentire di realizzare una reale prospettiva di cambiamento
È
stata una campagna elettorale intensa. Eppure nella agende giornalistiche
le congetture tattiche sul dopo-voto e sul prossimo governo sono spesso
prevalse rispetto alle questioni di merito e ai programmi in campo. Arrivati però alla vigilia del voto, mi sento di condividere le preoccupazioni di fondo che
hanno ispirato l’appello della scorsa settimana di alcune prestigiose personalità come Umberto Eco, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky e Alberto Asor Rosa. Anche io, come loro, credo che ci siano due scenari decisamente inquietanti
che mi auguro vengano spazzati dall’esito del voto.
Il primo è quello di un pericoloso passo indietro verso un disastroso passato. Berlusconi rilancia, con un basso livello di pudore, la stessa classe dirigente e la stessa
proposta politica che ha trascinato il Paese sull’orlo del baratro, riducendo al minimo la credibilità internazionale dell’Italia. Una politica che ha destrutturato profondamente i diritti connessi al lavoro e ha contribuito ad acuire differenze e ingiustizie sociali. Lo fa con un carico di promesse che non hanno fondamento o fattibilità, ma anche con la disinvoltura di chi non sente su di sé alcuna responsabilità.
Una prospettiva che l’Italia non può decisamente permettersi.
Non meno negativo sarebbe però un secondo scenario, quello di una sostanziale
ingovernabilità causata dall’assenza di una chiara maggioranza. Una situazione di
instabilità e incertezza che il nostro Paese ha già vissuto e che rischia di peggiorare
una situazione già fragile. La delicatezza del contesto economico e sociale richiede infatti un governo in grado di compiere scelte forti e determinate per uscire dalla crisi. Che vadano però a riparare quelle gravi e inique lacerazioni sociali che la
crisi ha prodotto e che le politiche di solo rigore hanno accentuato. Solo una vittoria netta della coalizione del
centrosinistra può garantire
al Paese quella prospettiva di
governo stabile e coerente realmente in grado di assicurare che questo tipo di decisioni e di provvedimenti siano messi in campo con la dovuta incisività, senza rischiare di essere ulteriormente mediati e annacquati. Per una nuova agenda, che parli di politiche di crescita e di
giustizia sociale, e lo faccia con la dovuta serietà e consapevolezza, occorre che il
centrosinistra riesca a ottenere una maggioranza che lo renda autonomo e capace
di realizzare il suo programma. È questo infatti l’unico antidoto in grado di allontanare sia il ritorno al recente passato sia un’ingovernabile confusione nella quale sarà difficile per chiunque andare avanti con la giusta determinazione. Ogni voto dato secondo coscienza è utile, ma solo quello dato alla coalizione di centrosinistra
può consentire di realizzare una reale prospettiva di cambiamento.
Questo è fondamentale per l’Italia, ma è anche un tassello decisivo perché, anche in Europa, ci sia una netta inversione di tendenza. Lo scorso anno la vittoria di
François Hollande in Francia ha aperto il primo varco in quella maggioranza conservatrice dei governi europei autrice di politiche di rigore dagli alti costi sociali.
Adesso è auspicabile che il risultato italiano prima e quello tedesco poi continuino
nella stessa direzione. Due passaggi fondamentali per rilanciare e costruire anche
una nuova Europa. [email protected]
C’è bisogno di una maggioranza chiara e
in grado di governare. Per noi e per l’Europa
left 23 febbraio 2013
9
terzo tempo
di Pietro Spataro
il taccuino
L’unica scelta civica
Un solo schieramento gioca per assicurare un governo al Paese: il centrosinistra.
Gli altri vogliono solo impedire che vinca la coalizione. Puntando sull’ingovernabilità
O
ra che i giochi sono chiusi e saremo soli con la nostra coscienza nel chiuso della cabina elettorale, proviamo a dire qualcosa su questa surreale campagna elettorale. Per la prima volta nella storia della Repubblica uno
solo gioca per vincere e per assicurare un governo credibile al Paese: il centrosinistra. Gli altri, tutti gli altri, hanno come obiettivo massimo di impedire
che la coalizione tra Pd e Sel abbia la maggioranza. È così per l’alleanza rimediata Pdl-Lega, guidata da uno che non farà mai il premier (perché non vincerà e perché Maroni non lo vuole) e che ha cercato di rosicchiare qualche punto dando il peggio di sé. È così per la lista di Monti: cedendo spesso alle tentazioni mediatiche più deteriori, ha mantenuto un’assurda equidistanza tra Pd e
Pdl, picchiando da una parte e dall’altra, per arrivare poi a proporre un’inspiegabile grande coalizione. È così, infine, sia per Ingroia che per Grillo: il primo
ha messo insieme una compagnia eterogenea unita solo dal suo nome sulla
scheda che, in molte Regioni, rischia di avere come unico effetto quello di impedire la vittoria del centrosinistra; il secondo, nella sua furia populista e demagogica, non ha alcun interesse per il governo del Paese ma cerca solo di capitalizzare la rabbia e il malcontento.
Il voto di domani è per l’Italia un passaggio storico decisivo. L’elettore si troverà davanti a un bivio: scegliere chi ha proposto idee e programmi per condurre il Paese fuori dalle secche del ventennio berlusconiano, con tutti i rischi e la
fatica che ciò comporterà, oppure l’ingovernabilità e quindi il rischio che l’Italia torni rapidamente alle urne con effetti devastanti sull’economia e sulla vita
degli italiani. Lasciamo stare la litania del voto utile, perché tutti i voti liberamente espressi sono utili. Ma deve essere chiaro all’elettore che la vera scelta
civica oggi in Italia è dare l’opportunità al centrosinistra (unica alleanza di governo) di mettersi al lavoro per avviare una radicale opera di ricostruzione nazionale. Sappiamo che ci sono fasce di elettorato molto critiche,
altre assai deluse o indignate.
Sappiamo che in vaste zone della
sinistra cosiddetta radicale non
si fidano di un centrosinistra che
nel passato ha commesso diversi errori. Il punto però è decidere, nell’Italia di
oggi e non in linea teorica, quale futuro si vuole: la battaglia, anche aspra, per
il cambiamento, oppure il declino in una drammatica crisi sociale? Noi crediamo che chi ritiene di essere di sinistra - e quindi dovrebbe avere a cuore l’interesse del Paese e non pensare che Bersani, Berlusconi, Maroni e Monti siano la stessa cosa - davanti a questo bivio sappia quale strada imboccare. Critichiamolo pure il centrosinistra, facciamogli le pulci, teniamolo sotto controllo, sfidiamolo sulla ricostruzione. Ma impediamo che torni la destra peggiore,
oppure che vinca il “tanto peggio tanto meglio” del caos. La scelta civica domani è una sola: salvare il Paese dagli spiriti cattivi.
twitter: @giubberosse
Critichiamo l’alleanza Pd-Sel, facciamogli
le pulci, teniamola sotto controllo.
Ma evitiamo che torni la destra peggiore
10
23 febbraio 2013
left
ti riconosco
di Francesca Merloni
il taccuino
Un altro accordo
Il gioco del mondo è uno specchio e tutto si riflette con evidenza. Gli uccelli li sappiamo
dalla neve. La luce, dall’ombra. Le cose che amiamo da quanto ci mancano
L’acqua, la insegna la sete.
La terra - gli oceani trascorsi.
Lo slancio - l’angoscia La pace - la dicono le battaglieL’amore, i tumuli della memoriaGli uccelli, la neve.
A
nche quando non c’è calore, quando non c’è neve fresca né
vento, anche allora la neve muta. Come se respirasse, come se si addensasse e si sollevasse e si abbassasse e si decomponesse. Leggere la neve è come ascoltare la musica. Descrivere ciò
che della neve si è letto è come spiegare la musica per iscritto. C’è
nel suo cadere immobile e ipnotico l’inesorabilità delle cose leggere. La coperta che avvolge, oppure soffoca. Ombra e luce nelEmily Dickinson la stessa dimensione. C’è la possibilità, osservandola, di percepire
un altro accordo, molto profondo, molto sottile, ad altra latitudine. Qualcosa che placa fin nelle fondamenta, eppure alleggerisce oltre le altezze. La nota di rimando del mondo. Accordarsi ad essa talvolta risulta difficile.
Altre volte è una scelta. Oppure assume il segno di qualcosa che si impone per
necessità, impossibilità di continuare a soffocarla, di fare altrimenti. E, quando accade, torna alla luce uno stato primitivo, dimenticato. C’è una strana euforia e anche un timore inspiegabile. Una selvaggia, luminosa gioia e un rispetto assoluto, una definizione netta. Siamo pronti eppure non lo siamo. E il gioco
del mondo è uno specchio e tutto si riflette con evidenza. Gli uccelli li sappiamo dalla neve. La luce, dall’ombra. Le cose che amiamo da quanto ci mancano.
E forse la ricerca nostra, da quando siamo nati, inconsapevole fino ad un certo
punto e poi via via più chiara, è arrivare dove gli estremi si riuniscono, e forse
cominciare a non sapere più l’amore dalla mancanza, ma l’amore dall’amore. E
basta. Forse il senso è racchiuso nel senso stesso, è il codice dell’essenza stessa delle cose. Una comprensione estrema che consiste nel sapere quando tirare
la lenza, quando aprire la bocca, quando alzarci e andarcene. Senza far intervenire altro, senza altre mediazioni. Il pescatore sa quando è il momento di tirare
a sé. Possiede il senso dell’acqua. E per questo aspetta per ore. Ma non è un’attesa e non è un tempo. Lui è semplicemente tutt’uno con ciò che agisce. E sa anche quale tipo di pressione esercitare. Né troppo debole, né eccessiva. Necessaria. Il senso è anche in quel tipo di equilibrio. È. Non ha bisogno di altro. È l’altro accordo. Con la parte più leggera e più selvaggia, con la nostra parte di neve.
Abbandonarci al movimento, al fluire perenne, accordando quanto in noi è più
essenziale a quella vibrazione vera. Che a volte si impenna e a volte stagna, ma
comunque scorre e percorre. «Noi scendiamo e non scendiamo nello stesso fiume. Noi stessi siamo e non siamo». Già Eraclito ci diceva che l’acqua che ci bagna non è lo stesso fiume di un attimo prima, né noi gli stessi. Tutto è movimento. Anche la stasi è movimento, in essa comunque si spalanca il tempo nell’azione del non agire. La vita è piena di rimandi. E il senso delle cose è presente in
ciascuno di noi. Ciascuno in sé custodisce la chiave, il codice d’accesso. Talvolta è troppo nascosto. Talvolta un’oscillazione, un solo respiro in più potrebbero finirci. Ma sappiamo in un lampo, con certezza, che non sarà così. Sappiamo
che saremo in grado di trovare la strada. E la casa sarà lì, e la vedremo perfettamente, un minuto prima che appaia dalla nebbia.
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l’incontro
giulio scarpati. Il j’accuse
del presidente del Sindacato
attori Cgil, che sta per tornare
in tv con Un medico in
famiglia. «Basta sacrificare
l’industria creativa in Italia.
Occorre una legge sullo
spettacolo dal vivo e la tutela
della sperimentazione. Ma il
problema è il sistema chiuso e
autoreferenziale della cultura».
E ai colleghi: «Serve più unità
tra i lavoratori»
12
23 febbraio 2013
left
l’incontro
left.it
G
iulio ha 12 anni, grandi occhi blu e tanta timidezza. Un giorno la vicina, che
fa l’attrice, lo chiama per una particina
a teatro. Da quel giorno Scarpati non si è più fermato e ha calcato centinaia di palcoscenici. Il teatro sperimentale prima e quello istituzionale poi,
il cinema, la televisione. Oggi, mette al servizio dei
suoi colleghi la sua creatività ed esperienza come
presidente del Sindacato attori italiani della Cgil.
E intanto continua a sostenere numerosi progetti, perché «devo ricordarmi di quando mangiavo
una scatoletta di carne a pranzo», come racconta
in queste pagine.
Lele Martini, il suo personaggio più celebre,
tornerà il 3 marzo su Raiuno con l’ottava edizione di Un medico in famiglia, dopo anni di
assenza. Come mai aveva smesso?
La serie era più interessante quando era più vicina
alla realtà, sia pure sotto forma di commedia. Poi,
per un certo periodo era diventata un po’ favolistica e meno aderente ai problemi di tutti i giorni. Ed
è la ragione per cui me ne sono andato per tanti anni. Adesso finalmente casa Martini sente la crisi: si
rischia di perdere l’abitazione, arrivano problemi
sul lavoro. La cosa importante poi sono le storie:
per esempio sentivo il bisogno che Lele smettesse
di correre dietro a ogni gonna e tornasse lo spirito battagliero delle prime serie. Certo è che ho bisogno di fare altro, umanamente non ce la faccio a
stare solo in un personaggio. Se non sentissi quel
rinnovamento non potrei più recitarlo.
Adesso è in tournée in Veneto con Oscura immensità per la regia di Alessandro Gassman
su un testo di Massimo Carlotto.
È uno spettacolo a cui tengo molto, e che riprenderà la prossima stagione al Teatro Eliseo a Roma.
È la storia di due rapinatori che uccidono mio figlio e mia moglie. Uno lo prendono e l’altro no. L’ergastolano, da malato terminale, chiede il perdono
ma io glielo nego. Vittima e carnefice dovrebbero
essere contrapposti e invece i personaggi non sono cristallizzati. Il galeotto compie un percorso redentivo mentre la vittima vive con la rabbia e il desiderio di vendetta. Sembra una tragedia greca. Mi
ha permesso di riflettere sulla rabbia e la solitudine delle vittime che ripetono come un disco rotto
la propria storia. Questo alla società non piace. È
come quando Eduardo raccontava della guerra e
nessuno lo voleva ascoltare. La vittima spesso non
piace, è molto più affascinante il carnefice. Questo
spettacolo fa quello che deve fare il teatro: non dà
delle risposte ma pone delle domande al pubblico
e spinge alla riflessione.
A fine marzo sarà anche giurato speciale allo
Short film festival organizzato dall’università Ca’ Foscari di Venezia.
Tutte le iniziative che tendono ad aprire rispetto
alle possibilità creative delle persone vanno sostenute. Perciò quando vedo rassegne come quella della Ca’ Foscari, che tentano disperatamente
di fare emergere la creatività mi sembra importante. Che avvenga in un’università mi sembra anco-
alla
sinistra vorrei dire
di Tiziana Barillà
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l’incontro
left.it
ra più importante e che sia rivolta alle scuole è ancora meglio. La difficoltà più grande in questo Paese è che chi ha delle energie creative positive non
sa dove metterle. Non siamo una società recettiva alla creatività, siamo vecchi senza capacità di
investire, di cogliere il nuovo e di stimolarlo. Una
società giovane, dinamica, è quella in cui le idee
trovano una realizzazione rapida. Il cinema, per
esempio, dovrebbe essere un luogo in cui la realtà non è registrata ma anticipata. Con questi tempi invece non riesci mai a raccontare in anticipo.
In più, in generale, c’è il difetto della mancanza di
coraggio per cui quando scrivi una storia, o ti autocensuri o alla fine la addolcisci. Così è difficile
concepire una storia che non abbia in sé un lieto fine un po’ consolatorio.
La televisione impoverisce il linguaggio
e così abbassa il livello culturale del Paese
E non è detto che il pubblico voglia questo…
Infatti. Noi partiamo da due presupposti sbagliati: non riusciamo a cogliere la creatività e abbiamo un pubblico che consideriamo stupido. La televisione degli anni 60 e 70, con tutte le difficoltà
e i condizionamenti anche moralistici dell’epoca,
aveva una funzione didattica. E quindi il pubblico “cresceva” con la televisione. Adesso invece è
il processo inverso, chi fa tv semplifica, impoverendo il linguaggio e la comunicazione. In questo
modo si abbassa totalmente il livello culturale di
un Paese. Più poni difficoltà a chi ti ascolta e più
predisponi la persona alla critica, alla riflessione,
alla contraddizione. Il problema è che non vogliono cittadini ma sudditi che assorbono i messaggi senza pensare. La semplificazione poi fa sì che
certi messaggi demagogici e populisti passino facilmente. E invece bisogna “attrezzarsi” per comprendere la realtà.
La televisione, invece, la ignora?
Sì, e diventa un mondo che si parla addosso. Lo dico a left perché questo è un problema anche della
sinistra: l’autoreferenzialità, lo snobismo di certa
cultura di sinistra che ha pensato che nel distacco
da una certa cultura popolare ci fosse una specie
di isola felice in cui le persone e le menti intelligenti possono fare televisione, teatro, cinema, quello
che gli pare. E in questo sono totalmente svincolati dalla lezione di Gramsci. Così come non sopporto gli spettacoli che non considerano il teatro co14
me la massima espressione di comunicazione dal
vivo con degli altri esseri umani. Uno spettacolo si
completa con gli altri esseri umani. Senza il pubblico non può esistere. Invece noi lo abbiamo fatto
esistere anche senza, considerandolo quasi un accessorio fastidioso, che non capisce. Una società
che si sviluppa in questi termini, ha già perso. Perché diventa un luogo asfittico, claustrofobico.
Lei è anche presidente del Sai Cgil. Quali sono le urgenze del settore?
L’Europa sta investendo nell’industria creativa e
noi stiamo ancora qui a parlare di una legge sullo spettacolo dal vivo che da 50 anni non c’è. Come presidente del Sai Cgil vorrei un contratto dei
lavoratori dello spettacolo che includa tutti. Bisogna fare in modo che ci si renda conto che questo
è un lavoro. Ho seguito per 2 anni e mezzo questo
iter legislativo. Arrivati all’approvazione, in commissione Cultura mancava la copertura finanziaria. Una cifra tra i 10 e i 15 milioni per una legge
che riguardava la prosa, la musica, i circhi. Insomma, una cifra minima per un indotto che poi non è
così piccolo. È miope non fare le leggi ma anche
non capire che questo favorisce i giochi dei centri di potere.
Di fronte ai centri di potere blindati e ai vuoti legislativi, che ne è della politica?
Se una legge non è stata fatta per 50 anni non è solo incuria. Si vede che certe zone devono essere lasciate grigie per poter operare attraverso il clientelismo. Questo meccanismo coinvolge e costringe tutti a compromessi, così che nessuno più si
muove e ha il coraggio di criticare. Qualunque sia
il prossimo governo, il primo giorno deve essere
presentata la legge sugli spettacoli dal vivo.
E poi cos’altro?
Riformare il sistema. Crearne uno che da una
parte tenga conto del privato che farà un teatro
commerciale e ci ricaverà dei guadagni. Poi però
dall’altra bisogna pensare alla sperimentazione e
23 febbraio 2013
left
l’incontro
left.it
incentivare i lavori particolarmente difficili, perché usano linguaggi nuovi e hanno ovviamente dei
rischi che difficilmente un privato si può prendere. Lo sperimentalismo ha bisogno di un aiuto, di
diventare istituzione. Tenendo sempre conto che
la sperimentazione, che pure in passato ha avuto
grandi meriti, qualche volta quando la istituzionalizzi perde il suo carattere eversivo. È sempre un
equilibrio difficile da mantenere, ma si deve fare.
E i soldi?
L’Italia è un Paese con bellezze naturali e artistiche immense. Pur avendo un patrimonio di questo tipo non investiamo su esso. Se si creasse una
sinergia tra monumenti, musei, spettacolo, allora
si avrebbero frotte di turisti. Invece tutti i settori
agiscono per conto proprio con la logica assolutamente settoriale. Il contrario di quello che dovrebbe fare un Paese con un progetto culturale. I turisti
che vanno a Pompei spendono 4 euro per una coca cola e un panino. Nessuno dorme, mangia o assiste a uno spettacolo a Pompei. Il nostro è un turismo becero, da mordi e fuggi.
Cinema, teatro e tv. Cosa ricorda e cosa si
rimprovera?
Nel cinema il film a cui sono più legato è Il giudice ragazzino (di Alessandro di Robilant, del
1993), forse perché la figura del giudice Livatino
mi ha davvero conquistato. In tv don Zeno (L’uomo di Nomadelfia) che ha creato la Caritas qui a
Roma ed è stato un personaggio incredibile. È proverbiale quello che disse al papa di un imam: «Un
bravo cristiano». Già questo la dice lunga sulla capacità di integrazione e sull’impegno per rompere
il muro delle chiusure mentali. Cose di cui mi vergogno, non ce ne sono. Perché certe volte anche
un film non riuscito è giusto che ci sia. Preferisco i
film sbagliati alle scelte di comodo.
Quando ha cominciato a recitare?
A 12 anni, perché un’attrice che stava nel mio palazzo mi ha chiesto di fare una parte in uno spetta-
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colo. In famiglia, nessuna esperienza, pur essendo
napoletani e portati per questo a una teatralità eccessiva. Ero carino e timido, vedevo questi attori
che parlavano per ore per una battuta e pensavo
tra me «Mamma mia, dilla e basta» (ride). Poi però mi sono appassionato, a 16 anni mi sono iscritto ad una scuola di recitazione e a 18 sono entrato in una cooperativa teatrale. Lavoravamo negli
ospedali psichiatrici, nelle carceri, abbiamo fatto
di tutto. Ricordo ancora un progetto folle dell’epoca, una di quelle idee che vengono spesso alle
compagnie per necessità. Volevamo fare L’istruttoria di Peter Weiss, non avevamo sufficienti soldi
e immaginammo di farla usando il teatro Quirino
alla prima di uno spettacolo di Bosetti... Per fortuna non l’ho fatto, se no mi avrebbero arrestato!
Questo per dire che certe idee, anche eversive, nascono dal desiderio di voler portare avanti quello
in cui credi. Nell’81 ho cominciato il teatro ufficiale, al Teatro stabile de L’Aquila con Aldo Trionfo e
tanti bravi colleghi. Eravamo 20 attori e 12 comparse, una cosa esagerata. Altri tempi.
Il suo impegno politico e sindacale l’ha sempre accompagnata?
Quando feci il primo contratto con un teatro, l’amministrazione mi disse: «Ti do un po’ di più del minimo sindacale, sei contento?». E io lo ero perché
credevo di essere trattato meglio. Poi venni a scoprire che ai minimi era stata aumentata la diaria,
perciò l’impresario non facendomi rientrare nel
minimo ci risparmiava. Ho capito da subito che
c’era tanto da fare per tutelare i diritti.
Da sinistra: Giulio
Scarpati nella fiction
Un medico in famiglia.
E nello spettacolo
teatrale Oscura
immensità per la
regia di Alessandro
Gassman
Serve sinergia tra musei, monumenti e
spettacoli. Il nostro è un patrimonio sprecato
Un inizio scoraggiante...
È talmente tanto quello che si dovrebbe fare
che a volte, sì, mi prende lo sconforto. In più,
la categoria è poco unita. L’attore tende a considerare il momento che sta vivendo come il
momento universale. Io difendo il giovane che
vuole lavorare, ma anche l’attore di 65 anni o
più che pur avendo un curriculum e una professionalità di tutto rispetto fa fatica a trovare
lavoro. Favorire uno, non penalizza l’altro. Ricordo quando agli inizi mangiavo una scatoletta di carne a pranzo perché non mi potevo permettere altro. E nell’attore più anziano di me
vedo il mio futuro.
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speciale elezioni
copertina
© ANGELO TRANI
left.it
election
DAY
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© igor gentili
Gli incubi di Bersani la sera
del voto, le speranze
degli elettori, i paradossi
di Grillo. Le matite
di Sergio Staino,
Mario Natangelo
e Alessio Spataro
raccontano le elezioni
più importanti
degli ultimi cinquant’anni
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speciale elezioni
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speciale elezioni
copertina
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NEL SEGRETO DELL’URNA
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speciale elezioni
copertina
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speciale elezioni
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left.it
PIAZZA
BELLA
PIAZZA
di Sofia Basso da Milano
Viaggio nel rush finale della campagna
elettorale lombarda. Tra la speranza del
centrosinistra di voltare pagina
al Pirellone e a Palazzo Chigi, lo slancio
dei grillini e il timore del crollo di consensi
del centrodestra. Tra comizi all’aperto
e raduni al chiuso
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copertina
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© Spada/lapresse
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speciale elezioni
copertina
left.it
L’
esito delle urne nella decisiva Lombardia è ancora un’incognita. Ma
la sfida delle piazze l’hanno vinta
senz’altro Bersani e Grillo, che nel gelo invernale
hanno riempito l’enorme sagrato del Duomo mentre Berlusconi e Maroni incontravano un migliaio
di fan in un’asfittica saletta della Fiera. Anche i leader degli altri schieramenti hanno preferito non
correre il rischio della piazza vuota. La differenza
non sta solo - e in modo eclatante - nei numeri della
mobilitazione dell’ultimo scorcio della campagna
elettorale più breve e più fredda degli ultimi tempi. Ma negli stati d’animo. Mentre i simpatizzanti
del comico e del centrosinistra sembrano sentire
il vento in poppa, i pidiellini e i leghisti appaiono
in affanno persino nella regione dove l’hanno sempre fatta da padroni. Così, in una piazza Duomo due
volte gremita è andata in scena prima la speranza del centrosinistra di
voltare finalmente pagina al Pirellone e a Palazzo Chigi, poi la convinzione dei grillini di fare il botto.
Tra la platea azzurra della Fiera, invece, serpeggiava il timore di perdere anche l’ultima roccaforte.
tare e per partecipare, ma soprattutto per ribadire che nella Lombardia chiamata al voto anticipato dopo uno stillicidio di scandali si può fare il bis,
mandando a casa i partiti che hanno “malgovernato” il Pirellone per 20 anni come Milano ha saputo scrollarsi di dosso l’egemonia berlusconiana.
La piazza esplode quando Pisapia confessa che
per scaramanzia si è messo le stesse calze rosse
del 30 maggio 2011: «Abbiamo cambiato Milano.
Cambieremo la Lombardia e l’Italia». Soprattutto
è una platea che non guarda agli steccati di partito e, anche se la maggioranza è lì per Bersani e per
Ambrosoli, applaude con lo stesso entusiasmo il
centrista Tabacci e il radicale Vendola. Non c’è ancora l’aria di festa che ha accompagnato il grande
risveglio milanese del 2011. Perché
c’è la crisi. Perché fa freddo. Perché
il tempo è stato poco. Ma si percepisce ottimismo: «Vinciamo. La gente
è proprio stanca di Lega e Pdl. Sono
disgustati anche quelli che li hanno
sostenuti», assicura Rosa Borgia,
ex medico, spilletta “Io voto Ambrosoli”. Persino Antonio, un pensionato che rimpiange il mancato
accordo con Ingroia al Senato, non
dispera: «Nei bar si sente ancora molta gente che
voterà di là, dimenticando tutto quello che è successo. Ma noi saremo di più». E il popolo delle primarie è sceso in piazza proprio per dimostrare la
sua forza. «Sono qui per un’Italia più giusta, senza
privilegi, senza corruzione e senza pagliacci», dice Orlando, insegnante. In piazza non ci sono solo gli storici elettori del centrosinistra, ma anche
i giovani e i giovanissimi. Come Giulio, studente
Ad ascoltare
Bersani
molti i giovani al
primo voto. «La
gente è stanca
di Lega e Pdl»
Il 25 aprile cade a febbraio
Il centrosinistra domenica 17 febbraio ha portato decine di migliaia di persone nella stessa piazza che due anni prima aveva coronato la vittoria
di Pisapia. In un tripudio di palloncini e di bandiere di Pd e Sel, i simpatizzanti hanno riempito il sagrato malgrado il timido sole invernale si facesse
via via sempre più freddo. Sono accorsi per ascol-
Nel regno di Formigoni
La Lombardia e Milano non sono solo
l’Ohio d’Italia. Il capoluogo meneghino, la capitale morale dello Stivale, si
è trasformato in una città travolta dagli
scandali e dalla corruzione, in cui il
potere e la criminalità organizzata siedono intorno allo stesso tavolo. Tutti
pronti ad abbuffarsi, golosi di azzannare la torta miliardaria di Expo 2015.
22
È questo il filo conduttore del libro
della giornalista Alessia Candito, Chi
comanda Milano (Castelvecchi
Editore, pp 188, 14,90 euro),
in libreria dal 19 febbraio. «La
deindustrializzazione dell’ex
area della produzione pesante
meneghina si è risolta con
l’urbanizzazione selvaggia»,
scrive Candito. «I vecchi capitani
d’industria, insieme a spregiudicati
immobiliaristi di nuovo conio, si
sono spartiti la città coprendola
di uffici e appartamenti, torri e
palazzotti, blocchi e cubi. Edifici
destinati a rimanere vuoti ma
in ogni caso sufficienti come
garanzia per nuovi progetti e
23 febbraio 2013
left
left.it
badisce che «adesso tocca a noi» e annuncia che
a Palazzo Chigi «partirà dalla gente che non sa come mangiare». Né manca qualche occhio lucido
quando il segretario chiude il suo intervento con
una promessa: «Tireremo fuori dal buio la Lombardia e l’Italia».
Turandosi il naso
Tutto un altro film va in onda il giorno dopo, lunedì 18, alla Fiera di Milano addobbata per l’occa-
18 febbraio, Berlusconi
alla Fiera di Milano.
Nelle pagine
precedenti,
17 febbraio, Bersani
in piazza Duomo
© giulia rosco
delle Bocconi al suo primo voto: «Credo ancora
nella politica nonostante gli scandali», assicura.
E in quel momento sul palco compare, dopo 4 anni di assenza, Romano Prodi per ribadire l’importanza della doppia partita lombarda. Poi è la volta
di Umberto Ambrosoli, il cui nome campeggiava
già sulle magliette e sui palloncini che riempivano la piazza, che strappa un boato quando annuncia che «quest’anno il 25 aprile cadrà a febbraio».
Applausi scroscianti quando Pier Luigi Bersani ri-
nuovo cemento. E nuovi affari in cui
i clan di ’ndrangheta hanno spesso
trovato facile e comodo spazio. È
bastato loro far pesare sul tavolo
degli affari lombardi denaro liquido
per milioni per polverizzare qualsiasi
remora». Regista dell’operazione
Expo: Roberto Formigoni. Che attraverso Comunione e liberazione e la
Compagnia delle Opere ha monopolizzato il potere in un’intera Regione.
left 23 febbraio 2013
«Principale alfiere della battaglia per
Milano città dell’Expo è Luigi Roth,
all’epoca (nel 2008, ndr) presidente
della Fondazione Fiera, azionista di
controllo di Fiera Milano spa, la potentissima società che gestisce l’attività
espositiva nel capoluogo», racconta
Alessia Candito nel libro. «Ma Roth è
soprattutto un uomo di Comunione e
Liberazione e di Roberto Formigoni,
all’epoca inquestionabile uomo di
punta dei ciellini». Ma il Celeste non
l’unico protagonista di questa storia.
Chi comanda a Milano indaga anche
sulle responsabilità del maggior
alleato di governo: la Lega Nord che
insieme Formigoni ha gestito il potere
lombardo, usufruendo delle amicizie di Francesco Belsito. Lo stesso
partito che oggi prova a conquistare
la Regione con Roberto Maroni.
Rocco Vazzana
23
speciale elezioni
copertina
© treves/LaPresse
left.it
19 febbraio, Beppe
Grillo a piazza Duomo
24
sione con le bandiere del Pdl. Se nella piazza del
centrosinistra, giovani volontari spettinati distribuivano magliette e spillette, ad accogliere i berlusconiani nel Palazzo dei Congressi ci sono impeccabili vallette nelle loro divise con minigonna
e tacco 12. Nelle prime file della sala con un migliaio di posti continua a dominare la giacca e la cravatta, ma lo stile aziendale dei primi anni di Forza
Italia è tramontato: oggi i fan di Berlusconi sono
per lo più pensionati in maglioncino. Soprattutto
è finito il tempo delle certezze e delle vittorie facili. E anche se il Cavaliere apre l’incontro annunciando che c’è stato il sorpasso, negli appelli finali emerge preoccupazione, con lo stesso Berlusconi che incoraggia i suoi a trasformarsi «in missionari di verità: andate e convertite le genti». Pure Roberto Maroni, costretto a presentarsi a fianco dell’indigesto alleato per assicurarsi i voti del
Pdl nella corsa per il Pirellone sempre più in salita, raccomanda: «Adottate un indeciso. Facciamo
andare i nostri a votare. Non possiamo lasciare alla sinistra la regione più importante d’Italia». Un
timore che rimbalza in sala: «Ho paura - ammette
una signora impellicciata - i comunisti vanno tutti
a votare, invece molti dei nostri sono sfiduciati».
Un po’ più ottimista Bianca, una delle poche filoleghiste in sala: «Dobbiamo vincere altrimenti siamo fritti. Il Paese è alla frutta. L’unica soluzione è
smettere di dare soldi al Sud». Tra i cori che inneggiano al leader, scrosci di applausi e ondeggiare di
bandiere. Ma se si ascoltano alcuni commenti della platea, questa ostentazione di entusiasmo in un
partito che in pochi anni ha perso consensi a due
cifre pare belletto, come quello del leader, impettito nel suo doppiopetto blu. Emblematico lo sfogo telefonico di un elegante quarantenne all’uscita del raduno: «Berlusconi è il tipico “tamarretto”
coi soldi. Se lo voto lo farò obtorto collo solo perché sono di centrodestra. Ho due master, vorrei un
altro stile. Il mio candidato ideale sarebbe Monti,
ma significherebbe votare Bersani. Sceglierò Maroni perché voglio che i soldi restino qui, ma a livello nazionale deciderò l’ultimo giorno». Anche
in sala qualcuno ammette che voterà Pdl «turandosi il naso». Come Erasmo, geometra in pensione,
che alla sinistra rinfaccia ancora i carri armati sovietici e l’aver «fatto morire Craxi». Monti non gli
piace, perché in due mesi ha perso 138 euro di pensione. Il professore lo aborre anche Giovanni, albergatore, che bolla come «esagerata» l’Imu ed è
convinto che se Berlusconi vincerà la restituirà come promesso. Non mancano i fan convinti dell’ex
premier. Come Antonella, pensionata a 480 euro:
«Amo Berlusconi. Abbasso i comunisti». E per giustificare i fallimenti dei governi di centrodestra se
la prende con «tutti i no che gli hanno opposto, so23 febbraio 2013
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copertina
left.it
prattutto il Pd». E se le si fa notare che i democratici erano all’opposizione non si perde d’animo:
«Su molte cose, come la giustizia, ci voleva l’unanimità». Anche una signora con filo di perle al collo non ha dubbi: «Sono qui per Silvio. Recupererà
alla grande». I pochi giovani in sala scomodano il
carisma del leader per giustificare il loro sostegno.
Né mancano quelli che ancora dicono: «È uno di
noi, che siamo commercianti e imprenditori». Soprattutto è lo spauracchio dei comunisti a tenere
assieme quello strano amalgama. Poi tutti a spellarsi le mani quando il Cavaliere parla di ridurre la
pressione fiscale e spiega come restituirà l’Imu. A
condire la serata, le immancabili battute di Berlusconi. «Però è forte», commenta un signore. Difficile dire se il campionario da intrattenitore da crociera gli basterà per non perdere la Lombardia. Di
sicuro non gli basta per tenersi il suo pubblico, che
dopo due ore comincia a smobilitare malgrado lui
stia ancora dispensando promesse.
Contro un sistema malato
Martedì 19 è la volta di Beppe Grillo, che riempie
piazza Duomo nonostante l’appuntamento sia alle
18 di un giorno infrasettimanale. Una platea sterminata di giovani e giovanissimi, senza bandiere
ma con la convinzione di partecipare a una svolta. In piazza c’è di tutto, dall’ex simpatizzante di sinistra all’ex elettore di Berlusconi, dal grillino da
sempre a quello dell’ultimo minuto. Tutti delusi dalla vecchia politica. Tutti convinti che gli altri schieramenti siano uguali, o quasi, nel rubare
e nel non fare niente per la gente. Il più entusiasta è forse Alberto, ingegnere di 27 anni: «Come dice Grillo, arrendetevi tutti! Due anni fa ero in questa piazza per sostenere Pisapia, ma noi non ci limitiamo a votare ogni 5 anni gente che decide al
posto nostro. Nel Movimento le scelte sono prese direttamente dagli attivisti, al servizio della collettività». Molti dichiarano che Ambrosoli sia meglio di Maroni, ma pochissimi annunciano che voteranno il figlio dell’eroe borghese. Enzo e Davide,
informatici, escludono ogni voto disgiunto perché «un sistema malato può solo generare gente
marcia». Non si fidano dei sondaggi e sono sicuri
che il Movimento prenderà almeno il 25 per cento.
Si rammaricano che in Italia ci siano pochi giovani, altrimenti, assicurano, il loro sarebbe già il primo partito. Mandare tutti a casa e rinnovare la politica dal basso sono i temi che stanno più a cuo-
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re alla folla che è venuta a sentire il comico, che
li arringa con la voce sempre più roca per i troppi comizi. Ridono, applaudono, lo incalzano: «Sei
grande!». Finché sul palco compare Dario Fo, che
invita gli astanti a «ribaltare tutto» e a non mollare. «Il Movimento è l’unica speranza che ci è rimasta», commenta una ragazza col piercing. Gaetano
è deluso «politicamente e moralmente» da Berlusconi e ora si schiera con i 5 stelle «per protesta».
Non mancano i dubbiosi, come Marco, infermiere,
che voterà Grillo ma si augura che continui «a fare quello che dice anche dopo il voto». Sono decine di migliaia. Forse più della piazza di Bersani. In
mezzo agli attivisti ed elettori, alle spillette e biciclette, fa capolino anche qualche curioso. Ma è indubbio che le piazze stracolme dello Tsunami tour
sono la novità di questa tornata elettorale.
Al grido di «arrendetevi tutti» Grillo ha
riempito piazza Duomo di moltissimi
giovani. Ma anche di delusi da Lega e sinistra
Poi ci sono quelli che ai comizi non ci vanno. Di
certo la Lombardia non è solo Milano. Sul voto
peserà anche la fascia prealpina, da sempre più
leghista del capoluogo. Ma a pochi giorni dal voto gli elettori meneghini sembrano avere le idee
abbastanza chiare. Lo si vede soprattutto nei volantinaggi. Con la gente prontissima a dire no,
anche solo con la testa, oppure a porgere la mano con l’espressione complice. Come la pensionata che passeggia per il mercato di Lambrate
e, di fronte al pieghevole per Ambrosoli, assicura che ha già deciso di votarlo: «Mi piace. È uno
onesto». Tra chi dice che non si fida più di niente
e di nessuno, spunta un signore che voterà Grillo dopo molti anni di astensionismo. Un anziano con cappotto verde ci tiene a precisare che ha
fatto bene i compiti a casa: «In Regione voto Ambrosoli, a Roma Monti». Il voto disgiunto a favore dell’avvocato, annunciato da molti candidati del professore, sembra aver fatto breccia anche tra i cittadini che non fanno politica. Ma che
talvolta sorprendono, come una pensionata che
chiede un po’ di volantini di Ambrosoli «per darli ai vicini di casa». E si allontana, volontaria improvvisata, con la spesa in una mano e i pieghevoli nell’altra. La sfida lombarda all’ultimo voto
si vince anche così.
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società
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La rabbia diventi
Il Lazio va al voto dopo gli scandali della
giunta Polverini, che hanno alimentato
l’antipolitica. Nicola Zingaretti, candidato
del centrosinistra: «Bisogna ripartire
da una riscossa civile e morale per
riaccendere la speranza. La mia sarà una
Regione più giusta e più competitiva»
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I
l risultato elettorale nazionale rischia di fare
ombra sul voto per le regioni in cui gli scandali hanno travolto le giunte di governo, portando alle elezioni anticipate. Il Lazio, ad esempio.
Che significa la gestione Polverini, l’allargamento
smisurato del rimborso ai partiti, le feste sguaiate
pagate con i soldi pubblici. Una storia che ha alimentato il vento dell’antipolitica e la rivolta verso il sistema dei partiti. Nicola Zingaretti, già presidente della Provincia di Roma, è il candidato del
centrosinistra. Ha respirato a ogni metro in queste settimane quel vento. «Ho sentito tanta rabbia
per l’uso personale delle istituzioni e per i casi di
appropriazione del denaro pubblico ai quali abbiamo assistito negli scorsi mesi e che hanno travolto
la nostra Regione. Un senso di sfiducia, ma anche
una grande volontà di cambiare.
Come si rimedia a un tale disastro?
C’è bisogno, per la politica, di cambiare tutto e di
riscoprire la propria funzione autentica per misurarsi con questa disponibilità e questa domanda
di innovazione. Perché la politica non è gestione
del potere, ma organizzazione e pensiero collettivo capace di dare vita a una riscossa civile e morale e di riaccendere la speranza di cambiamento.
Solo così la rabbia si trasforma in energia positiva.
Quello che è avvenuto nel Lazio e in Lombardia ha alimentato l’antipolitica. L’ha avvertita tra gli elettori?
L’antipolitica esiste ed è figlia della cattiva politica,
che l’ha nutrita offrendo uno spettacolo osceno di
sé. Io sono convinto che la nostra sfida stia proprio
qui. La politica ha un’ultima opportunità per superare due opposti estremismi: quello di chi pensa
che tutto sia da buttare, perché la politica fa schifo. Così come è un errore illudersi che sia possibile riaffermare il primato della politica nelle sue forme tradizionali, senza prendere coscienza della rivoluzione in atto nelle modalità di esercizio del potere e nell’organizzazione delle forze sociali. Non è
una sfida per la salvezza della classe politica, le cui
sorti di per sé non significano nulla. È una battaglia
civile per restituire fiducia ai processi democratici,
fuori dai quali siamo tutti più soli, deboli ed esposti
alla dittatura dell’io e all’egoismo sociale.
23 febbraio 2013
left
società
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i energia
Il Pd ha votato le delibere della Polverini
sull’innalzamento del finanziamento ai partiti. Perchè quell’ errore?
È stato un errore ed è stato anche riconosciuto.
Tant’è che il centrosinistra, a differenza di altri, ha
fatto una scelta di rinnovamento totale, a partire
dalla composizione delle liste. So bene che la prima questione oggi è la credibilità. Ho scelto di candidarmi proprio per voltare pagina.
La sua esperienza come presidente della Provincia in che modo potrà aiutarla nella guida
della Regione se vincerà le elezioni?
Sicuramente nella conoscenza dei meccanismi
di funzionamento della pubblica amministrazione, delle risorse e delle professionalità. E la conoscenza del territorio. E poi di alcuni argomenti
specifici: i rifiuti, ad esempio, con gli straordinari
risultati ottenuti dalla Provincia di Roma, in collaborazione con Amministrazioni comunali di centrodestra e di centrosinistra, con un aumento della raccolta differenziata porta a porta del 2.300 per
cento in meno di cinque anni.
La giunta Zingaretti se vince le elezioni comincia dal taglio dei costi, a partire da quelli
della politica?
Il primo impegno che voglio portare in giunta sarà il varo di un piano contro gli sprechi per innovare la spesa pubblica abbandonando la logica
dei tagli lineari e migliorando la qualità dei servizi e dell’amministrazione. Penso, ad esempio, a un
piano per la razionalizzazione delle società e delle aziende pubbliche della Regione, a cominciare
dall’introduzione di un’Agenzia unica per lo Sviluppo al posto dell’attuale babele di enti, con il taglio dei Cda, degli affitti pagati per le sedi, il dimezzamento delle consulenze e l’introduzione, anche
per questo comparto, della centrale unica per gli
acquisti. Solo da questo intervento contiamo di
produrre risparmi per circa 30 milioni di euro l’anno, che reinvestiremo sul trasporto pubblico e sul
welfare. Come ho detto da tempo, le prime due
leggi che ci siamo impegnati a presentate sono la
legge sulla trasparenza e la legge sulla partecipazione, perché il controllo diretto dei cittadini e la
condivisione delle scelte di governo sono la prima
left 23 febbraio 2013
di Giommaria Monti
Illustrazione di Alessandro Ferraro
garanzia contro gli abusi, i privilegi e l’opacità nella gestione del potere.
Sanità, assistenza agli anziani, scuola, lavoro. L’emergenza principale da affrontare?
Sono tutte emergenze. Che, però, hanno un segno comune: chiamano in causa la capacità dello
Stato di tornare a promuovere un patto di cittadinanza fondato sull’inclusione, sull’offerta di servizi, sulla coesione sociale. Io non posso promettere di risolvere tutti i problemi. Ma una cosa sì: tra
cinque anni i cittadini del Lazio potranno contare
su una Regione molto diversa, più trasparente, più
giusta, e quindi, anche, più competitiva.
Il contatto con gli elettori, il rapporto diretto con le persone cosa le ha dato?
Ho fatto dieci/quindici iniziative al giorno: c’è una
grande voglia di partecipazione, la stessa che in
questi anni ha dato vita a movimenti sorprendenti come quello sull’acqua bene comune. I cittadini non si fidano più delle promesse. Mi dicono:
«Zingaretti, non ci deludere anche te». Io dico state tranquilli. Ma capisco questa diffidenza e questa
voglia di toccare con mano e di non delegare più a
scatola chiusa il proprio futuro.
Il primo atto del mio governo sarà tagliare
gli sprechi e usare quei soldi sul welfare
Cosa l’ha colpita di più?
Praticamente tutti, dalle imprese alle associazioni del sociale, denunciano la completa inefficienza e inaffidabilità della Regione. Nella programmazione, nei pagamenti, nell’assegnazione dei bandi. E il sentimento comune tra le persone: un senso di disillusione non solo verso le
istituzioni, ma anche nella possibilità stessa di
migliorare la propria vita. A partire dal lavoro.
Tante persone però mi hanno fatto capire che c’è
una grande attesa per la possibilità di cambiare, una voglia di esserci e partecipare alle scelte,
che sarebbe gravissimo mortificare l’ennesima
volta. Ho imparato che bisogna riscoprire qualcosa di antico: lealtà, trasparenza, difesa del bene comune. La politica deve essere messa al servizio di una missione e non di se stessa.
In apertura,
Nicola Zingaretti
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società
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Due milioni e mezzo di meridionali
hanno lasciato le proprie città negli
ultimi 20 anni per un posto di lavoro
al Nord. Sono laureati, specializzati.
Ma la crisi e la precarietà impediscono
loro di mettere radici. I nuovi
“pendolari” sono ignorati dalla politica.
E il Sud è a rischio spopolamento
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23 febbraio 2013
left
left.it
società
© jahn/flickr
Mezzogiorno
di vuoto
di Tiziana Barillà
left 23 febbraio 2013
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società
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N
ell’Italia del nuovo millennio i trolley
superleggeri prendono il posto delle
vecchie valigie di cartone. E il lavoro
precario nei servizi sostituisce il posto sicuro in
fabbrica. Ma l’emigrazione meridionale resta, e
diviene sempre più questione giovanile e femminile. Ogni anno centinaia di migliaia di giovani lasciano il Sud per lavorare: 2,5 milioni negli
ultimi vent’anni, più di un meridionale su dieci. Tanto che adesso si parla di crisi demografica e rischio spopolamento. Nel bel mezzo della crisi economica il flusso non si ferma, anche
se è più difficile fotografare il fenomeno: i nuovi
emigranti sono spesso pendolari, troppo precari per spostare la residenza.
Emigranti o pendolari?
© infografica martina fiore
I tecnici li chiamano “pendolari di lungo raggio”. Vivono e lavorano al Centronord, ma continuano a risiedere - e votare - nelle città in cui
sono nati. Insegnanti, ingegneri, ricercatori, impiegati, operai. Secondo le ultime stime della
Svimez oltre 1 milione e 350mila persone hanno
lasciato il Sud nel decennio 2000-2010. Di questi, 140mila solo nel 2011 (6mila in più rispetto
all’anno precedente). Dati che non corrispondono con quelli degli uffici anagrafici. L’emigrazione non è più rilevabile attraverso il cambio
di residenza. A causa dei contratti atipici, salari bassi e affitti stellari in pochi decidono di spo-
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starsi in maniera stabile in un’altra città. Si resta sospesi, a tempo indeterminato: 4 giorni al
Nord, dividendo la casa insieme ad altri. Poi, il
fine settimana, si torna a casa. Oppure si parte per pochi mesi, dipende dalla durata del contratto. Il fenomeno del pendolarismo riesce a
falsare anche le statistiche sull’occupazione:
molti abitanti del Sud risultano impiegati nonostante non lavorino nella loro città. Per intenderci: nel 2011, dinanzi a un flusso di emigranti cresciuto del 4,3 per cento, il tasso di occupazione nel Mezzogiorno è rimasto stabile al 40.
Il fenomeno riguarda soprattutto chi ha un’alta formazione: il 30 per cento dei nuovi pendolari, ben 39mila cittadini, è laureato; quasi la
metà svolge professioni di livello elevato. Così il Sud perde due volte: spreca gli investimenti nell’istruzione e nella formazione dei suoi giovani, e rinuncia alla futura classe dirigente.
False partenze
C’è chi torna perché momentaneamente disoccupato. Nel 2009, anno di inizio della crisi, erano già 40mila gli emigranti meridionali ritornati al Sud, principalmente giovani donne tra i 25 e
i 34 anni. Ma c’è poco da gioire. I rientri non sono che temporanei, una “protezione sociale” per
i pendolari di lungo raggio espulsi dal mercato
del lavoro. Si torna a casa da mammà in attesa
di nuovi lavori precari e nuove ripartenze. Magari all’estero, come ha fatto il 7 per cento di loro
nel 2011. Da sempre gli emigranti sono i primi a
pagare la crisi, tanto più se precari. A poco serve
l’alta scolarizzazione. Anzi sono proprio i laureati a pagare maggiormente. È la crisi, bellezza. Ritenta, sarai più fortunato. Palermo, Napoli, Reggio Calabria, le città del Sud si ripopolano. Scrivono il vicepresidente Svimez Luca Bianchi - oggi assessore all’Economia della giunta siciliana
di Crocetta - e Giuseppe Provenzano in Ma il cielo è sempre più su? (Castelvecchi, 2010): «Si ricominciano a vedere tanti ragazzi seduti davanti ai tavolini dei bar. Sono proprio quelli che avevano un contratto interinale o un contratto a progetto, l’anello più debole del mercato del lavoro,
senza tutele e senza sindacati a difenderli».
23 febbraio 2013
left
società
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Il Sud è altrove
«Sono andata via perché nessuno mi
prendeva sul serio», dice la scrittrice
calabrese Angela Bubba, 24 anni e
finalista del premio Strega 2009. La
sua è una delle tante storie raccolte da
SudAltrove, un progetto partecipato
realizzato da giovani emigranti. Un
video e un libro per raccontare le molte
storie di chi lascia il Sud in cerca fortuna. E un focus sulla Calabria, regione
altamente colpita. «Ci siamo posti una
domanda apparentemente banale: perché se ne vanno tutti?», spiega Alessio
Neri tra gli autori del progetto. «C’è
chi si libera, chi sta male, chi avverte
il fallimento e un vago senso di colpa.
In ogni caso emigrare è come una
seconda pelle per i meridionali». Realizzato da LiberaReggio Lab, SudAltrove
(Terrearse, 2013) contiene anche un
sondaggio, una sorta di censimento
informale degli emigranti calabresi. Un
lavoro attento che, anche attraverso
l’uso dei social network, mette a nudo
una vecchia storia. Perché ancora nel
2013 «#emigrareè una scelta obbligata», come twitta Gianluca, uno dei
giovani che ha contribuito al progetto.
Rischio tsunami demografico
Se all’attuale emorragia - circa 1,5 milioni di emigrati negli ultimi dieci anni - aggiungiamo la bassa natalità e la minore incidenza delle migrazioni dall’estero, si capisce perché gli statistici parlino di rischio spopolamento. L’ultimo censimento Istat dice che tra il 2001 e il 2011 la popolazione
italiana al Sud è diminuita di 220mila unità, mentre è cresciuta di 250mila al Centronord.
E le previsioni per il futuro non promettono bene: nel giro di vent’anni, sostengono gli statistici,
si arriverà a perdere quasi un giovane su quattro
nel Meridione. Di questo passo nel 2050 gli over
75 aumenteranno del 10 per cento, mentre gli under 30 nel Mezzogiorno passeranno dagli attuali 7 milioni a 5. Una società di vecchi, senza alcuna possibilità di rinascita. D’altra parte l’emorragia demografica non è nemmeno rimpiazzata dai
migranti stranieri. Come avviene invece al Centronord, grazie all’ingresso di stranieri e meridionali. Anche qui molti giovani partono: circa 30mila nel 2011, di cui il 90 per cento diretto all’estero.
Germania, Svizzera e Gran Bretagna sono le principali destinazioni.
La Questione femminile
Tra una partenza e un ritorno, c’è anche chi si
arrende. Sono principalmente i giovanissimi e
le donne. I “neet”, ovvero gli inattivi, il 30 per
cento della popolazione italiana tra i 15 e i 29
anni che non studia, non lavora e ha smesso di
cercare qualsiasi impiego. E, in questo contesto, rinuncia anche alla partenza. Nel nostro Paese il 60 per cento dei neet si concentra proprio
nel Mezzogiorno.
L’altra categoria di inattività, per l’Istat, è rappresentata dalle donne. Che cresce al Sud, dove una
donna su tre preferisce abbandonare il mercato
left 23 febbraio 2013
del lavoro, anche perché la prospettiva è una retribuzione bassa, part time e discontinua. Perciò,
è ormai quasi consueto definire la questione femminile come una questione meridionale: le donne
nel Sud scontano una precarietà lavorativa maggiore tanto nei confronti degli uomini del Sud,
quanto delle donne del resto del Paese. E cresce
pure la disparità di genere nel sottoutilizzo del capitale umano: il 40 per cento delle laureate ha un
lavoro che richiede una qualifica più bassa rispetto al titolo posseduto.
Nessun contrasto
Dinanzi a questo quadro la politica fa poco o nulla. Gli enti locali legiferano per lo più in merito
agli emigrati all’estero. Come si fa in Calabria e
Basilicata, dove gli sforzi sono rivolti alla “cultura d’esportazione”, o comunque al miglioramento dei ponti con l’estero. Stessa cosa a livello nazionale, con la cosiddetta legge Controesodo
promossa dal deputato Giuseppe Vaccaro (Pd):
sgravi fiscali per “i cervelli in fuga” che decidono
di rientrare in Italia. Ma per i nuovi emigranti pendolari niente. Con intenti diversi, invece, si muove la Regione Puglia attraverso il progetto “Bollenti spiriti”. Un sistema che punta espressamente a limitare le cause dell’emigrazione, incentivando le politiche giovanili con laboratori e “cantieri”. Fino a oggi con questo supporto
sono stati realizzati circa 350 progetti in tutte
le province pugliesi. Ma, tolta questa eccezione,
il nostro Paese non prevede norme o progetti
per attutire o contrastare il fenomeno. «Le politiche per il rientro arrivano fino a un certo punto», spiega Giuseppe Provenzano. «Bisogna
creare l’humus per il loro ritorno, quelle condizioni per la realizzazione personale e professionale che spesso trovano all’estero».
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società
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Piovono promesse
© Alpozzi / LaPresse
Due mesi fa il regista Ken Loach rifiutò il premio al Torino film festival
per protesta contro il licenziamento dei dipendenti di una cooperativa.
Senza ottenere nulla, malgrado le rassicurazioni del sindaco Fassino
Torino, 6 dicembre
2012. Il regista Ken
Loach incontra
i lavoratori in
un’assemblea
pubblica
32
S
batti Ken Loach in prima pagina, aspetta
qualche settimana e dimenticatene. Due
mesi dopo la clamorosa decisione del regista britannico, che lo scorso dicembre aveva rifiutato il premio del Torino film festival polemizzando sui precari impegnati nella kermesse, nulla
è cambiato. A niente è servito denunciare la condizione dei lavoratori della Rear, la cooperativa che
gestisce il servizio di vigilanza e pulizia nel Museo
del cinema di Torino. Come a niente è servito il gesto di solidarietà del regista Ettore Scola, che aveva riconsegnato nelle mani del sindaco Piero Fassino il riconoscimento alla carriera concesso dal
festival. Eppure il doppio boicottaggio aveva generato non solo numerose polemiche, ma anche
rassicurazioni. In primis quelle di Fassino che aveva garantito di voler risolvere presto la questione.
Due mesi non sono bastati, evidentemente. I dipendenti della Rear continuano a ricevere stipendi da fame; nessuno dei lavoratori licenziati “per
motivi disciplinari” è stato reintegrato. E sulla
scrivania del sindaco campeggia ancora il premio
rifiutato da Scola. «Me lo verrò a prendere quando
il problema sarà risolto», aveva annunciato l’autore di Brutti, sporchi e cattivi.
La chiave dell’intera vicenda è racchiusa in una
parola: esternalizzazione. Ovvero l’affidamento
a terzi di un servizio pubblico tramite un appalto
al massimo ribasso. Il Museo del cinema di Torino, organizzatore del Festival del cinema, da 12
di Benedetto Antuono
anni assegna il servizio di vigilanza e pulizia alla cooperativa Rear presieduta da Mauro Laus,
consigliere regionale del Partito democratico.
Ma la cooperativa, a quanto sostiene il sindacato Usb, non è esattamente un buon posto in cui
lavorare. Le paghe si attestano sui 5,65 euro lordi all’ora. Una miseria alla quale va sottratto un
ulteriore 6 per cento di “autoriduzione”, per affrontare lo stato di crisi. Ma c’è di più: in un anno la cooperativa ha licenziato 5 dipendenti per
“motivi disciplinari”. Uno di loro è Federico Altieri cacciato nell’ottobre 2011. Il motivo? Una
maglietta con la scritta “Sospendeteci tutti”, indossata da Altieri per solidarizzare con una collega sospesa qualche settimana prima. Proprio
ad Altieri si deve l’inaspettato interessamento di
Ken Loach alla vicenda della cooperativa Rear. È
il luglio 2012 quando l’ex dipendente scrive al regista, chiedendogli di sostenere la causa dei lavoratori. Loach non se lo fa ripetere due volte:
«Non ha senso dire una cosa sullo schermo e poi
tradirla con le nostre azioni. Per questo mi trovo
costretto a rifiutare il premio», scrive il regista ai
responsabili del Torino film festival. Siamo a fine
novembre, a pochi giorni dalla cerimonia di premiazione della kermesse, e il “gran rifiuto” getta nel caos il mondo del cinema. Il regista Gianni
Amelio accusa Loach di “megalomania”, mentre
il direttore del Museo del cinema Alberto Barbera lo apostrofa come «testone e male informato». Eppure nel luglio 2012, quando Loach aveva
contattato gli organizzatori del festival per chiedere una soluzione, aveva ricevuto una risposta molto cordiale: «Siamo consapevoli del problema e ci impegneremo a risolverlo quanto prima». Quando non è dato saperlo.
Dalla Rear respingono le accuse: «Loach, sostenuto dal sindacato “antagonista” Usb, ha usato il caso dei lavoratori licenziati per una campagna massimalista contro l’intero sistema delle esternalizzazioni», ribatte Maria Grazia Grippo, responsabile della Comunicazione della cooperativa. «Nessun elemento oggettivo attesta che i nostri dipendenti siano stati maltrattati o vessati». Il sindaco
Fassino, da parte sua, ha preferito non rispondere
alle nostre richieste di chiarimenti.
23 febbraio 2013
left
la scuola che non c’è
società
left.it
Tra i candidati alle Politiche nessuno parla di istruzione come tema centrale per il Paese
Silenzio elettorale
di Giuseppe Benedetti
cupa tra le priorità delle agende politiche, diverse associazioni di insegnanti e dirigenti scolastici si sono mobilitate sul web per chiedere
ai leader politici di impegnarsi concretamente. All’inizio di febbraio
la Rete delle scuole, che
raccoglie diverse associazioni di categoria, ha
lanciato sul web (www.
nonvivoteremose.it)
l’iniziativa “interroghiamo i leader nazionali”
con dieci domande sulle prospettive del nostro
sistema scolastico, dalla necessità di approntare un piano pluriennale di finanziamenti, anche per rimediare alle conseguenze
dannose dei tagli del ministro Gelmini, all’impegno sulla piena applicazione del dettato costituzionale riguardo
ai fondi pubblici per le scuole private.
Una settimana dopo, aveva risposto
solo Vendola. Anche il Gruppo di Firenze ha promosso un’iniziativa simile, rivolgendo ai politici dieci domande, ciascuna delle quali suggerisce
due risposte alternative. Negli appelli delle diverse associazioni ritornano due richieste: nominare come ministro dell’Istruzione una personalità
di comprovata competenza in materia e ripensare radicalmente il sistema di valutazione che si è configurato con i test dell’Invalsi. Due richieste
che insieme denunciano l’illogicità di
un criterio per cui la definizione di un
modello di valutazione delle competenze è stata lasciata nel recente passato a chi non ha competenze specifiche sulla valutazione a scuola.
[email protected]
© Federici / LaPresse
P
er la scuola
non c’è spazio neanche
tra le balle preelettorali lanciate ripetutamente in aria per intercettare il vento dei sondaggi. Sembrano lontani i
tempi in cui Prodi sintetizzava il programma della sua coalizione con lo slogan a effetto rimbombo “scuola,
scuola, scuola”, e Berlusconi, allora nei panni di re Mida, replicava
che avrebbe ricoperto
d’oro gli insegnanti. Come dobbiamo interpretare, alla vigilia del voto, il fatto che la scuola sia quasi dimenticata (eccetto una lettera a La Repubblica e alcuni accenni su università e ricerca) nella campagna neorealistica
di Bersani e relegata nelle ultime pagine dell’agenda dell’indaffaratissimo Monti, nascosta dietro altre priorità, dal lavoro alle tasse alle riforme
istituzionali? Il silenzio sulla scuola,
perfino nello schiamazzo preelettorale, è forse la riprova più evidente
della perdita di idealità della nostra
politica. Il tema dell’istruzione è legato a doppio filo a un’idea di società e per essere affrontato seriamente
richiede che la politica si occupi della qualità della vita delle persone. Invece, le varie agende politiche sono
tutte coniugate al presente e occupate da numeri. E i proclami sui primi cento giorni sono ormai già superati dagli annunci sulle prime misure
da adottare nelle 48 ore successive
all’insediamento del nuovo governo.
Quasi tutti sono in procinto di scatenare una rivoluzione, in modo da ot-
Tra gli appelli delle associazioni di
categoria una richiesta fondamentale:
nominare un ministro che abbia davvero
una comprovata competenza in materia
left 23 febbraio 2013
tenere tutto e subito, persino i moderati. Nell’ottica emergenziale dominante, chi ha scelto di fare una campagna elettorale in bianco e nero non
garantisce nulla di più, sulla scuola, di
conservare materialmente in piedi gli
edifici scolastici. Del resto si è diffusa
la convinzione che la scuola non abbia appeal per l’elettorato. Dopo anni e anni di sistematico abbandono,
grazie all’affidamento a ministri prestanome che hanno retto il gioco ai
veri responsabili del sistema scolastico, cioè i ministri dell’Economia e
delle Finanze; dopo anni e anni in cui
ogni voce di dissenso sulle presunte
“riforme” del sistema di istruzione è
rimasta inascoltata; dopo anni e anni di diffamazione mediatica degli insegnanti, tagliati fuori da ogni parere
sui cambiamenti in corso nel sistema
scolastico, si osserva, ipocritamente,
che la scuola è un tema che non appassiona la società civile. Spaventati dalla posizione che la scuola oc-
33
cose dell’altritalia
società
left.it
1 ROMA
Spese inutili e lavoratori a rischio.
Miseria e nobiltà al Teatro dell’Opera
Con la cultura non si mangia. A confermarlo è la situazione
dei 494 lavoratori del Teatro dell’Opera di Roma. Nuovi
tagli al Fondo unico per lo spettacolo (Fus) e mancati finanziamenti da parte
degli enti locali portano a un solo risultato: posti di lavoro a rischio. Quando la crisi morde la soluzione più
facile è sempre la stessa: esternalizzazioni. Due sono quelle che hanno riguardato la fondazione del teatro
romano negli anni passati: biglietteria e servizi di vigilanza. Rimane difficile da spiegare invece il perché
dell’assunzione di un folto numero di consulenti da parte della fondazione dell’Opera: 40 in tutto. Il dito viene
puntato soprattutto contro Catello De Martino, capo della direzione del Personale della Fondazione del
teatro dal 2009, che i dipendenti accusano di «scarsa trasparenza nella gestione della fondazione». «Anche gli
stipendi dei dirigenti sono aumentati», denunciano i lavoratori. Il nodo del problema sta in un decreto del 2010,
firmato dall’allora ministro della Cultura, Sandro Bondi, che determina un doppio finanziamento per gli enti
culturali: da una parte il Fus, dall’altra un canale che passa per gli enti locali. Se non arriva il primo dovrebbe
arrivare il secondo, ma in tempi di Spending review la sostenibilità del sistema viene messa a rischio. Negli anni
passati il Teatro dell’Opera ha ottenuto circa 25 milioni tramite il Fus e 18 dal Campidoglio. Quanto spetterà
al teatro in futuro? Il silenzio di governo e Comune al riguardo è assordante. Al centro delle recriminazioni
sono finiti anche l’assessore alla Cultura Dino Gasperini e il sindaco Alemanno. Allo stesso tempo appare
incomprensibile il possibile trasferimento di un ufficio amministrativo all’interno di un appartamento privato
in via Massimo D’Azeglio. Costo dell’operazione: 180mila euro l’anno. Troppi in tempo di crisi. I lavoratori
denunciano che ben 90 dipendenti sono usciti dalla struttura, mentre
sarebbero addirittura 200 i contenziosi a cui l’Opera dovrebbe far fronte
per mancate assunzioni a tempo indeterminato dei lavoratori precari.
2
2 BOLOGNA
Il sole al posto
dell’amianto
Pannelli fotovoltaici al posto di
tetti in amianto a prezzi scontati
e senza troppa burocrazia. È questo l’obiettivo di
un progetto promosso da Cna e Unindustria, presentato al Comune nell’ambito del protocollo di
attuazione del Piano d’azione per l’energia sostenibile. Il beneficio per i privati è molteplice: da un
lato risparmieranno grazie al migliore isolamento termico e all’energia elettrica autoprodotta;
dall’altro potranno contare sullo smaltimento gratuito dell’amianto (grazie appunto all’accordo tra
le imprese). Il Comune, dal canto suo, si impegna
a mettere in campo azioni di “agevolazione e semplificazione amministrativa“. Il progetto partirà a
marzo e porterà all’installazione di pannelli fotovoltaici per una potenza complessiva di 2,2 megawatt, corrispondenti a circa 18mila metri quadri
di superficie, con l’attivazione di investimenti per
13,5 milioni di euro.
34
3 BARI
Bambini clandestini
Li chiamano “minori non accompagnati”. Appena tre
parole per raccontare una condizione dimenticata:
sono migranti, sono bambini. E sono soli. Nei primi 9 mesi del 2012
in Puglia - territorio “caldo” per gli sbarchi - ne sono arrivati 426. L’associazione Save the children ha presentato nei giorni scorsi un rapporto sulle condizioni di accoglienza che questi bambini ricevono
nelle regioni maggiormente toccate dal fenomeno: oltre alla Puglia,
anche Sicilia e Calabria. Il quadro non è rassicurante. L’indagine fotografa un progressivo crollo della qualità dell’accoglienza: i gestori
delle strutture non hanno i fondi per i servizi, le consulenze legali, la
mediazione culturale e c’è confusione tra le competenze. Il risultato:
più dell’85 per cento dei bambini fugge dalle comunità.
23 febbraio 2013
left
cose dell’altritalia
left.it
società
4 PALERMO
Case popolari in vendita. Rivolgersi alla mafia
Un intero quartiere sotto scacco. Era la realtà dello Zen, periferia di Palermo, dove i mafiosi
gestivano l’assegnazione degli alloggi popolari. Il costo di una casa? Ventimila euro, da versare direttamente al clan. Un vero mercato parallelo che ha portato al fermo di 14 persone con l’accusa di associazione mafiosa, estorsione e violenza. Gli arresti sono scaturiti dalla coraggiosa denuncia di alcuni residenti, stanchi di pagare per evitare di trovare occupata la propria casa al rientro da una passeggiata. Ce n’è abbastanza per fare sostenere ai magistrati che allo Zen «lo stato di diritto è stato sostituito da un regime autarchico retto dalla violenza e dalla sopraffazione». «I casi popolari su nuostre» (le case popolari sono nostre) metteva a verbale Salvatore Giordano, uno dei collaboratori di giustizia che hanno contribuito alle indagini.
Parlando di uno degli arrestati, Antonino Pirrotta, Giordano spiegava: «Lui ha il potere di vendere... c’è
una casa 20 mila euro, come ha venduto una casa a me, un garage mi ha fatto trovare, si è preso 3mila
euro». Case vendute nonostante la proprietà sia dell’Istituto autonomo case popolari. Il sistema lo
ha spiegato un altro collaboratore, Sebastiano Arnone: «C’erano persone che avevano la casa assegnata allo Zen e non ci volevano andare e consegnavano le chiavi all’Istituto. E tramite questo di
qua (forse un impiegato infedele, ndr), faceva sapere alla famiglia dello Zen che c’era questa casa... gli mandavano un prestanome, poi gliela levavano e la rivendevano a 20, 25 mila euro».
5 REGGIO CALABRIA
Un rapper contro la ’ndrangheta
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All’inizio dell’anno l’ennesima intimidazione: 5 proiettili ritrovati all’interno della sua auto non sono bastati infatti a mettere
a tacere Maurizio Albanese, membro della band rap e hip hop Kalafro, da anni sulle scene musicali con testi di grande impatto, contro il malaffare e la criminalità organizzata. Negli scorsi mesi, infatti, i Kalafro sono stati protagonisti
del tour Resistenza sonora. Forse proprio l’impegno dei giovani musici3
sti reggini ha fatto storcere il naso a qualcuno, con l’ennesimo avvertimento a Maurizio Albanese, il sesto in tre anni di attività.
Una “tiratina d’orecchie” che, però, non ha evidentemente sortito l’effetto sperato: il giovane, infatti, ha risposto con una nuova opera, la canzone “Un milione di
eroi”, che racconta il dramma di una città ostaggio di “padreterni” e collusi. Il rapper ha lanciato l’iniziativa Un milione di Noi con l’idea di
raccogliere più video possibili di persone pronti a dire no alla ’ndrangheta e a metterci la faccia.
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6 NAPOLI
È guerra tra Pd e de Magistris
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De Magistris? Va troppo d’accordo con Stefano Caldoro
(presidente Pdl della Regione) e rischia di consegnare la
Campania a Berlusconi. Parola di Andrea Cozzolino, eurodeputato Pd ed ex
delfino di Bassolino, tornato sulla scena politica dopo 2 anni in sordina, dovuti al pasticcio delle primarie per il sindaco di Napoli nel 2011. La bordata è
arrivata durante un incontro elettorale: «Per il bene dei napoletani, è ora di
rompere il sodalizio Caldoro-de Magistris». Un avviso per il sindaco che dovrà fare i conti con la linea dura del Pd. Sullo sfondo il nuovo corso democrat scaturito dai risultati delle “parlamentarie” che hanno rimescolato le
carte e posto Cozzolino alla guida di un inedito correntone di ex bassoliniani. Obiettivo: tornare a Palazzo Santa Lucia e Palazzo San Giacomo.
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mondo
Pietre
contro morsi
di Davide Illarietti dal Cairo foto di Yusuke Harada
Sono giovani e precari, affamati dalla crisi e delusi della Primavera
araba. Si fanno chiamare black bloc. Ogni notte preparano un’azione.
Contro i simboli del potere, la polizia e i Fratelli musulmani.
Per «difendere la rivoluzione da chi ce l’ha scippata»
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mondo
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reportage
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Le foto in queste pagine sono state scattate
tra il 25 e il 28 gennaio al Cairo,
dal fotografo giapponese Yusuke Harada
mondo
reportage
mondo
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D
ai faraoni alla troika, passando per gli
anni di piombo. Il tutto nel giro di due
primavere. Agli occhi di Omar, che
scrutano piazza Tahrir attraverso i buchi di un
passamontagna, l’Egitto è così: un magma che
cambia troppo in fretta, di male in peggio. Il
presidente Morsi, la crisi economica: Omar vorrebbe fermare tutto. «Il nostro obiettivo è bloccare la macchina», dice.
Omar, il nome è di fantasia, si dichiara membro dei
black bloc egiziani. Il «gruppo eversivo-terroristico», come lo ha definito il procuratore generale
del Cairo, venuto allo scoperto nel secondo anniversario della rivoluzione, il 25 gennaio scorso. Di
loro si sa poco o niente. A parte che girano a volto
coperto, molotov nello zaino. Agiscono con il favore delle tenebre e non parlano con i giornalisti.
Omar ha fatto un’eccezione. Laureato in giurisprudenza, si guadagna da vivere grigliando bocconcini di fegato in un barbecue di strada, nel
centro del Cairo. Si definisce una vittima della
crisi, ma non rientra nel 60 per cento dei giovani egiziani tra i 15 e i 29 anni che, secondo il Capmas, l’Istituto nazionale di statistica, sono senza
occupazione. «Mi considero fortunato - dice - an-
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che se ho studiato per niente». Del resto, sottolinea Ghada Barsoum della School of global affairs del Cairo, in Egitto l’incidenza dei lavori sottopagati e non qualificanti è più alta che mai. «Il 52
per cento dei lavoratori del terziario egiziano sono in nero», spiega. «La retribuzione media non
supera i cento dollari al mese. Occorrerebbero
delle politiche occupazionali a lungo termine».
Ma il governo di Mohammed Morsi ha altro a
cui pensare. Nel mezzo delle ultime proteste la
Banca centrale egiziana ha annunciato un ulteriore crollo - di 1,4 miliardi di dollari - delle riserve in valuta estera, arrivando così sotto il “minimo critico” dei 15 miliardi. «Siamo sull’orlo del
collasso», infierisce Omar. Non è un caso che il
30 gennaio, all’apice degli scontri che hanno fatto oltre 70 vittime, dal Cairo a Port Said, il presidente Morsi fosse a Berlino in cerca di prestiti
europei. I crediti promessi (900 milioni dall’Ue,
4,8 miliardi dal Fondo monetario internazionale) sono però vincolati a una “cura greca”. Tagli
che il governo dei Fratelli musulmani, già in bilico sulla costituzione islamista di dicembre, ha
evidenti difficoltà ad approvare. Gli ispettori del
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mondo
left.it
Fmi erano attesi al Cairo per la scorsa settimana.
Forse arriveranno per fine mese.
«Il governo temporeggerà fino alle elezioni di aprile. Hanno la scusa della nuova Costituzione, secondo cui le misure di austerity devono essere approvate da un collegio religioso», spiega a left Mohammed El Nemer, esponente della sinistra nasserista e membro del Fronte di salvezza nazionale (Snf), la coalizione laica che si oppone a Morsi.
«Il fatto è che i tagli imposti dall’esterno non sono ben visti da tutti nel governo, sebbene in materia economica i Fratelli musulmani abbiano un
approccio generalmente liberista e contrario alla
spesa pubblica. Per contro, una parte dell’opposizione è favorevole al patto con il Fmi. Ma dobbiamo ancora vedere cosa c’è nel pacchetto».
Certo, se ci fosse una bomba a orologeria - e in
molti ne sentono il ticchettio - più tardi si aprirà il
pacchetto, peggio sarà. A due anni dalla rivoluzione la misura del malcontento è di nuovo colma. Il
turismo è crollato, così le esportazioni e gli investimenti stranieri. Un egiziano su quattro vive con
un dollaro al giorno, quasi il doppio usufruisce di
pane e gas sussidiato (al quale lo Stato destina il 28
per cento della spesa pubblica). «Venti pagnotte
costano un ghiné (dieci centesimi di euro, ndr), la
gente fa la coda per due, anche tre ore sotto il sole», spiega un fornaio. «Nella zona di piazza Tahrir
ci sono sette panetterie, sempre affollatissime. Se
chiudessimo, scoppierebbe un’altra rivoluzione».
La pensano così anche i black bloc. A piazza
Tahrir, Omar è di casa. «Date un’occhiata qua attorno», dice. «Qui doveva sorgere il nuovo Egitto, invece non c’è altro che rabbia e miseria». Case abbandonate, immondizia ovunque, senzatetto
e baby gang che accendono falò tra le tende degli
indignados. Una rissa può scoppiare per un niente. Durante le manifestazioni, i ragazzini si arrampicano sui blocchi di cemento che murano la piazza a sud, a protezione dei palazzi del centro. Lanciano sassi contro la polizia. Dopo arrivano loro,
con i passamontagna. «I fratelli musulmani ci hanno rubato la rivoluzione», dice Omar. «Non ci resta che usare le maniere forti».
Ed è proprio qui, in piazza Tahrir, che per Omar e
i suoi compagni tutto è iniziato. «Molto molto prima di quanto non dicano i mezzi di informazione»,
spiega. «È successo circa un anno fa, proprio durante una manifestazione. L’idea di prendere il no-
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me di black bloc l’hanno avuta degli egiziani rientrati dall’Europa. Ma non siamo anarchici e non
abbiamo niente a che fare con i gruppi già esistenti
nel Vecchio continente». Un anno dopo, al secondo anniversario della rivoluzione, sono usciti allo
scoperto, con un video su youtube. «I Fratelli musulmani ci hanno rubato la rivoluzione. La violenza della polizia, la sensazione che si sia arrivati a
un punto di non ritorno: è questo che ci ha spinti
al passo». Ora, spiega Omar, l’obiettivo è «portare il Paese a un cortocircuito, fermare il corso normale delle cose, che normale non è». Lui si è spinto oltre la cortina di segretezza, perché «non facciamo niente di male. Dicono che siamo criminali,
ma lottiamo per il bene dell’Egitto».
Nelle notti scorse il gruppo di Omar ha partecipato a una “azione” contro l’hotel Semiramis, dietro piazza Tahrir. Molotov e pietre, colpi di pistola esplosi in aria. «Oggi in Egitto tutti hanno un’arma. Ma al contrario della polizia, noi non ammazzeremo nessuno. Anche se ci stiamo organizzando per alzare il livello dello scontro», continua
Omar. E indica un edificio distrutto dalle fiamme,
a pochi passi dal Semiramis. Una villa storica in
stile coloniale, metà Ottocento. “Perché”, verrebbe da chiedere, ma non è il caso. Fuori dall’hotel
c’è un chiosco di souvenir. «Siamo rovinati, ormai
perfino gli egiziani hanno paura di venire in questa piazza, lamenta il negoziante e un passante gli
fa eco: «Viene da rimpiangere Mubarak». Intanto a
ogni azione i black bloc guadagnano nuovi adepti: «Al Cairo ormai i gruppi sono più di trecento,
ognuno composto da una trentina di persone»,
conta Omar. «Altri ancora sono nati a Port Said,
Ismailia, Suez, Alessandria».
Basta con le chiacchiere. Omar ha fretta: deve
fiondarsi al palazzo presidenziale per un’azione. La notte torna a piazza Tahrir, alle quattro
del mattino, con due compagni dal volto coperto. Mentre ci riconsegna il passaporto (preso in
ostaggio prima dell’intervista) avverte: «Non
avrei dovuto parlare. Gli altri non sono contenti». Ma lui è tranquillo. «In Egitto non siamo noi
il problema. Io guadagno tre dollari al giorno
e ho fatto la rivoluzione. Ma la polizia, i militari sono violenti come prima, la gente fa la fame
più di prima. Per cambiare le cose, bisogna agire», dice. E se ne va come era venuto. Inghiottito
dall’incerta notte di piazza Tahrir.
Nella pagina accanto: Il
Cairo, un ragazzo fugge
dalle cariche della
polizia. Nelle pagine 38
e 39, dall’alto in senso
orario: manifestanti
si allontanano dopo
un attacco all’Hotel
Semiramis; piazza
Tahrir, si prepara una
barricata a protezione
della gente. Sullo
sfondo si intravede
il muro che cinge la
piazza a sud e che
isola i manifestanti
dai quartieri ricchi;
bandiere egiziane
sventolano sul viale
che conduce al palazzo
presidenziale; scontri
tra manifestanti
e polizia; ragazzi
trascinano un loro
compagno ferito fuori
dalla zona degli scontri.
Nelle pagine di
apertura, un altro
momento degli scontri
del 27 gennaio
41
mondo
left.it
I figli del Piano Marshall
sono costretti a cedere
il passo agli asiatici.
L’Ocse non è più il
club dei ricchi e i suoi
appelli a rafforzare
un mercato libero
ma equo cadono
inascoltati. Al suo
posto trionfa il G20,
dove non ci sono
regole ma tutti si
sentono rappresentati
Il naufragio
dell’Occidente
di Cecilia Tosi
C’
era una volta l’Occidente opulento,
riunito in un’organizzazione chiamata Ocse e ribattezzata “club dei
ricchi”, che dettava le regole dell’economia ispirandosi ai principi del libero commercio. Oggi quel
club c’è ancora, ma non se la passa per niente bene.
Per la prima volta in quattro anni i 34 Paesi che ne
fanno parte hanno registrato una contrazione economica dello 0,2 per cento. Sono dati dell’ultimo
trimestre del 2012, che vedono scendere soprattutto la Ue - dove il pil è diminuito di mezzo punto percentuale - mentre il Canada è l’unico Paese a crescere. Il peggiore, purtroppo, è l’Italia, che dalla fine del 2011 a quella del 2012 ha subìto una contrazione del 2.7 per cento. L’Ocse non fa una piega: dal
suo quartier generale di Parigi elabora ricette per
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la ripresa e organizza giornate di studio sulla competitività e trasparenza. Ma non è più qui che si decidono le sorti dell’economia globale, non sarà più
l’Occidente a fare la differenza.
L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico riunisce tutti gli amici degli americani - o almeno quelli rispettabili -, gli stessi che in
tutti questi anni hanno amato definirsi “occidentali” dall’alto del loro Pil e delle loro istituzioni democratiche. Quando è nata, nel 1948, nel nome non
aveva lo sviluppo ma l’Europa, il continente dove
era destinata a operare per gestire i fondi del Piano Marshall. Ci entrarono tutti quelli che decisero
di stare a ovest della cortina, compresa la Turchia.
Ma i tempi passano e con il crollo del Muro sono
23 febbraio 2013
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mondo
left.it
Da quando la Grande Crisi è cominciata i Paesi emergenti hanno approfittato per guadagnare
spazio, traducendo la potenza economica in forza politica. L’hanno fatto senza tanti clamori, evitando di mandare al tappeto l’avversario e limitandosi ad aggiungere la loro sedia al tavolo delle decisioni. È così che il G7 è diventato G8 e poi G20,
accogliendo giganti come la Cina, l’India, il Brasile. E nonostante che organizzazioni economiche
dei ricchi esistessero di già - primi fra tutti il Fondo
monetario internazionale e il Wto - il G20 ha guadagnato potere decisionale, diventando l’appuntamento più importante per lanciare impegni economici globali. Peccato che spesso rimangano solo impegni, perché il G20 non è un’organizzazione
strutturata, non ha un segretariato né una sede fissa, nessuno che controlli che i membri rispettino le
promesse. Sarà questo che piace agli Stati, che vogliono occupare una poltrona in tutti i consessi internazionali, ma poi preferiscono esprimersi là dove non rischiano punizioni. È così che le vecchie
organizzazioni, ancora espressione del sogno mercatista americano, arrancano. Il Wto ha ammesso
Cina e Russia anche se non rispettavano in pieno
gli standard previsti, e il rappresentante dell’Ocse
è appena andato a Mosca e ha approfittato proprio
di un incontro del G20 per promettere a Putin che
la Russia entrerà nel club da lui presieduto, con
tempi più rapidi del previsto. «Dobbiamo includerli perché siamo un’organizzazione globale», ha dichiarato il segretario generale Gurria. «E noi forniamo un marchio che garantisce gi investitori dai
rischi». Sarà, ma attualmente ad attrarre il maggior
numero di investimenti diretti sono i Paesi asiatici, che con l’Ocse non hanno niente a che fare. Secondo un rapporto elaborato alla fine del 2012 dal
think tank A.T. Kearney, i Paesi che hanno l’indice
più alto di fiducia da parte degli investitori stranieri sono Cina, India e Brasile. Dopo, vengono Stati
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Uniti, Germania e Australia.
Il G20 ha 14 membri in meno dell’Ocse e 138 in meno del Wto, eppure ai Paesi in via di sviluppo piace di più, perché si sentono più rappresentati, meno obbligati a piegare la testa sotto regole imposte
da altri. Eppure quelle regole vengono infrante soprattutto da chi le ha sottoscritte per prime, a giudicare dalla sentenze del panel che risolve le controversie all’interno del Wto: sono tre attualmente le richieste di imporre sanzioni a chi ha violato
i principi del libero commercio, due contro gli Usa
e una contro la Ue. Ma se siamo nell’era delle organizzazioni liquide anche l’economia globale si
adatterà, seguendo la filosofia del fai un po’ come ti
pare e la logica del profitto, privata anche di quelle
poche regole che finora ha tentato di darsi. Da una
parte resta l’Ocse, che cerca di fornire esempi di
buone pratiche stilando l’elenco dei Paesi più virtuosi in competitività: i primi posti li hanno conquistati Svizzera, Singapore, Finlandia, Svezia e Olanda. Dall’altra ci sono gli investitori internazionali,
che preferiscono andare sul sicuro e fare stime sui
Paesi che rimpolperanno maggiormente il loro pil
nel prossimo futuro. Secondo le stime del Fondo
monetario internazionale, dei 20 Paesi che avranno il maggior tasso di crescita aggregato tra il 2013
e il 2017 dieci saranno subsahariani, 8 in Asia e 2
nel mondo arabo. Ci sono Libia, Iraq, Mongolia e ai
primi posti Sao Tomè, Guinea e Sud Sudan. Ad accomunarli, ricchezze petrolifere e minerarie, merci che non hanno nessun bisogno di essere innovate, ma che alimentano ancora la crescita globale.
Quella che l’Occidente non trainerà più.
In basso, i capi
di Stato e di governo
dei Paesi del G20
nel 2012 in Messico.
Nella pagina accanto,
un manifesto
propagandistico
del Piano Marshall
Gli investimenti vanno in Cina e in India. Eppure
Svizzera e Scandinavia sono più competitive
© Kaster/ap/lapresse
entrati nell’Ocse anche Paesi orientali e latinoamericani, fedeli alleati di Washington come Polonia e
Cile. Qualcuno l’ha definita liberista ma l’Ocse, cresciuta con i soldi Usa, ha il contributo pubblico nel
dna e cerca da sempre un compromesso tra capitalismo e equità. L’ultimo global forum che ha indetto - a Parigi, dal 28 febbraio al 1 marzo - si appella
alla competitività e all’innovazione per ridurre la
povertà. Purtroppo, però, la prima a finire schiacciata dalla concorrenza sarà lei.
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newsglobal
mondo
left.it
© Riofrio/ap/lapresse
882.300
Il trionfo del bolivarismo
Le elezioni del 18 febbraio in Ecuador hanno consegnato la maggioranza
assoluta al presidente uscente Rafael Correa, trionfatore con il 56,8 per cento
dei consensi. Il suo diretto avversario, il banchiere Guillermo Lasso, conquista appena il 23,7 per cento. Correa, uno dei leader bolivariani del Continente
sudamericano, viene considerato l’erede “morale” di Hugo Chavez.
LONDRa
In milioni di euro è l’ammontare del debito pubblico spagnolo
secondo i dati del Banco
de España. In un solo
anno, quello del governo
Rajoy, il debito è cresciuto di 146mila milioni
di euro, cioè oltre 400
milioni in più al giorno.
Il murales rubato
I residenti di Wood Green ci si erano affezionati. Nel loro quartiere, uno
dei più anonimi di Londra nord, non c’è molto di cui andare fieri e quel
disegno sul muro in Whymark Avenue dava un po’ di lustro alla comunità. Peccato che l’opera di Bansky sia scomparsa improvvisamente a metà febbraio. Contemporaneamente un murales identico è stato messo in vendita a Miami, per la modica cifra di 452mila sterline (circa 700mila euro). La casa
d’aste americana Fine Art Auctions sostiene che non si tratti della stessa
opera, e che il murales in vendita sia stato offerto da un collezionista. Ma
il consigliere di quartiere Alan Strickland è furioso: «L’opera ci era stata
donata e tutti venivano a vederla. Adesso c’è molta rabbia e lanceremo
una campagna per riavere il nostro Bansky».
Le 100 principali aziende al mondo per vendita di armi
Fonte: Stockholm international peace research institute Top 100 list
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23 febbraio 2013
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mondo
left.it
Alba dorata aprirà una succursale in Australia. Il partito neonazista greco, forte del sostegno
ricevuto in patria, ha deciso di
allargare i suoi orizzonti e rivolgersi agli emigrati ellenici di
Melbourne. Non si sa con quale
messaggio, ma nel frattempo ha
ricevuto il plauso dell’Australia first party, partito dell’estrema destra australiana. «Qui
la posizione ufficiale della comunità greca è a favore del
multiculturalismo e della globalizzazione», spiega il leader
Jim Salim. «Siamo sicuri che Alba dorata cambierà queste
parole d’ordine, e questo sarà un bene per noi nazionalisti
australiani. Andremo di sicuro d’accordo». L’Australia first
party prende tra lo 0,6 e lo 0,8 per cento dei voti.
SALISBURGO
© ap/lapresse
L’alba dorata di melbourne
«È tempo che un tribunale,
e in particolare la Corte
penale internazionale,
cominci a occuparsi
dei crimini
commessi
in Siria»
Carla Del Ponte,
ex procuratore capo
della Corte per la ex
Jugoslavia e attuale
membro della
commissione
di inchiesta Onu
sulla Siria
Liberate le strade dei soldi
Il Partito popolare austriaco (Övp) ci riprova. Dopo che la Corte costituzionale ha bocciato nell’estate 2012 il “divieto assoluto di accattonaggio”
in vigore a Salisburgo, i conservatori tentano di reintrodurlo sfruttando
una norma contenuta nell’attuale legge. Nella cittadina austriaca dalla fine dello scorso anno è proibito chiedere la carità in maniera molesta, consentire ai minori di elemosinare, o farlo in maniera “organizzata”. L’or-
dinanza prevede però che la mendicità possa essere vietata anche quando chi la pratica
ostacola il passaggio delle persone, come accade in
alcune vie affollate. Basandosi su questa norma, l’Övp ha presentato una
serie di richieste di interdizione che riguardano praticamente tutto lo spazio urbano. Se ne discuterà nel prossimo consiglio comunale del 20 marzo:
a favore si è detto il Fpö, mentre sono possibilisti - solo per le zone turistiche - i socialdemocratici dello Spö. Gli unici che si sono dichiarati completamente contrari sono i Verdi della Salzburger Bürgerliste.
© yourdon/flickr
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© infografica martina fiore
Più che la buona volontà è la crisi a mettere un freno all’acquisto di
armi. Nel 2011, secondo i dati del Sipri diffusi il 18 febbraio, le aziende del settore hanno registrato un calo di incassi del 5 per cento,
vendendo comunque armi per una cifra superiore ai 400mila milioni
di dollari. Resistono alle ristrettezze economiche le big del settore: la
statunitense Lockheed Martin aumenta, al pari della Boeing, mentre
cede il secondo posto la britannica Bae system. Le aziende Usa dominano la classifica Top 100 sia in termini numerici (44 sul totale, più 3
sussidiarie) che di vendite, con oltre il 60 per cento del volume totale
di affari. Assente la Cina per indisponibilità dei dati.
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Gabriele Basilico ha cambiato il modo di guardare il
paesaggio e la città, disegnando spazi urbani visionari.
Il “misuratore di spazi”, come
amava definirsi l’artista recentemente scomparso, dal
1982 non ha mai smesso di
dare forma alla sua visione
del mondo, scovandola nella
Milano industriale, nella Beirut
del dopoguerra, nella Francia
in trasformazione e nei mille
volti della Grande Mela. Per
ricordarlo proponiamo qui
un suo scatto metafisico di
Milano nel 1978 tratto da
Architetture, città, visioni
di Gabriele Basilico
(Bruno Mondadori 2007).
flop di Freud e
musei di arte
e Cescon.
48Ildell’organicismo
52Sos
contemporanea
56Andò
Viva l’impegno
cultura
scienza
left.it
23 febbraio 2013
left
scienza
left.it
La mente
LIBERATA
di Gianfranco De Simone
Il fallimento di Freud e della sua ditta hanno spalancato le porte
alla psichiatria organicista. Che ha cercato l’identità nel Dsm,
il manuale diagnostico degli psichiatri americani, in cui si inventano
malattie inesistenti per dare più farmaci. E non ci si occupa di inconscio
«M
a c’è una psicoanalisi senza
Freud?» chiedeva la giornalista
di Repubblica (il 18/12/12) al neo
presidente della Società psicoanalitica italiana
(Spi), Nino Ferro che non ha avuto dubbi: «La psicoanalisi non può fermarsi a Freud, servono idee
diverse altrimenti diventa un culto religioso». In
un dibattito di due anni fa era stato ancora più
esplicito: «La teoria dell’inconscio rimosso porta
a quelle analisi molto chiesastiche: il famoso analista muto per sedute e sedute (...), a quelle analisi noiose in cui già si sa che ci deve essere la scena primaria e la castrazione e l’angoscia di questo
e di quello. Queste analisi già sapute, col libretto come nei viaggi organizzati». «Io amo - continua Ferro - l’analisi che permette all’analista di
staccarsi dal suo passato e volare verso il nuovo
e sconosciuto futuro. Perché ci piacciono i Ris?
A me piacciono, e aspetto sempre la puntata successiva». Il parricidio minacciato da Ferro aveva
provocato le reazioni di quel mondo analitico ancora convinto che “Non possiamo non dirci freudiani”. Mentre si consumava la polemica interna
alla Spi tra preti e spretati - resa più mistica dalle
rivelazioni di Françoise Dolto, sempre su Repubblica, secondo cui Cristo parla il linguaggio della psicoanalisi - è stato pubblicato da Boringhieri un documentatissimo saggio di due autorevoli storici di discipline della psiche (M. Borch-Jacobsen e S. Shandasani) dal titolo Dossier Freud.
left 23 febbraio 2013
L’invenzione della leggenda psicoanalitica. Il libro è un’inchiesta-verità che documenta nei dettagli tutti i passaggi della leggenda freudiana costruita da Freud con i discepoli e poi dai familiari,
delegittimando il dissenso, falsificando la storia
di Anna O e i casi clinici, occultando documenti, secretando gli archivi di Freud. Costui ha sistematicamente perseguito la canonizzazione della
sua figura di eroe solitario in lotta contro il mondo scientifico a difesa dell’originalità delle sue
idee. Il libro passa in rassegna, numerose fonti
che confermano la tendenza confessata da Freud
ad un collega: «Ho una netta propensione al plagiarismo». Idee come libido, sessualità infantile, zone erogene erano acquisite dalla sessuologia post darwiniana dell’epoca, senza essere demonizzate. E Freud non cita Meynert, suo insegnante che aveva introdotto nel suo lavoro il termine e il concetto di rimozione. Non dice una parola su quella parte dell’opera di Scherner, teorico del simbolismo onirico, che anticipava aspetti
importanti della teoria freudiana sui sogni, come
l’idea che i sogni sono un appagamento mascherato del desiderio sessuale.
In apertura,
René Magritte, L’uomo
con bombetta (1964).
Sopra, la copertina di
Dossier Freud, di
M. Borch-Jacobsen e
S. Shandasani, uscito
di recente per Bollati
Boringhieri
Freud non aveva interesse per la psichiatria,
tuttavia all’inizio aveva spinto Bleuler a sperimentare la psicoanalisi nella sua clinica, ma sui
pazienti psicotici era stata un fallimento come
già l’ipnosi e la suggestione. Freud non accet49
scienza
La copertina
del nuovo Dsm 5,
in uscita a maggio
left.it
tava le critiche né il pubblico dibattito, anzi
aveva chiesto a Bleuler di rompere con alcuni psichiatri che avevano criticato la psicoanalisi. Il rapporto fra i due si incrinò definitivamente dopo che Freud nel 1910, vista
la migliore accoglienza negli Stati Uniti, fondò la Associazione psicoanalitica internazionale (Ipa) e iniziò a sparare a zero su tutti i
critici, psichiatri e psicologi. La natura dell’organizzazione fu chiara già l’anno dopo nella lettera di Bleuler a Freud: «I vari “chi non è con
noi è contro di noi” sono necessari alle comunità religiose e possono tornare utili ai partiti politici, ma penso che in campo scientifico siano
dannosi». Da lì era già chiaro l’inizio della completa privatizzazione della psicoanalisi, con la rinuncia al confronto con il mondo scientifico, la
posizione antipsichiatrica, per propagarsi al suo
interno per affiliazione. Secondo gli autori del libro «il successo della psicoanalisi non fu dovuto alla capacità di convincere gli avversari, ma alla forma unica di trasmissione da essa inaugurata (...). La psicoanalisi divenne a tutti gli effetti
la ditta di Freud, e si organizzò un business internazionale basato sul franchising». Cento anni
dopo anche il marchio è in crisi, non vende più
come prima, perché la leggenda non tiene, anzi
per qualcuno, abbiamo visto all’inizio è un peso
di cui liberarsi. Ma, concludono gli autori: «Così non ha molto senso “uccidere Freud” (...). Una
simile operazione servirebbe solo a continuare
a dare vita e identità alla psicoanalisi, mentre si
potrebbe dire che questa, in un certo senso, non
esiste più o piuttosto non è mai esistita».
Il Dsm 5 considera
patologia soffrire per
la morte di una persona
cara a distanza di due
settimane, e sanità
mentale quella di Breivik
Qui il discorso potrebbe
essere chiuso se non ci fossero le molte conseguenze
sulle quali riflettere. Se è vero che Freud è stato adorato
per cento anni dagli affiliati,
è altrettanto vero che è stato
tenuto sul piedistallo anche
da una cultura che ha voluto ignorare studi rigorosi come quello di Ellenberger (Freud non ha scoperto nulla) e di Sulloway (Freud non ha mai abbandonato le teorie biologiche per una psicologica). Così la psicoanalisi ha seguito un processo di americanizzazione che ne ha prolungato la sopravvivenza
50
diventando uno strumento di conformistica integrazione nella società tramite la psicologia
dell’Io freudiana, che teorizzava l’adattamento,
rafforzare l’Io cosciente per controllare la bestia interna. Il fallimento terapeutico dell’approccio psicoanalitico tentato nella cura delle psicosi ha portato in Usa allo sfaldamento di
quella psichiatria che cercava un’identità nella
psicoterapia seguendo l’intuizione che per curare la malattia mentale bisognava andare nella conoscenza del pensiero senza coscienza.
In questo modo si sono spalancate le porte alla psichiatria organicista che ha cercato l’identità nel Dsm, il manuale diagnostico degli psichiatri americani. In pochi decenni si è passa23 febbraio 2013
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scienza
left.it
ti dall’adattamento al contenimento della violenza “vista” nella biologia di una nascita perversa, con diagnosi
inventate per estendere l’uso di
psicofarmaci. A maggio uscirà la
quinta versione del Dsm, in cui sono
state inventate nuove diagnosi di
disturbi psichici estesi a condizioni di normalità come il lutto, la
vivacità dei bambini, la passione per il gioco e per internet, la
ribellione a certe regole sociali. Tutto ciò che nella vita degli
uomini implica la presenza di
emozioni, sentimenti, affetti rischia di essere tradotto in sintomo psichiatrico.
L’idea di normalità che si fa
strada nel Dsm 5 è quella di
un individuo da svuotare
delle sue passioni. S’inventano nuove malattie inesistenti e si eliminano malattie psichiatriche acclarate,
come la schizofrenia paranoide. Per cui il Dsm considera
patologia continuare a soffrire per la morte di una persona cara a distanza di due
settimane, e sanità mentale
quella di Anders Breivik.
Il fallimento del Dsm e
della psichiatria biologica, dichiarato dagli stessi capi “pentiti” delle passate edizioni, è duplice: non essere riusciti a formulare quasi nessuna diagnosi valida; non aver dimostrato la supposta origine organica della malattia mentale, tanto da dover parlare ancora di
disordine. Lo stesso presidente degli psichiatri americani ha confessato: «Siamo diventati semplici impiegati dell’industria farmaceutica» che inventano malattie per dare più farmaci. L’Ipa definisce la psicoanalisi: «Una tecnica
psicoterapeutica basata sulle scoperte psicologiche di Freud». Abbiamo visto quali sono queste “scoperte”. Non l’interpretazione dei sogni,
non il narcisismo primario né il continuum tra
feto e neonato smentiti dalla neonatologia e dal-
left 23 febbraio 2013
la teoria della nascita di M. Fagioli. Una tecnica
basata sull’invenzione di Freud della nascita perversa di un neonato narcisista, simbiotico, edipico, sull’invenzione di una malattia, l’isteria, come legata alla rimozione del conflitto sessuale,
delle libere associazioni come guida per arrivare all’inconscio.
Ma che cosa resta di questo inconscio una volta
che si deve - come denuncia Ferro - rinunciare
a Freud per non essere sepolti sotto le macerie?
La maggior parte degli psicoanalisti, in linea
con l’orientamento americano, sostiene che «la
psicoanalisi può sopravvivere se mantiene più
solidi legami con la biologia, le neuroscienze e
la psicologia cognitiva» (Eagle). In fondo, si aggrappa al punto da cui lo stesso Freud non si
era mai staccato. In uno scritto del 1938 aveva
ribadito con chiarezza: «La psicoanalisi reputa
che i processi concomitanti di natura somatica
costituiscono il vero e proprio psichico (...). Lo
psichico è in sé inconscio, i processi di cui si occupa la psicoanalisi sono in sé inconoscibili».
Sotto la coscienza quindi c’è il biologico, non
c’è nessun pensiero non cosciente. Al più, c’è il
sé sinaptico, c’è l’inconscio delle neuroscienze:
il feto di pecora sognante!
Controcorrente, c’è una ricerca
collettiva sul pensiero senza coscienza
A questo punto, ci aspetta un futuro senza
psichiatria e senza psicoterapeuti che si occupino di inconscio? Non si direbbe, se si prende
in considerazione la presenza, controcorrente
nel panorama internazionale, di un movimento di psichiatri e psicoterapeuti che partendo
da una nuova posizione teorica sulla realtà psichica, segue una metodologia di cura della malattia della mente che include il rapporto inconscio e l’interpretazione dei sogni. E senza tralasciare le acquisizioni della psicopatologia, cerca di arrivare all’origine della malattia legata ai
rapporti che alterano la normale nascita umana. Questo patrimonio di ricerca e conoscenza
sul pensiero senza coscienza investe la possibilità stessa di creare una identità della psichiatria, che è tale solo se trova il suo oggetto: la malattia che non si origina nel corpo.
51
cultura
left.it
A rischio la sopravvivenza del museo
piemontese, un luogo d’avanguardia, frutto
di un lungimirante progetto di sinistra che dal
1984 metteva in connessione arte e ricerca.
Mentre crescono le difficoltà anche per altri
spazi pubblici del contemporaneo
Rivoli
di sangue
di Simona Maggiorelli
P
er oltre vent’anni il Castello di Rivoli è stato
il più importante museo di arte contemporanea, l’unico, pionieristico, polo italiano
del settore. L’unico anche ad avere una importante collezione e ad entrare a pieno titolo nel circuito
internazionale. Aperto nel 1984 in una elegante residenza sabauda alle porte di Torino, Rivoli è una
istituzione di livello europeo, finanziata per l’80
per cento dalla Regione e dalla Fondazione Crt ed
ha avuto un ruolo d’avanguardia. «Ma oggi - scrive Il Giornale dell’arte - versa in una crisi profonda». A causa della difficile congiuntura che l’Italia
sta attraversando, dei tagli alla cultura e ai trasferimenti agli enti locali ma anche «per una serie di
scelte sbagliate che ne hanno compromesso credibilità e capacità d’azione», al punto che la rivista
torinese denuncia un «suicidio in corso». E mentre sta per scadere il mandato della direttrice Beatrice Merz (il condirettore Andrea Bellini si era
dimesso sei mesi fa) Rivoli si trova senza guida e
senza un futuro certo. Lo scrivono i lavoratori del
museo in un duro comunicato in cui si legge che
oggi «questo patrimonio pubblico rischia di andare perduto a causa della mancanza di chiare stra-
52
tegie politiche e amministrative». Alla sbarra, in
primis, il presidente del Consiglio di amministrazione (Cda), Giovanni Minoli, accusato di assenza
di strategia e di disinteresse. «In 28 anni di storia
della nostra istituzione, primo esempio in Italia di
gestione pubblico privata sono state investite ingenti risorse che hanno consentito la crescita a livello internazionale del museo - scrivono ancora i
lavoratori di Rivoli - mentre i problemi già evidenziati nel 2011 sono rimasti di fatto senza soluzione». Fra i quali l’inadeguato riconoscimento delle figure professionali e l’assenza di regolamentazione dei contratti. Intanto, accanto alla Galleria
civica (Gam) diretta da Danilo Eccher e stretta in
spazi inadeguati conquista la ribalta Artissima, la
fiera d’arte contemporanea e l’assessore alla Cultura della Regione Piemonte Michele Coppola annuncia l’idea di far confluire le tre differenti realtà in un’unica super fondazione. Un’ipotesi che
suscita molti dubbi negli esperti del contemporaneo. «Rivoli è già una fondazione e, nell’ipotesi
di una super fondazione, si aprirebbero problemi
giuridici. Se ne dovrebbe quanto meno riscrivere
lo statuto» nota Michele Dantini docente di Storia
23 febbraio 2013
left
© Scavolini/Lapresse
dell’arte contemporanea all’università Piemonte orientale. «Ma soprattutto non si può trascurare che Rivoli, in quanto museo, ha una missione scientifica, mentre Artissima ha, per definizione, una finalità commerciale. E in questa fase di
grande competizione internazionale - dice Dantini - difficilmente si può immaginare che Artissima possa determinare profitto». Intanto, mentre
per il 2 marzo i lavoratori lanciano RivoliGotLove, una giornata fino a notte inoltrata di presidio
a sostegno delle attività del museo, l’associazione
Amaci, che riunisce 25 musei del contemporaneo
in Italia, in una nota denuncia «l’estrema gravità
del comportamento del Cda del museo di Rivoli
che, alla scadenza del mandato del direttore, si è
dimostrato impreparato a garantire la continuità
operativa e scientifica dell’istituzione che governa». E chiede alle amministrazioni pubbliche che
si facciano garanti dell’autonomia storica, culturale e operativa di Rivoli. Richiesta fin qui caduta
nel vuoto. Il silenzio del ministro uscente dei beni
culturali Lorenzo Ornaghi è stato assordante rivela Gianfranco Maraniello, direttore del MamBo di
Bologna e membro del direttivo dell’Amaci: «Che
left 23 febbraio 2013
il ministro Ornaghi, nonostante le nostre ripetute richieste, non abbia mai voluto incontrarci mi
sembra pazzesco, data la missione pubblica che
hanno i musei del contemporaneo, che non sono
aziende qualsiasi». Senza contare che oggi sono
più di uno i musei del contemporaneo in Italia a
versare in gravi difficoltà. A cominciare dal Museo Madre, fino a pochi mesi fa a rischio chiusura.
«A Napoli abbiamo assistito a un lungo braccio
di ferro fra l’insediamento di una nuova amministrazione comunale e un direttore il cui mandato
era molto legato alla precedente gestione» commenta Marianello stigmatizzando «l’invadenza
della politica, in Italia, non solo nei musei, ma in
tutta la sfera culturale». E il pensiero corre al MAXXI dove al termine del commissariamento il ministro Ornaghi, a sorpresa, ha nominato Giovanna Melandri alla presidenza. Una nomina molto
discussa e che, indirettamente, ci riporta a Rivoli dacché Melandri è cugina di Giovanni Minoli, il
cui genero, Salvo Nastasi, è il capo di gabinetto
del ministro Ornaghi. E se ingerenza della politica
non competente e nepotismo sono faccende annose nelle istituzioni italiane, in questo caso, prosegue Dantini bisogna anche domandarsi quali e
quante siano le responsabilità di chi gestisce i musei nel non sapersi conquistare la fiducia. «L’idea
di istituire un museo di arte contemporanea in
una sede così prestigiosa come Rivoli, dotandolo
di risorse storicamente, fu un progetto politico di
cui il Pci poteva andare fiero. Fu un chiaro progetto di sinistra - sottolinea Dantini - creare un museo d’avanguardia in una regione importante nel
sistema industriale avanzato, un museo che stabilisse una connessione fra il mondo dell’arte e della ricerca». Ma oggi quel patto di fiducia fra politica e mondo dell’arte contemporanea sembra essersi incrinato, per ignoranza da parte della classe politica, ma non solo. «In un momento come
questo in cui ministri come Ornaghi hanno un interesse controegemonico ad impossessarsi delle istituzioni del laicismo metropolitano - spiega
Dantini - dobbiamo avere l’autorevolezza scientifica per contrastare chi diffida. Dobbiamo uscire
dalla fragilità autoreferenziale, formulando proposte che riattivino il valore pubblico e sociale
dei musei del contemporaneo come luoghi che
erogano servizi alla scuola, dove si fa ricerca, che
accendono la curiosità del pubblico, favorendo il
pensiero critico e l’integrazione culturale».
©Lapresse
cultura
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Giovanni Minoli presidente del Castello di
Rivoli. Sotto Giovanna
Melandri, presidente
del MAXXI di Roma.
In alto in questa pagina un’immagine del
MAXXI. Nella pagina a
fianco, in apertura,
il Castello di Rivoli
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trasformazione
Massimo Fagioli, psichiatra
La vita inizia con la formazione di un volto umano
universale e non individuale
MASSA
anonima, incontrollabile
F
orse è un tempo lontano, forse il ricordo perde
la vivacità del suo colore. Ma, certamente,
la memoria che, nel silenzio parla, invade
prepotentemente la mente.
Forse c’è un turbamento che svanisce presto perché la
certezza dell’identità umana giunge alla mano che scrive.
Non c’è più scissione tra coscienza e non coscienza.
L’una sparisce e passa ad essere pensiero diverso in cui
la mente fa paesaggi e disegni belli che, immobili come se
fossero fotografie della realtà materiale, in verità parlano
con il loro movimento ed i loro colori.
Diventano voce che racconta, descrive chiedendo
all’altro essere umano la voce che dà la coscienza che non è
soltanto sensibilità, intuizione e belato.
L’essere umano ha la mano con cinque dita e, oltre Marx
che ha detto che fabbrica strumenti per il proprio lavoro,
può disegnare e scrivere parole.
Al risveglio sa distinguere le immagini oniriche dai ricordi
coscienti e, senza rendersi conto, calpesta il pavimento che
lo porta in cucina per fare il caffè.
Pensa. Ed il linguaggio articolato con cui distingue il
rapporto con la realtà materiale che fa il ricordo cosciente,
non è uguale a quello che “ricorda” era nel sogno.
E dissi spesso che, nel sogno, ci sono soltanto immagini.
Anche la parola è immagine e non ripetizione del linguaggio
imparato in stato di coscienza.
Ricordo, ma forse è memoria che parla. Stavo a passeggiare
nel cortile, mi fermavo a guardare. Feci diventare le file di
persone che entravano nello studio tre linee, una diversa
dall’altra. Lo dissi... l’essere umano creò la linea.
Ora penso che stavo realizzando un tuffo nel profondo
della mente umana che doveva condurre alla verbalizzazione
del fenomeno del non, dell’assenza delle manifestazioni
corporee di vita.
Dopo lo stimolo luminoso, prima del respiro e del vagito.
Quando ancora la circolazione è, in buona parte, placentare.
Volevo sapere come e perché la vita inizia con l’apparenza
della morte. Sapevo che non era la verità.
Ora non vedo più le tre linee del movimento dei corpi
che si spostano nello spazio. Il freddo dell’inverno mi ha
imposto di entrare subito e sedermi sulla poltroncina. E
presto realizzai che, stando seduto con lo stanzone vuoto,
vivevo venti o cinque minuti di solitudine senza ricordare o
sperare che vengano altri.
E la piccola parola, scelta per misurare il tempo sempre
sfuggente, venti, chiama quello di anni fa. Preso dallo studio
dell’incomprensibile movimento della nascita umana giunsi,
forse per la superbia di Lucifero, a voler comprendere
l’inerzia del corpo, il silenzio del neonato per i primi secondi,
dopo che è uscito dal ventre materno.
E, come sempre avevo fatto, realizzai il rifiuto radicale
dell’idea che la vita inizia con il respiro ed il vagito. Ovvero
con un movimento percepibile dai sensi della coscienza.
E volli comprendere ciò che mi chiedeva la ricerca
iniziata più di cinquanta anni fa. Diceva che il pensiero e,
pertanto, la vita umana iniziava con lo stimolo della luce.
E, se il corpo nasce perché la sostanza cerebrale funziona,
i tempi in cui è inerte e silenzioso, sono soltanto quelli del feto
non nato. E allora diciamo ciò che vediamo e non udiamo
chiede un pensiero che non è quello razionale che pensa
soltanto dopo aver percepito con i sensi della coscienza.
E dissi che la realtà biologica umana reagisce con una
pulsione che non è di annullamento perché il feto ha una
capacità di reagire che diventa vitalità. Ed ho dato un nome a
questa fusione: fantasia di sparizione. E dissi: inconscio mare
calmo, ovvero: memoria-fantasia dell’esperienza avuta.
Forse non è un tempo lontano la mezz’ora in cui stavo
nel cortile dello studio e vedevo le tre linee.
Ora, in venti minuti vedo entrare, dalle porte aperte,
gruppi di persone che non sono mai uguali l’una all’altra.
Persone diverse, movimento diverso.
E venne alla mente ciò che volevano insegnarmi, come
verità scoperta dal cretino storico che aveva scritto:
Psicologia delle masse e analisi dell’Io. L’essere umano,
nella moltitudine, diventerebbe animale. Non è più razionale.
Oltre al ricordo di certa “cultura” di sinistra che adorava
L’uguaglianza tra tutti sta nell’inizio della vita
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ed esaltava Freud, lo “scienziato” dalle idee fasciste, viene
la memoria che non ho mai creduto che la verità dell’essere
umano sia l’identità razionale che ripete il linguaggio
articolato imparato. Non ho mai creduto che l’identità
si realizza con il rapporto cannibalico con il padre e
conseguente identificazione.
Ho pensato sempre che identificarsi significa: separarsi,
distinguersi da... . Non mi sono mai sottomesso al pensiero
razionale, credendo che la persona umana si ha nell’anfimixi,
ovvero nell’unione della testa dello spermatozoo con l’uovo
che fa lo zigote. La prima cellula della realtà biologica umana.
Ho sempre visto che credere a queste idee è assenza di
rapporto interumano. È razionalità astratta senza la vitalità
che spinge alla conoscenza dell’umano, che non è soltanto
realtà biologica ma fusione della biologia con la realtà non
materiale del pensiero.
L’idea che l’identità razionale non ha mai avuto è il
pensiero che la realtà non materiale emerge e diventa
esistente dalla realtà biologica stessa. E la sua esistenza
sparisce quando l’organismo biologico non funziona più.
Non è pensabile, pertanto, credere in una esistenza
non materiale fuori dall’essere umano che agisce e pensa
come se fosse un essere umano. Scenderebbe nella realtà
biologica e tornerebbe dove (?) nel suo luogo di origine alla
morte dell’individuo.
Devo così pensare che il rapporto con la realtà del
corpo che si era ammalato mi ha condotto ad altri pensieri
dopo quelli, profondissimi, della ricerca sull’inerzia ed il
silenzio del neonato, quando esce dal corpo materno.
Sembrava che avessimo raggiunto il non concepibile
setting per la psicoterapia di gruppo basato sulla libertà.
Nessun rapporto professionale, nessun contratto ed
onorario, nessun appuntamento ed accordo. Nessun
dato anagrafico, nessun indirizzo, nessun telefono. Lo
nominammo, facendo un’immagine, “un incontro casuale
per strada”. Ciascuno viene e va come vuole.
Dissi, fin dall’inizio, che non avrei mai impedito a nessuno
di fare pulsioni di annullamento, con delle regole. Ed ora
dico: nessun controllo su nessuno. L’interpretazione, che
svela il latente, dà conoscenza e cura.
E venne l’immagine delle tre linee, diverse l’una dall’altra,
che erano movimento e non soltanto spostamento di corpi
nello spazio. Ho visto le linee perché il pensiero aveva
ricreato il primo tempo della vita, la fantasia di sparizione
verso il mondo umano razionale.
E trenta minuti di spostamento del mio corpo
passeggiando nel cortile, era quel momento in cui l’essere
umano rifiuta la realtà del mondo creando la capacità di fare
la linea che in natura non esiste.
L’idea che la persona
sia nella prima cellula
dice che l’identità umana
sta nel genoma che farebbe
razze diverse.
È una visione superficiale
ed un pensiero anaffettivo
quello che vede soltanto
la realtà biologica.
Non vede la creazione
d’immagini interiori
La malattia ed il freddo dell’inverno mi hanno tolto la
possibilità di vedere tre linee. La capacità di immaginare è
diventata la ricreazione del momento “prima”.
Solo, seduto nella poltroncina, che non si annebbia
più con il ricordo di quella in cui mi siedo, davanti alla
scrivania per scrivere.
Nulla si sovrappone alle cose ed ho davanti agli occhi
soltanto la struttura lignea originale dello studio di
psicoterapia.
Non l’ho mai pensato e soltanto ora, nella solitudine
di quando scrivo, la memoria mi parla dicendo: ricorda
l’angoscia di tutti per il terrore della massa anonima
incontrollabile.
Così hanno sempre detto. Ma io, certamente, non ho
creduto. Ed ora, senza vedere le persone che arrivano,
resto calmo di fronte alle tre valanghe che, talvolta,
riempirono di neve lo studio e volevano soffocarmi.
Ma compresi che, volendo affermare che la capacità
di immaginare non può vincere l’anaffettività degli esseri
umani, dissero che volevano curarsi. Ma, evidentemente,
non sapevano che avrei disegnato lo “scarabocchio”.
E vedo che la capacità di immaginare faceva le tre linee
che legavano lo scrivere dei tre giorni solitari, agli altri.
Lo “scarabocchio” è la solitudine della propria nascita
senza nome e il volto uguale per tutti.
...abbiamo ricreato l’uguaglianza della nascita...
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cultura
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La politica,
una vita
in fuga
di Camilla Bernacchioni
L’attrice Michela Cescon e il regista Roberto Andò
raccontano Viva la libertà, il film con Toni Servillo
su crisi (e rinascita) di un leader dell’opposizione.
L’autore: «La sinistra si è adeguata al nulla, ha assistito inerme al disastro. Ma non tutto è perduto»
L
a chiamano «fratellanza artistica» più che
sodalizio. Una condivisione intellettuale
prima di tutto, quella fra il regista e scrittore
palermitano Roberto Andò e l’intraprendente ed
eclettica attrice trevigiana Michela Cescon. Qualche anno fa si sono ritrovati a camminare sulla
stessa strada e hanno scoperto reciproche affinità.
Cescon è Anna, moglie di Enrico Oliveri (Toni Servillo) segretario del maggior partito di opposizione
che scompare all’improvviso, nel nuovo film di Andò Viva la libertà (vedi di seguito la recensione di
Morandini) tratto dal suo romanzo Il trono vuoto
(Bompiani) Premio Campiello Opera Prima 2012.
Intanto è ripresa la tournée di Leonilde, storia eccezionale di una donna normale con l’attrice nel
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ruolo di Nilde Iotti per la regia dello stesso Andò.
Il vostro sodalizio artistico va dal cinema al
teatro: cosa vi ha colpito l’uno dell’altro?
Michela Cescon. Ci siamo incontrati per la prima volta ne Il Dio della carneficina (2009) e non
ci siamo più lasciati! Di Roberto ho assoluta stima e poi ogni volta che gli chiedo qualcosa mi sorprende sempre nella risposta.
Roberto Andò. Michela è un’attrice eccentrica
ma allo stesso tempo radicata in una grande tradizione. Ha intelligenza, sensibilità, è capace di mimetizzarsi, ha una sua autenticità a teatro. L’ho vista alla prova sia in un ruolo comico sia nei panni
di Nilde Iotti e si è dimostrata capace di costruire
un suo percorso senza cercare di addomesticare,
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cultura
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Leonilde, storia
di una grande donna
© Lia PasqUalino
Vita pubblica e privata s’intrecciano in Leonilde,
storia eccezionale di una donna normale di Sergio Claudio Perroni in cui la poliedrica Michela
Cescon veste i panni di Nilde Iotti, per la regia di
Roberto Andò (che la dirige anche nel film Viva
la libertà). Sul palcoscenico l’attrice lanciata da
Primo Amore di Matteo Garrone incarna una
donna che sente la politica come un compito
civile alto in cui impegna tutta se stessa, senza
rinunciare al suo essere donna in un’Italia ancora
arretrata, che voleva le donne dietro ai fornelli,
ma che aveva conosciuto anche lo straordinario impegno femminile nella lotta partigiana.
Lo spettacolo Leonilde sarà in scena fino a
domenica 24 febbraio al Teatro Franco Parenti
di Milano, il 12 e 13 marzo al Teatro Bonci di
Cesena e dal 21 al 23 marzo al Teatro delle
Passioni di Modena.
anzi coltivando, le sue peculiarità artistiche.
Vi unisce anche la politica, al cinema con Viva la libertà e in teatro con Leonilde.
Cescon. Fino a poco tempo fa mi ritenevo un’attrice con un suo impegno civile, non facendo politica attiva, ma scegliendo un testo piuttosto che
un altro. E certo non avrei interpretato Nilde Iotti.
Questo ruolo, di fatto, mi ha messo in crisi perché
non volevo diventare una maschera di qualcos’altro. Non sopporto l’imitazione perché limita. Poi
è arrivato il ruolo di Licia Pinelli in Romanzo di
una strage di Giordana, quindi Anna in Viva la libertà, Leonilde... e la politica è entrata prepotentemente nel mio percorso. Forse perché adesso
emerge l’esigenza da parte della mia generazione
left 23 febbraio 2013
di fare i conti con il passato, che è un passato prossimo. Nilde Iotti, ad esempio, è morta nel 1999, eppure sembra che appartenga ad un’era lontana per
il modo in cui viene trattata la politica, il senso di
missione, di impegno.
Andò. Oggi la politica è la vita che sfugge a se stessa. Ne Il trono vuoto e Viva la libertà si parla di
questo e di crisi del potere, della politica e della
sinistra. Non a caso il protagonista è un leader al
culmine del fallimento che scompare e decide di
ripartire dall’altro suo se stesso, il gemello. Certo
il film è stata un’esperienza abbastanza spericolata ma sentivo che c’erano dei personaggi del libro
che potevano prendere vita. La sinistra si è adeguata al nulla, ha assistito inerme al disastro, con il rischio di annullare la propria anima. Invece dovrebbe ritrovarla, non tutto è perduto.
Un’attrice che ama mimetizzarsi e un autore
affascinato dall’interiorità dei personaggi.
Attrazione degli opposti?
Cescon. Roberto è un intellettuale che spazia in
più campi, quindi il confronto è molto aperto. Io
poi sono un’attrice un po’ anomala, mi piace impegnarmi in cose differenti. Scappo spesso dal ruolo
che mi dovrebbe competere. Ma sulla scena poi c’è
intesa, Roberto mi dà libertà di movimento.
Andò. Michela ha la capacità di sottrarre l’arte,
di non mostrarla sempre. In tutti i personaggi che
interpreta riesce a dare questo marchio di verità.
Direi che tra noi è nata una sorta di fratellanza artistica. C’è il piacere di lavorare insieme, di collaborare e condividere.
Autore e attore lavorano in modo diverso sulla parola. Che cosa rappresenta per voi?
Cescon. Per me è fondamentale. Spesso per cercare l’intensità al cinema e a teatro ricorro alla
scrittura. Nel film di Roberto per esempio c’è una
scrittura che solo all’apparenza è semplice, naturale. In realtà è profonda e questo aiuta nella commozione. A volte basta solo una parola, un suono.
Andò. La parola è il baricentro per uno come me
che fa lo scrittore. Veniamo da anni d’avanguardia che è stata percorsa dall’idea di fare a meno
della parola costruendo il teatro sulla fisicità. La
mia sensazione è che il Novecento abbia riportato alla parola un certo grado di responsabilità,
di riflessione. Sono attratto dalla parola perché è
attraverso di essa che puoi intercettare anche il
silenzio, il non detto. È un corpo a corpo con ciò
che è invisibile e latente.
Nella pagina a fianco,
Michela Cescon
nel film Viva la libertà
di Roberto Andò.
Sotto, il regista al lavoro
sul set. Qui sopra,
la locandina del film
57
puntocritico
cultura
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arte di Simona Maggiorelli
Modì, tutto
l’essenziale
Alcune scene del film Viva la libertà di Roberto Andò con Toni Servillo
cinema di Morando Morandini
I leader gemelli
F
inalmente un film italiano d’autore serio ma spiritoso, intelligente, ma divertente che parla di una classe politica di sinistra con parole che la
stessa classe sembra aver dimenticato.
Si chiama Viva la libertà e ha per protagonista Toni Servillo nella doppia
parte di Oliveri, capo dell’opposizione
di sinistra (Bersani?) e del suo gemello Giovanni, che finisce in un centro di
salute mentale e ha cambiato cognome
(Ernani) per non danneggiarlo. Il quinto film di Roberto Andò che ha adattato con Angelo Pasquini un proprio romanzo e scritto nel 2012, cita un’intervista di Fellini: «Un gigante che oggi sarebbe indesiderato» e Brecht. «Le nostre parole d’ordine sono confuse. Una
parte delle nostre parole le ha stravolte il nemico fino renderle irriconoscibili» (per lui il nemico era la tv). Aggredito
da una donna - messa subito alla porta –
che l’esorta a vergognarsi di quel che è e
che fa, Enrico Oliveri decide di rendersi irreperibile e va a Parigi, ospite di Danielle (Valeria Bruni Tedeschi), amata
in gioventù. L’azione del film percorre i
primi dieci anni del Duemila, alternando il fratello politico a Parigi e il fratello
matto a Roma. Sul piano fisico è difficile, anche per lo spettatore, distinguere
l’uno dall’altro, ma quel che dicono è radicalmente diverso. Non tutti i componenti di quella minoranza di italiani che
continuano ad andare al cinema sanno
che nel napoletano Servillo abbiamo un
attore di statura europea qualunque cosa faccia, teatro o audiovisivi. Deve essersi divertito Servillo a recitare in Viva
la libertà, ispirato a Il trono vuoto dello
stesso Andò edito da Bompiani. La sua
originalità consiste nell’essere un film
58
in “positivo”. Tutto si svolge all’interno del maggior partito del centrosinistra, cioé il Pd «dove esisrtono - dice lo
stesso Andò - predatori, ma anche tante persone di buona volontà». Massimo
Cacciari ha detto che ogni uomo porta
con sé un fratello estraneo con cui deve
riconciliarsi. «Anche Bersani ha dentro
di sé questo fratello capace di gesti coraggiosi e inaspettati, bisogna lasciarlo
agire, restituire la politica all’anima dei
cittadini». Lo dimostra l’Andrea Bottini
di Valerio Mastandrea che non è una figura secondaria. Spiando dal buco della serratura, è il personaggio di Mastandrea che scopre Oliveri - Servillo che
sta danzando con eleganza a piedi nudi con una signora che potrebbe essere Angela Merkel, scalza pure lei: una
sequenza memorabile per l’ironia che
la impregna. Sarebbe da idioti ignoranti non capire che il film è un conte philophique per esortare al cambiamento
della classe politica che ormai troppo
si è allontanata dalla vita, dall’umanità,
dai cittadini. Degno erede di Gian Maria Volonté, Servillo vede nel suo doppio personaggio una sorta dottor Jekyll
e Mr Hyde al quale Andò ha fornito battute sferzanti: «Smettete di tingervi...
siate onesti». «I politici sono ladri perché gli elettori sono ladri o vorrebbero
esserlo». Il che coincide con una mia
convinzione personale: in questa Italia
il problema non è Silvio Berlusconi, ma
i milioni di italiani che l’hanno votato e
che - in misura minore, speriamo - continuano a votarlo. L’operazione di Andò
consiste nel rivolgersi a quella parte degli italiani che hanno speranza. E citando Albert Camus aggiunge: «Quando la
speranza non c’è, bisogna inventarla».
L
a linea nitida, la solidità scultorea di forme essenziali, il colore
rossastro delle terre che riscaldano la
tavolozza. E poi le curve morbide del
nudo femminile, il fascino misterioso
di figure dal collo lungo e di volti in cui
un occhio appare cieco verso la realtà
circostante e come rivolto ad una dimensione interiore. È una perfetta sintesi di classicità e avanguardia l’arte di
Amedeo Modigliani (1884-1920) che la
mostra Modigliani, Soutine e gli artisti maledetti aperta in Palazzo Reale a Milano dal 21 febbraio all’8 settembre (catalogo 24 ore Cultura) torna a
raccontare attraverso una selezione di
quindici tele dell’artista livornese appartenute al collezionista Jonas Netter
(1866-1946). Capolavori che, insieme
a un centinaio di opere di pittori che
furono anche compagni di vita di Modì nelle notti folli di Montparnasse e di
Montmartre (Utrillo, Chaïm Soutine e
Suzanne Valadon e altri) formano uno
spaccato della scena artistica parigina
nei primi, effervescenti, anni del ’900.
Modigliani, come è noto, approdò in
Francia nel 1906, l’anno della retrospettiva in memoria di Cézanne, avendo già alle spalle una solida formazione accademica, viaggi di studio in Ita-
Modigliani, Ritratto di Jeanne
Hébuterne (1918)
23 febbraio 2013
left
cultura
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lia che gli avevano permesso di conoscere dal vivo i capolavori dell’arte antica, gotica e protorinascimentale, a
cominciare dall’amato Duccio di Buoninsegna dal quale aveva tratto ispirazione per auratiche presenze femminili. Non resta molto delle prime esperienze pittoriche di Modì che, molto
esigente e critico verso se stesso, fece in modo che andassero distrutte.
Così a Milano visitando questa collettiva curata da Marc Restellini, direttore della Pinacothèque de Paris (da cui
proviene questa mostra) si ha la sensazione di trovarsi davanti a un artista
“nato” maturo, con il dono di uno stile unico, personalissimo, che mescola semplicità, arcaismo, ieraticità, raffinata eleganza e purezza formale. Basta guardare i suoi ritratti della giovane compagna, la pittrice Jeanne Hèbuterne, che hanno il fascino e la femminilità delle dame di Parmigianino e
l’aura onirica delle figure di Cézanne.
Oppure le scultoree cariatidi, figure
enigmatiche che punteggiano tutta la
carriera di Modì: con esse tentò una radicale rivisitazione della forma pittorica stimolata dalla passione per l’arte
africana, oceanica, orientale e precolombiana. L’artista livornese, che si era
sempre pensato sculture, prima che
pittore, cercava nell’antico l’ispirazione per creare una immagine di donna
universale senza tempo né radici geografiche. Affascinato dalla rivoluzione
cubista di Picasso e dalle sue magnetiche Demoiselles, tuttavia Modì mirava ad un’immagine di bellezza femminile capace di sussumere la ieraticità del ’300 senese e la lineare sinuosità delle Veneri botticelliane. Come Picasso riconosceva in Cézanne un vero
maestro ma ne trasse una lettura molto distante da quella volumetrico-spaziale che ne fece il cubismo. Più che
dalla destrutturazione della spazialità
pittorica Modì fu attratto dalla semplificazione formale di Cézanne, dal tono
riflessivo e malinconico dei suoi soggetti. Come ci racconta il ritratto della
poetessa Beatrice Hastings (1915) per
arte del levare, con una estrema stilizzazione del volto, Modì riuscì a tratteggiare uno straordinario ritratto psicologico della donna.
left 23 febbraio 2013
libri di Filippo La Porta
Tra Dan Brown e Contini
I
mmaginate, che so, Dan Brown, buon affabulatore e simpatico cialtrone, che incontra un raffinato filologo come Gianfranco Contini. Ecco un’idea abbastanza precisa del romanzo
di Bianca Garavelli (scrittrice e stimata studiosa di Dante) Le
terzine perdute di Dante (Baldini & Castoldi). Gli ingredienti
sono dosati con sapienza: arti marziali, buchi neri, esperimenti al Cern, una spolverata di esoterismo, l’amore, una conoscenza non superficiale della Divina Commedia, visioni profetiche. Confesso di non amare il giallo storico: l’Aristotele detective di Margaret Doody o i thriller danteschi di Giulio Leoni. Ma nel caso della Garavelli il genere viene nobilitato e direi
quasi “straniato” da una interrogazione filosofico-morale che esula dalla cultura pop.
Se Roman Polanski fosse un lettore di left - del resto ha abitato in Italia e commentò
una foto di Berlusconi dicendo che ha un sorriso da clown e saluta come Hitler - gli
suggerirei di ricavarne una sceneggiatura. Dalla prima pagina infatti il lettore precipita in una suspense stregante e mozzafiato. Vi si narra di due vicende parallele, cronologicamente distanti ma intrecciate. Agli inizi del 1300 Dante incontra a Parigi la mistica ed eretica Marguerite Porete (poi arsa sul rogo) e si trova coinvolto in una guerra spietata tra due ordini misteriosi. Mentre oggi nella Biblioteca Ambrosiana l’insegnante frustrato Riccardo Donati s’imbatte leggendo il Roman de la rose in una frase autografa di Dante. Ruba il codice e si trova coinvolto in una serie di delitti, protetto dall’amica karateca Agostina. Quella guerra ha attraversato i secoli e contrappone
i fratelli del Libero Spirito e la setta dei Perfetti: i primi intendono scongiurare una catastrofe, preannunciata dalle terzine perdute di Dante che invece i secondi perseguono come punizione per l’umanità peccatrice. C’è una pagina suggestiva del romanzo
che mostra come la descrizione del cielo “cristallino” nel Paradiso anticipi l’idea einsteiniana di un universo curvo. L’incontro amoroso tra Dante e la Porete è ovviamente immaginario. Ma nell’opera di entrambi, al di là di analogie sul piano della visione
cosmologica e spirituale, c’è un invito all’uomo affinché non sfidi il mistero della creazione e si fermi un attimo prima: insomma l’appello a una saggia etica del limite.
L’idiota
in politica
di Lynda Dematteo,
Feltrinelli,
201 pagine
16 euro
FINALE
DI PARTITO
di Marco Revelli,
Einaudi,
137 pagine
10 euro
L’industria
della carità
di Valentina
Furlanetto,
Chiarelettere,
243 pagine
13,90 euro
scaffale
L’idiota in politica. Ovvero antropologia della Lega Nord.
Come si legge nel sotto titolo del saggio di Dematto, che
analizza il ribellismo e le contraddizioni «fino al limite
della schizofrenia» dei leghisti . Che prima attaccano Berlusconi poi sono attratti dal vero leader, dal Berluskaiser.
Che fanno riti celtici e poi vanno in Chiesa.
Partiti sempre più separati dalla società. Percepiti sempre più come espressioni di apparato. Revelli analizza la
fine dei grandi contenitori partito esemplati, nel Novecento, sul modello organizzativo della fabbrica fordista
(tanto da parlare di fordismo politico). E solleva una domanda cruciale: è possibile la democrazia oltre i partiti?
Carità pelosa si usa dire. Certamente con molti doppi fini. Viene da pensare leggendo questo libro inchiesta che
analizza i retroscena del mondo della cooperazione e
degli aiuti umanitari. Denunciando gli sprechi e le “opacità” di un settore che oggi mobilita quasi quattrocento
miliardi di dollari l’anno.
59
bazar
cultura
left.it
buonvivere
teledico di Elena Pandolfi
Il football sul lettino
T
erapia d’urto, in onda su Cielo il mercoledì, e la seconda
stagione su Foxlife il martedì alle
21, a differenza del titolo impegnativo, è una leggera e accattivante
serie statunitense. La storia è quella di Danielle Santino, interpretata da Callie Thorne, un’ avvenente
psicoterapeuta, divorziata, che viene ingaggiata dall’allenatore di una
famosa squadra di football per curare i suoi atleti in crisi d’identità e
con problemi psichici di vario genere. La bella dottoressa usa metodi molto diretti e pratici mettendo il paziente di turno, di fronte alle
proprie paure per poi velocemente
affrontarle, forse un po’ troppo velocemente. Ma d’altra parte il caso
va risolto nel giro di un’ora, tempo
massimo della puntata. Questo potrebbe creare false aspettative sullo spettatore ignaro, nei confronti
di una terapia, anche solo comportamentale. Ma la serie trae spunto
dalla storia vera di Donna Dannensfelser che lavorò come psicologa
nella squadra di football dei New
York Jets riscuotendo un gran successo tra i muscolosi atleti. Non è
la prima volta che la fiction televisiva si avvale dell’analisi psichiatrica, come elemento narrativo, per
sviluppare le storie dei personaggi che si raccontano durante le sedute. Qualche tempo fa ebbe un discreto successo una serie americana, ma di origini israeliane, dal titolo In Treatment, dove più approfonditamente si seguiva la lunga terapia di cinque personaggi fissi, oltre a quella del terapista Paul Weston, interpretata da Gabriel Byrne. In aprile ne uscirà una versione
italiana su Sky con Sergio Castellitto nei panni dell’analista. Anche
il grande maestro dell’animazione
italiana, Bruno Bozzetto, ha creato una ironica e divertente serie animata, incentrata sulla terapia di un
piccolo supereroe, Minivip, complessato e schiacciato dalla ingombrante presenza del fratello, vero e
muscoloso supereroe, ma in quel
caso l’analista era un inutile cialtrone che non risolveva i problemi
del protagonista, ma regolarmente,
a fine seduta, staccava una ricevuta da 80 euro. Almeno più onesto di
tanti veri professionisti.
di Giulia Ricci
Contadini
nudi e puri
D
ietro ogni seme, ogni pianta, ogni
coltivazione, c’è una storia immensa. Che parla di popolazioni, di culture, di
incontri, di sconfitte e di vittorie. Riscoprire l’essenza profonda dell’agricoltura senza cadere nell’esaltazione da salotti new age oggi è quanto mai necessario.
Sia perché è l’unico settore produttivo in
Italia che registra un aumento di occupazione. Sia anche perché è fondamentale
consumare un cibo sano, magari proveniente da produzioni biologiche o a km
zero. Salute alimentare e tutela dell’ambiente vanno a braccetto. Uno sguardo
d’insieme su questo mondo bistrattato o
al contrario, diventato una moda, lo traccia il libro appena uscito per Altraeconomia I semi e la terra di Davide Ciccarese. È il frutto di anni di esperienza nelle
reti contadine. Vi si possono trovare leggi, normative (dalla Pac alla burocrazia italiana), proposte di rilancio, analisi
dei problemi, dal consumo del suolo alla trappola dei prezzi. E nell’introduzione di Massimo Angelini, la storia affascinante dei semi e
delle specie. Va bene preservarle ma è
meglio farle convivere. E mescolarle.
Tendenze di Sara Fanelli
Auguri jeans
E
Una delle pubblicità dei Levi’s 501.
Nella pagina accanto, Levi Strauss
60
ra il 1873 quando Levi Strauss e Jacob Davis hanno ricevuto il brevetto
n.139.121 dal US patent and trademark office. È la data di nascita dei blue jeans. Sono passati 140 anni e quel brevetto continua
ad essere una rivoluzione per il pantalone.
Nato come capo d’abbigliamento resistente a tutto, indossato da minatori e cercatori d’oro, con il passare degli anni è divenuto simbolo di comodità, libertà, ribellione,
uguaglianza. Fino a diventare capo immancabile su ogni passerella di alta moda che si
rispetti. A questo proposito i Levi’s 501 sono
23 febbraio 2013
left
cultura
left.it
JUNIOR
di
Bebo Storti
il taccuino
di Martina Fotia
Un bacio. E vi solleverò il mondo
E
se l’unica rivoluzione
possibile fosse l’amore? I bambini baciano chi dona loro affetto. Baciano oggetti e piante, baciano anziani e coetanei, belli e brutti.
Dovremmo imparare, o tornare a conoscere, il bacio dei
bambini. Allora nella rivolta che stiamo immaginando
il protagonista sarà il bacio,
che farà emergere di volta
in volta una novità, un’epifania, una relazione. Queste alcune riflessioni che Cada beso una revoluciòn, il libro di
Goele Dewanckel, magistrale illustratrice fiamminga, fa
affiorare nella mente del lettore. Un libro edito dalla illuminata casa editrice Orecchio Acerbo, senza parole
e dedicato a chi vuole credere in sentimenti al di fuori del tempo, per ricordare
che non esistono amori giusti e amori sbagliati. Per dire
che l’amore va sempre e comunque bene e soprattutto
per dire - come recita l’unica
Un’illustrazione
da Cada beso una revoluciòn
frase che campeggia all’inizio del libro - appunto, “cada beso una revoluciòn”. Beso, puthje, suudlus, petò, baiser, csòk, kiss... Consonanti,
vocali, accenti diversi per definire una delle dimostrazioni d’affetto più grandi. Li ha
fusi tutti insieme Goele Dewanckel, in quell’esperanto
che da sempre è il disegno.
Donna di frontiera, vive tra
la Francia e le Fiandre, dove insegna a Gent. Ed è qui
che matura il suo stile inconfondibile, che ritrovia-
stati nominati dalla rivista Times “Fashion
Item of the 20th Century”. Levi’s festeggia
adesso con una collezione primavera/estate per la prima volta in un tessuto che non è
denim, cioè diverso dal jeans. La Levi’s ispirandosi all’India, utilizzerà
materiali realizzati con fibre riciclate e alternative, nuove tecniche ecologiche di rifinitura e
tintura, nel rispetto della salute
e della qualità dell’ambiente. Dagli anni Ottanta, qualsiasi ditta di
abbigliamento produce una propria
linea jeans. Quest’anno, per l’occasione
eBay ha pensato di celebrare l’anniversario
dedicando al denim la sua pagina Moda per
un intero mese. L’iniziativa stringe la mano
left 23 febbraio 2013
mo oggi nei variopinti collage di espressioni del suo ultimo libro. Tra colori, gesti e
sguardi, tanti amanti diversi,
donne, uomini, bambini, ma
anche piante e animali. Disegni di incontri, di abbracci, di saluti. Il bacio che non
ha una sola dimensione, ma
tanti racconti da lasciare impressi nelle immagini, in cui
ogni lettore può trovare le
giuste lettere per descriverle. Perché le rivoluzioni più
grandi non hanno affatto bisogno di parole.
alla beneficenza. Grazie alla collaborazione con la Pina di Radio Deejay, la campagna
sarà ricca di una selezione di oggetti nuovi e
vintage, vestiti e pantaloni, scarpe ed accessori, ma anche oggetti e arredi. Tutti
naturalmente in jeans, verranno
in parte messi all’asta per raccogliere fondi a favore di progetti di lotta alla fame e sicurezza alimentare del Cesvi. L’asta
per l’ultima offerta a partire dal
21 febbraio, durerà una settimana.
In effetti, che i jeans rappresentino un
capo amato dagli italiani lo dice anche una
ricerca Eurisko condotta tra 10mila persone tra i 18 e i 65 anni. L’81 per cento degli intervistati non vi rinuncerebbe mai.
In fondo.
Cari elettrici ed elettori
siamo infine giunti all’ultima settimana prima che il
cappio della casta vi venga
ben stretto intorno al collo,
per i prossimi 5 anni, spese
comprese. Il mio elenco dei
partitelli da riciclo di poveri
pirla non si è ancora esaurito,
ma prima delle ultime voglio
lasciarvi un monito di un mio
amico, il Conte Uguccione:
«Io ho Trombato dovunque,
solo nella cabina elettorale,
li l’ho sempre preso in quel
posto!». Ma andiamo per
escrescenze politiche.
PARTITO RISOLLEVIAMOCI E
SALVIAMO LE TERGA DEL PAESE-dietro sembra ci sia un
cazzaro coi baffi a manubrio
che non sa una sega di nulla
e che corre solo per i rimborsi e i soldi per poi rigirare
voti e parlamentari al nano-il
motto? UN SI SA FA UNA SEGA! SI
FA DI POLITICA!
LISTA SALVIAMO LA DEMOCRAZIA ANCHE A COSTO DI
VENDERSI- c’è un omino, ’un
sa fa nulla ma bercia molto,
che corricchia di su e di giù
per i partiti per il paese per le
televisioni, dopo due minuti
s’alza urla e si cava di culo-il
motto? Diretto e spicciolo:
MAVAFANC…!
PARTITO DELLE SERVE- si cela
dietro la formazione di una
nota rivista, che sputtana
chi osteggia il padrone, e
pubblica foto, anche finte,
di tresche e amori, anche
non veri-a capo un noto
giornalista di cui si dice che
non abbia peli sulla lingua e
se ce li ha non sono i suoi-il
motto? SLURP!
Bene siam giunti alla fine
di questa tornata.
E come disse uno
“vederli boccheggiare
sulla battigia come pesci
abbandonati dalla marea.
Questo sarebbe
meraviglioso!”
Votate! Votate! Ma poi non
vi lamentate!
61
[email protected]
cultura
CANZO
Il borgo
dell’arte
Una vera Cittadella
dell’arte in tutte le sue
forme. Fino a domenica la villa ex Magni
Rizzoli nel comune di
Canzo (Como) offrirà al
pubblico un’esposizione di circa 100 opere
firmate da sei eclettici
artisti. Ci sarà spazio
anche per la musica
con il concerto, previsto per venerdì 22, del
violinista Matteo Fedeli.
BOLOGNA
Antigone e la legge
«È un’Antigone che ho sentito subito necessaria. Un testo che rilegge il mito con gli occhi
di oggi ma riaffermando la questione centrale
posta da Sofocle: la contrapposizione tra legge
naturale e legge degli uomini». Sono le parole
utilizzate da Luca De Fusco per descrivere il
suo riadattamento di Antigone. Uno spettacolo intenso e struggente che andrà in scena
all’Arena del Sole dal 26 febbraio al 3 marzo.
FIRENZE
VENEZIA
Essere operai oggi
Qual è il ruolo dell’arte oggi? E ancora: cosa ci
attendiamo dall’arte? Fino al 16 febbraio 2013 la
Galleria Michela Rizzo di Venezia ospita la mostra
di Sandro Mele, The American brothers, a cura
di Raffaele Gavarro. Un’esposizione di dipinti,
video, fotografie nella quale Mele presenta un
nuovo capitolo della sua ricerca sulla condizione
operaia contemporanea, strutturando un racconto dalle innumerevoli sfaccettature.
MILANO
FIRENZE
Baustelle
a teatro
Buone notizie per i fan
dei Baustelle. È prevista per il 29 febbraio
l’uscita di Fantasma,
sesto album della
band toscana. Un
evento che verrà
celebrato con un minitour di quattro date,
in collaborazione con
l’Ensemble Symphony
Orchestra. Appuntamento oggi al teatro
comunale di Firenze.
TORINO
ROMA
Parliamo
di... jazz
Passioni
e intrighi
I protagonisti della
musica italiana come
non li avete mai visti. A
partire dal 27 febbraio
il Circolo dei lettori
propone L’orecchio
indiscreto, appuntamento che si struttura
sulla formula dell’intervista dal vivo agli
artisti. Primo ospite il
jazzista Enrico Rava.
62
I sogni di Leonardo
Il genio oltre la parete
La parete dimenticata. È questo il titolo, evocativo ed enigmatico, dell’esposizione di opere
di Franco Guerzoni. Un evento che si terrà nelle stanze dell’Andito degli Angiolini, a Palazzo
Pitti di Firenze dal 23 febbraio al 7 aprile. Attraverso un ricco repertorio di composizioni verrà
ricostruita la ricerca di Guerzoni sottolineando
la sua concezione di arte come “restituzione di
memoria che produce e avvalora il presente”.
I sogni di Leonardo da Vinci diventano finalmente tangibili. Dal primo marzo al 31 luglio
aprirà a Milano uno degli eventi più interessanti
del 2013, la mostra temporanea Leonardo3 - Il
Mondo di Leonardo, in piazza della Scala. Si
tratta della più importante esposizione interattiva e multidisciplinare dedicata a Leonardo,
artista e ingegnere, e alle sue macchine avveniristiche. Saranno presentati oltre 200 marchingegni interattivi oltre a modelli fisici realizzati
nel rigoroso rispetto dei progetti originali.
Fino al 24 febbraio
Anna Bonaiuto porta
in scena al Teatro
Vascello La belle joyeuse. Scritto e diretto
da Gianfranco Fiore, si
tratta di un monologo
vivace e appassionato
sulla controversa figura di Cristina Trivulzio
principessa di Belgioioso (1808-1871).
23 febbraio 2013
left
left
7 giorni su 7
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Dal 7 maggio
Dal 7L’Unità
maggio L’Unità
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