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scienza Il fallimento REPORTAGE Egitto, in piazza con i black bloc della ditta Freud avvenimenti N. 7 | 23 febbraio 2013 left + l’unità 2 euro (0,80+1,20) da vendersi obbligatoriamente insieme al numero di sabato 23 febbraio de l’Unità. Nei giorni successivi euro 0,80+il prezzo del quotidiano the winner is Le elezioni nel racconto a fumetti di Mario Natangelo, Alessio Spataro e Sergio Staino. Reportage dalle piazze di Sofia Basso settimanale left avvenimenti poste italiane spa - SPED. abb. Post. - D.L. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n. 46) ART. 1, COMMA 1 DCB roma - ann0 XXv - ISSN 1594-123X , l inCONTRO Scarpati: alla sinistra vorrei dire left.it left.it left Direttore editoriale Donatella Coccoli [email protected] Direttore responsabile Giommaria Monti [email protected] vicedirettore Manuele Bonaccorsi [email protected] caporedattore cultura e scienza Simona Maggiorelli [email protected] Redazione Via Portuense 104, 00153 - Roma Sofia Basso [email protected], Paola Mirenda [email protected], Cecilia Tosi [email protected], Rocco Vazzana [email protected] Tiziana Barillà (segreteria di redazione) [email protected] progetto grafico Newton21 Roma Lorenzo Tamaro [email protected] GrAFICA Gianluca Rivolta [email protected] photoeditor Arianna Catania [email protected] Editrice DElL’altritalia soc. coop. Presidente CdA: Ilaria Bonaccorsi Gardini Consiglieri: Manuele Bonaccorsi, Donatella Coccoli Via Portuense 104, 00153 - Roma Tel. 06 57289406 - Fax 06 44267008 www.left.it [email protected] pubblicità [email protected] stampa PuntoWeb srl Via Var. di Cancelliera snc 00040 - Ariccia (Rm) Distribuzione SO.DI.P. “Angelo Patuzzi” S.p.A. Via Bettola 18, 20092 Cinisello Balsamo (MiI) Registrazione al Tribunale di Roma n. 357/88 del 13/6/88 LA TESTATA FRUISCE DEI CONTRIBUTI DI CUI LA LEGGE AGOSTO 1990, N. 250 2 la nota di Manuele Bonaccorsi Lo Stato azionista e le cattive azioni S i parla di nuova Tangentopoli, ma sarebbe meglio dire “aziendopoli”. Perché della crisi italiana l’economia è l’epicentro, molto più che la politica. Tra l’ondata di arresti che affossò la Prima Repubblica e il susseguirsi di scandali che sta accompagnando la fine della seconda, c’è una differenza fondamentale. Nel ’92-’93 comandavano i partiti; oggi comanda l’economia. Baldassarri non aveva certo tessere in tasca e i suoi raggiri non si nascondevano dietro un “ideale”; Mussari finanziava il Pd, è noto, ma non prendeva ordini dalla segreteria dei Democrat; Scaroni e Orsi hanno sponsor nei governi, ma il loro potere prescinde da questo o quel partito, dal singolo alto dirigente o ministro o notabile. Una classe di boiardi di Stato, senza alcuna idea di Stato, capace di galleggiare coi cambi di governo. Molti dei quali muovevano i primi passi proprio dentro la prima Tangentopoli, spesso uscendone con macchie indelebili e dimenticate (emblematico il caso di Scaroni). Hanno agito coperti dal silenzio dell’azionista - lo Stato appunto - sui temi che contano realmente. Cioè i piani industriali, gli investimenti, i progetti di sviluppo economico. Attenzione, la politica c’entra, c’entra sempre. Per i mancati controlli e per l’assenza di chiare indicazioni di sviluppo industriale: per quale motivo, ad esempio, il governo Monti, nonostante i numerosi segnali della marea crescente, non ha cambiato prima dell’arresto di Orsi il management di Finmeccanica? Come mai nessun ministro ha bloccato il progetto di vendita del settore civile di Finmeccanica, agevolando così la concentrazione della holding nel settore “spor- co” degli armamenti? Cosa ha fatto il governo per spingere Eni ad affrontare di petto la crisi energetica che investe l’Italia, le cui imprese pagano costi più alti degli altri Paesi europei? E ancora, perché il vertice della Consob, ex viceministro di Tremonti - avvertito per tempo da Bankitalia, da articoli di giornalisti, da esposti anonimi - non ha fatto nulla per portare allo scoperto la sporca matassa di Monte dei Paschi? Il prossimo governo dovrà affrontare di petto il problema. Sapendo che la debolezza economica del Paese è legata a stretto filo con la sua “questione morale”. L’Eni e Finmeccanica non sono solo produttrici di tangenti, ma asset fondamentali per lo sviluppo e la crescita del Paese, per le sue tecnologie e infrastrutture. Nella crisi della Seconda Repubblica, mala politica, imprenditoria malata, assenza di politiche industriali e di sviluppo, sono legate in un groviglio inestricabile. Una buona economia pubblica è la soluzione. Non il “privatizziamo tutto” ripetuto in ogni buona occasione da tutti gli schieramenti. Ma un intervento strategico dello Stato. Che leghi nuove politiche industriali a un ricambio radicale dei Cda delle aziende a controllo pubblico, molti dei quali scadranno tra il 2013 e il 2014 (ma le nomine potrebbero certo essere anticipate). E che, nella gestione delle aziende partecipate, sperimenti nuovi criteri di trasparenza e democrazia. Finmeccanica ed Eni, come Montepaschi, e ancora Terna, Enel, Fs, Poste, non sono solo gli azionisti. Sono anche nostre, di tutti i cittadini. Il pubblico dovrebbe controllare non solo il loro capitale azionario, ma anche le loro (buone o cattive) azioni. 16 febbraio 2013 left left.it left.it sommario ianno XXV, nuova serie n. 7 / 23 FEBBRaio 2013 copertina lavoro ARte Al voto, dunque. Il racconto delle piazze di Milano per la chiusura della campagna elettorale del centrosinistra, del Pdl e di Grillo. Mentre le matite acuminate di Sergio Staino, Mario Natangelo e Alessio Spataro raccontano le ansie e le paure dei leader. Due milioni e mezzo di meridionali hanno lasciato le loro città negli ultimi vent’anni, in cerca di lavoro. Precarietà e crisi economica hanno contribuito alla crescita del numero degli emigranti “pendolari”. Ci si sposta giusto per il tempo del contratto. Nato nel 1984 come innovativo progetto di incontro fra arte e ricerca industriale il Castello di Rivoli è in grave crisi. Ma anche altri musei dedicati al contemporaneo in Italia versano in difficoltà economiche e gestionali. A causa di nepotismo e miopia della politica. the winner is 16 la settimana 02 04 05 06 La nota spigolature lettere fotonotizia l’incontro 12 Scarpati: alla sinistra vorrei dire di Tiziana Barillà copertina 16 Elezioni a fumetti di Sergio Staino, Alessio Spataro, Mario Natangelo 20 Piazza bella piazza di Sofia Basso mezzogiorno di vuoto 28 IDEE 08 altrapolitica di Andrea Ranieri 09 La locomotiva di Sergio Cofferati 10 terzo tempo di Pietro Spataro 11 Ti riconosco di Francesca Merloni 54 TRASFORMAZIONE di Massimo Fagioli società 26 Nicola Zingaretti: la rabbia diventi energia di Giommaria Monti 28 Mezzogiorno di vuoto di Tiziana Barillà 32 Piovono promesse di Benedetto Antuono mondo 36 Pietre contro Morsi di Davide Illarietti foto di Yusuke Harada 42 Il naufragio dell’Occidente di Cecilia Tosi left 23 febbraio 2013 sos musei d’avanguardia 52 RUBRICHE di Giuseppe Benedetti a cura della redazione Interni a cura della redazione Esteri 33 La scuola che non c’è 34 Cose dell’altritalia 44 newsglobal 58 puntocritico cinema di Morando Morandini arte di Simona Maggiorelli libri di Filippo La Porta 60 bazar Teledico, buonvivere, tendenze,junior 61 in fondo di Bebo Storti 62 appuntamenti a cura della redazione Cultura cultura e scienza 48 La mente liberata di Gianfranco De Simone 52 Arte contemporanea. Rivoli di sangue di Simona Maggiorelli 56 Cescon e Andò, viva l’impegno di Camilla Bernacchioni Chiuso in tipografia il 20 febbraio 2013 Foto di copertina: 123rf 3 [email protected] spigolature left.it Proiettili sulla storia La guerra siriana colpisce anche i patrimoni dell’umanità. Il 6 febbraio due autobombe hanno colpito una struttura militare e ucciso 19 persone a Palmira, una città antichissima, che conserva le rovine romane più spettacolari del Medio Oriente. All’attacco kamikaze sono seguiti colpi di mortaio e granate, che secondo gli attivisti della zona non hanno risparmiato il sito archeologico. È dal 2011 che la città è teatro di scontri tra ribelli e fedeli al regime di al Assad. ok Ha faticato a riprendersi dalle contestazioni, ma poi ha portato a casa il risultato. Maurizio Crozza ha registrato il picco di ascolti a Sanremo e nessuno potrà più guardare in faccia Ingroia senza pensare alla sua imitazione scoglionata. Cinquanta mila firme raccolte in sei mesi per l’introduzione del reddito minimo garantito. Sottoscrizioni che servono per la presentazione di una proposta di legge di iniziativa popolare che dovrebbe istituire questo strumento di welfare - già molto diffuso in Europa - anche in Italia. Promotori dell’iniziativa: associazioni di precari e partiti politici (Sel, Rifondazione, Pdci). «Si tratta di un sistema di sostegno necessario per una generazione composta da 5 milioni di precari», ha spiegato Marco Furfaro fondatore di Tilt, una delle associazioni promotrici e candidato alla regionali del Lazio con Sel. «In Europa manca solo in Grecia e in Italia, e il Parlamento europeo - ha detto Furfaro - ci ha chiesto di adeguarci». © vallin/photomovie Reddito minimo garantito Ha riutilizzato vecchie gag, frullate e condite di demagogia. Per raccogliere gli applausi del pubblico Claudio Bisio si è trasformato in un Grillo senza verve, invitando tutti i politici a vergognarsi e ad andarsene. © D’Alberto/lapresse Bugie da Oscar Sarà dura per Giannino fermare il suo declino. Dopo lo scivolone delle false lauree e di un inesistente master, urlare ancora “Stato ladro” diventerà difficile. Se non impossibile. Avrebbe dovuto saperlo che, persino in un Paese di inquisiti come il nostro, le bugie hanno le gambe corte. Unico gradito segno di “normalità” è che, colto nel sacco, Oscar ha chiesto scusa e offerto le sue dimissioni. i.b. ko 330 milioni Il numero di giocatori online in Cina. Secondo le autorità, circa metà di questi (150 mln) avrebbero meno di 19 anni Il 24 ci sarà la rivoluzione. In libreria Sono lettori, librai, bibliotecari, editori. Gente mite, ma dalle idee incrollabili come l’acciaio. Come quella della campagna e/leggiamo. E che il 24 febbraio si traduce nella “rivoluzione in libreria”. Proprio così. Il Forum del libro ha promosso per la domenica delle elezioni l’apertura di molte librerie indipendenti in tutta Italia (l’elenco su www.forumdellibro.org). L’obiettivo è quello di far firmare ai cittadini un appello in cui si chiede un impegno concreto per il libro e la lettura. Verrà mandato al nuovo governo e al nuovo Parlamento. Con l’invito a fare una legge ad hoc. Tra i punti “rivoluzionari”: la valorizzazione della biblioteca scolastica, il riconoscimento delle biblioteche comunali come luoghi di socialità da salvare contro la spending review. Un piano generale per la lettura. Perché fare sconti in libreria non serve se solo il 45, 3 per cento degli italiani legge un libro. 4 23 febbraio 2013 left left.it [email protected] Borletti Buitoni precisa Dopo gli articoli di left (n.5 del 9 febbraio) relativi al Fai e alla candidatura della ex presidente Ilaria Borletti Buitoni per Scelta civica con Monti per l’Italia, riceviamo e pubblichiamo. La mia candidatura ha certamente sollevato un dibattito che per altro ha riguardato anche il Wwf (Stefano Leoni candidato con la lista Ingroia) ed altri esponenti del terzo settore. Le critiche però sono state nel mio caso, e credo anche in altri, ampiamente bilanciate dagli incoraggiamenti. Capisco che da chi parte dal presupposto che io sia in malafede anche questa mia affermazione possa essere contestata. Ma i fatti sono questi. Certamente la presenza nella prossima legislatura di una componente forte del terzo settore è, in questa brutta campagna elettorale, un motivo di fiducia per molti cittadini. “Io ho ignorato la cultura”: quando lo avrei fatto? In che modo avrei “ignorato” la cultura? Viene riconosciuto il lavoro che ho fatto per il Fai portando, nel solco di una grande tradizione voluta da Giulia Maria Crespi, la Fondazione ad essere percepita su tutto il territorio italiano e non ultimo avviando una crescita di aderenti non indifferente in un momento di crisi. Le giornate di Primavera come tutte le manifestazioni del Fai hanno, grazie al lavoro di tutto lo staff, avuto in questi ultimi due anni risultati straordinari. Quindi ripeto la domanda: quando avrei “ignorato” la cultura? Vengo anche criticata, per left 23 febbraio 2013 left.it brevi usare una parola lieve, per le mie presunte ambizioni a voler ricoprire il ruolo di ministro dei Beni culturali. In questa feroce e pessima campagna nella quale i temi hanno lasciato il posto a urla, slogan e attacchi più o meno personali la domanda che frequentemente mi hanno fatto è quella relativa ad un mio possibile ruolo nel prossimo governo. Un futile e anche assurdo toto ministri al quale ho ritenuto di rispondere in modo anche lieve proprio per sottolineare l’inutilità di questo esercizio. Infine riguardo al programma, che in versione comprensibile anche a chi non è esperto di beni culturali è visibile sul mio sito, il filo conduttore è certo la necessità di riportare la tutela dei patrimonio culturale in mano allo Stato evitando quella pericolosa sovrapposizione di competenze che altro non ha favorito che l’ulteriore distruzione del paesaggio. Ilaria Borletti Buitoni Ringraziamo la signora Borletti Buitoni per l’attenzione che ci dedica. E ci dispiace che si risenta di critiche che non le abbiamo rivolto (ad esempio “che lei ha ignorato la cultura”) avvenimenti mentre non risponde nel merito alle osservazioni che le hanno fatto gli intellettuali e gli addetti ai lavori intervistati da left. s.m. e r.v. Scaricare le fatture non fa evadere Ho letto con attenzione l’articolo scritto da Alberto Cisterna apparso sull’ultimo numero di left, “Trovare gli evasori”. Condivido quanto sostiene in quel suo scritto per portare avanti una efficace lotta all’evasione fiscale. Solo che anche Cisterna, non parla, come tutti, della necessità di arricchire gli strumenti legislativi, per portare avanti una seria lotta all’evasione, di uno strumento come lo scaricamento delle fatture. Questo metodo, tanto semplice e adottato in tutti i Paesi occidentali, si è rivelato valido. Poter portare in detrazione le spese del meccanico, del falegname, dell’affitto, dell’imbianchino, ecc., non costerebbe nulla allo Stato, ma consentirebbe nel momento della denuncia dei redditi, di pagare le tasse sul netto che rimane in tasca alle famiglie, agli individui. In Italia invece ci si ostina a inven- tare mille stratagemmi, tutti peraltro farraginosi, che fanno perdere tanto tempo agli italiani, i cui risultati tragicomici sono dinnanzi a tutti noi. I governi di ogni colore politico che si sono succeduti nel corso degli anni, ne hanno inventate di tutti i colori, dimostrando peraltro una fantasia davvero senza limiti. Il risultato: siamo il Paese con l’evasione e la corruzione più alta e di molto, di tutti gli altri Paesi occidentali. Renato Casaoli Errata corrige 1) Nell’ultimo numero di left (n.6 del 16 febbraio) l’articolo di apertura della rubrica Cose dell’altritalia, a pagina 34 invece che a Sardinia Post è stato attribuito a RadioPress. 2) A proposito del convegno nazionale dei ginecologi di cui abbiamo dato notizia sull’ultimo numero di left, precisiamo che l’associazione promotrice è la Laiga (Libera associazione italiana ginecologi per applicazione legge 194) e che le date del convegno sono l’8 e il 9 marzo a Roma. Ce ne scusiamo con gli interessati e con i lettori. abbonati a left. la versione web a 40 € l’anno vai su www.left.it o scrivi ad [email protected] 5 fotonotizia 6 left.it 23 febbraio 2013 left fotonotizia left.it Una gara all’ultimo sangue © paolo pellegrin/magnum Photos left 23 febbraio 2013 Cifre da capogiro: 5.666 fotografi, 124 nazionalità, 103.481 immagini per la 56esima edizione del prestigioso premio World press photo, che ha decretato i migliori fotogiornalisti del mondo. Ha vinto, come ogni anno, il sangue e la disperazione. La guerra in Palestina e in Siria su tutto. Mentre le altre notizie, la crisi economica o l’elezione di Obama, sono rimaste sullo sfondo. La competizione premia principalmente foto singole, che non lasciano spazio a una lettura approfondita. Un fotogiornalismo “mordi e fuggi”, sempre a caccia dello scatto più drammatico e sensazionale. In cui l’essere umano diventa carne da macello e vittima di uno spettacolo. La foto vincitrice è dello svedese Paul Hansen, che ci racconta Gaza tramite i funerali di due bambini portati per le strade da un gruppo di uomini, con i visi gonfiati da una luce artefatta, che arriva da tutte le parti. Un miracolo, certo, ma della tecnologia. E del fotoritocco. Fortunatamente World Press premia anche le storie. Tra i pochi esempi di giornalismo più riflessivo, c’è il romano Paolo Pellegrin, della Magnum. Con Crescent ha scelto di raccontare la città di Rochester (New York) teatro di omicidi e violenze. L’immagine che abbiamo scelto ritrae un uomo arrestato per tentato omicidio. Non c’è sangue ma il dramma si sente. a.c. 7 altrapolitica di Andrea Ranieri il taccuino Rimettere in moto le intelligenze Dopo il voto ci sarà bisogno di fatti, ma anche di parole. Quelle che connettono tra di loro le persone. Perché ci vorrà tanta democrazia: al governo e nella società N on riesco nemmeno a immaginare che non vinciamo. Quale futuro toccherebbe all’Italia se dalle urne non uscisse una maggioranza chiara e netta al centrosinistra. E anche in queste ultime ore dovremmo provare a farlo vedere questo futuro impossibile anche a quelli dell’altra Italia, a quelli che votano Grillo per “darci una lezione”; a quella parte di povera gente che vota Berlusconi perché gli piace sognare i sogni dei ricchi; a quelli che non vanno a votare perché “tanto sono tutti uguali”, e che si accorgeranno come meno uguali per reddito, per diritti, per opportunità saremmo tutti se l’Italia sarà lasciata in balia della crisi. E a quelli che votano scheda bianca per non sporcare. Non è mai troppo tardi per parlare col vicino di casa, col tassista, col cugino che è tanto tempo che non lo sentiamo. Ci proveremo, lo faremo, vinceremo. E poi dovremo affrontare i problemi drammatici dell’Italia e dell’Europa mediterranea, dentro la crisi più grande e più grave con cui ci è toccato di fare i conti. Ce la faremo se riusciremo a mobilitare le energie e le intelligenze del popolo italiano, a mettere in campo, oltre che un buon governo, un popolo di riformatori. Perché la crisi che stiamo attraversando richiede non soltanto intelligenti misure di governo, ma anche un cambiamento sostanziale del nostro modo di pensare, dei nostri stessi stili di vita. Dopo anni in cui siamo stati invitati a concentrarci sul nostro particolare dovremmo imparare a mettere al primo posto l’interesse generale, il bene comune. Finita la sbornia della crescita senza limiti che ha sprecato persone, ambiente, territorio, dovremmo lavorare per ricongiungere l’economia alla società, al benessere e al buon vivere delle persone. Ci vorranno fatti, ma ci vorranno anche parole, per raccontare e raccontarci un altro mondo possibile dopo la crisi del turbo capitalismo liberista. Quelle parole che mettono in moto energie, che connettono tra loro le persone, che raccontano l’intrinseco legame tra l’uguaglianza e la libertà, tra produttività e qualità del lavoro, tra diritti e responsabilità. E che assumono la crescita dei livelli di istruzione e di cultura delle persone come la leva più importante per lo sviluppo, ma anche come un suo fine imprescindibile. Quello che più di ogni altro ne misura la sostenibilità sociale e il carattere democratico. Perché di tanta democrazia ci sarà bisogno. Democrazia nella trasparenza e nella condivisione delle scelte di governo, e democrazia nei luoghi del lavoro, dello studio, della vita. Su un muro di via Balbi a Genova, vicino all’università, una mano anonima, al tempo dell’onda studentesca, ha lasciato un pensiero su cui sarebbe bene meditare. “Basta fatti, vogliamo promesse”. C’era evidentemente la giusta ironia verso un presidente che andava in televisione a snocciolare i suoi “fatto” immaginari per ogni paragrafo del suo programma, ma c’era forse qualcosa di più. La consapevolezza che nessun fatto, nessun percorso di cambiamento reale, è oggi possibile se stiamo dentro i vincoli entro cui l’economia dei liberisti ha costretto per tanti, troppi anni il nostro pensiero e le nostre vite, se non si cambiano i riferimenti fondamentali con cui interpretiamo il mondo e la realtà. Un sano realismo ha oggi più che mai bisogno di immaginazione, di fantasia, di creatività. Finita la sbornia della crescita senza limiti il popolo dei riformatori dovrà lavorare per ricongiungere l’economia alla vita dei cittadini 8 23 febbraio 2013 left la locomotiva di Sergio Cofferati il taccuino Il dovere del futuro Ogni voto dato secondo coscienza è utile. Ma solo quello per la coalizione di centrosinistra può consentire di realizzare una reale prospettiva di cambiamento È stata una campagna elettorale intensa. Eppure nella agende giornalistiche le congetture tattiche sul dopo-voto e sul prossimo governo sono spesso prevalse rispetto alle questioni di merito e ai programmi in campo. Arrivati però alla vigilia del voto, mi sento di condividere le preoccupazioni di fondo che hanno ispirato l’appello della scorsa settimana di alcune prestigiose personalità come Umberto Eco, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky e Alberto Asor Rosa. Anche io, come loro, credo che ci siano due scenari decisamente inquietanti che mi auguro vengano spazzati dall’esito del voto. Il primo è quello di un pericoloso passo indietro verso un disastroso passato. Berlusconi rilancia, con un basso livello di pudore, la stessa classe dirigente e la stessa proposta politica che ha trascinato il Paese sull’orlo del baratro, riducendo al minimo la credibilità internazionale dell’Italia. Una politica che ha destrutturato profondamente i diritti connessi al lavoro e ha contribuito ad acuire differenze e ingiustizie sociali. Lo fa con un carico di promesse che non hanno fondamento o fattibilità, ma anche con la disinvoltura di chi non sente su di sé alcuna responsabilità. Una prospettiva che l’Italia non può decisamente permettersi. Non meno negativo sarebbe però un secondo scenario, quello di una sostanziale ingovernabilità causata dall’assenza di una chiara maggioranza. Una situazione di instabilità e incertezza che il nostro Paese ha già vissuto e che rischia di peggiorare una situazione già fragile. La delicatezza del contesto economico e sociale richiede infatti un governo in grado di compiere scelte forti e determinate per uscire dalla crisi. Che vadano però a riparare quelle gravi e inique lacerazioni sociali che la crisi ha prodotto e che le politiche di solo rigore hanno accentuato. Solo una vittoria netta della coalizione del centrosinistra può garantire al Paese quella prospettiva di governo stabile e coerente realmente in grado di assicurare che questo tipo di decisioni e di provvedimenti siano messi in campo con la dovuta incisività, senza rischiare di essere ulteriormente mediati e annacquati. Per una nuova agenda, che parli di politiche di crescita e di giustizia sociale, e lo faccia con la dovuta serietà e consapevolezza, occorre che il centrosinistra riesca a ottenere una maggioranza che lo renda autonomo e capace di realizzare il suo programma. È questo infatti l’unico antidoto in grado di allontanare sia il ritorno al recente passato sia un’ingovernabile confusione nella quale sarà difficile per chiunque andare avanti con la giusta determinazione. Ogni voto dato secondo coscienza è utile, ma solo quello dato alla coalizione di centrosinistra può consentire di realizzare una reale prospettiva di cambiamento. Questo è fondamentale per l’Italia, ma è anche un tassello decisivo perché, anche in Europa, ci sia una netta inversione di tendenza. Lo scorso anno la vittoria di François Hollande in Francia ha aperto il primo varco in quella maggioranza conservatrice dei governi europei autrice di politiche di rigore dagli alti costi sociali. Adesso è auspicabile che il risultato italiano prima e quello tedesco poi continuino nella stessa direzione. Due passaggi fondamentali per rilanciare e costruire anche una nuova Europa. [email protected] C’è bisogno di una maggioranza chiara e in grado di governare. Per noi e per l’Europa left 23 febbraio 2013 9 terzo tempo di Pietro Spataro il taccuino L’unica scelta civica Un solo schieramento gioca per assicurare un governo al Paese: il centrosinistra. Gli altri vogliono solo impedire che vinca la coalizione. Puntando sull’ingovernabilità O ra che i giochi sono chiusi e saremo soli con la nostra coscienza nel chiuso della cabina elettorale, proviamo a dire qualcosa su questa surreale campagna elettorale. Per la prima volta nella storia della Repubblica uno solo gioca per vincere e per assicurare un governo credibile al Paese: il centrosinistra. Gli altri, tutti gli altri, hanno come obiettivo massimo di impedire che la coalizione tra Pd e Sel abbia la maggioranza. È così per l’alleanza rimediata Pdl-Lega, guidata da uno che non farà mai il premier (perché non vincerà e perché Maroni non lo vuole) e che ha cercato di rosicchiare qualche punto dando il peggio di sé. È così per la lista di Monti: cedendo spesso alle tentazioni mediatiche più deteriori, ha mantenuto un’assurda equidistanza tra Pd e Pdl, picchiando da una parte e dall’altra, per arrivare poi a proporre un’inspiegabile grande coalizione. È così, infine, sia per Ingroia che per Grillo: il primo ha messo insieme una compagnia eterogenea unita solo dal suo nome sulla scheda che, in molte Regioni, rischia di avere come unico effetto quello di impedire la vittoria del centrosinistra; il secondo, nella sua furia populista e demagogica, non ha alcun interesse per il governo del Paese ma cerca solo di capitalizzare la rabbia e il malcontento. Il voto di domani è per l’Italia un passaggio storico decisivo. L’elettore si troverà davanti a un bivio: scegliere chi ha proposto idee e programmi per condurre il Paese fuori dalle secche del ventennio berlusconiano, con tutti i rischi e la fatica che ciò comporterà, oppure l’ingovernabilità e quindi il rischio che l’Italia torni rapidamente alle urne con effetti devastanti sull’economia e sulla vita degli italiani. Lasciamo stare la litania del voto utile, perché tutti i voti liberamente espressi sono utili. Ma deve essere chiaro all’elettore che la vera scelta civica oggi in Italia è dare l’opportunità al centrosinistra (unica alleanza di governo) di mettersi al lavoro per avviare una radicale opera di ricostruzione nazionale. Sappiamo che ci sono fasce di elettorato molto critiche, altre assai deluse o indignate. Sappiamo che in vaste zone della sinistra cosiddetta radicale non si fidano di un centrosinistra che nel passato ha commesso diversi errori. Il punto però è decidere, nell’Italia di oggi e non in linea teorica, quale futuro si vuole: la battaglia, anche aspra, per il cambiamento, oppure il declino in una drammatica crisi sociale? Noi crediamo che chi ritiene di essere di sinistra - e quindi dovrebbe avere a cuore l’interesse del Paese e non pensare che Bersani, Berlusconi, Maroni e Monti siano la stessa cosa - davanti a questo bivio sappia quale strada imboccare. Critichiamolo pure il centrosinistra, facciamogli le pulci, teniamolo sotto controllo, sfidiamolo sulla ricostruzione. Ma impediamo che torni la destra peggiore, oppure che vinca il “tanto peggio tanto meglio” del caos. La scelta civica domani è una sola: salvare il Paese dagli spiriti cattivi. twitter: @giubberosse Critichiamo l’alleanza Pd-Sel, facciamogli le pulci, teniamola sotto controllo. Ma evitiamo che torni la destra peggiore 10 23 febbraio 2013 left ti riconosco di Francesca Merloni il taccuino Un altro accordo Il gioco del mondo è uno specchio e tutto si riflette con evidenza. Gli uccelli li sappiamo dalla neve. La luce, dall’ombra. Le cose che amiamo da quanto ci mancano L’acqua, la insegna la sete. La terra - gli oceani trascorsi. Lo slancio - l’angoscia La pace - la dicono le battaglieL’amore, i tumuli della memoriaGli uccelli, la neve. A nche quando non c’è calore, quando non c’è neve fresca né vento, anche allora la neve muta. Come se respirasse, come se si addensasse e si sollevasse e si abbassasse e si decomponesse. Leggere la neve è come ascoltare la musica. Descrivere ciò che della neve si è letto è come spiegare la musica per iscritto. C’è nel suo cadere immobile e ipnotico l’inesorabilità delle cose leggere. La coperta che avvolge, oppure soffoca. Ombra e luce nelEmily Dickinson la stessa dimensione. C’è la possibilità, osservandola, di percepire un altro accordo, molto profondo, molto sottile, ad altra latitudine. Qualcosa che placa fin nelle fondamenta, eppure alleggerisce oltre le altezze. La nota di rimando del mondo. Accordarsi ad essa talvolta risulta difficile. Altre volte è una scelta. Oppure assume il segno di qualcosa che si impone per necessità, impossibilità di continuare a soffocarla, di fare altrimenti. E, quando accade, torna alla luce uno stato primitivo, dimenticato. C’è una strana euforia e anche un timore inspiegabile. Una selvaggia, luminosa gioia e un rispetto assoluto, una definizione netta. Siamo pronti eppure non lo siamo. E il gioco del mondo è uno specchio e tutto si riflette con evidenza. Gli uccelli li sappiamo dalla neve. La luce, dall’ombra. Le cose che amiamo da quanto ci mancano. E forse la ricerca nostra, da quando siamo nati, inconsapevole fino ad un certo punto e poi via via più chiara, è arrivare dove gli estremi si riuniscono, e forse cominciare a non sapere più l’amore dalla mancanza, ma l’amore dall’amore. E basta. Forse il senso è racchiuso nel senso stesso, è il codice dell’essenza stessa delle cose. Una comprensione estrema che consiste nel sapere quando tirare la lenza, quando aprire la bocca, quando alzarci e andarcene. Senza far intervenire altro, senza altre mediazioni. Il pescatore sa quando è il momento di tirare a sé. Possiede il senso dell’acqua. E per questo aspetta per ore. Ma non è un’attesa e non è un tempo. Lui è semplicemente tutt’uno con ciò che agisce. E sa anche quale tipo di pressione esercitare. Né troppo debole, né eccessiva. Necessaria. Il senso è anche in quel tipo di equilibrio. È. Non ha bisogno di altro. È l’altro accordo. Con la parte più leggera e più selvaggia, con la nostra parte di neve. Abbandonarci al movimento, al fluire perenne, accordando quanto in noi è più essenziale a quella vibrazione vera. Che a volte si impenna e a volte stagna, ma comunque scorre e percorre. «Noi scendiamo e non scendiamo nello stesso fiume. Noi stessi siamo e non siamo». Già Eraclito ci diceva che l’acqua che ci bagna non è lo stesso fiume di un attimo prima, né noi gli stessi. Tutto è movimento. Anche la stasi è movimento, in essa comunque si spalanca il tempo nell’azione del non agire. La vita è piena di rimandi. E il senso delle cose è presente in ciascuno di noi. Ciascuno in sé custodisce la chiave, il codice d’accesso. Talvolta è troppo nascosto. Talvolta un’oscillazione, un solo respiro in più potrebbero finirci. Ma sappiamo in un lampo, con certezza, che non sarà così. Sappiamo che saremo in grado di trovare la strada. E la casa sarà lì, e la vedremo perfettamente, un minuto prima che appaia dalla nebbia. [email protected] left 23 febbraio 2013 11 l’incontro giulio scarpati. Il j’accuse del presidente del Sindacato attori Cgil, che sta per tornare in tv con Un medico in famiglia. «Basta sacrificare l’industria creativa in Italia. Occorre una legge sullo spettacolo dal vivo e la tutela della sperimentazione. Ma il problema è il sistema chiuso e autoreferenziale della cultura». E ai colleghi: «Serve più unità tra i lavoratori» 12 23 febbraio 2013 left l’incontro left.it G iulio ha 12 anni, grandi occhi blu e tanta timidezza. Un giorno la vicina, che fa l’attrice, lo chiama per una particina a teatro. Da quel giorno Scarpati non si è più fermato e ha calcato centinaia di palcoscenici. Il teatro sperimentale prima e quello istituzionale poi, il cinema, la televisione. Oggi, mette al servizio dei suoi colleghi la sua creatività ed esperienza come presidente del Sindacato attori italiani della Cgil. E intanto continua a sostenere numerosi progetti, perché «devo ricordarmi di quando mangiavo una scatoletta di carne a pranzo», come racconta in queste pagine. Lele Martini, il suo personaggio più celebre, tornerà il 3 marzo su Raiuno con l’ottava edizione di Un medico in famiglia, dopo anni di assenza. Come mai aveva smesso? La serie era più interessante quando era più vicina alla realtà, sia pure sotto forma di commedia. Poi, per un certo periodo era diventata un po’ favolistica e meno aderente ai problemi di tutti i giorni. Ed è la ragione per cui me ne sono andato per tanti anni. Adesso finalmente casa Martini sente la crisi: si rischia di perdere l’abitazione, arrivano problemi sul lavoro. La cosa importante poi sono le storie: per esempio sentivo il bisogno che Lele smettesse di correre dietro a ogni gonna e tornasse lo spirito battagliero delle prime serie. Certo è che ho bisogno di fare altro, umanamente non ce la faccio a stare solo in un personaggio. Se non sentissi quel rinnovamento non potrei più recitarlo. Adesso è in tournée in Veneto con Oscura immensità per la regia di Alessandro Gassman su un testo di Massimo Carlotto. È uno spettacolo a cui tengo molto, e che riprenderà la prossima stagione al Teatro Eliseo a Roma. È la storia di due rapinatori che uccidono mio figlio e mia moglie. Uno lo prendono e l’altro no. L’ergastolano, da malato terminale, chiede il perdono ma io glielo nego. Vittima e carnefice dovrebbero essere contrapposti e invece i personaggi non sono cristallizzati. Il galeotto compie un percorso redentivo mentre la vittima vive con la rabbia e il desiderio di vendetta. Sembra una tragedia greca. Mi ha permesso di riflettere sulla rabbia e la solitudine delle vittime che ripetono come un disco rotto la propria storia. Questo alla società non piace. È come quando Eduardo raccontava della guerra e nessuno lo voleva ascoltare. La vittima spesso non piace, è molto più affascinante il carnefice. Questo spettacolo fa quello che deve fare il teatro: non dà delle risposte ma pone delle domande al pubblico e spinge alla riflessione. A fine marzo sarà anche giurato speciale allo Short film festival organizzato dall’università Ca’ Foscari di Venezia. Tutte le iniziative che tendono ad aprire rispetto alle possibilità creative delle persone vanno sostenute. Perciò quando vedo rassegne come quella della Ca’ Foscari, che tentano disperatamente di fare emergere la creatività mi sembra importante. Che avvenga in un’università mi sembra anco- alla sinistra vorrei dire di Tiziana Barillà left 23 febbraio 2013 13 l’incontro left.it ra più importante e che sia rivolta alle scuole è ancora meglio. La difficoltà più grande in questo Paese è che chi ha delle energie creative positive non sa dove metterle. Non siamo una società recettiva alla creatività, siamo vecchi senza capacità di investire, di cogliere il nuovo e di stimolarlo. Una società giovane, dinamica, è quella in cui le idee trovano una realizzazione rapida. Il cinema, per esempio, dovrebbe essere un luogo in cui la realtà non è registrata ma anticipata. Con questi tempi invece non riesci mai a raccontare in anticipo. In più, in generale, c’è il difetto della mancanza di coraggio per cui quando scrivi una storia, o ti autocensuri o alla fine la addolcisci. Così è difficile concepire una storia che non abbia in sé un lieto fine un po’ consolatorio. La televisione impoverisce il linguaggio e così abbassa il livello culturale del Paese E non è detto che il pubblico voglia questo… Infatti. Noi partiamo da due presupposti sbagliati: non riusciamo a cogliere la creatività e abbiamo un pubblico che consideriamo stupido. La televisione degli anni 60 e 70, con tutte le difficoltà e i condizionamenti anche moralistici dell’epoca, aveva una funzione didattica. E quindi il pubblico “cresceva” con la televisione. Adesso invece è il processo inverso, chi fa tv semplifica, impoverendo il linguaggio e la comunicazione. In questo modo si abbassa totalmente il livello culturale di un Paese. Più poni difficoltà a chi ti ascolta e più predisponi la persona alla critica, alla riflessione, alla contraddizione. Il problema è che non vogliono cittadini ma sudditi che assorbono i messaggi senza pensare. La semplificazione poi fa sì che certi messaggi demagogici e populisti passino facilmente. E invece bisogna “attrezzarsi” per comprendere la realtà. La televisione, invece, la ignora? Sì, e diventa un mondo che si parla addosso. Lo dico a left perché questo è un problema anche della sinistra: l’autoreferenzialità, lo snobismo di certa cultura di sinistra che ha pensato che nel distacco da una certa cultura popolare ci fosse una specie di isola felice in cui le persone e le menti intelligenti possono fare televisione, teatro, cinema, quello che gli pare. E in questo sono totalmente svincolati dalla lezione di Gramsci. Così come non sopporto gli spettacoli che non considerano il teatro co14 me la massima espressione di comunicazione dal vivo con degli altri esseri umani. Uno spettacolo si completa con gli altri esseri umani. Senza il pubblico non può esistere. Invece noi lo abbiamo fatto esistere anche senza, considerandolo quasi un accessorio fastidioso, che non capisce. Una società che si sviluppa in questi termini, ha già perso. Perché diventa un luogo asfittico, claustrofobico. Lei è anche presidente del Sai Cgil. Quali sono le urgenze del settore? L’Europa sta investendo nell’industria creativa e noi stiamo ancora qui a parlare di una legge sullo spettacolo dal vivo che da 50 anni non c’è. Come presidente del Sai Cgil vorrei un contratto dei lavoratori dello spettacolo che includa tutti. Bisogna fare in modo che ci si renda conto che questo è un lavoro. Ho seguito per 2 anni e mezzo questo iter legislativo. Arrivati all’approvazione, in commissione Cultura mancava la copertura finanziaria. Una cifra tra i 10 e i 15 milioni per una legge che riguardava la prosa, la musica, i circhi. Insomma, una cifra minima per un indotto che poi non è così piccolo. È miope non fare le leggi ma anche non capire che questo favorisce i giochi dei centri di potere. Di fronte ai centri di potere blindati e ai vuoti legislativi, che ne è della politica? Se una legge non è stata fatta per 50 anni non è solo incuria. Si vede che certe zone devono essere lasciate grigie per poter operare attraverso il clientelismo. Questo meccanismo coinvolge e costringe tutti a compromessi, così che nessuno più si muove e ha il coraggio di criticare. Qualunque sia il prossimo governo, il primo giorno deve essere presentata la legge sugli spettacoli dal vivo. E poi cos’altro? Riformare il sistema. Crearne uno che da una parte tenga conto del privato che farà un teatro commerciale e ci ricaverà dei guadagni. Poi però dall’altra bisogna pensare alla sperimentazione e 23 febbraio 2013 left l’incontro left.it incentivare i lavori particolarmente difficili, perché usano linguaggi nuovi e hanno ovviamente dei rischi che difficilmente un privato si può prendere. Lo sperimentalismo ha bisogno di un aiuto, di diventare istituzione. Tenendo sempre conto che la sperimentazione, che pure in passato ha avuto grandi meriti, qualche volta quando la istituzionalizzi perde il suo carattere eversivo. È sempre un equilibrio difficile da mantenere, ma si deve fare. E i soldi? L’Italia è un Paese con bellezze naturali e artistiche immense. Pur avendo un patrimonio di questo tipo non investiamo su esso. Se si creasse una sinergia tra monumenti, musei, spettacolo, allora si avrebbero frotte di turisti. Invece tutti i settori agiscono per conto proprio con la logica assolutamente settoriale. Il contrario di quello che dovrebbe fare un Paese con un progetto culturale. I turisti che vanno a Pompei spendono 4 euro per una coca cola e un panino. Nessuno dorme, mangia o assiste a uno spettacolo a Pompei. Il nostro è un turismo becero, da mordi e fuggi. Cinema, teatro e tv. Cosa ricorda e cosa si rimprovera? Nel cinema il film a cui sono più legato è Il giudice ragazzino (di Alessandro di Robilant, del 1993), forse perché la figura del giudice Livatino mi ha davvero conquistato. In tv don Zeno (L’uomo di Nomadelfia) che ha creato la Caritas qui a Roma ed è stato un personaggio incredibile. È proverbiale quello che disse al papa di un imam: «Un bravo cristiano». Già questo la dice lunga sulla capacità di integrazione e sull’impegno per rompere il muro delle chiusure mentali. Cose di cui mi vergogno, non ce ne sono. Perché certe volte anche un film non riuscito è giusto che ci sia. Preferisco i film sbagliati alle scelte di comodo. Quando ha cominciato a recitare? A 12 anni, perché un’attrice che stava nel mio palazzo mi ha chiesto di fare una parte in uno spetta- left 23 febbraio 2013 colo. In famiglia, nessuna esperienza, pur essendo napoletani e portati per questo a una teatralità eccessiva. Ero carino e timido, vedevo questi attori che parlavano per ore per una battuta e pensavo tra me «Mamma mia, dilla e basta» (ride). Poi però mi sono appassionato, a 16 anni mi sono iscritto ad una scuola di recitazione e a 18 sono entrato in una cooperativa teatrale. Lavoravamo negli ospedali psichiatrici, nelle carceri, abbiamo fatto di tutto. Ricordo ancora un progetto folle dell’epoca, una di quelle idee che vengono spesso alle compagnie per necessità. Volevamo fare L’istruttoria di Peter Weiss, non avevamo sufficienti soldi e immaginammo di farla usando il teatro Quirino alla prima di uno spettacolo di Bosetti... Per fortuna non l’ho fatto, se no mi avrebbero arrestato! Questo per dire che certe idee, anche eversive, nascono dal desiderio di voler portare avanti quello in cui credi. Nell’81 ho cominciato il teatro ufficiale, al Teatro stabile de L’Aquila con Aldo Trionfo e tanti bravi colleghi. Eravamo 20 attori e 12 comparse, una cosa esagerata. Altri tempi. Il suo impegno politico e sindacale l’ha sempre accompagnata? Quando feci il primo contratto con un teatro, l’amministrazione mi disse: «Ti do un po’ di più del minimo sindacale, sei contento?». E io lo ero perché credevo di essere trattato meglio. Poi venni a scoprire che ai minimi era stata aumentata la diaria, perciò l’impresario non facendomi rientrare nel minimo ci risparmiava. Ho capito da subito che c’era tanto da fare per tutelare i diritti. Da sinistra: Giulio Scarpati nella fiction Un medico in famiglia. E nello spettacolo teatrale Oscura immensità per la regia di Alessandro Gassman Serve sinergia tra musei, monumenti e spettacoli. Il nostro è un patrimonio sprecato Un inizio scoraggiante... È talmente tanto quello che si dovrebbe fare che a volte, sì, mi prende lo sconforto. In più, la categoria è poco unita. L’attore tende a considerare il momento che sta vivendo come il momento universale. Io difendo il giovane che vuole lavorare, ma anche l’attore di 65 anni o più che pur avendo un curriculum e una professionalità di tutto rispetto fa fatica a trovare lavoro. Favorire uno, non penalizza l’altro. Ricordo quando agli inizi mangiavo una scatoletta di carne a pranzo perché non mi potevo permettere altro. E nell’attore più anziano di me vedo il mio futuro. 15 speciale elezioni copertina © ANGELO TRANI left.it election DAY 16 © igor gentili Gli incubi di Bersani la sera del voto, le speranze degli elettori, i paradossi di Grillo. Le matite di Sergio Staino, Mario Natangelo e Alessio Spataro raccontano le elezioni più importanti degli ultimi cinquant’anni left.it left 23 febbraio 2013 speciale elezioni copertina 17 speciale elezioni copertina left.it NEL SEGRETO DELL’URNA 18 23 febbraio 2013 left left.it left 23 febbraio 2013 speciale elezioni copertina 19 speciale elezioni copertina left.it PIAZZA BELLA PIAZZA di Sofia Basso da Milano Viaggio nel rush finale della campagna elettorale lombarda. Tra la speranza del centrosinistra di voltare pagina al Pirellone e a Palazzo Chigi, lo slancio dei grillini e il timore del crollo di consensi del centrodestra. Tra comizi all’aperto e raduni al chiuso 20 23 febbraio 2013 left left 23 febbraio 2013 copertina 21 © Spada/lapresse left.it speciale elezioni copertina left.it L’ esito delle urne nella decisiva Lombardia è ancora un’incognita. Ma la sfida delle piazze l’hanno vinta senz’altro Bersani e Grillo, che nel gelo invernale hanno riempito l’enorme sagrato del Duomo mentre Berlusconi e Maroni incontravano un migliaio di fan in un’asfittica saletta della Fiera. Anche i leader degli altri schieramenti hanno preferito non correre il rischio della piazza vuota. La differenza non sta solo - e in modo eclatante - nei numeri della mobilitazione dell’ultimo scorcio della campagna elettorale più breve e più fredda degli ultimi tempi. Ma negli stati d’animo. Mentre i simpatizzanti del comico e del centrosinistra sembrano sentire il vento in poppa, i pidiellini e i leghisti appaiono in affanno persino nella regione dove l’hanno sempre fatta da padroni. Così, in una piazza Duomo due volte gremita è andata in scena prima la speranza del centrosinistra di voltare finalmente pagina al Pirellone e a Palazzo Chigi, poi la convinzione dei grillini di fare il botto. Tra la platea azzurra della Fiera, invece, serpeggiava il timore di perdere anche l’ultima roccaforte. tare e per partecipare, ma soprattutto per ribadire che nella Lombardia chiamata al voto anticipato dopo uno stillicidio di scandali si può fare il bis, mandando a casa i partiti che hanno “malgovernato” il Pirellone per 20 anni come Milano ha saputo scrollarsi di dosso l’egemonia berlusconiana. La piazza esplode quando Pisapia confessa che per scaramanzia si è messo le stesse calze rosse del 30 maggio 2011: «Abbiamo cambiato Milano. Cambieremo la Lombardia e l’Italia». Soprattutto è una platea che non guarda agli steccati di partito e, anche se la maggioranza è lì per Bersani e per Ambrosoli, applaude con lo stesso entusiasmo il centrista Tabacci e il radicale Vendola. Non c’è ancora l’aria di festa che ha accompagnato il grande risveglio milanese del 2011. Perché c’è la crisi. Perché fa freddo. Perché il tempo è stato poco. Ma si percepisce ottimismo: «Vinciamo. La gente è proprio stanca di Lega e Pdl. Sono disgustati anche quelli che li hanno sostenuti», assicura Rosa Borgia, ex medico, spilletta “Io voto Ambrosoli”. Persino Antonio, un pensionato che rimpiange il mancato accordo con Ingroia al Senato, non dispera: «Nei bar si sente ancora molta gente che voterà di là, dimenticando tutto quello che è successo. Ma noi saremo di più». E il popolo delle primarie è sceso in piazza proprio per dimostrare la sua forza. «Sono qui per un’Italia più giusta, senza privilegi, senza corruzione e senza pagliacci», dice Orlando, insegnante. In piazza non ci sono solo gli storici elettori del centrosinistra, ma anche i giovani e i giovanissimi. Come Giulio, studente Ad ascoltare Bersani molti i giovani al primo voto. «La gente è stanca di Lega e Pdl» Il 25 aprile cade a febbraio Il centrosinistra domenica 17 febbraio ha portato decine di migliaia di persone nella stessa piazza che due anni prima aveva coronato la vittoria di Pisapia. In un tripudio di palloncini e di bandiere di Pd e Sel, i simpatizzanti hanno riempito il sagrato malgrado il timido sole invernale si facesse via via sempre più freddo. Sono accorsi per ascol- Nel regno di Formigoni La Lombardia e Milano non sono solo l’Ohio d’Italia. Il capoluogo meneghino, la capitale morale dello Stivale, si è trasformato in una città travolta dagli scandali e dalla corruzione, in cui il potere e la criminalità organizzata siedono intorno allo stesso tavolo. Tutti pronti ad abbuffarsi, golosi di azzannare la torta miliardaria di Expo 2015. 22 È questo il filo conduttore del libro della giornalista Alessia Candito, Chi comanda Milano (Castelvecchi Editore, pp 188, 14,90 euro), in libreria dal 19 febbraio. «La deindustrializzazione dell’ex area della produzione pesante meneghina si è risolta con l’urbanizzazione selvaggia», scrive Candito. «I vecchi capitani d’industria, insieme a spregiudicati immobiliaristi di nuovo conio, si sono spartiti la città coprendola di uffici e appartamenti, torri e palazzotti, blocchi e cubi. Edifici destinati a rimanere vuoti ma in ogni caso sufficienti come garanzia per nuovi progetti e 23 febbraio 2013 left left.it badisce che «adesso tocca a noi» e annuncia che a Palazzo Chigi «partirà dalla gente che non sa come mangiare». Né manca qualche occhio lucido quando il segretario chiude il suo intervento con una promessa: «Tireremo fuori dal buio la Lombardia e l’Italia». Turandosi il naso Tutto un altro film va in onda il giorno dopo, lunedì 18, alla Fiera di Milano addobbata per l’occa- 18 febbraio, Berlusconi alla Fiera di Milano. Nelle pagine precedenti, 17 febbraio, Bersani in piazza Duomo © giulia rosco delle Bocconi al suo primo voto: «Credo ancora nella politica nonostante gli scandali», assicura. E in quel momento sul palco compare, dopo 4 anni di assenza, Romano Prodi per ribadire l’importanza della doppia partita lombarda. Poi è la volta di Umberto Ambrosoli, il cui nome campeggiava già sulle magliette e sui palloncini che riempivano la piazza, che strappa un boato quando annuncia che «quest’anno il 25 aprile cadrà a febbraio». Applausi scroscianti quando Pier Luigi Bersani ri- nuovo cemento. E nuovi affari in cui i clan di ’ndrangheta hanno spesso trovato facile e comodo spazio. È bastato loro far pesare sul tavolo degli affari lombardi denaro liquido per milioni per polverizzare qualsiasi remora». Regista dell’operazione Expo: Roberto Formigoni. Che attraverso Comunione e liberazione e la Compagnia delle Opere ha monopolizzato il potere in un’intera Regione. left 23 febbraio 2013 «Principale alfiere della battaglia per Milano città dell’Expo è Luigi Roth, all’epoca (nel 2008, ndr) presidente della Fondazione Fiera, azionista di controllo di Fiera Milano spa, la potentissima società che gestisce l’attività espositiva nel capoluogo», racconta Alessia Candito nel libro. «Ma Roth è soprattutto un uomo di Comunione e Liberazione e di Roberto Formigoni, all’epoca inquestionabile uomo di punta dei ciellini». Ma il Celeste non l’unico protagonista di questa storia. Chi comanda a Milano indaga anche sulle responsabilità del maggior alleato di governo: la Lega Nord che insieme Formigoni ha gestito il potere lombardo, usufruendo delle amicizie di Francesco Belsito. Lo stesso partito che oggi prova a conquistare la Regione con Roberto Maroni. Rocco Vazzana 23 speciale elezioni copertina © treves/LaPresse left.it 19 febbraio, Beppe Grillo a piazza Duomo 24 sione con le bandiere del Pdl. Se nella piazza del centrosinistra, giovani volontari spettinati distribuivano magliette e spillette, ad accogliere i berlusconiani nel Palazzo dei Congressi ci sono impeccabili vallette nelle loro divise con minigonna e tacco 12. Nelle prime file della sala con un migliaio di posti continua a dominare la giacca e la cravatta, ma lo stile aziendale dei primi anni di Forza Italia è tramontato: oggi i fan di Berlusconi sono per lo più pensionati in maglioncino. Soprattutto è finito il tempo delle certezze e delle vittorie facili. E anche se il Cavaliere apre l’incontro annunciando che c’è stato il sorpasso, negli appelli finali emerge preoccupazione, con lo stesso Berlusconi che incoraggia i suoi a trasformarsi «in missionari di verità: andate e convertite le genti». Pure Roberto Maroni, costretto a presentarsi a fianco dell’indigesto alleato per assicurarsi i voti del Pdl nella corsa per il Pirellone sempre più in salita, raccomanda: «Adottate un indeciso. Facciamo andare i nostri a votare. Non possiamo lasciare alla sinistra la regione più importante d’Italia». Un timore che rimbalza in sala: «Ho paura - ammette una signora impellicciata - i comunisti vanno tutti a votare, invece molti dei nostri sono sfiduciati». Un po’ più ottimista Bianca, una delle poche filoleghiste in sala: «Dobbiamo vincere altrimenti siamo fritti. Il Paese è alla frutta. L’unica soluzione è smettere di dare soldi al Sud». Tra i cori che inneggiano al leader, scrosci di applausi e ondeggiare di bandiere. Ma se si ascoltano alcuni commenti della platea, questa ostentazione di entusiasmo in un partito che in pochi anni ha perso consensi a due cifre pare belletto, come quello del leader, impettito nel suo doppiopetto blu. Emblematico lo sfogo telefonico di un elegante quarantenne all’uscita del raduno: «Berlusconi è il tipico “tamarretto” coi soldi. Se lo voto lo farò obtorto collo solo perché sono di centrodestra. Ho due master, vorrei un altro stile. Il mio candidato ideale sarebbe Monti, ma significherebbe votare Bersani. Sceglierò Maroni perché voglio che i soldi restino qui, ma a livello nazionale deciderò l’ultimo giorno». Anche in sala qualcuno ammette che voterà Pdl «turandosi il naso». Come Erasmo, geometra in pensione, che alla sinistra rinfaccia ancora i carri armati sovietici e l’aver «fatto morire Craxi». Monti non gli piace, perché in due mesi ha perso 138 euro di pensione. Il professore lo aborre anche Giovanni, albergatore, che bolla come «esagerata» l’Imu ed è convinto che se Berlusconi vincerà la restituirà come promesso. Non mancano i fan convinti dell’ex premier. Come Antonella, pensionata a 480 euro: «Amo Berlusconi. Abbasso i comunisti». E per giustificare i fallimenti dei governi di centrodestra se la prende con «tutti i no che gli hanno opposto, so23 febbraio 2013 left copertina left.it prattutto il Pd». E se le si fa notare che i democratici erano all’opposizione non si perde d’animo: «Su molte cose, come la giustizia, ci voleva l’unanimità». Anche una signora con filo di perle al collo non ha dubbi: «Sono qui per Silvio. Recupererà alla grande». I pochi giovani in sala scomodano il carisma del leader per giustificare il loro sostegno. Né mancano quelli che ancora dicono: «È uno di noi, che siamo commercianti e imprenditori». Soprattutto è lo spauracchio dei comunisti a tenere assieme quello strano amalgama. Poi tutti a spellarsi le mani quando il Cavaliere parla di ridurre la pressione fiscale e spiega come restituirà l’Imu. A condire la serata, le immancabili battute di Berlusconi. «Però è forte», commenta un signore. Difficile dire se il campionario da intrattenitore da crociera gli basterà per non perdere la Lombardia. Di sicuro non gli basta per tenersi il suo pubblico, che dopo due ore comincia a smobilitare malgrado lui stia ancora dispensando promesse. Contro un sistema malato Martedì 19 è la volta di Beppe Grillo, che riempie piazza Duomo nonostante l’appuntamento sia alle 18 di un giorno infrasettimanale. Una platea sterminata di giovani e giovanissimi, senza bandiere ma con la convinzione di partecipare a una svolta. In piazza c’è di tutto, dall’ex simpatizzante di sinistra all’ex elettore di Berlusconi, dal grillino da sempre a quello dell’ultimo minuto. Tutti delusi dalla vecchia politica. Tutti convinti che gli altri schieramenti siano uguali, o quasi, nel rubare e nel non fare niente per la gente. Il più entusiasta è forse Alberto, ingegnere di 27 anni: «Come dice Grillo, arrendetevi tutti! Due anni fa ero in questa piazza per sostenere Pisapia, ma noi non ci limitiamo a votare ogni 5 anni gente che decide al posto nostro. Nel Movimento le scelte sono prese direttamente dagli attivisti, al servizio della collettività». Molti dichiarano che Ambrosoli sia meglio di Maroni, ma pochissimi annunciano che voteranno il figlio dell’eroe borghese. Enzo e Davide, informatici, escludono ogni voto disgiunto perché «un sistema malato può solo generare gente marcia». Non si fidano dei sondaggi e sono sicuri che il Movimento prenderà almeno il 25 per cento. Si rammaricano che in Italia ci siano pochi giovani, altrimenti, assicurano, il loro sarebbe già il primo partito. Mandare tutti a casa e rinnovare la politica dal basso sono i temi che stanno più a cuo- left 23 febbraio 2013 re alla folla che è venuta a sentire il comico, che li arringa con la voce sempre più roca per i troppi comizi. Ridono, applaudono, lo incalzano: «Sei grande!». Finché sul palco compare Dario Fo, che invita gli astanti a «ribaltare tutto» e a non mollare. «Il Movimento è l’unica speranza che ci è rimasta», commenta una ragazza col piercing. Gaetano è deluso «politicamente e moralmente» da Berlusconi e ora si schiera con i 5 stelle «per protesta». Non mancano i dubbiosi, come Marco, infermiere, che voterà Grillo ma si augura che continui «a fare quello che dice anche dopo il voto». Sono decine di migliaia. Forse più della piazza di Bersani. In mezzo agli attivisti ed elettori, alle spillette e biciclette, fa capolino anche qualche curioso. Ma è indubbio che le piazze stracolme dello Tsunami tour sono la novità di questa tornata elettorale. Al grido di «arrendetevi tutti» Grillo ha riempito piazza Duomo di moltissimi giovani. Ma anche di delusi da Lega e sinistra Poi ci sono quelli che ai comizi non ci vanno. Di certo la Lombardia non è solo Milano. Sul voto peserà anche la fascia prealpina, da sempre più leghista del capoluogo. Ma a pochi giorni dal voto gli elettori meneghini sembrano avere le idee abbastanza chiare. Lo si vede soprattutto nei volantinaggi. Con la gente prontissima a dire no, anche solo con la testa, oppure a porgere la mano con l’espressione complice. Come la pensionata che passeggia per il mercato di Lambrate e, di fronte al pieghevole per Ambrosoli, assicura che ha già deciso di votarlo: «Mi piace. È uno onesto». Tra chi dice che non si fida più di niente e di nessuno, spunta un signore che voterà Grillo dopo molti anni di astensionismo. Un anziano con cappotto verde ci tiene a precisare che ha fatto bene i compiti a casa: «In Regione voto Ambrosoli, a Roma Monti». Il voto disgiunto a favore dell’avvocato, annunciato da molti candidati del professore, sembra aver fatto breccia anche tra i cittadini che non fanno politica. Ma che talvolta sorprendono, come una pensionata che chiede un po’ di volantini di Ambrosoli «per darli ai vicini di casa». E si allontana, volontaria improvvisata, con la spesa in una mano e i pieghevoli nell’altra. La sfida lombarda all’ultimo voto si vince anche così. 25 società left.it La rabbia diventi Il Lazio va al voto dopo gli scandali della giunta Polverini, che hanno alimentato l’antipolitica. Nicola Zingaretti, candidato del centrosinistra: «Bisogna ripartire da una riscossa civile e morale per riaccendere la speranza. La mia sarà una Regione più giusta e più competitiva» 26 I l risultato elettorale nazionale rischia di fare ombra sul voto per le regioni in cui gli scandali hanno travolto le giunte di governo, portando alle elezioni anticipate. Il Lazio, ad esempio. Che significa la gestione Polverini, l’allargamento smisurato del rimborso ai partiti, le feste sguaiate pagate con i soldi pubblici. Una storia che ha alimentato il vento dell’antipolitica e la rivolta verso il sistema dei partiti. Nicola Zingaretti, già presidente della Provincia di Roma, è il candidato del centrosinistra. Ha respirato a ogni metro in queste settimane quel vento. «Ho sentito tanta rabbia per l’uso personale delle istituzioni e per i casi di appropriazione del denaro pubblico ai quali abbiamo assistito negli scorsi mesi e che hanno travolto la nostra Regione. Un senso di sfiducia, ma anche una grande volontà di cambiare. Come si rimedia a un tale disastro? C’è bisogno, per la politica, di cambiare tutto e di riscoprire la propria funzione autentica per misurarsi con questa disponibilità e questa domanda di innovazione. Perché la politica non è gestione del potere, ma organizzazione e pensiero collettivo capace di dare vita a una riscossa civile e morale e di riaccendere la speranza di cambiamento. Solo così la rabbia si trasforma in energia positiva. Quello che è avvenuto nel Lazio e in Lombardia ha alimentato l’antipolitica. L’ha avvertita tra gli elettori? L’antipolitica esiste ed è figlia della cattiva politica, che l’ha nutrita offrendo uno spettacolo osceno di sé. Io sono convinto che la nostra sfida stia proprio qui. La politica ha un’ultima opportunità per superare due opposti estremismi: quello di chi pensa che tutto sia da buttare, perché la politica fa schifo. Così come è un errore illudersi che sia possibile riaffermare il primato della politica nelle sue forme tradizionali, senza prendere coscienza della rivoluzione in atto nelle modalità di esercizio del potere e nell’organizzazione delle forze sociali. Non è una sfida per la salvezza della classe politica, le cui sorti di per sé non significano nulla. È una battaglia civile per restituire fiducia ai processi democratici, fuori dai quali siamo tutti più soli, deboli ed esposti alla dittatura dell’io e all’egoismo sociale. 23 febbraio 2013 left società left.it i energia Il Pd ha votato le delibere della Polverini sull’innalzamento del finanziamento ai partiti. Perchè quell’ errore? È stato un errore ed è stato anche riconosciuto. Tant’è che il centrosinistra, a differenza di altri, ha fatto una scelta di rinnovamento totale, a partire dalla composizione delle liste. So bene che la prima questione oggi è la credibilità. Ho scelto di candidarmi proprio per voltare pagina. La sua esperienza come presidente della Provincia in che modo potrà aiutarla nella guida della Regione se vincerà le elezioni? Sicuramente nella conoscenza dei meccanismi di funzionamento della pubblica amministrazione, delle risorse e delle professionalità. E la conoscenza del territorio. E poi di alcuni argomenti specifici: i rifiuti, ad esempio, con gli straordinari risultati ottenuti dalla Provincia di Roma, in collaborazione con Amministrazioni comunali di centrodestra e di centrosinistra, con un aumento della raccolta differenziata porta a porta del 2.300 per cento in meno di cinque anni. La giunta Zingaretti se vince le elezioni comincia dal taglio dei costi, a partire da quelli della politica? Il primo impegno che voglio portare in giunta sarà il varo di un piano contro gli sprechi per innovare la spesa pubblica abbandonando la logica dei tagli lineari e migliorando la qualità dei servizi e dell’amministrazione. Penso, ad esempio, a un piano per la razionalizzazione delle società e delle aziende pubbliche della Regione, a cominciare dall’introduzione di un’Agenzia unica per lo Sviluppo al posto dell’attuale babele di enti, con il taglio dei Cda, degli affitti pagati per le sedi, il dimezzamento delle consulenze e l’introduzione, anche per questo comparto, della centrale unica per gli acquisti. Solo da questo intervento contiamo di produrre risparmi per circa 30 milioni di euro l’anno, che reinvestiremo sul trasporto pubblico e sul welfare. Come ho detto da tempo, le prime due leggi che ci siamo impegnati a presentate sono la legge sulla trasparenza e la legge sulla partecipazione, perché il controllo diretto dei cittadini e la condivisione delle scelte di governo sono la prima left 23 febbraio 2013 di Giommaria Monti Illustrazione di Alessandro Ferraro garanzia contro gli abusi, i privilegi e l’opacità nella gestione del potere. Sanità, assistenza agli anziani, scuola, lavoro. L’emergenza principale da affrontare? Sono tutte emergenze. Che, però, hanno un segno comune: chiamano in causa la capacità dello Stato di tornare a promuovere un patto di cittadinanza fondato sull’inclusione, sull’offerta di servizi, sulla coesione sociale. Io non posso promettere di risolvere tutti i problemi. Ma una cosa sì: tra cinque anni i cittadini del Lazio potranno contare su una Regione molto diversa, più trasparente, più giusta, e quindi, anche, più competitiva. Il contatto con gli elettori, il rapporto diretto con le persone cosa le ha dato? Ho fatto dieci/quindici iniziative al giorno: c’è una grande voglia di partecipazione, la stessa che in questi anni ha dato vita a movimenti sorprendenti come quello sull’acqua bene comune. I cittadini non si fidano più delle promesse. Mi dicono: «Zingaretti, non ci deludere anche te». Io dico state tranquilli. Ma capisco questa diffidenza e questa voglia di toccare con mano e di non delegare più a scatola chiusa il proprio futuro. Il primo atto del mio governo sarà tagliare gli sprechi e usare quei soldi sul welfare Cosa l’ha colpita di più? Praticamente tutti, dalle imprese alle associazioni del sociale, denunciano la completa inefficienza e inaffidabilità della Regione. Nella programmazione, nei pagamenti, nell’assegnazione dei bandi. E il sentimento comune tra le persone: un senso di disillusione non solo verso le istituzioni, ma anche nella possibilità stessa di migliorare la propria vita. A partire dal lavoro. Tante persone però mi hanno fatto capire che c’è una grande attesa per la possibilità di cambiare, una voglia di esserci e partecipare alle scelte, che sarebbe gravissimo mortificare l’ennesima volta. Ho imparato che bisogna riscoprire qualcosa di antico: lealtà, trasparenza, difesa del bene comune. La politica deve essere messa al servizio di una missione e non di se stessa. In apertura, Nicola Zingaretti 27 società left.it Due milioni e mezzo di meridionali hanno lasciato le proprie città negli ultimi 20 anni per un posto di lavoro al Nord. Sono laureati, specializzati. Ma la crisi e la precarietà impediscono loro di mettere radici. I nuovi “pendolari” sono ignorati dalla politica. E il Sud è a rischio spopolamento 28 23 febbraio 2013 left left.it società © jahn/flickr Mezzogiorno di vuoto di Tiziana Barillà left 23 febbraio 2013 29 società left.it N ell’Italia del nuovo millennio i trolley superleggeri prendono il posto delle vecchie valigie di cartone. E il lavoro precario nei servizi sostituisce il posto sicuro in fabbrica. Ma l’emigrazione meridionale resta, e diviene sempre più questione giovanile e femminile. Ogni anno centinaia di migliaia di giovani lasciano il Sud per lavorare: 2,5 milioni negli ultimi vent’anni, più di un meridionale su dieci. Tanto che adesso si parla di crisi demografica e rischio spopolamento. Nel bel mezzo della crisi economica il flusso non si ferma, anche se è più difficile fotografare il fenomeno: i nuovi emigranti sono spesso pendolari, troppo precari per spostare la residenza. Emigranti o pendolari? © infografica martina fiore I tecnici li chiamano “pendolari di lungo raggio”. Vivono e lavorano al Centronord, ma continuano a risiedere - e votare - nelle città in cui sono nati. Insegnanti, ingegneri, ricercatori, impiegati, operai. Secondo le ultime stime della Svimez oltre 1 milione e 350mila persone hanno lasciato il Sud nel decennio 2000-2010. Di questi, 140mila solo nel 2011 (6mila in più rispetto all’anno precedente). Dati che non corrispondono con quelli degli uffici anagrafici. L’emigrazione non è più rilevabile attraverso il cambio di residenza. A causa dei contratti atipici, salari bassi e affitti stellari in pochi decidono di spo- 30 starsi in maniera stabile in un’altra città. Si resta sospesi, a tempo indeterminato: 4 giorni al Nord, dividendo la casa insieme ad altri. Poi, il fine settimana, si torna a casa. Oppure si parte per pochi mesi, dipende dalla durata del contratto. Il fenomeno del pendolarismo riesce a falsare anche le statistiche sull’occupazione: molti abitanti del Sud risultano impiegati nonostante non lavorino nella loro città. Per intenderci: nel 2011, dinanzi a un flusso di emigranti cresciuto del 4,3 per cento, il tasso di occupazione nel Mezzogiorno è rimasto stabile al 40. Il fenomeno riguarda soprattutto chi ha un’alta formazione: il 30 per cento dei nuovi pendolari, ben 39mila cittadini, è laureato; quasi la metà svolge professioni di livello elevato. Così il Sud perde due volte: spreca gli investimenti nell’istruzione e nella formazione dei suoi giovani, e rinuncia alla futura classe dirigente. False partenze C’è chi torna perché momentaneamente disoccupato. Nel 2009, anno di inizio della crisi, erano già 40mila gli emigranti meridionali ritornati al Sud, principalmente giovani donne tra i 25 e i 34 anni. Ma c’è poco da gioire. I rientri non sono che temporanei, una “protezione sociale” per i pendolari di lungo raggio espulsi dal mercato del lavoro. Si torna a casa da mammà in attesa di nuovi lavori precari e nuove ripartenze. Magari all’estero, come ha fatto il 7 per cento di loro nel 2011. Da sempre gli emigranti sono i primi a pagare la crisi, tanto più se precari. A poco serve l’alta scolarizzazione. Anzi sono proprio i laureati a pagare maggiormente. È la crisi, bellezza. Ritenta, sarai più fortunato. Palermo, Napoli, Reggio Calabria, le città del Sud si ripopolano. Scrivono il vicepresidente Svimez Luca Bianchi - oggi assessore all’Economia della giunta siciliana di Crocetta - e Giuseppe Provenzano in Ma il cielo è sempre più su? (Castelvecchi, 2010): «Si ricominciano a vedere tanti ragazzi seduti davanti ai tavolini dei bar. Sono proprio quelli che avevano un contratto interinale o un contratto a progetto, l’anello più debole del mercato del lavoro, senza tutele e senza sindacati a difenderli». 23 febbraio 2013 left società left.it Il Sud è altrove «Sono andata via perché nessuno mi prendeva sul serio», dice la scrittrice calabrese Angela Bubba, 24 anni e finalista del premio Strega 2009. La sua è una delle tante storie raccolte da SudAltrove, un progetto partecipato realizzato da giovani emigranti. Un video e un libro per raccontare le molte storie di chi lascia il Sud in cerca fortuna. E un focus sulla Calabria, regione altamente colpita. «Ci siamo posti una domanda apparentemente banale: perché se ne vanno tutti?», spiega Alessio Neri tra gli autori del progetto. «C’è chi si libera, chi sta male, chi avverte il fallimento e un vago senso di colpa. In ogni caso emigrare è come una seconda pelle per i meridionali». Realizzato da LiberaReggio Lab, SudAltrove (Terrearse, 2013) contiene anche un sondaggio, una sorta di censimento informale degli emigranti calabresi. Un lavoro attento che, anche attraverso l’uso dei social network, mette a nudo una vecchia storia. Perché ancora nel 2013 «#emigrareè una scelta obbligata», come twitta Gianluca, uno dei giovani che ha contribuito al progetto. Rischio tsunami demografico Se all’attuale emorragia - circa 1,5 milioni di emigrati negli ultimi dieci anni - aggiungiamo la bassa natalità e la minore incidenza delle migrazioni dall’estero, si capisce perché gli statistici parlino di rischio spopolamento. L’ultimo censimento Istat dice che tra il 2001 e il 2011 la popolazione italiana al Sud è diminuita di 220mila unità, mentre è cresciuta di 250mila al Centronord. E le previsioni per il futuro non promettono bene: nel giro di vent’anni, sostengono gli statistici, si arriverà a perdere quasi un giovane su quattro nel Meridione. Di questo passo nel 2050 gli over 75 aumenteranno del 10 per cento, mentre gli under 30 nel Mezzogiorno passeranno dagli attuali 7 milioni a 5. Una società di vecchi, senza alcuna possibilità di rinascita. D’altra parte l’emorragia demografica non è nemmeno rimpiazzata dai migranti stranieri. Come avviene invece al Centronord, grazie all’ingresso di stranieri e meridionali. Anche qui molti giovani partono: circa 30mila nel 2011, di cui il 90 per cento diretto all’estero. Germania, Svizzera e Gran Bretagna sono le principali destinazioni. La Questione femminile Tra una partenza e un ritorno, c’è anche chi si arrende. Sono principalmente i giovanissimi e le donne. I “neet”, ovvero gli inattivi, il 30 per cento della popolazione italiana tra i 15 e i 29 anni che non studia, non lavora e ha smesso di cercare qualsiasi impiego. E, in questo contesto, rinuncia anche alla partenza. Nel nostro Paese il 60 per cento dei neet si concentra proprio nel Mezzogiorno. L’altra categoria di inattività, per l’Istat, è rappresentata dalle donne. Che cresce al Sud, dove una donna su tre preferisce abbandonare il mercato left 23 febbraio 2013 del lavoro, anche perché la prospettiva è una retribuzione bassa, part time e discontinua. Perciò, è ormai quasi consueto definire la questione femminile come una questione meridionale: le donne nel Sud scontano una precarietà lavorativa maggiore tanto nei confronti degli uomini del Sud, quanto delle donne del resto del Paese. E cresce pure la disparità di genere nel sottoutilizzo del capitale umano: il 40 per cento delle laureate ha un lavoro che richiede una qualifica più bassa rispetto al titolo posseduto. Nessun contrasto Dinanzi a questo quadro la politica fa poco o nulla. Gli enti locali legiferano per lo più in merito agli emigrati all’estero. Come si fa in Calabria e Basilicata, dove gli sforzi sono rivolti alla “cultura d’esportazione”, o comunque al miglioramento dei ponti con l’estero. Stessa cosa a livello nazionale, con la cosiddetta legge Controesodo promossa dal deputato Giuseppe Vaccaro (Pd): sgravi fiscali per “i cervelli in fuga” che decidono di rientrare in Italia. Ma per i nuovi emigranti pendolari niente. Con intenti diversi, invece, si muove la Regione Puglia attraverso il progetto “Bollenti spiriti”. Un sistema che punta espressamente a limitare le cause dell’emigrazione, incentivando le politiche giovanili con laboratori e “cantieri”. Fino a oggi con questo supporto sono stati realizzati circa 350 progetti in tutte le province pugliesi. Ma, tolta questa eccezione, il nostro Paese non prevede norme o progetti per attutire o contrastare il fenomeno. «Le politiche per il rientro arrivano fino a un certo punto», spiega Giuseppe Provenzano. «Bisogna creare l’humus per il loro ritorno, quelle condizioni per la realizzazione personale e professionale che spesso trovano all’estero». 31 società left.it Piovono promesse © Alpozzi / LaPresse Due mesi fa il regista Ken Loach rifiutò il premio al Torino film festival per protesta contro il licenziamento dei dipendenti di una cooperativa. Senza ottenere nulla, malgrado le rassicurazioni del sindaco Fassino Torino, 6 dicembre 2012. Il regista Ken Loach incontra i lavoratori in un’assemblea pubblica 32 S batti Ken Loach in prima pagina, aspetta qualche settimana e dimenticatene. Due mesi dopo la clamorosa decisione del regista britannico, che lo scorso dicembre aveva rifiutato il premio del Torino film festival polemizzando sui precari impegnati nella kermesse, nulla è cambiato. A niente è servito denunciare la condizione dei lavoratori della Rear, la cooperativa che gestisce il servizio di vigilanza e pulizia nel Museo del cinema di Torino. Come a niente è servito il gesto di solidarietà del regista Ettore Scola, che aveva riconsegnato nelle mani del sindaco Piero Fassino il riconoscimento alla carriera concesso dal festival. Eppure il doppio boicottaggio aveva generato non solo numerose polemiche, ma anche rassicurazioni. In primis quelle di Fassino che aveva garantito di voler risolvere presto la questione. Due mesi non sono bastati, evidentemente. I dipendenti della Rear continuano a ricevere stipendi da fame; nessuno dei lavoratori licenziati “per motivi disciplinari” è stato reintegrato. E sulla scrivania del sindaco campeggia ancora il premio rifiutato da Scola. «Me lo verrò a prendere quando il problema sarà risolto», aveva annunciato l’autore di Brutti, sporchi e cattivi. La chiave dell’intera vicenda è racchiusa in una parola: esternalizzazione. Ovvero l’affidamento a terzi di un servizio pubblico tramite un appalto al massimo ribasso. Il Museo del cinema di Torino, organizzatore del Festival del cinema, da 12 di Benedetto Antuono anni assegna il servizio di vigilanza e pulizia alla cooperativa Rear presieduta da Mauro Laus, consigliere regionale del Partito democratico. Ma la cooperativa, a quanto sostiene il sindacato Usb, non è esattamente un buon posto in cui lavorare. Le paghe si attestano sui 5,65 euro lordi all’ora. Una miseria alla quale va sottratto un ulteriore 6 per cento di “autoriduzione”, per affrontare lo stato di crisi. Ma c’è di più: in un anno la cooperativa ha licenziato 5 dipendenti per “motivi disciplinari”. Uno di loro è Federico Altieri cacciato nell’ottobre 2011. Il motivo? Una maglietta con la scritta “Sospendeteci tutti”, indossata da Altieri per solidarizzare con una collega sospesa qualche settimana prima. Proprio ad Altieri si deve l’inaspettato interessamento di Ken Loach alla vicenda della cooperativa Rear. È il luglio 2012 quando l’ex dipendente scrive al regista, chiedendogli di sostenere la causa dei lavoratori. Loach non se lo fa ripetere due volte: «Non ha senso dire una cosa sullo schermo e poi tradirla con le nostre azioni. Per questo mi trovo costretto a rifiutare il premio», scrive il regista ai responsabili del Torino film festival. Siamo a fine novembre, a pochi giorni dalla cerimonia di premiazione della kermesse, e il “gran rifiuto” getta nel caos il mondo del cinema. Il regista Gianni Amelio accusa Loach di “megalomania”, mentre il direttore del Museo del cinema Alberto Barbera lo apostrofa come «testone e male informato». Eppure nel luglio 2012, quando Loach aveva contattato gli organizzatori del festival per chiedere una soluzione, aveva ricevuto una risposta molto cordiale: «Siamo consapevoli del problema e ci impegneremo a risolverlo quanto prima». Quando non è dato saperlo. Dalla Rear respingono le accuse: «Loach, sostenuto dal sindacato “antagonista” Usb, ha usato il caso dei lavoratori licenziati per una campagna massimalista contro l’intero sistema delle esternalizzazioni», ribatte Maria Grazia Grippo, responsabile della Comunicazione della cooperativa. «Nessun elemento oggettivo attesta che i nostri dipendenti siano stati maltrattati o vessati». Il sindaco Fassino, da parte sua, ha preferito non rispondere alle nostre richieste di chiarimenti. 23 febbraio 2013 left la scuola che non c’è società left.it Tra i candidati alle Politiche nessuno parla di istruzione come tema centrale per il Paese Silenzio elettorale di Giuseppe Benedetti cupa tra le priorità delle agende politiche, diverse associazioni di insegnanti e dirigenti scolastici si sono mobilitate sul web per chiedere ai leader politici di impegnarsi concretamente. All’inizio di febbraio la Rete delle scuole, che raccoglie diverse associazioni di categoria, ha lanciato sul web (www. nonvivoteremose.it) l’iniziativa “interroghiamo i leader nazionali” con dieci domande sulle prospettive del nostro sistema scolastico, dalla necessità di approntare un piano pluriennale di finanziamenti, anche per rimediare alle conseguenze dannose dei tagli del ministro Gelmini, all’impegno sulla piena applicazione del dettato costituzionale riguardo ai fondi pubblici per le scuole private. Una settimana dopo, aveva risposto solo Vendola. Anche il Gruppo di Firenze ha promosso un’iniziativa simile, rivolgendo ai politici dieci domande, ciascuna delle quali suggerisce due risposte alternative. Negli appelli delle diverse associazioni ritornano due richieste: nominare come ministro dell’Istruzione una personalità di comprovata competenza in materia e ripensare radicalmente il sistema di valutazione che si è configurato con i test dell’Invalsi. Due richieste che insieme denunciano l’illogicità di un criterio per cui la definizione di un modello di valutazione delle competenze è stata lasciata nel recente passato a chi non ha competenze specifiche sulla valutazione a scuola. [email protected] © Federici / LaPresse P er la scuola non c’è spazio neanche tra le balle preelettorali lanciate ripetutamente in aria per intercettare il vento dei sondaggi. Sembrano lontani i tempi in cui Prodi sintetizzava il programma della sua coalizione con lo slogan a effetto rimbombo “scuola, scuola, scuola”, e Berlusconi, allora nei panni di re Mida, replicava che avrebbe ricoperto d’oro gli insegnanti. Come dobbiamo interpretare, alla vigilia del voto, il fatto che la scuola sia quasi dimenticata (eccetto una lettera a La Repubblica e alcuni accenni su università e ricerca) nella campagna neorealistica di Bersani e relegata nelle ultime pagine dell’agenda dell’indaffaratissimo Monti, nascosta dietro altre priorità, dal lavoro alle tasse alle riforme istituzionali? Il silenzio sulla scuola, perfino nello schiamazzo preelettorale, è forse la riprova più evidente della perdita di idealità della nostra politica. Il tema dell’istruzione è legato a doppio filo a un’idea di società e per essere affrontato seriamente richiede che la politica si occupi della qualità della vita delle persone. Invece, le varie agende politiche sono tutte coniugate al presente e occupate da numeri. E i proclami sui primi cento giorni sono ormai già superati dagli annunci sulle prime misure da adottare nelle 48 ore successive all’insediamento del nuovo governo. Quasi tutti sono in procinto di scatenare una rivoluzione, in modo da ot- Tra gli appelli delle associazioni di categoria una richiesta fondamentale: nominare un ministro che abbia davvero una comprovata competenza in materia left 23 febbraio 2013 tenere tutto e subito, persino i moderati. Nell’ottica emergenziale dominante, chi ha scelto di fare una campagna elettorale in bianco e nero non garantisce nulla di più, sulla scuola, di conservare materialmente in piedi gli edifici scolastici. Del resto si è diffusa la convinzione che la scuola non abbia appeal per l’elettorato. Dopo anni e anni di sistematico abbandono, grazie all’affidamento a ministri prestanome che hanno retto il gioco ai veri responsabili del sistema scolastico, cioè i ministri dell’Economia e delle Finanze; dopo anni e anni in cui ogni voce di dissenso sulle presunte “riforme” del sistema di istruzione è rimasta inascoltata; dopo anni e anni di diffamazione mediatica degli insegnanti, tagliati fuori da ogni parere sui cambiamenti in corso nel sistema scolastico, si osserva, ipocritamente, che la scuola è un tema che non appassiona la società civile. Spaventati dalla posizione che la scuola oc- 33 cose dell’altritalia società left.it 1 ROMA Spese inutili e lavoratori a rischio. Miseria e nobiltà al Teatro dell’Opera Con la cultura non si mangia. A confermarlo è la situazione dei 494 lavoratori del Teatro dell’Opera di Roma. Nuovi tagli al Fondo unico per lo spettacolo (Fus) e mancati finanziamenti da parte degli enti locali portano a un solo risultato: posti di lavoro a rischio. Quando la crisi morde la soluzione più facile è sempre la stessa: esternalizzazioni. Due sono quelle che hanno riguardato la fondazione del teatro romano negli anni passati: biglietteria e servizi di vigilanza. Rimane difficile da spiegare invece il perché dell’assunzione di un folto numero di consulenti da parte della fondazione dell’Opera: 40 in tutto. Il dito viene puntato soprattutto contro Catello De Martino, capo della direzione del Personale della Fondazione del teatro dal 2009, che i dipendenti accusano di «scarsa trasparenza nella gestione della fondazione». «Anche gli stipendi dei dirigenti sono aumentati», denunciano i lavoratori. Il nodo del problema sta in un decreto del 2010, firmato dall’allora ministro della Cultura, Sandro Bondi, che determina un doppio finanziamento per gli enti culturali: da una parte il Fus, dall’altra un canale che passa per gli enti locali. Se non arriva il primo dovrebbe arrivare il secondo, ma in tempi di Spending review la sostenibilità del sistema viene messa a rischio. Negli anni passati il Teatro dell’Opera ha ottenuto circa 25 milioni tramite il Fus e 18 dal Campidoglio. Quanto spetterà al teatro in futuro? Il silenzio di governo e Comune al riguardo è assordante. Al centro delle recriminazioni sono finiti anche l’assessore alla Cultura Dino Gasperini e il sindaco Alemanno. Allo stesso tempo appare incomprensibile il possibile trasferimento di un ufficio amministrativo all’interno di un appartamento privato in via Massimo D’Azeglio. Costo dell’operazione: 180mila euro l’anno. Troppi in tempo di crisi. I lavoratori denunciano che ben 90 dipendenti sono usciti dalla struttura, mentre sarebbero addirittura 200 i contenziosi a cui l’Opera dovrebbe far fronte per mancate assunzioni a tempo indeterminato dei lavoratori precari. 2 2 BOLOGNA Il sole al posto dell’amianto Pannelli fotovoltaici al posto di tetti in amianto a prezzi scontati e senza troppa burocrazia. È questo l’obiettivo di un progetto promosso da Cna e Unindustria, presentato al Comune nell’ambito del protocollo di attuazione del Piano d’azione per l’energia sostenibile. Il beneficio per i privati è molteplice: da un lato risparmieranno grazie al migliore isolamento termico e all’energia elettrica autoprodotta; dall’altro potranno contare sullo smaltimento gratuito dell’amianto (grazie appunto all’accordo tra le imprese). Il Comune, dal canto suo, si impegna a mettere in campo azioni di “agevolazione e semplificazione amministrativa“. Il progetto partirà a marzo e porterà all’installazione di pannelli fotovoltaici per una potenza complessiva di 2,2 megawatt, corrispondenti a circa 18mila metri quadri di superficie, con l’attivazione di investimenti per 13,5 milioni di euro. 34 3 BARI Bambini clandestini Li chiamano “minori non accompagnati”. Appena tre parole per raccontare una condizione dimenticata: sono migranti, sono bambini. E sono soli. Nei primi 9 mesi del 2012 in Puglia - territorio “caldo” per gli sbarchi - ne sono arrivati 426. L’associazione Save the children ha presentato nei giorni scorsi un rapporto sulle condizioni di accoglienza che questi bambini ricevono nelle regioni maggiormente toccate dal fenomeno: oltre alla Puglia, anche Sicilia e Calabria. Il quadro non è rassicurante. L’indagine fotografa un progressivo crollo della qualità dell’accoglienza: i gestori delle strutture non hanno i fondi per i servizi, le consulenze legali, la mediazione culturale e c’è confusione tra le competenze. Il risultato: più dell’85 per cento dei bambini fugge dalle comunità. 23 febbraio 2013 left cose dell’altritalia left.it società 4 PALERMO Case popolari in vendita. Rivolgersi alla mafia Un intero quartiere sotto scacco. Era la realtà dello Zen, periferia di Palermo, dove i mafiosi gestivano l’assegnazione degli alloggi popolari. Il costo di una casa? Ventimila euro, da versare direttamente al clan. Un vero mercato parallelo che ha portato al fermo di 14 persone con l’accusa di associazione mafiosa, estorsione e violenza. Gli arresti sono scaturiti dalla coraggiosa denuncia di alcuni residenti, stanchi di pagare per evitare di trovare occupata la propria casa al rientro da una passeggiata. Ce n’è abbastanza per fare sostenere ai magistrati che allo Zen «lo stato di diritto è stato sostituito da un regime autarchico retto dalla violenza e dalla sopraffazione». «I casi popolari su nuostre» (le case popolari sono nostre) metteva a verbale Salvatore Giordano, uno dei collaboratori di giustizia che hanno contribuito alle indagini. Parlando di uno degli arrestati, Antonino Pirrotta, Giordano spiegava: «Lui ha il potere di vendere... c’è una casa 20 mila euro, come ha venduto una casa a me, un garage mi ha fatto trovare, si è preso 3mila euro». Case vendute nonostante la proprietà sia dell’Istituto autonomo case popolari. Il sistema lo ha spiegato un altro collaboratore, Sebastiano Arnone: «C’erano persone che avevano la casa assegnata allo Zen e non ci volevano andare e consegnavano le chiavi all’Istituto. E tramite questo di qua (forse un impiegato infedele, ndr), faceva sapere alla famiglia dello Zen che c’era questa casa... gli mandavano un prestanome, poi gliela levavano e la rivendevano a 20, 25 mila euro». 5 REGGIO CALABRIA Un rapper contro la ’ndrangheta 1 All’inizio dell’anno l’ennesima intimidazione: 5 proiettili ritrovati all’interno della sua auto non sono bastati infatti a mettere a tacere Maurizio Albanese, membro della band rap e hip hop Kalafro, da anni sulle scene musicali con testi di grande impatto, contro il malaffare e la criminalità organizzata. Negli scorsi mesi, infatti, i Kalafro sono stati protagonisti del tour Resistenza sonora. Forse proprio l’impegno dei giovani musici3 sti reggini ha fatto storcere il naso a qualcuno, con l’ennesimo avvertimento a Maurizio Albanese, il sesto in tre anni di attività. Una “tiratina d’orecchie” che, però, non ha evidentemente sortito l’effetto sperato: il giovane, infatti, ha risposto con una nuova opera, la canzone “Un milione di eroi”, che racconta il dramma di una città ostaggio di “padreterni” e collusi. Il rapper ha lanciato l’iniziativa Un milione di Noi con l’idea di raccogliere più video possibili di persone pronti a dire no alla ’ndrangheta e a metterci la faccia. 6 6 NAPOLI È guerra tra Pd e de Magistris 4 5 left 23 febbraio 2013 De Magistris? Va troppo d’accordo con Stefano Caldoro (presidente Pdl della Regione) e rischia di consegnare la Campania a Berlusconi. Parola di Andrea Cozzolino, eurodeputato Pd ed ex delfino di Bassolino, tornato sulla scena politica dopo 2 anni in sordina, dovuti al pasticcio delle primarie per il sindaco di Napoli nel 2011. La bordata è arrivata durante un incontro elettorale: «Per il bene dei napoletani, è ora di rompere il sodalizio Caldoro-de Magistris». Un avviso per il sindaco che dovrà fare i conti con la linea dura del Pd. Sullo sfondo il nuovo corso democrat scaturito dai risultati delle “parlamentarie” che hanno rimescolato le carte e posto Cozzolino alla guida di un inedito correntone di ex bassoliniani. Obiettivo: tornare a Palazzo Santa Lucia e Palazzo San Giacomo. 35 mondo Pietre contro morsi di Davide Illarietti dal Cairo foto di Yusuke Harada Sono giovani e precari, affamati dalla crisi e delusi della Primavera araba. Si fanno chiamare black bloc. Ogni notte preparano un’azione. Contro i simboli del potere, la polizia e i Fratelli musulmani. Per «difendere la rivoluzione da chi ce l’ha scippata» 36 23 febbraio 2013 left mondo left 23 febbraio 2013 37 reportage mondo left.it 23 febbraio 2013 left left.it Le foto in queste pagine sono state scattate tra il 25 e il 28 gennaio al Cairo, dal fotografo giapponese Yusuke Harada mondo reportage mondo left.it D ai faraoni alla troika, passando per gli anni di piombo. Il tutto nel giro di due primavere. Agli occhi di Omar, che scrutano piazza Tahrir attraverso i buchi di un passamontagna, l’Egitto è così: un magma che cambia troppo in fretta, di male in peggio. Il presidente Morsi, la crisi economica: Omar vorrebbe fermare tutto. «Il nostro obiettivo è bloccare la macchina», dice. Omar, il nome è di fantasia, si dichiara membro dei black bloc egiziani. Il «gruppo eversivo-terroristico», come lo ha definito il procuratore generale del Cairo, venuto allo scoperto nel secondo anniversario della rivoluzione, il 25 gennaio scorso. Di loro si sa poco o niente. A parte che girano a volto coperto, molotov nello zaino. Agiscono con il favore delle tenebre e non parlano con i giornalisti. Omar ha fatto un’eccezione. Laureato in giurisprudenza, si guadagna da vivere grigliando bocconcini di fegato in un barbecue di strada, nel centro del Cairo. Si definisce una vittima della crisi, ma non rientra nel 60 per cento dei giovani egiziani tra i 15 e i 29 anni che, secondo il Capmas, l’Istituto nazionale di statistica, sono senza occupazione. «Mi considero fortunato - dice - an- 40 che se ho studiato per niente». Del resto, sottolinea Ghada Barsoum della School of global affairs del Cairo, in Egitto l’incidenza dei lavori sottopagati e non qualificanti è più alta che mai. «Il 52 per cento dei lavoratori del terziario egiziano sono in nero», spiega. «La retribuzione media non supera i cento dollari al mese. Occorrerebbero delle politiche occupazionali a lungo termine». Ma il governo di Mohammed Morsi ha altro a cui pensare. Nel mezzo delle ultime proteste la Banca centrale egiziana ha annunciato un ulteriore crollo - di 1,4 miliardi di dollari - delle riserve in valuta estera, arrivando così sotto il “minimo critico” dei 15 miliardi. «Siamo sull’orlo del collasso», infierisce Omar. Non è un caso che il 30 gennaio, all’apice degli scontri che hanno fatto oltre 70 vittime, dal Cairo a Port Said, il presidente Morsi fosse a Berlino in cerca di prestiti europei. I crediti promessi (900 milioni dall’Ue, 4,8 miliardi dal Fondo monetario internazionale) sono però vincolati a una “cura greca”. Tagli che il governo dei Fratelli musulmani, già in bilico sulla costituzione islamista di dicembre, ha evidenti difficoltà ad approvare. Gli ispettori del 23 febbraio 2013 left mondo left.it Fmi erano attesi al Cairo per la scorsa settimana. Forse arriveranno per fine mese. «Il governo temporeggerà fino alle elezioni di aprile. Hanno la scusa della nuova Costituzione, secondo cui le misure di austerity devono essere approvate da un collegio religioso», spiega a left Mohammed El Nemer, esponente della sinistra nasserista e membro del Fronte di salvezza nazionale (Snf), la coalizione laica che si oppone a Morsi. «Il fatto è che i tagli imposti dall’esterno non sono ben visti da tutti nel governo, sebbene in materia economica i Fratelli musulmani abbiano un approccio generalmente liberista e contrario alla spesa pubblica. Per contro, una parte dell’opposizione è favorevole al patto con il Fmi. Ma dobbiamo ancora vedere cosa c’è nel pacchetto». Certo, se ci fosse una bomba a orologeria - e in molti ne sentono il ticchettio - più tardi si aprirà il pacchetto, peggio sarà. A due anni dalla rivoluzione la misura del malcontento è di nuovo colma. Il turismo è crollato, così le esportazioni e gli investimenti stranieri. Un egiziano su quattro vive con un dollaro al giorno, quasi il doppio usufruisce di pane e gas sussidiato (al quale lo Stato destina il 28 per cento della spesa pubblica). «Venti pagnotte costano un ghiné (dieci centesimi di euro, ndr), la gente fa la coda per due, anche tre ore sotto il sole», spiega un fornaio. «Nella zona di piazza Tahrir ci sono sette panetterie, sempre affollatissime. Se chiudessimo, scoppierebbe un’altra rivoluzione». La pensano così anche i black bloc. A piazza Tahrir, Omar è di casa. «Date un’occhiata qua attorno», dice. «Qui doveva sorgere il nuovo Egitto, invece non c’è altro che rabbia e miseria». Case abbandonate, immondizia ovunque, senzatetto e baby gang che accendono falò tra le tende degli indignados. Una rissa può scoppiare per un niente. Durante le manifestazioni, i ragazzini si arrampicano sui blocchi di cemento che murano la piazza a sud, a protezione dei palazzi del centro. Lanciano sassi contro la polizia. Dopo arrivano loro, con i passamontagna. «I fratelli musulmani ci hanno rubato la rivoluzione», dice Omar. «Non ci resta che usare le maniere forti». Ed è proprio qui, in piazza Tahrir, che per Omar e i suoi compagni tutto è iniziato. «Molto molto prima di quanto non dicano i mezzi di informazione», spiega. «È successo circa un anno fa, proprio durante una manifestazione. L’idea di prendere il no- left 23 febbraio 2013 me di black bloc l’hanno avuta degli egiziani rientrati dall’Europa. Ma non siamo anarchici e non abbiamo niente a che fare con i gruppi già esistenti nel Vecchio continente». Un anno dopo, al secondo anniversario della rivoluzione, sono usciti allo scoperto, con un video su youtube. «I Fratelli musulmani ci hanno rubato la rivoluzione. La violenza della polizia, la sensazione che si sia arrivati a un punto di non ritorno: è questo che ci ha spinti al passo». Ora, spiega Omar, l’obiettivo è «portare il Paese a un cortocircuito, fermare il corso normale delle cose, che normale non è». Lui si è spinto oltre la cortina di segretezza, perché «non facciamo niente di male. Dicono che siamo criminali, ma lottiamo per il bene dell’Egitto». Nelle notti scorse il gruppo di Omar ha partecipato a una “azione” contro l’hotel Semiramis, dietro piazza Tahrir. Molotov e pietre, colpi di pistola esplosi in aria. «Oggi in Egitto tutti hanno un’arma. Ma al contrario della polizia, noi non ammazzeremo nessuno. Anche se ci stiamo organizzando per alzare il livello dello scontro», continua Omar. E indica un edificio distrutto dalle fiamme, a pochi passi dal Semiramis. Una villa storica in stile coloniale, metà Ottocento. “Perché”, verrebbe da chiedere, ma non è il caso. Fuori dall’hotel c’è un chiosco di souvenir. «Siamo rovinati, ormai perfino gli egiziani hanno paura di venire in questa piazza, lamenta il negoziante e un passante gli fa eco: «Viene da rimpiangere Mubarak». Intanto a ogni azione i black bloc guadagnano nuovi adepti: «Al Cairo ormai i gruppi sono più di trecento, ognuno composto da una trentina di persone», conta Omar. «Altri ancora sono nati a Port Said, Ismailia, Suez, Alessandria». Basta con le chiacchiere. Omar ha fretta: deve fiondarsi al palazzo presidenziale per un’azione. La notte torna a piazza Tahrir, alle quattro del mattino, con due compagni dal volto coperto. Mentre ci riconsegna il passaporto (preso in ostaggio prima dell’intervista) avverte: «Non avrei dovuto parlare. Gli altri non sono contenti». Ma lui è tranquillo. «In Egitto non siamo noi il problema. Io guadagno tre dollari al giorno e ho fatto la rivoluzione. Ma la polizia, i militari sono violenti come prima, la gente fa la fame più di prima. Per cambiare le cose, bisogna agire», dice. E se ne va come era venuto. Inghiottito dall’incerta notte di piazza Tahrir. Nella pagina accanto: Il Cairo, un ragazzo fugge dalle cariche della polizia. Nelle pagine 38 e 39, dall’alto in senso orario: manifestanti si allontanano dopo un attacco all’Hotel Semiramis; piazza Tahrir, si prepara una barricata a protezione della gente. Sullo sfondo si intravede il muro che cinge la piazza a sud e che isola i manifestanti dai quartieri ricchi; bandiere egiziane sventolano sul viale che conduce al palazzo presidenziale; scontri tra manifestanti e polizia; ragazzi trascinano un loro compagno ferito fuori dalla zona degli scontri. Nelle pagine di apertura, un altro momento degli scontri del 27 gennaio 41 mondo left.it I figli del Piano Marshall sono costretti a cedere il passo agli asiatici. L’Ocse non è più il club dei ricchi e i suoi appelli a rafforzare un mercato libero ma equo cadono inascoltati. Al suo posto trionfa il G20, dove non ci sono regole ma tutti si sentono rappresentati Il naufragio dell’Occidente di Cecilia Tosi C’ era una volta l’Occidente opulento, riunito in un’organizzazione chiamata Ocse e ribattezzata “club dei ricchi”, che dettava le regole dell’economia ispirandosi ai principi del libero commercio. Oggi quel club c’è ancora, ma non se la passa per niente bene. Per la prima volta in quattro anni i 34 Paesi che ne fanno parte hanno registrato una contrazione economica dello 0,2 per cento. Sono dati dell’ultimo trimestre del 2012, che vedono scendere soprattutto la Ue - dove il pil è diminuito di mezzo punto percentuale - mentre il Canada è l’unico Paese a crescere. Il peggiore, purtroppo, è l’Italia, che dalla fine del 2011 a quella del 2012 ha subìto una contrazione del 2.7 per cento. L’Ocse non fa una piega: dal suo quartier generale di Parigi elabora ricette per 42 la ripresa e organizza giornate di studio sulla competitività e trasparenza. Ma non è più qui che si decidono le sorti dell’economia globale, non sarà più l’Occidente a fare la differenza. L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico riunisce tutti gli amici degli americani - o almeno quelli rispettabili -, gli stessi che in tutti questi anni hanno amato definirsi “occidentali” dall’alto del loro Pil e delle loro istituzioni democratiche. Quando è nata, nel 1948, nel nome non aveva lo sviluppo ma l’Europa, il continente dove era destinata a operare per gestire i fondi del Piano Marshall. Ci entrarono tutti quelli che decisero di stare a ovest della cortina, compresa la Turchia. Ma i tempi passano e con il crollo del Muro sono 23 febbraio 2013 left mondo left.it Da quando la Grande Crisi è cominciata i Paesi emergenti hanno approfittato per guadagnare spazio, traducendo la potenza economica in forza politica. L’hanno fatto senza tanti clamori, evitando di mandare al tappeto l’avversario e limitandosi ad aggiungere la loro sedia al tavolo delle decisioni. È così che il G7 è diventato G8 e poi G20, accogliendo giganti come la Cina, l’India, il Brasile. E nonostante che organizzazioni economiche dei ricchi esistessero di già - primi fra tutti il Fondo monetario internazionale e il Wto - il G20 ha guadagnato potere decisionale, diventando l’appuntamento più importante per lanciare impegni economici globali. Peccato che spesso rimangano solo impegni, perché il G20 non è un’organizzazione strutturata, non ha un segretariato né una sede fissa, nessuno che controlli che i membri rispettino le promesse. Sarà questo che piace agli Stati, che vogliono occupare una poltrona in tutti i consessi internazionali, ma poi preferiscono esprimersi là dove non rischiano punizioni. È così che le vecchie organizzazioni, ancora espressione del sogno mercatista americano, arrancano. Il Wto ha ammesso Cina e Russia anche se non rispettavano in pieno gli standard previsti, e il rappresentante dell’Ocse è appena andato a Mosca e ha approfittato proprio di un incontro del G20 per promettere a Putin che la Russia entrerà nel club da lui presieduto, con tempi più rapidi del previsto. «Dobbiamo includerli perché siamo un’organizzazione globale», ha dichiarato il segretario generale Gurria. «E noi forniamo un marchio che garantisce gi investitori dai rischi». Sarà, ma attualmente ad attrarre il maggior numero di investimenti diretti sono i Paesi asiatici, che con l’Ocse non hanno niente a che fare. Secondo un rapporto elaborato alla fine del 2012 dal think tank A.T. Kearney, i Paesi che hanno l’indice più alto di fiducia da parte degli investitori stranieri sono Cina, India e Brasile. Dopo, vengono Stati left 23 febbraio 2013 Uniti, Germania e Australia. Il G20 ha 14 membri in meno dell’Ocse e 138 in meno del Wto, eppure ai Paesi in via di sviluppo piace di più, perché si sentono più rappresentati, meno obbligati a piegare la testa sotto regole imposte da altri. Eppure quelle regole vengono infrante soprattutto da chi le ha sottoscritte per prime, a giudicare dalla sentenze del panel che risolve le controversie all’interno del Wto: sono tre attualmente le richieste di imporre sanzioni a chi ha violato i principi del libero commercio, due contro gli Usa e una contro la Ue. Ma se siamo nell’era delle organizzazioni liquide anche l’economia globale si adatterà, seguendo la filosofia del fai un po’ come ti pare e la logica del profitto, privata anche di quelle poche regole che finora ha tentato di darsi. Da una parte resta l’Ocse, che cerca di fornire esempi di buone pratiche stilando l’elenco dei Paesi più virtuosi in competitività: i primi posti li hanno conquistati Svizzera, Singapore, Finlandia, Svezia e Olanda. Dall’altra ci sono gli investitori internazionali, che preferiscono andare sul sicuro e fare stime sui Paesi che rimpolperanno maggiormente il loro pil nel prossimo futuro. Secondo le stime del Fondo monetario internazionale, dei 20 Paesi che avranno il maggior tasso di crescita aggregato tra il 2013 e il 2017 dieci saranno subsahariani, 8 in Asia e 2 nel mondo arabo. Ci sono Libia, Iraq, Mongolia e ai primi posti Sao Tomè, Guinea e Sud Sudan. Ad accomunarli, ricchezze petrolifere e minerarie, merci che non hanno nessun bisogno di essere innovate, ma che alimentano ancora la crescita globale. Quella che l’Occidente non trainerà più. In basso, i capi di Stato e di governo dei Paesi del G20 nel 2012 in Messico. Nella pagina accanto, un manifesto propagandistico del Piano Marshall Gli investimenti vanno in Cina e in India. Eppure Svizzera e Scandinavia sono più competitive © Kaster/ap/lapresse entrati nell’Ocse anche Paesi orientali e latinoamericani, fedeli alleati di Washington come Polonia e Cile. Qualcuno l’ha definita liberista ma l’Ocse, cresciuta con i soldi Usa, ha il contributo pubblico nel dna e cerca da sempre un compromesso tra capitalismo e equità. L’ultimo global forum che ha indetto - a Parigi, dal 28 febbraio al 1 marzo - si appella alla competitività e all’innovazione per ridurre la povertà. Purtroppo, però, la prima a finire schiacciata dalla concorrenza sarà lei. 43 newsglobal mondo left.it © Riofrio/ap/lapresse 882.300 Il trionfo del bolivarismo Le elezioni del 18 febbraio in Ecuador hanno consegnato la maggioranza assoluta al presidente uscente Rafael Correa, trionfatore con il 56,8 per cento dei consensi. Il suo diretto avversario, il banchiere Guillermo Lasso, conquista appena il 23,7 per cento. Correa, uno dei leader bolivariani del Continente sudamericano, viene considerato l’erede “morale” di Hugo Chavez. LONDRa In milioni di euro è l’ammontare del debito pubblico spagnolo secondo i dati del Banco de España. In un solo anno, quello del governo Rajoy, il debito è cresciuto di 146mila milioni di euro, cioè oltre 400 milioni in più al giorno. Il murales rubato I residenti di Wood Green ci si erano affezionati. Nel loro quartiere, uno dei più anonimi di Londra nord, non c’è molto di cui andare fieri e quel disegno sul muro in Whymark Avenue dava un po’ di lustro alla comunità. Peccato che l’opera di Bansky sia scomparsa improvvisamente a metà febbraio. Contemporaneamente un murales identico è stato messo in vendita a Miami, per la modica cifra di 452mila sterline (circa 700mila euro). La casa d’aste americana Fine Art Auctions sostiene che non si tratti della stessa opera, e che il murales in vendita sia stato offerto da un collezionista. Ma il consigliere di quartiere Alan Strickland è furioso: «L’opera ci era stata donata e tutti venivano a vederla. Adesso c’è molta rabbia e lanceremo una campagna per riavere il nostro Bansky». Le 100 principali aziende al mondo per vendita di armi Fonte: Stockholm international peace research institute Top 100 list 44 23 febbraio 2013 left mondo left.it Alba dorata aprirà una succursale in Australia. Il partito neonazista greco, forte del sostegno ricevuto in patria, ha deciso di allargare i suoi orizzonti e rivolgersi agli emigrati ellenici di Melbourne. Non si sa con quale messaggio, ma nel frattempo ha ricevuto il plauso dell’Australia first party, partito dell’estrema destra australiana. «Qui la posizione ufficiale della comunità greca è a favore del multiculturalismo e della globalizzazione», spiega il leader Jim Salim. «Siamo sicuri che Alba dorata cambierà queste parole d’ordine, e questo sarà un bene per noi nazionalisti australiani. Andremo di sicuro d’accordo». L’Australia first party prende tra lo 0,6 e lo 0,8 per cento dei voti. SALISBURGO © ap/lapresse L’alba dorata di melbourne «È tempo che un tribunale, e in particolare la Corte penale internazionale, cominci a occuparsi dei crimini commessi in Siria» Carla Del Ponte, ex procuratore capo della Corte per la ex Jugoslavia e attuale membro della commissione di inchiesta Onu sulla Siria Liberate le strade dei soldi Il Partito popolare austriaco (Övp) ci riprova. Dopo che la Corte costituzionale ha bocciato nell’estate 2012 il “divieto assoluto di accattonaggio” in vigore a Salisburgo, i conservatori tentano di reintrodurlo sfruttando una norma contenuta nell’attuale legge. Nella cittadina austriaca dalla fine dello scorso anno è proibito chiedere la carità in maniera molesta, consentire ai minori di elemosinare, o farlo in maniera “organizzata”. L’or- dinanza prevede però che la mendicità possa essere vietata anche quando chi la pratica ostacola il passaggio delle persone, come accade in alcune vie affollate. Basandosi su questa norma, l’Övp ha presentato una serie di richieste di interdizione che riguardano praticamente tutto lo spazio urbano. Se ne discuterà nel prossimo consiglio comunale del 20 marzo: a favore si è detto il Fpö, mentre sono possibilisti - solo per le zone turistiche - i socialdemocratici dello Spö. Gli unici che si sono dichiarati completamente contrari sono i Verdi della Salzburger Bürgerliste. © yourdon/flickr left 23 febbraio 2013 © infografica martina fiore Più che la buona volontà è la crisi a mettere un freno all’acquisto di armi. Nel 2011, secondo i dati del Sipri diffusi il 18 febbraio, le aziende del settore hanno registrato un calo di incassi del 5 per cento, vendendo comunque armi per una cifra superiore ai 400mila milioni di dollari. Resistono alle ristrettezze economiche le big del settore: la statunitense Lockheed Martin aumenta, al pari della Boeing, mentre cede il secondo posto la britannica Bae system. Le aziende Usa dominano la classifica Top 100 sia in termini numerici (44 sul totale, più 3 sussidiarie) che di vendite, con oltre il 60 per cento del volume totale di affari. Assente la Cina per indisponibilità dei dati. 45 Gabriele Basilico ha cambiato il modo di guardare il paesaggio e la città, disegnando spazi urbani visionari. Il “misuratore di spazi”, come amava definirsi l’artista recentemente scomparso, dal 1982 non ha mai smesso di dare forma alla sua visione del mondo, scovandola nella Milano industriale, nella Beirut del dopoguerra, nella Francia in trasformazione e nei mille volti della Grande Mela. Per ricordarlo proponiamo qui un suo scatto metafisico di Milano nel 1978 tratto da Architetture, città, visioni di Gabriele Basilico (Bruno Mondadori 2007). flop di Freud e musei di arte e Cescon. 48Ildell’organicismo 52Sos contemporanea 56Andò Viva l’impegno cultura scienza left.it 23 febbraio 2013 left scienza left.it La mente LIBERATA di Gianfranco De Simone Il fallimento di Freud e della sua ditta hanno spalancato le porte alla psichiatria organicista. Che ha cercato l’identità nel Dsm, il manuale diagnostico degli psichiatri americani, in cui si inventano malattie inesistenti per dare più farmaci. E non ci si occupa di inconscio «M a c’è una psicoanalisi senza Freud?» chiedeva la giornalista di Repubblica (il 18/12/12) al neo presidente della Società psicoanalitica italiana (Spi), Nino Ferro che non ha avuto dubbi: «La psicoanalisi non può fermarsi a Freud, servono idee diverse altrimenti diventa un culto religioso». In un dibattito di due anni fa era stato ancora più esplicito: «La teoria dell’inconscio rimosso porta a quelle analisi molto chiesastiche: il famoso analista muto per sedute e sedute (...), a quelle analisi noiose in cui già si sa che ci deve essere la scena primaria e la castrazione e l’angoscia di questo e di quello. Queste analisi già sapute, col libretto come nei viaggi organizzati». «Io amo - continua Ferro - l’analisi che permette all’analista di staccarsi dal suo passato e volare verso il nuovo e sconosciuto futuro. Perché ci piacciono i Ris? A me piacciono, e aspetto sempre la puntata successiva». Il parricidio minacciato da Ferro aveva provocato le reazioni di quel mondo analitico ancora convinto che “Non possiamo non dirci freudiani”. Mentre si consumava la polemica interna alla Spi tra preti e spretati - resa più mistica dalle rivelazioni di Françoise Dolto, sempre su Repubblica, secondo cui Cristo parla il linguaggio della psicoanalisi - è stato pubblicato da Boringhieri un documentatissimo saggio di due autorevoli storici di discipline della psiche (M. Borch-Jacobsen e S. Shandasani) dal titolo Dossier Freud. left 23 febbraio 2013 L’invenzione della leggenda psicoanalitica. Il libro è un’inchiesta-verità che documenta nei dettagli tutti i passaggi della leggenda freudiana costruita da Freud con i discepoli e poi dai familiari, delegittimando il dissenso, falsificando la storia di Anna O e i casi clinici, occultando documenti, secretando gli archivi di Freud. Costui ha sistematicamente perseguito la canonizzazione della sua figura di eroe solitario in lotta contro il mondo scientifico a difesa dell’originalità delle sue idee. Il libro passa in rassegna, numerose fonti che confermano la tendenza confessata da Freud ad un collega: «Ho una netta propensione al plagiarismo». Idee come libido, sessualità infantile, zone erogene erano acquisite dalla sessuologia post darwiniana dell’epoca, senza essere demonizzate. E Freud non cita Meynert, suo insegnante che aveva introdotto nel suo lavoro il termine e il concetto di rimozione. Non dice una parola su quella parte dell’opera di Scherner, teorico del simbolismo onirico, che anticipava aspetti importanti della teoria freudiana sui sogni, come l’idea che i sogni sono un appagamento mascherato del desiderio sessuale. In apertura, René Magritte, L’uomo con bombetta (1964). Sopra, la copertina di Dossier Freud, di M. Borch-Jacobsen e S. Shandasani, uscito di recente per Bollati Boringhieri Freud non aveva interesse per la psichiatria, tuttavia all’inizio aveva spinto Bleuler a sperimentare la psicoanalisi nella sua clinica, ma sui pazienti psicotici era stata un fallimento come già l’ipnosi e la suggestione. Freud non accet49 scienza La copertina del nuovo Dsm 5, in uscita a maggio left.it tava le critiche né il pubblico dibattito, anzi aveva chiesto a Bleuler di rompere con alcuni psichiatri che avevano criticato la psicoanalisi. Il rapporto fra i due si incrinò definitivamente dopo che Freud nel 1910, vista la migliore accoglienza negli Stati Uniti, fondò la Associazione psicoanalitica internazionale (Ipa) e iniziò a sparare a zero su tutti i critici, psichiatri e psicologi. La natura dell’organizzazione fu chiara già l’anno dopo nella lettera di Bleuler a Freud: «I vari “chi non è con noi è contro di noi” sono necessari alle comunità religiose e possono tornare utili ai partiti politici, ma penso che in campo scientifico siano dannosi». Da lì era già chiaro l’inizio della completa privatizzazione della psicoanalisi, con la rinuncia al confronto con il mondo scientifico, la posizione antipsichiatrica, per propagarsi al suo interno per affiliazione. Secondo gli autori del libro «il successo della psicoanalisi non fu dovuto alla capacità di convincere gli avversari, ma alla forma unica di trasmissione da essa inaugurata (...). La psicoanalisi divenne a tutti gli effetti la ditta di Freud, e si organizzò un business internazionale basato sul franchising». Cento anni dopo anche il marchio è in crisi, non vende più come prima, perché la leggenda non tiene, anzi per qualcuno, abbiamo visto all’inizio è un peso di cui liberarsi. Ma, concludono gli autori: «Così non ha molto senso “uccidere Freud” (...). Una simile operazione servirebbe solo a continuare a dare vita e identità alla psicoanalisi, mentre si potrebbe dire che questa, in un certo senso, non esiste più o piuttosto non è mai esistita». Il Dsm 5 considera patologia soffrire per la morte di una persona cara a distanza di due settimane, e sanità mentale quella di Breivik Qui il discorso potrebbe essere chiuso se non ci fossero le molte conseguenze sulle quali riflettere. Se è vero che Freud è stato adorato per cento anni dagli affiliati, è altrettanto vero che è stato tenuto sul piedistallo anche da una cultura che ha voluto ignorare studi rigorosi come quello di Ellenberger (Freud non ha scoperto nulla) e di Sulloway (Freud non ha mai abbandonato le teorie biologiche per una psicologica). Così la psicoanalisi ha seguito un processo di americanizzazione che ne ha prolungato la sopravvivenza 50 diventando uno strumento di conformistica integrazione nella società tramite la psicologia dell’Io freudiana, che teorizzava l’adattamento, rafforzare l’Io cosciente per controllare la bestia interna. Il fallimento terapeutico dell’approccio psicoanalitico tentato nella cura delle psicosi ha portato in Usa allo sfaldamento di quella psichiatria che cercava un’identità nella psicoterapia seguendo l’intuizione che per curare la malattia mentale bisognava andare nella conoscenza del pensiero senza coscienza. In questo modo si sono spalancate le porte alla psichiatria organicista che ha cercato l’identità nel Dsm, il manuale diagnostico degli psichiatri americani. In pochi decenni si è passa23 febbraio 2013 left scienza left.it ti dall’adattamento al contenimento della violenza “vista” nella biologia di una nascita perversa, con diagnosi inventate per estendere l’uso di psicofarmaci. A maggio uscirà la quinta versione del Dsm, in cui sono state inventate nuove diagnosi di disturbi psichici estesi a condizioni di normalità come il lutto, la vivacità dei bambini, la passione per il gioco e per internet, la ribellione a certe regole sociali. Tutto ciò che nella vita degli uomini implica la presenza di emozioni, sentimenti, affetti rischia di essere tradotto in sintomo psichiatrico. L’idea di normalità che si fa strada nel Dsm 5 è quella di un individuo da svuotare delle sue passioni. S’inventano nuove malattie inesistenti e si eliminano malattie psichiatriche acclarate, come la schizofrenia paranoide. Per cui il Dsm considera patologia continuare a soffrire per la morte di una persona cara a distanza di due settimane, e sanità mentale quella di Anders Breivik. Il fallimento del Dsm e della psichiatria biologica, dichiarato dagli stessi capi “pentiti” delle passate edizioni, è duplice: non essere riusciti a formulare quasi nessuna diagnosi valida; non aver dimostrato la supposta origine organica della malattia mentale, tanto da dover parlare ancora di disordine. Lo stesso presidente degli psichiatri americani ha confessato: «Siamo diventati semplici impiegati dell’industria farmaceutica» che inventano malattie per dare più farmaci. L’Ipa definisce la psicoanalisi: «Una tecnica psicoterapeutica basata sulle scoperte psicologiche di Freud». Abbiamo visto quali sono queste “scoperte”. Non l’interpretazione dei sogni, non il narcisismo primario né il continuum tra feto e neonato smentiti dalla neonatologia e dal- left 23 febbraio 2013 la teoria della nascita di M. Fagioli. Una tecnica basata sull’invenzione di Freud della nascita perversa di un neonato narcisista, simbiotico, edipico, sull’invenzione di una malattia, l’isteria, come legata alla rimozione del conflitto sessuale, delle libere associazioni come guida per arrivare all’inconscio. Ma che cosa resta di questo inconscio una volta che si deve - come denuncia Ferro - rinunciare a Freud per non essere sepolti sotto le macerie? La maggior parte degli psicoanalisti, in linea con l’orientamento americano, sostiene che «la psicoanalisi può sopravvivere se mantiene più solidi legami con la biologia, le neuroscienze e la psicologia cognitiva» (Eagle). In fondo, si aggrappa al punto da cui lo stesso Freud non si era mai staccato. In uno scritto del 1938 aveva ribadito con chiarezza: «La psicoanalisi reputa che i processi concomitanti di natura somatica costituiscono il vero e proprio psichico (...). Lo psichico è in sé inconscio, i processi di cui si occupa la psicoanalisi sono in sé inconoscibili». Sotto la coscienza quindi c’è il biologico, non c’è nessun pensiero non cosciente. Al più, c’è il sé sinaptico, c’è l’inconscio delle neuroscienze: il feto di pecora sognante! Controcorrente, c’è una ricerca collettiva sul pensiero senza coscienza A questo punto, ci aspetta un futuro senza psichiatria e senza psicoterapeuti che si occupino di inconscio? Non si direbbe, se si prende in considerazione la presenza, controcorrente nel panorama internazionale, di un movimento di psichiatri e psicoterapeuti che partendo da una nuova posizione teorica sulla realtà psichica, segue una metodologia di cura della malattia della mente che include il rapporto inconscio e l’interpretazione dei sogni. E senza tralasciare le acquisizioni della psicopatologia, cerca di arrivare all’origine della malattia legata ai rapporti che alterano la normale nascita umana. Questo patrimonio di ricerca e conoscenza sul pensiero senza coscienza investe la possibilità stessa di creare una identità della psichiatria, che è tale solo se trova il suo oggetto: la malattia che non si origina nel corpo. 51 cultura left.it A rischio la sopravvivenza del museo piemontese, un luogo d’avanguardia, frutto di un lungimirante progetto di sinistra che dal 1984 metteva in connessione arte e ricerca. Mentre crescono le difficoltà anche per altri spazi pubblici del contemporaneo Rivoli di sangue di Simona Maggiorelli P er oltre vent’anni il Castello di Rivoli è stato il più importante museo di arte contemporanea, l’unico, pionieristico, polo italiano del settore. L’unico anche ad avere una importante collezione e ad entrare a pieno titolo nel circuito internazionale. Aperto nel 1984 in una elegante residenza sabauda alle porte di Torino, Rivoli è una istituzione di livello europeo, finanziata per l’80 per cento dalla Regione e dalla Fondazione Crt ed ha avuto un ruolo d’avanguardia. «Ma oggi - scrive Il Giornale dell’arte - versa in una crisi profonda». A causa della difficile congiuntura che l’Italia sta attraversando, dei tagli alla cultura e ai trasferimenti agli enti locali ma anche «per una serie di scelte sbagliate che ne hanno compromesso credibilità e capacità d’azione», al punto che la rivista torinese denuncia un «suicidio in corso». E mentre sta per scadere il mandato della direttrice Beatrice Merz (il condirettore Andrea Bellini si era dimesso sei mesi fa) Rivoli si trova senza guida e senza un futuro certo. Lo scrivono i lavoratori del museo in un duro comunicato in cui si legge che oggi «questo patrimonio pubblico rischia di andare perduto a causa della mancanza di chiare stra- 52 tegie politiche e amministrative». Alla sbarra, in primis, il presidente del Consiglio di amministrazione (Cda), Giovanni Minoli, accusato di assenza di strategia e di disinteresse. «In 28 anni di storia della nostra istituzione, primo esempio in Italia di gestione pubblico privata sono state investite ingenti risorse che hanno consentito la crescita a livello internazionale del museo - scrivono ancora i lavoratori di Rivoli - mentre i problemi già evidenziati nel 2011 sono rimasti di fatto senza soluzione». Fra i quali l’inadeguato riconoscimento delle figure professionali e l’assenza di regolamentazione dei contratti. Intanto, accanto alla Galleria civica (Gam) diretta da Danilo Eccher e stretta in spazi inadeguati conquista la ribalta Artissima, la fiera d’arte contemporanea e l’assessore alla Cultura della Regione Piemonte Michele Coppola annuncia l’idea di far confluire le tre differenti realtà in un’unica super fondazione. Un’ipotesi che suscita molti dubbi negli esperti del contemporaneo. «Rivoli è già una fondazione e, nell’ipotesi di una super fondazione, si aprirebbero problemi giuridici. Se ne dovrebbe quanto meno riscrivere lo statuto» nota Michele Dantini docente di Storia 23 febbraio 2013 left © Scavolini/Lapresse dell’arte contemporanea all’università Piemonte orientale. «Ma soprattutto non si può trascurare che Rivoli, in quanto museo, ha una missione scientifica, mentre Artissima ha, per definizione, una finalità commerciale. E in questa fase di grande competizione internazionale - dice Dantini - difficilmente si può immaginare che Artissima possa determinare profitto». Intanto, mentre per il 2 marzo i lavoratori lanciano RivoliGotLove, una giornata fino a notte inoltrata di presidio a sostegno delle attività del museo, l’associazione Amaci, che riunisce 25 musei del contemporaneo in Italia, in una nota denuncia «l’estrema gravità del comportamento del Cda del museo di Rivoli che, alla scadenza del mandato del direttore, si è dimostrato impreparato a garantire la continuità operativa e scientifica dell’istituzione che governa». E chiede alle amministrazioni pubbliche che si facciano garanti dell’autonomia storica, culturale e operativa di Rivoli. Richiesta fin qui caduta nel vuoto. Il silenzio del ministro uscente dei beni culturali Lorenzo Ornaghi è stato assordante rivela Gianfranco Maraniello, direttore del MamBo di Bologna e membro del direttivo dell’Amaci: «Che left 23 febbraio 2013 il ministro Ornaghi, nonostante le nostre ripetute richieste, non abbia mai voluto incontrarci mi sembra pazzesco, data la missione pubblica che hanno i musei del contemporaneo, che non sono aziende qualsiasi». Senza contare che oggi sono più di uno i musei del contemporaneo in Italia a versare in gravi difficoltà. A cominciare dal Museo Madre, fino a pochi mesi fa a rischio chiusura. «A Napoli abbiamo assistito a un lungo braccio di ferro fra l’insediamento di una nuova amministrazione comunale e un direttore il cui mandato era molto legato alla precedente gestione» commenta Marianello stigmatizzando «l’invadenza della politica, in Italia, non solo nei musei, ma in tutta la sfera culturale». E il pensiero corre al MAXXI dove al termine del commissariamento il ministro Ornaghi, a sorpresa, ha nominato Giovanna Melandri alla presidenza. Una nomina molto discussa e che, indirettamente, ci riporta a Rivoli dacché Melandri è cugina di Giovanni Minoli, il cui genero, Salvo Nastasi, è il capo di gabinetto del ministro Ornaghi. E se ingerenza della politica non competente e nepotismo sono faccende annose nelle istituzioni italiane, in questo caso, prosegue Dantini bisogna anche domandarsi quali e quante siano le responsabilità di chi gestisce i musei nel non sapersi conquistare la fiducia. «L’idea di istituire un museo di arte contemporanea in una sede così prestigiosa come Rivoli, dotandolo di risorse storicamente, fu un progetto politico di cui il Pci poteva andare fiero. Fu un chiaro progetto di sinistra - sottolinea Dantini - creare un museo d’avanguardia in una regione importante nel sistema industriale avanzato, un museo che stabilisse una connessione fra il mondo dell’arte e della ricerca». Ma oggi quel patto di fiducia fra politica e mondo dell’arte contemporanea sembra essersi incrinato, per ignoranza da parte della classe politica, ma non solo. «In un momento come questo in cui ministri come Ornaghi hanno un interesse controegemonico ad impossessarsi delle istituzioni del laicismo metropolitano - spiega Dantini - dobbiamo avere l’autorevolezza scientifica per contrastare chi diffida. Dobbiamo uscire dalla fragilità autoreferenziale, formulando proposte che riattivino il valore pubblico e sociale dei musei del contemporaneo come luoghi che erogano servizi alla scuola, dove si fa ricerca, che accendono la curiosità del pubblico, favorendo il pensiero critico e l’integrazione culturale». ©Lapresse cultura left.it Giovanni Minoli presidente del Castello di Rivoli. Sotto Giovanna Melandri, presidente del MAXXI di Roma. In alto in questa pagina un’immagine del MAXXI. Nella pagina a fianco, in apertura, il Castello di Rivoli 53 trasformazione Massimo Fagioli, psichiatra La vita inizia con la formazione di un volto umano universale e non individuale MASSA anonima, incontrollabile F orse è un tempo lontano, forse il ricordo perde la vivacità del suo colore. Ma, certamente, la memoria che, nel silenzio parla, invade prepotentemente la mente. Forse c’è un turbamento che svanisce presto perché la certezza dell’identità umana giunge alla mano che scrive. Non c’è più scissione tra coscienza e non coscienza. L’una sparisce e passa ad essere pensiero diverso in cui la mente fa paesaggi e disegni belli che, immobili come se fossero fotografie della realtà materiale, in verità parlano con il loro movimento ed i loro colori. Diventano voce che racconta, descrive chiedendo all’altro essere umano la voce che dà la coscienza che non è soltanto sensibilità, intuizione e belato. L’essere umano ha la mano con cinque dita e, oltre Marx che ha detto che fabbrica strumenti per il proprio lavoro, può disegnare e scrivere parole. Al risveglio sa distinguere le immagini oniriche dai ricordi coscienti e, senza rendersi conto, calpesta il pavimento che lo porta in cucina per fare il caffè. Pensa. Ed il linguaggio articolato con cui distingue il rapporto con la realtà materiale che fa il ricordo cosciente, non è uguale a quello che “ricorda” era nel sogno. E dissi spesso che, nel sogno, ci sono soltanto immagini. Anche la parola è immagine e non ripetizione del linguaggio imparato in stato di coscienza. Ricordo, ma forse è memoria che parla. Stavo a passeggiare nel cortile, mi fermavo a guardare. Feci diventare le file di persone che entravano nello studio tre linee, una diversa dall’altra. Lo dissi... l’essere umano creò la linea. Ora penso che stavo realizzando un tuffo nel profondo della mente umana che doveva condurre alla verbalizzazione del fenomeno del non, dell’assenza delle manifestazioni corporee di vita. Dopo lo stimolo luminoso, prima del respiro e del vagito. Quando ancora la circolazione è, in buona parte, placentare. Volevo sapere come e perché la vita inizia con l’apparenza della morte. Sapevo che non era la verità. Ora non vedo più le tre linee del movimento dei corpi che si spostano nello spazio. Il freddo dell’inverno mi ha imposto di entrare subito e sedermi sulla poltroncina. E presto realizzai che, stando seduto con lo stanzone vuoto, vivevo venti o cinque minuti di solitudine senza ricordare o sperare che vengano altri. E la piccola parola, scelta per misurare il tempo sempre sfuggente, venti, chiama quello di anni fa. Preso dallo studio dell’incomprensibile movimento della nascita umana giunsi, forse per la superbia di Lucifero, a voler comprendere l’inerzia del corpo, il silenzio del neonato per i primi secondi, dopo che è uscito dal ventre materno. E, come sempre avevo fatto, realizzai il rifiuto radicale dell’idea che la vita inizia con il respiro ed il vagito. Ovvero con un movimento percepibile dai sensi della coscienza. E volli comprendere ciò che mi chiedeva la ricerca iniziata più di cinquanta anni fa. Diceva che il pensiero e, pertanto, la vita umana iniziava con lo stimolo della luce. E, se il corpo nasce perché la sostanza cerebrale funziona, i tempi in cui è inerte e silenzioso, sono soltanto quelli del feto non nato. E allora diciamo ciò che vediamo e non udiamo chiede un pensiero che non è quello razionale che pensa soltanto dopo aver percepito con i sensi della coscienza. E dissi che la realtà biologica umana reagisce con una pulsione che non è di annullamento perché il feto ha una capacità di reagire che diventa vitalità. Ed ho dato un nome a questa fusione: fantasia di sparizione. E dissi: inconscio mare calmo, ovvero: memoria-fantasia dell’esperienza avuta. Forse non è un tempo lontano la mezz’ora in cui stavo nel cortile dello studio e vedevo le tre linee. Ora, in venti minuti vedo entrare, dalle porte aperte, gruppi di persone che non sono mai uguali l’una all’altra. Persone diverse, movimento diverso. E venne alla mente ciò che volevano insegnarmi, come verità scoperta dal cretino storico che aveva scritto: Psicologia delle masse e analisi dell’Io. L’essere umano, nella moltitudine, diventerebbe animale. Non è più razionale. Oltre al ricordo di certa “cultura” di sinistra che adorava L’uguaglianza tra tutti sta nell’inizio della vita 54 23 febbraio 2013 left left.it ed esaltava Freud, lo “scienziato” dalle idee fasciste, viene la memoria che non ho mai creduto che la verità dell’essere umano sia l’identità razionale che ripete il linguaggio articolato imparato. Non ho mai creduto che l’identità si realizza con il rapporto cannibalico con il padre e conseguente identificazione. Ho pensato sempre che identificarsi significa: separarsi, distinguersi da... . Non mi sono mai sottomesso al pensiero razionale, credendo che la persona umana si ha nell’anfimixi, ovvero nell’unione della testa dello spermatozoo con l’uovo che fa lo zigote. La prima cellula della realtà biologica umana. Ho sempre visto che credere a queste idee è assenza di rapporto interumano. È razionalità astratta senza la vitalità che spinge alla conoscenza dell’umano, che non è soltanto realtà biologica ma fusione della biologia con la realtà non materiale del pensiero. L’idea che l’identità razionale non ha mai avuto è il pensiero che la realtà non materiale emerge e diventa esistente dalla realtà biologica stessa. E la sua esistenza sparisce quando l’organismo biologico non funziona più. Non è pensabile, pertanto, credere in una esistenza non materiale fuori dall’essere umano che agisce e pensa come se fosse un essere umano. Scenderebbe nella realtà biologica e tornerebbe dove (?) nel suo luogo di origine alla morte dell’individuo. Devo così pensare che il rapporto con la realtà del corpo che si era ammalato mi ha condotto ad altri pensieri dopo quelli, profondissimi, della ricerca sull’inerzia ed il silenzio del neonato, quando esce dal corpo materno. Sembrava che avessimo raggiunto il non concepibile setting per la psicoterapia di gruppo basato sulla libertà. Nessun rapporto professionale, nessun contratto ed onorario, nessun appuntamento ed accordo. Nessun dato anagrafico, nessun indirizzo, nessun telefono. Lo nominammo, facendo un’immagine, “un incontro casuale per strada”. Ciascuno viene e va come vuole. Dissi, fin dall’inizio, che non avrei mai impedito a nessuno di fare pulsioni di annullamento, con delle regole. Ed ora dico: nessun controllo su nessuno. L’interpretazione, che svela il latente, dà conoscenza e cura. E venne l’immagine delle tre linee, diverse l’una dall’altra, che erano movimento e non soltanto spostamento di corpi nello spazio. Ho visto le linee perché il pensiero aveva ricreato il primo tempo della vita, la fantasia di sparizione verso il mondo umano razionale. E trenta minuti di spostamento del mio corpo passeggiando nel cortile, era quel momento in cui l’essere umano rifiuta la realtà del mondo creando la capacità di fare la linea che in natura non esiste. L’idea che la persona sia nella prima cellula dice che l’identità umana sta nel genoma che farebbe razze diverse. È una visione superficiale ed un pensiero anaffettivo quello che vede soltanto la realtà biologica. Non vede la creazione d’immagini interiori La malattia ed il freddo dell’inverno mi hanno tolto la possibilità di vedere tre linee. La capacità di immaginare è diventata la ricreazione del momento “prima”. Solo, seduto nella poltroncina, che non si annebbia più con il ricordo di quella in cui mi siedo, davanti alla scrivania per scrivere. Nulla si sovrappone alle cose ed ho davanti agli occhi soltanto la struttura lignea originale dello studio di psicoterapia. Non l’ho mai pensato e soltanto ora, nella solitudine di quando scrivo, la memoria mi parla dicendo: ricorda l’angoscia di tutti per il terrore della massa anonima incontrollabile. Così hanno sempre detto. Ma io, certamente, non ho creduto. Ed ora, senza vedere le persone che arrivano, resto calmo di fronte alle tre valanghe che, talvolta, riempirono di neve lo studio e volevano soffocarmi. Ma compresi che, volendo affermare che la capacità di immaginare non può vincere l’anaffettività degli esseri umani, dissero che volevano curarsi. Ma, evidentemente, non sapevano che avrei disegnato lo “scarabocchio”. E vedo che la capacità di immaginare faceva le tre linee che legavano lo scrivere dei tre giorni solitari, agli altri. Lo “scarabocchio” è la solitudine della propria nascita senza nome e il volto uguale per tutti. ...abbiamo ricreato l’uguaglianza della nascita... left 23 febbraio 2013 55 cultura left.it La politica, una vita in fuga di Camilla Bernacchioni L’attrice Michela Cescon e il regista Roberto Andò raccontano Viva la libertà, il film con Toni Servillo su crisi (e rinascita) di un leader dell’opposizione. L’autore: «La sinistra si è adeguata al nulla, ha assistito inerme al disastro. Ma non tutto è perduto» L a chiamano «fratellanza artistica» più che sodalizio. Una condivisione intellettuale prima di tutto, quella fra il regista e scrittore palermitano Roberto Andò e l’intraprendente ed eclettica attrice trevigiana Michela Cescon. Qualche anno fa si sono ritrovati a camminare sulla stessa strada e hanno scoperto reciproche affinità. Cescon è Anna, moglie di Enrico Oliveri (Toni Servillo) segretario del maggior partito di opposizione che scompare all’improvviso, nel nuovo film di Andò Viva la libertà (vedi di seguito la recensione di Morandini) tratto dal suo romanzo Il trono vuoto (Bompiani) Premio Campiello Opera Prima 2012. Intanto è ripresa la tournée di Leonilde, storia eccezionale di una donna normale con l’attrice nel 56 ruolo di Nilde Iotti per la regia dello stesso Andò. Il vostro sodalizio artistico va dal cinema al teatro: cosa vi ha colpito l’uno dell’altro? Michela Cescon. Ci siamo incontrati per la prima volta ne Il Dio della carneficina (2009) e non ci siamo più lasciati! Di Roberto ho assoluta stima e poi ogni volta che gli chiedo qualcosa mi sorprende sempre nella risposta. Roberto Andò. Michela è un’attrice eccentrica ma allo stesso tempo radicata in una grande tradizione. Ha intelligenza, sensibilità, è capace di mimetizzarsi, ha una sua autenticità a teatro. L’ho vista alla prova sia in un ruolo comico sia nei panni di Nilde Iotti e si è dimostrata capace di costruire un suo percorso senza cercare di addomesticare, 23 febbraio 2013 left cultura left.it Leonilde, storia di una grande donna © Lia PasqUalino Vita pubblica e privata s’intrecciano in Leonilde, storia eccezionale di una donna normale di Sergio Claudio Perroni in cui la poliedrica Michela Cescon veste i panni di Nilde Iotti, per la regia di Roberto Andò (che la dirige anche nel film Viva la libertà). Sul palcoscenico l’attrice lanciata da Primo Amore di Matteo Garrone incarna una donna che sente la politica come un compito civile alto in cui impegna tutta se stessa, senza rinunciare al suo essere donna in un’Italia ancora arretrata, che voleva le donne dietro ai fornelli, ma che aveva conosciuto anche lo straordinario impegno femminile nella lotta partigiana. Lo spettacolo Leonilde sarà in scena fino a domenica 24 febbraio al Teatro Franco Parenti di Milano, il 12 e 13 marzo al Teatro Bonci di Cesena e dal 21 al 23 marzo al Teatro delle Passioni di Modena. anzi coltivando, le sue peculiarità artistiche. Vi unisce anche la politica, al cinema con Viva la libertà e in teatro con Leonilde. Cescon. Fino a poco tempo fa mi ritenevo un’attrice con un suo impegno civile, non facendo politica attiva, ma scegliendo un testo piuttosto che un altro. E certo non avrei interpretato Nilde Iotti. Questo ruolo, di fatto, mi ha messo in crisi perché non volevo diventare una maschera di qualcos’altro. Non sopporto l’imitazione perché limita. Poi è arrivato il ruolo di Licia Pinelli in Romanzo di una strage di Giordana, quindi Anna in Viva la libertà, Leonilde... e la politica è entrata prepotentemente nel mio percorso. Forse perché adesso emerge l’esigenza da parte della mia generazione left 23 febbraio 2013 di fare i conti con il passato, che è un passato prossimo. Nilde Iotti, ad esempio, è morta nel 1999, eppure sembra che appartenga ad un’era lontana per il modo in cui viene trattata la politica, il senso di missione, di impegno. Andò. Oggi la politica è la vita che sfugge a se stessa. Ne Il trono vuoto e Viva la libertà si parla di questo e di crisi del potere, della politica e della sinistra. Non a caso il protagonista è un leader al culmine del fallimento che scompare e decide di ripartire dall’altro suo se stesso, il gemello. Certo il film è stata un’esperienza abbastanza spericolata ma sentivo che c’erano dei personaggi del libro che potevano prendere vita. La sinistra si è adeguata al nulla, ha assistito inerme al disastro, con il rischio di annullare la propria anima. Invece dovrebbe ritrovarla, non tutto è perduto. Un’attrice che ama mimetizzarsi e un autore affascinato dall’interiorità dei personaggi. Attrazione degli opposti? Cescon. Roberto è un intellettuale che spazia in più campi, quindi il confronto è molto aperto. Io poi sono un’attrice un po’ anomala, mi piace impegnarmi in cose differenti. Scappo spesso dal ruolo che mi dovrebbe competere. Ma sulla scena poi c’è intesa, Roberto mi dà libertà di movimento. Andò. Michela ha la capacità di sottrarre l’arte, di non mostrarla sempre. In tutti i personaggi che interpreta riesce a dare questo marchio di verità. Direi che tra noi è nata una sorta di fratellanza artistica. C’è il piacere di lavorare insieme, di collaborare e condividere. Autore e attore lavorano in modo diverso sulla parola. Che cosa rappresenta per voi? Cescon. Per me è fondamentale. Spesso per cercare l’intensità al cinema e a teatro ricorro alla scrittura. Nel film di Roberto per esempio c’è una scrittura che solo all’apparenza è semplice, naturale. In realtà è profonda e questo aiuta nella commozione. A volte basta solo una parola, un suono. Andò. La parola è il baricentro per uno come me che fa lo scrittore. Veniamo da anni d’avanguardia che è stata percorsa dall’idea di fare a meno della parola costruendo il teatro sulla fisicità. La mia sensazione è che il Novecento abbia riportato alla parola un certo grado di responsabilità, di riflessione. Sono attratto dalla parola perché è attraverso di essa che puoi intercettare anche il silenzio, il non detto. È un corpo a corpo con ciò che è invisibile e latente. Nella pagina a fianco, Michela Cescon nel film Viva la libertà di Roberto Andò. Sotto, il regista al lavoro sul set. Qui sopra, la locandina del film 57 puntocritico cultura left.it arte di Simona Maggiorelli Modì, tutto l’essenziale Alcune scene del film Viva la libertà di Roberto Andò con Toni Servillo cinema di Morando Morandini I leader gemelli F inalmente un film italiano d’autore serio ma spiritoso, intelligente, ma divertente che parla di una classe politica di sinistra con parole che la stessa classe sembra aver dimenticato. Si chiama Viva la libertà e ha per protagonista Toni Servillo nella doppia parte di Oliveri, capo dell’opposizione di sinistra (Bersani?) e del suo gemello Giovanni, che finisce in un centro di salute mentale e ha cambiato cognome (Ernani) per non danneggiarlo. Il quinto film di Roberto Andò che ha adattato con Angelo Pasquini un proprio romanzo e scritto nel 2012, cita un’intervista di Fellini: «Un gigante che oggi sarebbe indesiderato» e Brecht. «Le nostre parole d’ordine sono confuse. Una parte delle nostre parole le ha stravolte il nemico fino renderle irriconoscibili» (per lui il nemico era la tv). Aggredito da una donna - messa subito alla porta – che l’esorta a vergognarsi di quel che è e che fa, Enrico Oliveri decide di rendersi irreperibile e va a Parigi, ospite di Danielle (Valeria Bruni Tedeschi), amata in gioventù. L’azione del film percorre i primi dieci anni del Duemila, alternando il fratello politico a Parigi e il fratello matto a Roma. Sul piano fisico è difficile, anche per lo spettatore, distinguere l’uno dall’altro, ma quel che dicono è radicalmente diverso. Non tutti i componenti di quella minoranza di italiani che continuano ad andare al cinema sanno che nel napoletano Servillo abbiamo un attore di statura europea qualunque cosa faccia, teatro o audiovisivi. Deve essersi divertito Servillo a recitare in Viva la libertà, ispirato a Il trono vuoto dello stesso Andò edito da Bompiani. La sua originalità consiste nell’essere un film 58 in “positivo”. Tutto si svolge all’interno del maggior partito del centrosinistra, cioé il Pd «dove esisrtono - dice lo stesso Andò - predatori, ma anche tante persone di buona volontà». Massimo Cacciari ha detto che ogni uomo porta con sé un fratello estraneo con cui deve riconciliarsi. «Anche Bersani ha dentro di sé questo fratello capace di gesti coraggiosi e inaspettati, bisogna lasciarlo agire, restituire la politica all’anima dei cittadini». Lo dimostra l’Andrea Bottini di Valerio Mastandrea che non è una figura secondaria. Spiando dal buco della serratura, è il personaggio di Mastandrea che scopre Oliveri - Servillo che sta danzando con eleganza a piedi nudi con una signora che potrebbe essere Angela Merkel, scalza pure lei: una sequenza memorabile per l’ironia che la impregna. Sarebbe da idioti ignoranti non capire che il film è un conte philophique per esortare al cambiamento della classe politica che ormai troppo si è allontanata dalla vita, dall’umanità, dai cittadini. Degno erede di Gian Maria Volonté, Servillo vede nel suo doppio personaggio una sorta dottor Jekyll e Mr Hyde al quale Andò ha fornito battute sferzanti: «Smettete di tingervi... siate onesti». «I politici sono ladri perché gli elettori sono ladri o vorrebbero esserlo». Il che coincide con una mia convinzione personale: in questa Italia il problema non è Silvio Berlusconi, ma i milioni di italiani che l’hanno votato e che - in misura minore, speriamo - continuano a votarlo. L’operazione di Andò consiste nel rivolgersi a quella parte degli italiani che hanno speranza. E citando Albert Camus aggiunge: «Quando la speranza non c’è, bisogna inventarla». L a linea nitida, la solidità scultorea di forme essenziali, il colore rossastro delle terre che riscaldano la tavolozza. E poi le curve morbide del nudo femminile, il fascino misterioso di figure dal collo lungo e di volti in cui un occhio appare cieco verso la realtà circostante e come rivolto ad una dimensione interiore. È una perfetta sintesi di classicità e avanguardia l’arte di Amedeo Modigliani (1884-1920) che la mostra Modigliani, Soutine e gli artisti maledetti aperta in Palazzo Reale a Milano dal 21 febbraio all’8 settembre (catalogo 24 ore Cultura) torna a raccontare attraverso una selezione di quindici tele dell’artista livornese appartenute al collezionista Jonas Netter (1866-1946). Capolavori che, insieme a un centinaio di opere di pittori che furono anche compagni di vita di Modì nelle notti folli di Montparnasse e di Montmartre (Utrillo, Chaïm Soutine e Suzanne Valadon e altri) formano uno spaccato della scena artistica parigina nei primi, effervescenti, anni del ’900. Modigliani, come è noto, approdò in Francia nel 1906, l’anno della retrospettiva in memoria di Cézanne, avendo già alle spalle una solida formazione accademica, viaggi di studio in Ita- Modigliani, Ritratto di Jeanne Hébuterne (1918) 23 febbraio 2013 left cultura left.it lia che gli avevano permesso di conoscere dal vivo i capolavori dell’arte antica, gotica e protorinascimentale, a cominciare dall’amato Duccio di Buoninsegna dal quale aveva tratto ispirazione per auratiche presenze femminili. Non resta molto delle prime esperienze pittoriche di Modì che, molto esigente e critico verso se stesso, fece in modo che andassero distrutte. Così a Milano visitando questa collettiva curata da Marc Restellini, direttore della Pinacothèque de Paris (da cui proviene questa mostra) si ha la sensazione di trovarsi davanti a un artista “nato” maturo, con il dono di uno stile unico, personalissimo, che mescola semplicità, arcaismo, ieraticità, raffinata eleganza e purezza formale. Basta guardare i suoi ritratti della giovane compagna, la pittrice Jeanne Hèbuterne, che hanno il fascino e la femminilità delle dame di Parmigianino e l’aura onirica delle figure di Cézanne. Oppure le scultoree cariatidi, figure enigmatiche che punteggiano tutta la carriera di Modì: con esse tentò una radicale rivisitazione della forma pittorica stimolata dalla passione per l’arte africana, oceanica, orientale e precolombiana. L’artista livornese, che si era sempre pensato sculture, prima che pittore, cercava nell’antico l’ispirazione per creare una immagine di donna universale senza tempo né radici geografiche. Affascinato dalla rivoluzione cubista di Picasso e dalle sue magnetiche Demoiselles, tuttavia Modì mirava ad un’immagine di bellezza femminile capace di sussumere la ieraticità del ’300 senese e la lineare sinuosità delle Veneri botticelliane. Come Picasso riconosceva in Cézanne un vero maestro ma ne trasse una lettura molto distante da quella volumetrico-spaziale che ne fece il cubismo. Più che dalla destrutturazione della spazialità pittorica Modì fu attratto dalla semplificazione formale di Cézanne, dal tono riflessivo e malinconico dei suoi soggetti. Come ci racconta il ritratto della poetessa Beatrice Hastings (1915) per arte del levare, con una estrema stilizzazione del volto, Modì riuscì a tratteggiare uno straordinario ritratto psicologico della donna. left 23 febbraio 2013 libri di Filippo La Porta Tra Dan Brown e Contini I mmaginate, che so, Dan Brown, buon affabulatore e simpatico cialtrone, che incontra un raffinato filologo come Gianfranco Contini. Ecco un’idea abbastanza precisa del romanzo di Bianca Garavelli (scrittrice e stimata studiosa di Dante) Le terzine perdute di Dante (Baldini & Castoldi). Gli ingredienti sono dosati con sapienza: arti marziali, buchi neri, esperimenti al Cern, una spolverata di esoterismo, l’amore, una conoscenza non superficiale della Divina Commedia, visioni profetiche. Confesso di non amare il giallo storico: l’Aristotele detective di Margaret Doody o i thriller danteschi di Giulio Leoni. Ma nel caso della Garavelli il genere viene nobilitato e direi quasi “straniato” da una interrogazione filosofico-morale che esula dalla cultura pop. Se Roman Polanski fosse un lettore di left - del resto ha abitato in Italia e commentò una foto di Berlusconi dicendo che ha un sorriso da clown e saluta come Hitler - gli suggerirei di ricavarne una sceneggiatura. Dalla prima pagina infatti il lettore precipita in una suspense stregante e mozzafiato. Vi si narra di due vicende parallele, cronologicamente distanti ma intrecciate. Agli inizi del 1300 Dante incontra a Parigi la mistica ed eretica Marguerite Porete (poi arsa sul rogo) e si trova coinvolto in una guerra spietata tra due ordini misteriosi. Mentre oggi nella Biblioteca Ambrosiana l’insegnante frustrato Riccardo Donati s’imbatte leggendo il Roman de la rose in una frase autografa di Dante. Ruba il codice e si trova coinvolto in una serie di delitti, protetto dall’amica karateca Agostina. Quella guerra ha attraversato i secoli e contrappone i fratelli del Libero Spirito e la setta dei Perfetti: i primi intendono scongiurare una catastrofe, preannunciata dalle terzine perdute di Dante che invece i secondi perseguono come punizione per l’umanità peccatrice. C’è una pagina suggestiva del romanzo che mostra come la descrizione del cielo “cristallino” nel Paradiso anticipi l’idea einsteiniana di un universo curvo. L’incontro amoroso tra Dante e la Porete è ovviamente immaginario. Ma nell’opera di entrambi, al di là di analogie sul piano della visione cosmologica e spirituale, c’è un invito all’uomo affinché non sfidi il mistero della creazione e si fermi un attimo prima: insomma l’appello a una saggia etica del limite. L’idiota in politica di Lynda Dematteo, Feltrinelli, 201 pagine 16 euro FINALE DI PARTITO di Marco Revelli, Einaudi, 137 pagine 10 euro L’industria della carità di Valentina Furlanetto, Chiarelettere, 243 pagine 13,90 euro scaffale L’idiota in politica. Ovvero antropologia della Lega Nord. Come si legge nel sotto titolo del saggio di Dematto, che analizza il ribellismo e le contraddizioni «fino al limite della schizofrenia» dei leghisti . Che prima attaccano Berlusconi poi sono attratti dal vero leader, dal Berluskaiser. Che fanno riti celtici e poi vanno in Chiesa. Partiti sempre più separati dalla società. Percepiti sempre più come espressioni di apparato. Revelli analizza la fine dei grandi contenitori partito esemplati, nel Novecento, sul modello organizzativo della fabbrica fordista (tanto da parlare di fordismo politico). E solleva una domanda cruciale: è possibile la democrazia oltre i partiti? Carità pelosa si usa dire. Certamente con molti doppi fini. Viene da pensare leggendo questo libro inchiesta che analizza i retroscena del mondo della cooperazione e degli aiuti umanitari. Denunciando gli sprechi e le “opacità” di un settore che oggi mobilita quasi quattrocento miliardi di dollari l’anno. 59 bazar cultura left.it buonvivere teledico di Elena Pandolfi Il football sul lettino T erapia d’urto, in onda su Cielo il mercoledì, e la seconda stagione su Foxlife il martedì alle 21, a differenza del titolo impegnativo, è una leggera e accattivante serie statunitense. La storia è quella di Danielle Santino, interpretata da Callie Thorne, un’ avvenente psicoterapeuta, divorziata, che viene ingaggiata dall’allenatore di una famosa squadra di football per curare i suoi atleti in crisi d’identità e con problemi psichici di vario genere. La bella dottoressa usa metodi molto diretti e pratici mettendo il paziente di turno, di fronte alle proprie paure per poi velocemente affrontarle, forse un po’ troppo velocemente. Ma d’altra parte il caso va risolto nel giro di un’ora, tempo massimo della puntata. Questo potrebbe creare false aspettative sullo spettatore ignaro, nei confronti di una terapia, anche solo comportamentale. Ma la serie trae spunto dalla storia vera di Donna Dannensfelser che lavorò come psicologa nella squadra di football dei New York Jets riscuotendo un gran successo tra i muscolosi atleti. Non è la prima volta che la fiction televisiva si avvale dell’analisi psichiatrica, come elemento narrativo, per sviluppare le storie dei personaggi che si raccontano durante le sedute. Qualche tempo fa ebbe un discreto successo una serie americana, ma di origini israeliane, dal titolo In Treatment, dove più approfonditamente si seguiva la lunga terapia di cinque personaggi fissi, oltre a quella del terapista Paul Weston, interpretata da Gabriel Byrne. In aprile ne uscirà una versione italiana su Sky con Sergio Castellitto nei panni dell’analista. Anche il grande maestro dell’animazione italiana, Bruno Bozzetto, ha creato una ironica e divertente serie animata, incentrata sulla terapia di un piccolo supereroe, Minivip, complessato e schiacciato dalla ingombrante presenza del fratello, vero e muscoloso supereroe, ma in quel caso l’analista era un inutile cialtrone che non risolveva i problemi del protagonista, ma regolarmente, a fine seduta, staccava una ricevuta da 80 euro. Almeno più onesto di tanti veri professionisti. di Giulia Ricci Contadini nudi e puri D ietro ogni seme, ogni pianta, ogni coltivazione, c’è una storia immensa. Che parla di popolazioni, di culture, di incontri, di sconfitte e di vittorie. Riscoprire l’essenza profonda dell’agricoltura senza cadere nell’esaltazione da salotti new age oggi è quanto mai necessario. Sia perché è l’unico settore produttivo in Italia che registra un aumento di occupazione. Sia anche perché è fondamentale consumare un cibo sano, magari proveniente da produzioni biologiche o a km zero. Salute alimentare e tutela dell’ambiente vanno a braccetto. Uno sguardo d’insieme su questo mondo bistrattato o al contrario, diventato una moda, lo traccia il libro appena uscito per Altraeconomia I semi e la terra di Davide Ciccarese. È il frutto di anni di esperienza nelle reti contadine. Vi si possono trovare leggi, normative (dalla Pac alla burocrazia italiana), proposte di rilancio, analisi dei problemi, dal consumo del suolo alla trappola dei prezzi. E nell’introduzione di Massimo Angelini, la storia affascinante dei semi e delle specie. Va bene preservarle ma è meglio farle convivere. E mescolarle. Tendenze di Sara Fanelli Auguri jeans E Una delle pubblicità dei Levi’s 501. Nella pagina accanto, Levi Strauss 60 ra il 1873 quando Levi Strauss e Jacob Davis hanno ricevuto il brevetto n.139.121 dal US patent and trademark office. È la data di nascita dei blue jeans. Sono passati 140 anni e quel brevetto continua ad essere una rivoluzione per il pantalone. Nato come capo d’abbigliamento resistente a tutto, indossato da minatori e cercatori d’oro, con il passare degli anni è divenuto simbolo di comodità, libertà, ribellione, uguaglianza. Fino a diventare capo immancabile su ogni passerella di alta moda che si rispetti. A questo proposito i Levi’s 501 sono 23 febbraio 2013 left cultura left.it JUNIOR di Bebo Storti il taccuino di Martina Fotia Un bacio. E vi solleverò il mondo E se l’unica rivoluzione possibile fosse l’amore? I bambini baciano chi dona loro affetto. Baciano oggetti e piante, baciano anziani e coetanei, belli e brutti. Dovremmo imparare, o tornare a conoscere, il bacio dei bambini. Allora nella rivolta che stiamo immaginando il protagonista sarà il bacio, che farà emergere di volta in volta una novità, un’epifania, una relazione. Queste alcune riflessioni che Cada beso una revoluciòn, il libro di Goele Dewanckel, magistrale illustratrice fiamminga, fa affiorare nella mente del lettore. Un libro edito dalla illuminata casa editrice Orecchio Acerbo, senza parole e dedicato a chi vuole credere in sentimenti al di fuori del tempo, per ricordare che non esistono amori giusti e amori sbagliati. Per dire che l’amore va sempre e comunque bene e soprattutto per dire - come recita l’unica Un’illustrazione da Cada beso una revoluciòn frase che campeggia all’inizio del libro - appunto, “cada beso una revoluciòn”. Beso, puthje, suudlus, petò, baiser, csòk, kiss... Consonanti, vocali, accenti diversi per definire una delle dimostrazioni d’affetto più grandi. Li ha fusi tutti insieme Goele Dewanckel, in quell’esperanto che da sempre è il disegno. Donna di frontiera, vive tra la Francia e le Fiandre, dove insegna a Gent. Ed è qui che matura il suo stile inconfondibile, che ritrovia- stati nominati dalla rivista Times “Fashion Item of the 20th Century”. Levi’s festeggia adesso con una collezione primavera/estate per la prima volta in un tessuto che non è denim, cioè diverso dal jeans. La Levi’s ispirandosi all’India, utilizzerà materiali realizzati con fibre riciclate e alternative, nuove tecniche ecologiche di rifinitura e tintura, nel rispetto della salute e della qualità dell’ambiente. Dagli anni Ottanta, qualsiasi ditta di abbigliamento produce una propria linea jeans. Quest’anno, per l’occasione eBay ha pensato di celebrare l’anniversario dedicando al denim la sua pagina Moda per un intero mese. L’iniziativa stringe la mano left 23 febbraio 2013 mo oggi nei variopinti collage di espressioni del suo ultimo libro. Tra colori, gesti e sguardi, tanti amanti diversi, donne, uomini, bambini, ma anche piante e animali. Disegni di incontri, di abbracci, di saluti. Il bacio che non ha una sola dimensione, ma tanti racconti da lasciare impressi nelle immagini, in cui ogni lettore può trovare le giuste lettere per descriverle. Perché le rivoluzioni più grandi non hanno affatto bisogno di parole. alla beneficenza. Grazie alla collaborazione con la Pina di Radio Deejay, la campagna sarà ricca di una selezione di oggetti nuovi e vintage, vestiti e pantaloni, scarpe ed accessori, ma anche oggetti e arredi. Tutti naturalmente in jeans, verranno in parte messi all’asta per raccogliere fondi a favore di progetti di lotta alla fame e sicurezza alimentare del Cesvi. L’asta per l’ultima offerta a partire dal 21 febbraio, durerà una settimana. In effetti, che i jeans rappresentino un capo amato dagli italiani lo dice anche una ricerca Eurisko condotta tra 10mila persone tra i 18 e i 65 anni. L’81 per cento degli intervistati non vi rinuncerebbe mai. In fondo. Cari elettrici ed elettori siamo infine giunti all’ultima settimana prima che il cappio della casta vi venga ben stretto intorno al collo, per i prossimi 5 anni, spese comprese. Il mio elenco dei partitelli da riciclo di poveri pirla non si è ancora esaurito, ma prima delle ultime voglio lasciarvi un monito di un mio amico, il Conte Uguccione: «Io ho Trombato dovunque, solo nella cabina elettorale, li l’ho sempre preso in quel posto!». Ma andiamo per escrescenze politiche. PARTITO RISOLLEVIAMOCI E SALVIAMO LE TERGA DEL PAESE-dietro sembra ci sia un cazzaro coi baffi a manubrio che non sa una sega di nulla e che corre solo per i rimborsi e i soldi per poi rigirare voti e parlamentari al nano-il motto? UN SI SA FA UNA SEGA! SI FA DI POLITICA! LISTA SALVIAMO LA DEMOCRAZIA ANCHE A COSTO DI VENDERSI- c’è un omino, ’un sa fa nulla ma bercia molto, che corricchia di su e di giù per i partiti per il paese per le televisioni, dopo due minuti s’alza urla e si cava di culo-il motto? Diretto e spicciolo: MAVAFANC…! PARTITO DELLE SERVE- si cela dietro la formazione di una nota rivista, che sputtana chi osteggia il padrone, e pubblica foto, anche finte, di tresche e amori, anche non veri-a capo un noto giornalista di cui si dice che non abbia peli sulla lingua e se ce li ha non sono i suoi-il motto? SLURP! Bene siam giunti alla fine di questa tornata. E come disse uno “vederli boccheggiare sulla battigia come pesci abbandonati dalla marea. Questo sarebbe meraviglioso!” Votate! Votate! Ma poi non vi lamentate! 61 [email protected] cultura CANZO Il borgo dell’arte Una vera Cittadella dell’arte in tutte le sue forme. Fino a domenica la villa ex Magni Rizzoli nel comune di Canzo (Como) offrirà al pubblico un’esposizione di circa 100 opere firmate da sei eclettici artisti. Ci sarà spazio anche per la musica con il concerto, previsto per venerdì 22, del violinista Matteo Fedeli. BOLOGNA Antigone e la legge «È un’Antigone che ho sentito subito necessaria. Un testo che rilegge il mito con gli occhi di oggi ma riaffermando la questione centrale posta da Sofocle: la contrapposizione tra legge naturale e legge degli uomini». Sono le parole utilizzate da Luca De Fusco per descrivere il suo riadattamento di Antigone. Uno spettacolo intenso e struggente che andrà in scena all’Arena del Sole dal 26 febbraio al 3 marzo. FIRENZE VENEZIA Essere operai oggi Qual è il ruolo dell’arte oggi? E ancora: cosa ci attendiamo dall’arte? Fino al 16 febbraio 2013 la Galleria Michela Rizzo di Venezia ospita la mostra di Sandro Mele, The American brothers, a cura di Raffaele Gavarro. Un’esposizione di dipinti, video, fotografie nella quale Mele presenta un nuovo capitolo della sua ricerca sulla condizione operaia contemporanea, strutturando un racconto dalle innumerevoli sfaccettature. MILANO FIRENZE Baustelle a teatro Buone notizie per i fan dei Baustelle. È prevista per il 29 febbraio l’uscita di Fantasma, sesto album della band toscana. Un evento che verrà celebrato con un minitour di quattro date, in collaborazione con l’Ensemble Symphony Orchestra. Appuntamento oggi al teatro comunale di Firenze. TORINO ROMA Parliamo di... jazz Passioni e intrighi I protagonisti della musica italiana come non li avete mai visti. A partire dal 27 febbraio il Circolo dei lettori propone L’orecchio indiscreto, appuntamento che si struttura sulla formula dell’intervista dal vivo agli artisti. Primo ospite il jazzista Enrico Rava. 62 I sogni di Leonardo Il genio oltre la parete La parete dimenticata. È questo il titolo, evocativo ed enigmatico, dell’esposizione di opere di Franco Guerzoni. Un evento che si terrà nelle stanze dell’Andito degli Angiolini, a Palazzo Pitti di Firenze dal 23 febbraio al 7 aprile. Attraverso un ricco repertorio di composizioni verrà ricostruita la ricerca di Guerzoni sottolineando la sua concezione di arte come “restituzione di memoria che produce e avvalora il presente”. I sogni di Leonardo da Vinci diventano finalmente tangibili. Dal primo marzo al 31 luglio aprirà a Milano uno degli eventi più interessanti del 2013, la mostra temporanea Leonardo3 - Il Mondo di Leonardo, in piazza della Scala. Si tratta della più importante esposizione interattiva e multidisciplinare dedicata a Leonardo, artista e ingegnere, e alle sue macchine avveniristiche. Saranno presentati oltre 200 marchingegni interattivi oltre a modelli fisici realizzati nel rigoroso rispetto dei progetti originali. Fino al 24 febbraio Anna Bonaiuto porta in scena al Teatro Vascello La belle joyeuse. Scritto e diretto da Gianfranco Fiore, si tratta di un monologo vivace e appassionato sulla controversa figura di Cristina Trivulzio principessa di Belgioioso (1808-1871). 23 febbraio 2013 left left 7 giorni su 7 ©2012 thewashingmachine.it ww.unita.it Abituati a #voleredipiù Dal 7 maggio Dal 7L’Unità maggio L’Unità torna grande: formato, tornanuovo grande: nuovo format più pagine, rubriche piùinserti, pagine, inserti, rubriche e approfondimenti. e approfondimenti. Ogni sabato left+l’Unità 2 euro. Nei giorni successivi euro 0,80 + il prezzo del quotidiano www.left.it www.unita.it