Shadowhunters 5. - Citt? delle anime perdute

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Shadowhunters 5. - Citt? delle anime perdute
Lilith, madre di tutti i demoni, è stata
distrutta. Ma quando gli Shadowhunters
arrivano a liberare Jace, che lei teneva
prigioniero, trovano soltanto sangue e vetri
fracassati. E non è scomparso solo il ragazzo
che Clary ama, ma anche quello che odia, suo
fratello Sebastian, il figlio di Valentine. Un
figlio determinato a riuscire dove il padre ha
fallito e pronto a tutto per annientare gli
Shadowhunters. La potente magia del
Conclave non riesce a localizzare né l’uno né
l’altro, ma Jace non può stare lontano da
Clary. Quando si ritrovano, però, Clary scopre
che il ragazzo non è più la persona di cui si era
innamorata: in punto di morte Lilith lo ha
legato per sempre a Sebastian, rendendolo un
fedele servitore del male. Purtroppo non è
possibile uccidere uno senza distruggere anche
l’altro. A chi spetterà il compito di preservare il
futuro degli Shadowhunters, mentre Clary
sprofonda in un’oscura furia che mira a
scongiurare a ogni costo la morte di Jace?
Cassandra Clare
SHADOWHUNTERS
CITTÀ DELLE ANIME PERDUTE
MML060
Per Nao, Tim, David e Ben
Nessun uomo sceglie il male perché è il male;
lo scambia solo per la felicità, per il bene che
cerca.
(Mary Wollstonecraft)
PROLOGO
Simon se ne stava in piedi, attonito, davanti
alla porta di casa.
Era l’unica che avesse mai conosciuto. Era il
posto dove i suoi genitori lo avevano portato
dopo che era nato. C’era cresciuto, fra le mura
di quella villetta a schiera di Brooklyn. D’estate
aveva giocato in strada all’ombra degli alberi e
d’inverno aveva trasformato i coperchi della
spazzatura in slittini improvvisati. In quella
casa la sua famiglia aveva osservato la shiva, i
sette giorni di lutto, in seguito alla morte del
padre. Ed era sempre lì che aveva baciato Clary
per la prima volta.
Non si sarebbe mai immaginato che un
giorno, per lui, quella porta sarebbe stata
chiusa. L’ultima volta che aveva visto sua
madre, lei gli aveva dato del mostro e aveva
pregato affinché se ne andasse. Lui, ricorrendo
a un incantesimo, le aveva fatto dimenticare di
essere un vampiro, ma non sapeva per quanto
tempo sarebbe durato. In piedi, nella fredda
aria autunnale, guardò fisso di fronte a sé e
capì. Anche se non abbastanza.
La porta era coperta di simboli: stelle di
David disegnate con la vernice, la parola
ebraica chai, “vita”, incisa nel legno. Alla
maniglia e al batacchio erano legati dei tefillin,
astucci di cuoio contenenti alcuni versi della
Torah. Una hamsa, la Mano di Dio, copriva lo
spioncino.
Ancora frastornato, appoggiò una mano
sopra la mezuzah, un altro piccolo contenitore
di versetti, appesa sullo stipite destro. Vide del
fumo salire dal punto in cui la sua pelle aveva
toccato l’oggetto sacro, ma non sentì nulla.
Nessun dolore. Solo un vuoto tremendo, che
lentamente montava in fredda rabbia.
Diede un calcio alla porta e sentì l’eco
rimbombare dentro casa. — Mamma! — gridò.
— Mamma, sono io!
Non ci fu risposta, soltanto il suono delle
mandate della serratura. Il suo sensibile udito
aveva riconosciuto i passi della madre, il suo
respiro, ma lei non aveva fiatato. Simon
riusciva ad avvertire l’odore acre della paura e
del panico, persino attraverso il legno. —
Mamma! — La voce gli si ruppe. — Mamma, è
assurdo! Lasciami entrare! Sono io, Simon!
La porta vibrò, come se lei vi avesse tirato un
pugno contro. — Vattene via! — La voce di sua
madre era aspra, resa irriconoscibile dal
terrore. — Assassino!
— Io non uccido la gente. — Simon appoggiò
la testa contro la porta. Sapeva che non
avrebbe avuto problemi a sfondarla, ma a cosa
sarebbe servito? — Te l’ho detto, bevo sangue
animale!
— Tu hai ucciso mio figlio — disse lei. — Lo
hai ucciso e hai messo un mostro al posto suo!
— Ma tuo figlio sono io…
— Hai il suo volto e parli con la sua voce, ma
non sei lui! Tu non sei Simon! — La voce della
donna si alzò fino a diventare quasi un grido.
— Vattene da casa mia prima che ti uccida,
mostro!
— Becky… — disse Simon. Aveva le guance
bagnate. Alzò le mani per toccarsi il viso e,
quando le allontanò, vide che erano macchiate:
lacrimava sangue. — Che cosa hai detto a
Becky?
— Stai alla larga da tua sorella! — Simon
avvertì una successione di rumori metallici
provenire da dentro la casa, come se fosse
caduto qualcosa.
— Mamma — tentò di nuovo, ma questa volta
il suo tono di voce non si accese. Gli era uscito
soltanto un sussurro rauco. La mano aveva
iniziato a pulsargli. — Ho bisogno di saperlo.
Becky è lì? Mamma, apri, per favore…
— Stai lontano da Becky! — Ora lei si stava
allontanando dall’ingresso, sì, riusciva a
sentirla. Poi giunse l’inconfondibile cigolio
della porta della cucina che si spalancava e lo
stridio del linoleum mentre sua madre ci
camminava sopra. Un cassetto che si apriva.
All’improvviso se la immaginò che afferrava
uno dei coltelli.
Prima che ti uccida, mostro.
Il pensiero lo sconvolse. Se lei lo avesse
attaccato, il Marchio avrebbe reagito
disintegrandola, come aveva fatto con Lilith.
Lasciò cadere la mano e indietreggiò
lentamente, barcollando sui gradini fino al
marciapiede, andando ad appoggiarsi contro il
tronco di uno dei grossi alberi che regalavano
ombra al quartiere. Rimase dov’era, fissando la
porta di casa, segnata e sfigurata dai simboli
che indicavano l’odio che sua madre provava
per lui.
No, ricordò a se stesso. Lei non lo odiava. Lei
pensava che fosse morto. Qualunque cosa sua
madre odiasse, era qualcosa che non esisteva.
Io non sono ciò che lei dice.
Non sapeva quanto sarebbe rimasto lì,
immobile, se il suo cellulare non avesse
iniziato a vibrare nella tasca della giacca.
Lo prese d’istinto e notò che sul palmo della
mano aveva un’ustione. Era il disegno che
stava sulla parte anteriore della mezuzah:
stelle di David intrecciate. Cambiò mano per
rispondere
e
appoggiò
il
telefonino
all’orecchio. — Pronto?
— Simon? — Era Clary. Gli sembrava
affannata. — Dove sei?
— A casa — disse lui, poi fece una pausa. — A
casa di mia madre — si corresse. Lo fece con
una voce che suonava cupa e distante alle sue
stesse orecchie. — Non sei tornata all’Istituto?
— Ecco, è proprio questo il punto — rispose
lei. — Appena te ne sei andato, Maryse è scesa
dal tetto dove Jace avrebbe dovuto aspettarla.
Non c’era nessuno.
Simon si mosse. Senza rendersi bene conto
del motivo per cui lo stava facendo, come una
bambola meccanica iniziò a camminare in
direzione della metropolitana. — In che senso
non c’era nessuno?
— Jace è sparito — gli disse Clary, con un filo
di tensione nella voce. — E con lui anche
Sebastian.
Simon si fermò all’ombra di un albero
spoglio. — Ma Sebastian è morto. Lui è morto,
Clary…
— E allora dimmi dov’è il suo cadavere,
perché non c’è — ribatté lei, chiaramente
sconvolta. — Qui sopra sono rimasti solo
sangue e vetri rotti. Se ne sono andati tutti e
due, Simon. Jace se n’è andato…
parte prima
NESSUN
ANGELO MALIGNO
Amore è uno spirito familiare, Amore è un
diavolo, non
c’è altro angelo maligno che Amore.
(WILLIAM SHAKESPEARE, Pene d’amor
perdute)
capitolo 1
L’ULTIMO CONSIGLIO
Due settimane dopo
— Quanto altro tempo pensi che ci vorrà per
il verdetto? — chiese Clary. Non aveva idea di
quanto avessero aspettato, ma le sembravano
almeno dieci ore. Nella camera da letto di
Isabelle, tutta nera e fucsia, non c’erano
orologi, ma soltanto cumuli di vestiti, pile di
libri, cataste di armi, un mobile da toeletta
traboccante di trucchi scintillanti e spazzole,
cassetti aperti da cui straripavano mutandine
di pizzo, collant velati, boa di piume. La scena
ricordava un po’ il backstage del musical
Piume di struzzo, ma nelle ultime due
settimane Clary era rimasta abbastanza a
lungo fra quel caos sfavillante da trovarlo
accogliente.
Isabelle era in piedi accanto alla finestra e
teneva Church fra le braccia, accarezzandogli
la testa con fare assente. Il gatto la guardava
coi suoi sinistri occhi gialli. Fuori
imperversava un tipico temporale di novembre
e la pioggia rigava i vetri delle finestre come
fosse vernice trasparente. — Non molto —
rispose con calma la ragazza. Era senza trucco,
cosa che la faceva sembrare più giovane, e i
suoi occhi scuri più grandi. — Cinque minuti,
probabilmente.
Clary, seduta sul letto di Izzy fra una pila di
riviste e una catasta di spade angeliche
tintinnanti, deglutì forte per ricacciare indietro
il sapore amaro che sentiva in gola.
Torno fra cinque minuti. Erano state quelle le
ultime parole dette al ragazzo che amava più di
qualsiasi altra cosa al mondo. Forse, pensò,
avrebbero potuto essere le ultime.
Clary ricordava la scena alla perfezione. Il
giardino sul tetto. Quella serata cristallina di
ottobre, le stelle che brillavano di un bianco
gelido contro il cielo scuro e sereno. Le
piastrelle imbrattate di rune nere, con macchie
sparse di icore e di sangue. La bocca di Jace
sulla sua, l’unica cosa calda in un mondo che
faceva rabbrividire. Lei che stringeva l’anello
dei Morgenstern appeso al collo. L’amor che
move il sole e l’altre stelle. Un ultimo sguardo
verso di lui, mentre l’ascensore la portava via,
risucchiandola giù nelle tenebre dell’edificio.
Aveva raggiunto gli altri nell’ingresso,
abbracciando sua madre, Luke e Simon. Ma
una parte di lei, come sempre del resto, era
rimasta con Jace, dominando la città da quel
giardino sul tetto, loro due soli, nella metropoli
fredda e scintillante di luci.
Maryse e Kadir erano saliti in ascensore, per
raggiungere Jace sul tetto e vedere i resti del
rituale di Lilith. Erano passati altri dieci
minuti prima che Maryse tornasse, sola.
Quando le porte si erano aperte e Clary l’aveva
vista in faccia – bianca, contratta, sconvolta –
aveva capito.
Quel che era accaduto in seguito era stato una
specie di sogno: nell’ingresso, la folla degli
Shadowhunters si era raccolta attorno a
Maryse; Alec se n’era andato da Magnus;
Isabelle era scattata in piedi. Bianchi sprazzi di
luce avevano penetrato l’oscurità come piccole
esplosioni di flash fotografici sul luogo di un
crimine, quando, una dopo l’altra, le spade
angeliche avevano illuminato la scena.
Facendosi largo per avanzare, Clary aveva
sentito la storia a pezzetti. Il giardino sul tetto
era vuoto, Jace scomparso. La bara di vetro
che conteneva Sebastian era andata in
frantumi disseminati ovunque. Il sangue
ancora fresco colava giù dal piedistallo sul
quale, prima, giaceva il cadavere.
Gli Shadowhunters si erano organizzati in
fretta per dividersi e setacciare l’area tutto
attorno all’edificio. Magnus era lì, coi suoi
occhi azzurro brillante, e aveva chiesto a Clary
se avesse qualcosa di Jace da utilizzare per
rintracciarlo. Attonita, lei gli aveva consegnato
l’anello dei Morgenstern e si era messa in un
angolo per chiamare Simon. Non aveva fatto in
tempo a finire la telefonata, che la voce di uno
Shadowhunter si era levata su tutte le altre. —
Rintracciarlo? Sì, se fosse ancora vivo. Ma con
tutto quel sangue, è molto improbabile che…
In un certo senso, quella era stata la goccia
che aveva fatto traboccare il vaso. L’ipotermia
prolungata, l’estrema stanchezza e lo shock
avevano preso il sopravvento, e Clary si era
sentita cedere le ginocchia. Sua madre l’aveva
afferrata prima che cadesse a terra. Dopo
quell’episodio, solo una nube confusa. Il
mattino seguente si era svegliata nel suo letto,
a casa di Luke, seduta ben dritta e con il cuore
che le pulsava come un martello pneumatico,
certa di aver avuto un incubo.
Ma quando aveva cercato faticosamente di
alzarsi, le tracce dei lividi su gambe e braccia le
avevano raccontato un’altra storia, come pure
l’assenza dell’anello. Indossati a caso un paio
di jeans e una felpa, aveva raggiunto con passo
incerto il salotto dove Jocelyn, Luke e Simon
sedevano con aria cupa. In realtà non aveva
bisogno di chiederlo, però lo aveva fatto
comunque: — L’hanno trovato? È tornato?
Jocelyn si era alzata in piedi. — Tesoro, lo
stanno ancora cercando…
— Ma non morto, vero? Non hanno trovato
un cadavere, giusto? — Si era lasciata cadere
sul divano, accanto a Simon. — No, non è
morto… Io lo saprei.
Ricordò Simon che le stringeva la mano
mentre Luke le diceva quello che davvero
sapevano: Jace risultava disperso, e con lui
Sebastian. La cattiva notizia era che il sangue
sul piedistallo era stato identificato: era di
Jace. Quella buona, che ce n’era meno di
quanto si fosse immaginato in un primo
momento: il sangue si era mescolato all’acqua
fuoriuscita dalla bara rotta. Adesso, tutti
pensavano che c’erano buone possibilità che
fosse sopravvissuto, qualunque cosa fosse
accaduta.
— Ma che cosa è successo, esattamente? —
aveva chiesto Clary.
Luke aveva scosso la testa, un velo di tristezza
sugli occhi. — Nessuno lo sa, Clary.
Lei si sentì come se nelle vene, al posto del
sangue, avesse dell’acqua ghiacciata. — Voglio
aiutarvi anch’io. Fare qualcosa. Non voglio
restarmene qui seduta mentre Jace è
scomparso.
— Di questo non mi preoccuperei — aveva
commentato Jocelyn con fare lugubre. — Il
Conclave vuole vederti.
Quando Clary si era alzata, nelle articolazioni
e nei tendini aveva sentito rompersi un
ghiaccio invisibile. — D’accordo. Chi se ne
importa. Dirò tutto quello che vogliono, se
riescono a trovare Jace.
— Dirai tutto quello che vogliono perché loro
hanno la Spada Mortale. — C’era disperazione
nella voce di Jocelyn. — Piccola mia, mi
dispiace così tanto…
E ora, dopo due settimane di testimonianze
dette e ridette e un numero infinito di persone
chiamate a deporre, dopo aver tenuto fra le
mani la Spada Mortale per una dozzina di
volte, Clary era seduta in camera di Isabelle in
attesa che il Consiglio decidesse il suo destino.
Non riusciva a fare a meno di ricordare la
sensazione che le aveva dato la Spada Mortale:
minuscoli ami conficcati nella pelle che ti
tiravano fuori la verità. Si era inginocchiata,
stringendola, dentro il cerchio delle Stelle
Parlanti e aveva sentito la sua stessa voce
raccontare ogni cosa al Consiglio: di come
Valentine aveva evocato l’angelo Raziel e di
come lei gli aveva sottratto il potere di
controllarlo cancellando il suo nome sulla
sabbia e scrivendoci il proprio. Aveva rivelato
anche che l’angelo le aveva messo a
disposizione un desiderio, e che lei lo aveva
sfruttato per resuscitare Jace. Aveva spiegato
che Jace era stato posseduto da Lilith, la quale
voleva utilizzare il sangue di Simon per
resuscitare Sebastian, fratello di Clary e
considerato da lei come un figlio; infine, aveva
parlato del Marchio di Caino di Simon e della
sconfitta di Lilith, nonché della presunta fine
di Sebastian, ritenuto ormai un pericolo
superato.
Clary fece un sospiro e aprì il cellulare per
guardare l’ora. — Sono là dentro da un’ora. È
normale? Brutto segno?
Isabelle posò a terra Church, che emise un
miagolio. Si avvicinò al letto e si sedette
accanto a Clary. Era più magra del solito
(anche lei, come Clary, nelle ultime due
settimane aveva perso peso) ma pur sempre
elegante nei suoi pantaloni neri a sigaretta
abbinati a una aderente maglietta grigia. Gli
occhi erano orlati da mascara sbavato, cosa
che avrebbe dovuto farla sembrare un panda
ma che in realtà le conferiva il fascino di una
star del cinema francese. Allungò le braccia in
avanti e i suoi braccialetti di elettro, coi
ciondoli a forma di rune, tintinnarono
melodiosamente. — No, non è un brutto segno.
Significa solo che hanno molto di cui discutere
— rispose, poi fece roteare l’anello dei
Lightwood sul dito. — Non avrai problemi. Tu
non hai infranto la Legge, e questo è
importante.
Clary fece un sospiro. Anche il calore della
spalla di Isabelle accanto alla sua non bastava
a sciogliere il ghiaccio che si sentiva nelle vene.
Sapeva che tecnicamente non aveva violato
alcun principio, ma sapeva anche che il
Conclave era furibondo con lei. Agli
Shadowhunters era vietato resuscitare i morti,
ma all’angelo no, eppure chiedere indietro la
vita di Jace era stata una tale enormità che
loro due avevano deciso di non parlarne con
nessuno.
Ora la verità era venuta a galla e aveva scosso
il Conclave. Clary sapeva che la volevano
punire, se non altro perché la sua scelta aveva
avuto delle conseguenze davvero disastrose.
Anzi, in un certo senso voleva essere punita.
Voleva che le spezzassero le ossa, le
staccassero le unghie dalle dita, voleva che i
Fratelli Silenti le scavassero il cervello coi loro
pensieri affilati. Una specie di patto col
diavolo: il suo dolore in cambio del ritorno di
Jace sano e salvo. Sarebbe servito a farla
sentire meno in colpa per averlo lasciato sul
tetto, anche se Isabelle e gli altri le avevano
ripetuto cento volte che le sue erano
considerazioni ridicole: tutti loro avevano
pensato che lassù Jace fosse assolutamente al
sicuro, ed erano inoltre convinti che, se lei non
fosse scesa, sarebbe scomparsa a sua volta.
— Piantala — disse Isabelle. Per un momento
Clary non capì se stava parlando con lei o col
gatto. Church era impegnato a fare quello che
spesso faceva quando lo si rimetteva a terra,
ovvero starsene sdraiato sulla schiena, con le
zampe in aria, fingendosi morto per provocare
il senso di colpa dei suoi padroni. Quando
Isabelle scostò di lato la sua chioma corvina,
Clary capì che il rimprovero era rivolto proprio
a lei, non al gatto.
— Piantarla di fare cosa?
— Di ripensare in maniera morbosa a tutte le
cose orribili che ti capiteranno o che vorresti ti
capitassero perché tu sei viva mentre Jace è…
scomparso. — La voce di Isabelle sussultò
come un disco rotto. Non si riferiva mai a Jace
come se fosse morto e nemmeno sparito per
sempre: lei e Alec si rifiutavano anche solo di
contemplare un’ipotesi del genere. E Isabelle
non aveva mai rimproverato Clary, non una
sola volta, per aver mantenuto un segreto così
enorme. Anzi, nel corso degli eventi Isabelle si
era di fatto dimostrata la sua più indomita
sostenitrice. La incontrava ogni giorno
nell’atrio del Consiglio e la teneva a braccetto
mentre insieme sfilavano davanti a gruppi di
Shadowhunters
che
le
fissavano
e
bisbigliavano. Inoltre la aspettava durante gli
interminabili interrogatori, lanciando occhiate
di fuoco a chiunque osasse guardarla storto.
Questo atteggiamento aveva lasciato Clary
sbalordita: lei e Isabelle non erano mai state
davvero unite, essendo entrambe il tipo di
ragazze che si trovano più a loro agio coi
maschi piuttosto che in compagnia femminile.
Isabelle invece non l’aveva mai abbandonata,
lasciandola tanto stupita quanto riconoscente.
— Non posso farci niente — si difese Clary. —
Se mi permettessero di andare in
perlustrazione… Se mi permettessero di fare
qualsiasi cosa… Penso che non sarebbe così
grave.
— Non so — rispose Isabelle in tono
affaticato. Nelle ultime due settimane lei e Alec
avevano cercato Jace per sedici ore al giorno,
stancandosi a morte. Quando Clary aveva
scoperto di essere stata totalmente esclusa
dalle ricerche fino al momento in cui il
Consiglio non avesse preso una decisione
riguardo alla resurrezione di Jace, aveva tirato
un calcio alla porta di camera sua, aprendoci
addirittura un buco. — A volte sembra tutto
inutile… — aggiunse Isabelle.
Brividi di gelo percorsero le ossa di Clary. —
Vuoi dire… Pensi che sia morto?
— No, non lo penso. Voglio solo dire che
secondo me è impossibile che sia ancora a New
York.
— Ma stanno cercando anche in altre città,
giusto? — Clary si portò una mano al collo,
dimenticando che l’anello dei Morgenstern
non c’era più. Anche Magnus stava cercando di
rintracciare Jace, benché per il momento ogni
sforzo si fosse rivelato vano.
— Certo che sì. — Isabelle si sporse verso
Clary, incuriosita, e le toccò il grazioso
campanello d’argento che ora teneva al posto
dell’anello. — E questo che cos’è?
Clary esitò. Il campanello era il regalo della
Regina della Corte Seelie. No, non era esatto:
la Regina delle fate non faceva regali. Il
campanello serviva a segnalare alla Regina che
Clary desiderava il suo aiuto. Più giorni
passavano senza traccia di Jace, più la mano di
Clary aveva indugiato intorno a quel ciondolo.
L’unica cosa che la tratteneva era sapere che la
Regina non dava mai niente senza aspettarsi
qualcosa di tremendo in cambio.
Prima che Clary potesse rispondere a
Isabelle, la porta si aprì. Entrambe le ragazze
si raddrizzarono, con Clary che stringeva uno
dei cuscini di Isabelle così forte che gli strass
cuciti sulla stoffa le si stavano infilzando nei
palmi delle mani.
— Ehi. — Una figura snella entrò nella stanza
e chiuse la porta. Alec, il fratello maggiore di
Isabelle, era in tenuta da Consiglio: tunica
nera decorata con rune d’argento aperta sopra
i jeans e una maglietta anch’essa nera. Il total
black lo faceva sembrare ancora più pallido, gli
occhi cristallini ancora più azzurri. Aveva i
capelli neri e lisci come quelli della sorella,
però più corti. La bocca era contratta in una
linea sottile.
Il cuore di Clary iniziò a battere forte. Alec
non aveva l’aria felice. Qualunque fosse il
responso, non doveva essere buono.
Fu Isabelle a parlare. — Com’è andata? —
chiese piano. — Qual è il verdetto?
Alec si sedette al mobile da toeletta, ruotando
sulla sedia per guardare Izzy e Clary da dietro
le spalle. In un’altra situazione sarebbe stato
divertente: Alec era molto alto, con gambe
lunghe da ballerino, e il modo in cui si piegava
goffamente per girarsi faceva sembrare la
sedia il minuscolo mobile di una casa di
bambole.
— Clary — disse. — Jia Penhallow ha emesso
la sentenza. Sei scagionata da ogni possibile
accusa. Non hai infranto alcuna regola, e Jia
ritiene che tu sia già stata punita a sufficienza.
Isabelle emise un sonoro sospiro e sorrise.
Per un istante, un senso di sollievo fece breccia
tra gli strati di ghiaccio che ricoprivano le
emozioni di Clary. Non sarebbe stata punita,
rinchiusa nella Città Silente, intrappolata in un
luogo da cui non avrebbe mai potuto aiutare
Jace. Luke, che, in quanto rappresentante nel
Consiglio dei lupi mannari, aveva assistito al
verdetto, aveva promesso di chiamare Jocelyn
non appena la riunione si fosse conclusa, ma
Clary si affrettò a prendere il proprio telefono:
l’idea di dare a sua madre, per una volta, una
buona notizia era troppo allettante.
— Clary — le disse Alec mentre apriva il
telefonino. — Aspetta.
Lei lo guardò. Il ragazzo aveva un’espressione
seria e immobile, degna di un becchino. Con
un brutto presentimento, Clary riappoggiò il
telefono sul letto. — Alec… Che c’è?
— Non è stato il tuo verdetto a richiedere così
tanto tempo, al Consiglio — spiegò Alec. —
C’era un’altra questione di mezzo.
Il ghiaccio era tornato. Clary rabbrividì. —
Jace?
— Non proprio. — Alec si sporse in avanti,
incrociando le dita dietro lo schienale della
sedia. — Questa mattina presto è arrivato un
rapporto dell’Istituto di Mosca. Ieri le
protezioni dell’isola di Wrangel sono state
abbattute. Hanno inviato una squadra per
ripararle, ma il fatto che un’opera di tale
portata rimanga così a lungo in quelle
condizioni, insomma, per il Consiglio è una
priorità.
Le protezioni, che secondo quanto Clary
aveva capito funzionavano come una sorta di
recinto magico, circondavano la Terra. A
metterle era stata la prima generazione di
Shadowhunters.
I
demoni
potevano
oltrepassarle, ma non era facile, e la maggior
parte di loro non ci riusciva, col risultato che si
poteva evitare un’invasione di massa. Clary
ricordò qualcosa che Jace le aveva detto tempo
prima. Le sembravano passati anni. Una volta
in questo mondo le invasioni dei demoni
erano poche e venivano contenute facilmente.
Ma anche solo da quando sono nato, sono
sempre di più i demoni che riescono a
oltrepassare le protezioni.
— Be’, questa è una brutta notizia — osservò
Clary. — Ma non capisco cosa abbia a che fare
con…
— Il Conclave ha le sue priorità — la
interruppe Alec. — Cercare Jace e Sebastian è
stata la missione numero uno nelle ultime due
settimane. Sono stati passati al setaccio tutti i
luoghi frequentati dai Nascosti, ma non c’è
traccia né dell’uno né dell’altro. Nessuno degli
incantesimi di ritrovamento lanciati da
Magnus ha funzionato. Elodie, la donna che ha
cresciuto il vero Sebastian Verlac, ha
confermato che nessuno ha cercato di mettersi
in contatto con lei. Era un’opzione
improbabile, comunque. Le nostre spie non
hanno riferito alcuna attività insolita da parte
dei membri conosciuti del vecchio Circolo di
Valentine. E i Fratelli Silenti non sono stati in
grado di capire quale fosse esattamente lo
scopo del rituale di Lilith, né se abbia avuto
successo o meno. L’opinione generale è che
Sebastian – che loro ovviamente chiamano
sempre Jonathan – abbia rapito Jace, ma non
è niente che già non sappiamo.
— Dunque? — intervenne Isabelle. — Ci
saranno altre indagini, altre ricerche?
Alec fece di no con la testa. — No, non stanno
valutando l’ipotesi di allargare l’operazione —
disse piano. — Anzi, diciamo che non sono più
la priorità. Sono passate già due settimane e
non hanno trovato niente. Le delegazioni
speciali fatte arrivare da Idris stanno per
essere rimandate a casa. Adesso il problema
delle protezioni è più importante. Senza
contare che il Consiglio è nel bel mezzo di
alcune trattative molto delicate: stanno
aggiornando le Leggi per consentire una
ristrutturazione interna, vogliono nominare un
nuovo Console e un nuovo Inquisitore,
determinare trattamenti diversi per i
Nascosti… Insomma, non vogliono essere
distratti dai loro altri impegni.
Clary teneva lo sguardo fisso su Alec. — Non
vogliono che la scomparsa di Jace li distragga
dalle modifiche a qualche vecchia legge del
cavolo? Si stanno arrendendo?
— Non si stanno arrendendo, stanno…
— Alec! — esclamò Isabelle in tono tagliente.
Il fratello inspirò e sollevò una mano per
coprirsi il viso. Aveva le dita lunghe come
quelle di Jace, e come le sue erano coperte di
cicatrici. Il dorso della mano destra era
decorato con il marchio a forma di occhio degli
Shadowhunters. — Clary, per te… per tutti noi,
la cosa più importante è cercare Jace. Per il
Conclave, cercare Sebastian. Anche Jace, ma
prima Sebastian, perché è lui il pericolo. Ha
distrutto le protezioni di Alicante. È uno
sterminatore. Jace invece è…
— Uno Shadowhunter come tanti altri —
intervenne
Isabelle.
—
Moriamo
e
scompariamo ogni giorno.
— Ha dei privilegi in più per il fatto di essere
un eroe della Guerra Mortale — spiegò Alec. —
Ma alla fine il Conclave è stato chiaro:
proseguirà con le ricerche, ma al momento
aspetta che sia Sebastian a compiere la
prossima mossa. Nel frattempo, continua a
ritenerla una priorità di terzo grado. Al
massimo. Si aspetta che torniamo alla vita di
tutti i giorni.
Vita di tutti i giorni? Clary non riusciva a
crederci. Tutti i giorni, senza Jace?
— È quello che ci hanno detto dopo la morte
di Max — disse Izzy, con gli occhi neri asciutti
ma brucianti di rabbia. — Che il dolore sarebbe
passato più in fretta se avessimo ripreso la
nostra vita normale.
— In teoria è un buon consiglio — disse Alec
da dietro le proprie dita.
— Certo. Dillo a papà. È forse tornato da Idris
per la riunione?
Alec fece di no con la testa, riabbassando le
mani. — No. Ma se vi può consolare, erano
presenti molte persone che chiedevano con
decisione di continuare le ricerche di Jace a
pieno ritmo. Magnus, ovviamente, ma anche
Luke, il Console Penhallow, persino Fratello
Zaccaria. Ma alla fine non è bastato.
Clary continuava a fissarlo intensamente. —
Alec — disse. — Non provi niente?
Lui sgranò gli occhi, il cui azzurro si incupì, e
per un istante Clary ricordò il ragazzo che
l’aveva odiata al suo arrivo all’Istituto, il
ragazzo con le unghie mangiucchiate, i buchi
nelle felpe e che ce l’aveva sempre con il
mondo intero. — So che sei arrabbiata, Clary —
le disse in tono deciso. — Ma se stai dicendo
che io e Iz teniamo a Jace meno di quanto ci
tieni tu…
— Non è così. Sto pensando al vostro legame
di parabatai. Leggevo della cerimonia nel
Codex e so che essere parabatai vi lega
reciprocamente. Tu riesci a percepire cose su
di lui. Quello che voglio dire è… Non senti se è
ancora vivo?
— Clary — Isabelle sembrava preoccupata. —
Pensavo che non…
— È vivo — disse Alec con prudenza. — Pensi
che starei così bene se non fosse così? Però c’è
qualcosa di profondamente sbagliato, sento
anche quello. Ma posso dirti che respira.
— Quel qualcosa di sbagliato potrebbe avere a
che fare con il fatto che è tenuto prigioniero?
— chiese Clary con voce esitante.
Alec guardò verso le finestre, la fitta pioggia
che scendeva grigiastra. — Forse. Non riesco a
spiegarlo, non ho mai provato niente del
genere prima d’ora.
— Però è vivo.
Alec a quel punto la guardò dritto negli occhi.
— Ne sono certo.
— E allora freghiamocene del Consiglio. Lo
troveremo da soli — dichiarò Clary.
— Clary, se fosse possibile, non credi che
avremmo già… — fece per ribattere Alec.
— Abbiamo fatto quello che il Conclave voleva
che facessimo — lo interruppe Isabelle. —
Perlustrazioni, ricerche. Ci sono altri sistemi.
— Sistemi che infrangono la Legge, intendi
dire — osservò Alec. Sembrava titubante. Clary
sperava che non avrebbe ripetuto il motto
degli Shadowhunters quando si trattava della
Legge, ovvero Dura lex, sed lex: “La legge è
dura, ma è pur sempre la legge”. No, non ce la
poteva fare.
— La Regina della Corte Seelie si è offerta di
farmi un favore — confessò Clary. — Durante
la festa agli Ironworks, a Idris. — Il ricordo di
quella serata, di quanto era stata felice, le
strinse
il
cuore
per
un
momento,
costringendola a fermarsi per riprendere fiato.
— E di darmi un modo per contattarla.
— La Regina del Popolo Fatato non dà niente
per niente.
— Lo so. Accetterò qualsiasi debito mi verrà
imposto. — Clary ricordò le parole della
ragazza che le aveva consegnato il campanello.
Faresti qualsiasi cosa per salvarlo. A ogni
costo, non importa quanto tu debba pagare
all’inferno o al paradiso. Dico bene? — Voglio
solo che veniate con me. Non sono brava a
tradurre il linguaggio delle fate. Almeno, se vi
avrò accanto, potrete limitare i danni,
qualunque saranno. Ma se c’è qualcosa che lei
è in grado di fare…
— Io vengo con te — disse subito Isabelle.
Alec le lanciò un’occhiataccia. — Abbiamo già
parlato con il Popolo Fatato. Il Consiglio le ha
interrogate a lungo. E loro non possono
mentire.
— Il Consiglio ha chiesto se sapevano
dov’erano Jace e Sebastian — osservò Clary. —
Non se erano disposte a cercarli. La Regina
della Corte Seelie sapeva di mio padre, sapeva
dell’angelo da lui invocato e intrappolato,
sapeva la verità sul mio sangue e su quello di
Jace. Credo che al mondo non ci siano molte
cose di cui lei non è al corrente.
— È vero — disse Isabelle, mentre una punta
di fervore iniziava a colorarle la voce. — Lo sai,
Alec, che alle fate bisogna fare la domanda
giusta, se si vogliono ricavare informazioni
utili. Interrogarle è molto difficile, anche se
sono obbligate a dire la verità. Un favore,
invece, è una cosa diversa.
— E i rischi che comporta sono
potenzialmente illimitati — ribatté Alec. — Se
Jace sapesse che ho lasciato andare Clary dalla
Regina, mi…
— Non mi interessa. Lui per me lo farebbe,
non puoi negarlo. Se io scomparissi…
— Brucerebbe il mondo intero fino a tirarti
fuori dalla cenere, lo so — disse Alec in tono
esasperato. — Accidenti, credi che anch’io ora
non abbia voglia di bruciare tutto? Sto solo
cercando di…
— Di fare il fratello maggiore — lo interruppe
Isabelle. — Capito.
Alec aveva l’aria di doversi sforzare per
mantenere il controllo. — Isabelle, se ti
succedesse qualcosa… Dopo Max, dopo Jace…
Izzy si alzò in piedi, attraversò la stanza e
prese Alec fra le braccia. I loro capelli neri,
esattamente del medesimo colore, si
intrecciarono, mentre lei sussurrava qualcosa
all’orecchio di lui; Clary rimase a guardarli,
non senza un pizzico di invidia. Aveva sempre
desiderato un fratello. E ora ne aveva uno:
Sebastian. Era un po’ come aver sempre
desiderato un tenero cucciolo e ricevere invece
un feroce Cerbero. Ora Alec stava
accarezzando i capelli della sorella con affetto,
dopodiché annuì e si liberò dall’abbraccio. —
Dovremmo partire tutti — annunciò. — Ma
devo informare almeno Magnus di quello che
stiamo facendo. Altrimenti sarebbe scorretto.
— Vuoi usare il mio telefono? — chiese
Isabelle,
porgendogli
un
malconcio
apparecchio rosa.
Alec scosse la testa. — Sta aspettando con gli
altri al piano di sotto. Dovrai trovare una scusa
anche per Luke, Clary. Si aspetterà che torni a
casa con lui, ne sono sicuro. Diceva anche che
tua madre ha sofferto molto per tutta questa
situazione.
— Si ritiene colpevole dell’esistenza di
Sebastian — disse Clary alzandosi. — Anche se
per tanti anni aveva pensato che fosse morto.
— Non è colpa sua. — Isabelle staccò dal
muro una frusta dorata e se la legò attorno al
polso, facendola sembrare una fila di bracciali
luccicanti. — Nessuno la rimprovera per
questo.
— Ma quello non conta — ribatté Alec. — Non
quando sei tu che rimproveri te stesso.
In silenzio, i tre ragazzi attraversarono i
corridoi dell’Istituto, ora stranamente affollati
da altri Shadowhunters; alcuni di loro
appartenevano alle commissioni speciali
inviate da Idris per gestire la situazione. A dire
il vero nessuno guardava Isabelle, Alec o Clary
con molta curiosità. I primi tempi Clary aveva
avuto l’impressione di essere l’oggetto di ogni
sguardo, nonché di sentire più volte sussurrare
le parole “la figlia di Valentine”, tanto che
aveva iniziato ad aver paura di presentarsi
all’Istituto. Arrivati a quel punto, ormai, era
apparsa davanti al Consiglio così tante volte da
non rappresentare più una novità.
Presero l’ascensore per scendere ai piani
inferiori. La navata dell’Istituto brillava dello
splendore emanato dalla stregaluce e da
normali candele; al centro, i membri del
Consiglio e le rispettive famiglie. Luke e
Magnus erano seduti su una panca e stavano
parlando fra loro; vicino al lupo mannaro c’era
una donna alta, con gli occhi azzurri, che gli
assomigliava moltissimo. Aveva tinto i capelli
grigi di castano e li aveva anche arricciati, ma
Clary la riconobbe comunque: Amatis, la
sorella di Luke.
Alla vista di Alec, Magnus si alzò e gli andò
incontro. Izzy parve riconoscere qualcuno
seduto sulle panche e schizzò via, al suo solito,
senza fermarsi a dire dove era diretta. Clary
andò a salutare Luke e Amatis; avevano
entrambi l’aria stanca, e lei stava accarezzando
la spalla del fratello in segno di conforto.
Quando Luke vide Clary, si alzò e la abbracciò.
Amatis invece si congratulò con lei per essere
stata scagionata dal Consiglio. Clary annuì, ma
non si sentiva lucida. Era come se avesse gran
parte della coscienza ottenebrata e il resto
sotto il comando di un pilota automatico.
Riusciva a vedere Magnus e Alec con la coda
dell’occhio. Stavano parlando, Alec chino verso
Magnus, in quella posizione di reciproco
inarcamento che spesso assumono le coppie,
sole nel loro universo privato. Era felice di
vederli felici, ma da un lato faceva anche male.
Si chiedeva se avrebbe mai rivissuto quei
momenti, o se anche solo lo avrebbe voluto.
Ricordò la voce di Jace: Tutto quello che
voglio sei tu.
— Terra chiama Clary — disse Luke. — Vuoi
che torniamo a casa? Tua madre muore dalla
voglia di vederti, e le piacerebbe chiacchierare
un po’ con Amatis prima che domani torni a
Idris. Pensavo che potremmo uscire a cena,
scegli tu il posto! — Si sforzava di nascondere
la preoccupazione nel tono di voce, ma Clary la
avvertiva comunque. Ultimamente aveva
mangiato poco, e i vestiti iniziavano a starle
larghi.
— In realtà non ho voglia di festeggiare —
rispose. — Non ora che il Consiglio ha tolto
priorità alla ricerca di Jace.
— Clary, questo non significa che abbiano
deciso di smettere — disse Luke.
— Lo so. È soltanto che… È come quando
dicono che le indagini si sono trasformate in
ricerca del cadavere. L’effetto che mi fa è
quello. — Deglutì. — In ogni caso stavo
pensando di andare a mangiare da Taki con
Isabelle e Alec — aggiunse. — Giusto per… fare
qualcosa di normale.
Amatis guardò di sbieco in direzione della
porta. — Guarda che piove a dirotto.
Clary sentì che le labbra le si distendevano in
un sorriso. Si chiese se sembrava finto quanto
lo sentiva lei. — Non mi scioglierò.
Luke le mise in mano qualche soldo,
chiaramente sollevato nel vedere che faceva
qualcosa di normale come uscire con gli amici.
— Però promettimi che mangerai qualcosa.
— Va bene. — Nonostante la fitta del senso di
colpa, riuscì a rivolgere a Luke un mezzo
sorriso, questa volta autentico, prima di
voltarsi e andare via.
Magnus e Alec non erano più dove Clary li
aveva visti un attimo prima. Guardandosi
attorno, riconobbe la lunga chioma corvina di
Izzy in mezzo alla folla. La ragazza era in piedi
accanto al grande portone a due battenti
dell’Istituto, impegnata a parlare con qualcuno
che però non riusciva a scorgere. Fece per
raggiungerla e, avvicinandosi, riconobbe con
un pizzico di stupore Aline Penhallow. Aveva i
capelli neri e lucidi, con un taglio alla moda
che le arrivava appena sopra le spalle. Accanto
a lei c’era una ragazza magra, coi capelli
biondo chiaro a boccoli; erano raccolti
all’indietro e lasciavano scoperte le orecchie,
leggermente appuntite. La biondina indossava
la tunica del Consiglio, e quando Clary le fu
vicina notò che aveva gli occhi di un verdeazzurro luminoso e insolito, un colore che le
fece venire nelle dita la voglia di riprendere in
mano le matite da disegno per la prima volta
dopo due settimane.
— Deve essere strano, ora che tua madre è il
nuovo Console — stava dicendo Isabelle ad
Aline nel momento in cui Clary le raggiunse. —
Non che Jia non sia di gran lunga meglio di…
Ehi, Clary! Aline, ti ricordi di lei, vero?
Le due ragazze si scambiarono un cenno. Una
volta Clary aveva sorpreso Aline che baciava
Jace. Ai tempi era stato tremendo, ma ormai il
ricordo non faceva più male. Adesso sarebbe
stata felice di vedere Jace che baciava un’altra.
Almeno, per farlo, avrebbe dovuto essere vivo.
— E questa è la ragazza di Aline, Helen
Blackthorn — disse Isabelle con enfasi. Clary le
lanciò un’occhiataccia. Pensava che fosse
scema? Inoltre ricordava che Aline aveva detto
di aver baciato Jace soltanto come
esperimento, per vedere se le piacevano i
ragazzi. E a quanto pareva la risposta era stata
no. — La famiglia di Helen gestisce l’Istituto di
Los Angeles. Helen, lei è Clary Fray.
— La figlia di Valentine — disse Helen. Aveva
l’aria sorpresa, come fosse in soggezione.
Clary fece una smorfia. — Cerco di non
pensarci troppo.
— Scusa, capisco il tuo sforzo. — Helen
arrossì. Aveva la pelle molto chiara, di una
lucentezza perlacea. — Io ho votato per
mantenere la ricerca di Jace al numero uno
delle priorità, comunque. Mi dispiace che
abbiamo perso.
— Grazie. — Clary non aveva voglia di
parlarne e si girò verso Aline. — Fai le
congratulazioni a tua madre per essere
diventata il nuovo Console. Deve essere
esaltante!
Aline fece spallucce. — Ora ha molto più da
fare. — Si rivolse a Isabelle: — Sapevi che tuo
padre si è candidato al ruolo di Inquisitore?
Clary sentì Isabelle gelare al suo fianco. —
No. No, non lo sapevo.
— Mi ha stupito — commentò Aline. —
Pensavo che gli piacesse gestire l’Istituto, qui…
— Si interruppe, guardando alle spalle di
Clary. — Helen, credo che tuo fratello laggiù
stia cercando di creare la più grande
pozzanghera di cera colata al mondo. Forse è
meglio se vai a fermarlo.
Helen sbuffò, esasperata, poi borbottò
qualcosa sui ragazzini di dodici anni e sparì in
mezzo alla folla, proprio mentre si faceva largo
Alec. Salutò Aline con un abbraccio (a volte
Clary dimenticava che i Penhallow e i
Lightwood si conoscevano da anni) e guardò
Helen fra la gente. — È la tua ragazza?
Aline annuì. — Helen Blackthorn.
— Ho sentito dire che in quella famiglia c’è
del sangue di fata — disse Alec.
Ah, pensò Clary. Questo spiegava le orecchie
a punta. Il sangue dei Nephilim era
dominante, perciò il figlio di una fata e di uno
Shadowhunter
sarebbe
stato
uno
Shadowhunter, ma a volte il sangue di fata
riusciva a esprimersi nelle maniere più
bizzarre, anche dopo diverse generazioni.
— Un pochino — confermò Aline. — Senti,
Alec, volevo parlarti.
Alec sembrò stupito. — E di cosa?
— Quello che hai fatto nella Sala degli
Accordi… — iniziò Aline. — Baciare Magnus
così. Mi ha dato la spinta che mi serviva per
dire ai miei genitori… Sì, per confessare che mi
piacciono le ragazze. E se non l’avessi fatto,
credo che non avrei nemmeno avuto il
coraggio di parlare con Helen, quando l’ho
incontrata.
— Oh. — Alec era stupito, come se non avesse
mai riflettuto sul fatto che le sue azioni
potessero avere un impatto anche al di fuori
del suo nucleo familiare più stretto. — E i tuoi
genitori? L’hanno presa bene?
Aline fece roteare lo sguardo. — Stanno
ignorando la cosa, come se, non parlandone,
potesse sparire. — Clary ricordava quello che
Isabelle aveva detto sull’atteggiamento del
Conclave rispetto all’omosessualità dei suoi
membri. Se succede, non se ne deve parlare. —
Ma potrebbe andare peggio.
— Certo, potrebbe andare molto peggio — le
fece eco Alec con una punta di tristezza nella
voce che spinse subito Clary a guardarlo.
Il viso di Aline si sciolse in un’espressione
comprensiva. — Mi dispiace, se i tuoi genitori
non…
— Per loro non c’è problema — intervenne
Isabelle, un po’ troppo bruscamente.
— Be’, in ogni caso ora non avrei dovuto dire
niente. Non con Jace scomparso. Sarete tutti
molto preoccupati. — La ragazza fece un
respiro profondo. — Immagino che ti avranno
detto ogni genere di stupidaggini su di lui. Di
quelle che saltano fuori quando non si sa cosa
dire. Io… io vorrei raccontarti una cosa —
Aline si scostò con impazienza da una persona
di passaggio e si avvicinò ai Lightwood e a
Clary, abbassando la voce. — Alec, Izzy.
Ricordo quando una volta siete venuti da noi a
Idris. Io avevo tredici anni e Jace… sì, credo ne
avesse dodici. Voleva vedere la Foresta di
Brocelind, così un giorno prendemmo in
prestito dei cavalli e ci andammo. Ovviamente
ci perdemmo, Brocelind è impenetrabile. Si
fece buio, gli alberi erano sempre più fitti e io
ero terrorizzata. Pensavo che saremmo morti,
in quel posto. Jace invece non ebbe mai paura,
e non dubitò un solo istante che prima o poi
avremmo trovato la via d’uscita. Ci vollero ore,
ma alla fine ce la fece. Ci tirò fuori di lì. Io non
sapevo come ringraziarlo, lui invece mi
guardava come se fossi pazza. Per lui era un
risultato ovvio, non farcela era impensabile.
Questo solo per dirvi che… Jace troverà il
modo di tornare da voi. Lo sento.
Clary non ricordava di aver mai visto Izzy
piangere, cosa che del resto stava cercando di
evitare anche in quel momento. Però i suoi
occhi erano grandi e luccicanti in maniera
sospetta… Alec si stava guardando la punta
delle scarpe. Clary sentì un’ondata di tristezza
che le saliva dentro e voleva sgorgare fuori, ma
la ricacciò giù. Non riusciva a ripensare a Jace
quando aveva dodici anni, non riusciva a
ripensare a lui perso nella notte, altrimenti se
lo sarebbe immaginato ora, intrappolato da
qualche parte, bisognoso del suo aiuto, in
attesa del suo arrivo, e a quel punto sarebbe
crollata. — Aline — disse, vedendo che né
Isabelle né Alec riuscivano a parlare. — Grazie.
Aline le fece un sorriso timido. — Dico sul
serio.
— Aline! — Era Helen, e aveva una mano
saldamente ancorata attorno al polso di un
ragazzino con le dita impiastrate di cera blu.
Sicuramente aveva giocato con le candele degli
enormi candelabri che decoravano le fiancate
della navata. Dimostrava circa dodici anni,
aveva un sorriso birichino e gli stessi
impressionanti occhi verde-azzurro della
sorella, ma i capelli erano castano scuro. —
Siamo tornati. Forse è meglio se ce ne
andiamo, prima che Jules distrugga tutto
quanto. Per non parlare del fatto che non ho
idea di dove siano andati Tibs e Livvy…
— Si stavano mangiando la cera — spiegò
molto opportunamente Jules, il ragazzino.
— Oddio! — Helen sbuffò di sconforto, poi si
guardò attorno con aria dispiaciuta. —
Lasciatemi perdere. Ho sei fratelli e sorelle
minori e uno maggiore. Sembra sempre di
essere allo zoo.
Jules guardò prima Alec, poi Isabelle e quindi
Clary. — Quanti fratelli e sorelle avete voi? —
chiese.
Helen impallidì. Isabelle rispose, con voce
decisamente salda: — Siamo in tre.
Gli occhi di Jules si fissarono su Clary. — Tu
non assomigli a loro.
— Io non sono loro sorella — rispose Clary. —
Io non ho né fratelli né sorelle.
— Neanche uno? — La voce del ragazzo
registrò sconcerto, come se Clary gli avesse
confessato di avere i piedi palmati. — È per
questo che sei così triste?
Clary pensò a Sebastian, coi suoi capelli
bianco ghiaccio e gli occhi neri. Se soltanto,
pensò, se soltanto non avessi un fratello,
niente di tutto questo sarebbe mai accaduto.
Si sentì percorrere da un debole fremito
d’odio, che le riscaldò il sangue gelido. — Sì —
rispose piano. — È per questo che sono così
triste.
capitolo 2
SPINE
Simon stava aspettando Clary, Alec e Isabelle
fuori dall’Istituto, sotto una sporgenza di
pietra che a stento gli impediva di inzupparsi
completamente. Si voltò quando gli altri
uscirono dal portone. Clary vide che i capelli
neri gli si erano incollati alla fronte e al collo.
Simon se li tirò indietro e la fissò con sguardo
interrogativo.
— Mi hanno dichiarata innocente — annunciò
Clary, ma quando lui fece l’accenno di un
sorriso lei scosse la testa. — Ma stanno
togliendo priorità alle ricerche. Sono… sono
piuttosto sicura che lo ritengano morto.
Simon abbassò lo sguardo sopra i jeans
bagnati e la maglietta che indossava, una tshirt grigia stropicciata, con le maniche a
contrasto e la scritta in stampatello
CHIARAMENTE
HO
PRESO
DELLE
PESSIME DECISIONI. Scosse la testa. — Mi
dispiace.
— Il Conclave è capace di queste cose —
commentò Isabelle. — Credo che non
avremmo dovuto aspettarci nient’altro.
— Basia coquum — disse Simon. — O
qualunque sia il loro motto.
— Veramente è Descensus Averno facilis est.
“La discesa agli inferi è facile” — lo corresse
Alec. — Tu hai appena detto “Bacia il cuoco”.
Frequenti i ristoranti dell’antica Roma?
— Cavolo! — esclamò Simon. — Lo sapevo che
Jace mi stava prendendo per i fondelli. — I
capelli bagnati gli ricaddero sugli occhi e il
ragazzo li scostò con un gesto abbastanza
impaziente da permettere a Clary, per un
istante, di intravedere il lucente Marchio di
Caino sulla sua fronte. — E ora che si fa?
— Ora si va a trovare la Regina delle Seelie —
annunciò Clary. Toccandosi il campanello che
portava al collo, spiegò a Simon dell’incontro
con Kaelie al ricevimento di Luke e di Jocelyn,
riferendo anche le promesse ricevute dalla
Regina.
Simon sembrava titubante. — La signora pel
di carota, con quel brutto carattere, che ti ha
fatto baciare Jace? Non mi piaceva.
— È questo che ti ricordi di lei? Che ha fatto
baciare Jace a Clary? — Isabelle sembrava
innervosita. — La Regina delle Seelie è
pericolosa. Quella volta stava solo giocando,
perché di solito a colazione, ogni giorno, si
diverte a far impazzire fino alle urla almeno un
essere umano.
— Io non sono umano — rispose Simon. —
Non più. — Guardò Isabelle per un istante, poi
abbassò lo sguardo e si voltò verso Clary. — Mi
vuoi con te?
— Penso che averti sarebbe utile. Diurno,
Marchio di Caino… Certe cose dovrebbero
lasciare di stucco perfino la Regina.
— Non ci scommetterei — osservò Alec.
Clary guardò alle sue spalle. — Dov’è
Magnus?
— Ha detto che è meglio se lui non viene. A
quanto pare fra lui e la Regina deve esserci
qualcosa.
Isabelle sollevò un sopracciglio, perplessa.
— Non quel qualcosa — ribatté Alec, irritato.
— Una sorta di antagonismo. Anche se… —
aggiunse a mezza voce — considerando quello
che combinava prima che arrivassi io, non ne
sarei tanto sorpreso.
— Alec! — Isabelle rimase indietro per parlare
con il fratello, mentre Clary aprì l’ombrello
automatico. Simon glielo aveva comprato anni
prima al Museo di Storia naturale; sul tessuto
c’erano tanti piccoli dinosauri. Il ragazzo lo
riconobbe, e in quel momento lei gli vide
assumere un’espressione divertita.
— Andiamo? — le chiese Simon offrendole il
braccio.
La pioggia scendeva fitta, creando piccoli
rigagnoli attorno ai tombini e pozzanghere che
esplodevano al passaggio delle ruote dei taxi.
Era strano, pensò Simon, pur non avendo
freddo la sensazione di essere viscido e
bagnato lo infastidiva ancora. Spostò lo
sguardo lentamente, osservando Alec e
Isabelle da sopra la spalla; Isabelle non aveva
ancora incrociato lo sguardo con lui da quando
erano usciti dall’Istituto, e ora si chiedeva a
cosa stesse pensando. Sembrava avesse voglia
di parlare con il fratello, e quando si
fermarono all’angolo di Park Avenue le sentì
dire: — Allora, cosa ne pensi del fatto che papà
si è candidato come Inquisitore?
— Penso che mi sembra un lavoro noioso. —
Isabelle reggeva un ombrello di plastica
trasparente, decorato con adesivi a fiori
multicolori. Era uno degli oggetti più frivoli
che Simon avesse mai visto, e non poteva
biasimare Alec se preferiva vedersela con la
pioggia piuttosto che starci sotto. — Chissà
come mai gli interessa.
— Non mi importa che sia noioso — sibilò
Isabelle. — Se lo sceglieranno, dovrà stare
tutto il tempo a Idris. Voglio dire, proprio
sempre! Non può gestire l’Istituto e fare
l’Inquisitore allo stesso tempo. Non può avere
due lavori.
— Nel caso non lo avessi notato, Iz, lui è già
tutto il tempo a Idris.
— Alec… — Il semaforo cambiò colore e il
resto della frase venne soffocato dal rumore
del traffico, che schizzò pioggia gelida sul
marciapiede. Clary scansò quello che era
praticamente un geyser e per poco non cadde
addosso a Simon. Lui le prese la mano e la
aiutò a rimettersi in equilibrio.
— Scusa — gli disse. La sua mano era piccola
e fredda dentro quella di lui. — Ero distratta.
— Lo so. — Simon cercò di non mostrarsi
preoccupato. Erano due settimane che Clary
era distratta. All’inizio aveva pianto, poi aveva
provato rabbia. Rabbia per non essersi potuta
unire alle ricerche, rabbia per gli infiniti
interrogatori del Consiglio, rabbia per essere
stata tenuta prigioniera in casa propria perché
il Conclave la riteneva sospetta. Ma soprattutto
rabbia verso se stessa, per non essere riuscita a
creare una runa che fosse di qualche aiuto. La
notte rimaneva seduta alla scrivania per ore,
con lo stilo stretto così forte tra le dita da far
temere a Simon che avrebbe potuto romperlo
in due. Aveva cercato di costringere la propria
mente a fornire un’immagine capace di dirle
dove si trovava Jace. Invece, notte dopo notte,
non era successo nulla.
Sembrava più anziana, pensò Simon mentre
entravano nel parco passando per un buco nel
muro della Quinta Avenue. Non in senso
negativo, soltanto diversa dalla ragazza che era
entrata con lui al Pandemonium Club quella
sera in cui tutto era cambiato. Più alta, ma non
solo. Aveva un’espressione più seria, nel modo
in cui camminava c’erano più grazia e più
forza, gli occhi verdi erano meno inquieti, più
determinati. Con un sussulto di sorpresa,
Simon capì. Iniziava ad assomigliare a Jocelyn.
Clary si fermò in mezzo a un cerchio di alberi
gocciolanti; i rami bloccavano gran parte della
pioggia, perciò lei e Isabelle poterono chiudere
gli ombrelli e appoggiarli contro i tronchi.
Sganciò la catenella che aveva al collo e lasciò
scivolare il campanello nel palmo della mano.
Guardò in faccia tutti i presenti, con
espressione seria. — È un rischio — disse. — E
sono anche abbastanza sicura che, se lo
affronto, non potrò più tirarmi indietro. Se
quindi qualcuno di voi non vuole venire con
me, non c’è problema. Vi capisco.
Simon si fece avanti e appoggiò una mano
sopra quella di Clary. Non c’era bisogno di
riflettere. Dove andava Clary, andava anche
lui. Ne avevano passate troppe insieme perché
non fosse così. Isabelle lo imitò subito, e lo
stesso fece Alec; gocce di pioggia cadevano
dalle sue lunghe ciglia nere come fossero
lacrime, ma l’espressione del viso era risoluta.
I quattro ragazzi si tennero forte la mano.
E Clary fece suonare il campanello.
La sensazione fu come se il mondo stesse
ruotando: non come quando si veniva scagliati
attraverso un portale fino al centro di un
maelström, pensò Clary, ma più come starsene
seduti su una giostra che gira sempre più in
fretta. Aveva le vertigini e le mancava il fiato,
quando
all’improvviso
la
sensazione
scomparve e Clary si ritrovò di nuovo ferma,
con la mano stretta a quelle di Isabelle, Alec e
Simon.
Lasciarono la presa uno dopo l’altra, e Clary
si guardò attorno. Era già stata in quel luogo,
in quel lucido corridoio marrone scuro che
sembrava ricavato da un quarzo occhio di
tigre. Il pavimento era liscio, consumato da
migliaia di anni di piedi di fate che ci erano
passati sopra. La luce proveniva da scintillanti
schegge d’oro dentro i muri, e alla fine del
passaggio compariva una tenda multicolore
che oscillava avanti e indietro come mossa dal
vento, sebbene lì sotto non ce ne fosse affatto.
Quando Clary si avvicinò, si accorse che la
tenda era formata da tante farfalle cucite
insieme. Alcune erano ancora vive, e i loro
sforzi per liberarsi facevano volteggiare la
tenda simulando una brezza leggera.
Tentò di ricacciare indietro il sapore acido
che sentiva in gola. — Ehi! — chiamò. — C’è
nessuno?
La tenda si scostò di lato con un fruscio e il
cavaliere Meliorn comparve nel vestibolo.
Indossava l’armatura bianca che Clary
ricordava, ma ora sul petto, a sinistra, c’era un
sigillo. Erano le stesse quattro C che
decoravano l’abito da Consiglio di Luke,
identificandolo come membro. Anche sul viso
del cavaliere c’era una novità, una cicatrice
appena sotto gli occhi color foglia. Guardò
Clary con espressione glaciale. — Non si
chiama la Regina della Corte Seelie con un
“Ehi” così barbaro e umano — disse. —
Neanche stessi chiamando una serva. La
formula giusta è “Lieta di incontrarvi”.
— Ma noi non ci siamo incontrate — ribatté
Clary. — Non so nemmeno se è qui!
Meliorn la guardò con disprezzo. — Se la
Regina non fosse presente e pronta a
incontrarti, far suonare il campanello non ti
avrebbe portata qui. Ora seguimi, e porta con
te i tuoi compagni.
Clary si voltò per fare un cenno agli altri, poi
seguì Meliorn al di là della tenda con le farfalle
torturate, avendo cura di abbassare le spalle
nella speranza di non toccare le loro ali.
Uno dopo l’altro, i quattro ragazzi entrarono
nella stanza della Regina. Clary batté le
palpebre per lo stupore: l’ambiente era
completamente diverso da come lo ricordava
l’ultima volta che c’era stata. La Regina era
distesa su un divano bianco e oro, e tutto
intorno a lei si estendeva un pavimento
composto da piastrelle bianche e nere
alternate, simile a una grande scacchiera. Dal
soffitto
pendevano
spine
dall’aspetto
inquietante. Su ognuna di esse era conficcato
un fuoco fatuo, la cui luce, normalmente
accecante, tremolava quando la fiammella si
spegneva. La stanza brillava del loro chiarore.
Meliorn si mise al fianco della Regina. A parte
lui non c’erano altri cortigiani. Lentamente, la
Regina si raddrizzò a sedere. Era bellissima
come sempre, il suo abito un misto diafano di
oro e argento, i capelli come rame rosato
deposto con grazia sopra una delle bianche
spalle. Clary si chiese perché tanto disturbo. Di
tutti i presenti, l’unico che poteva essere
attratto dal suo fascino era Simon, che però la
odiava.
— Lieta di incontrarvi, Nephilim, Diurno —
disse la Regina facendo un cenno con la testa
in direzione dei ragazzi. — Figlia di Valentine,
cosa ti porta da me?
Clary aprì il palmo della mano. Dentro, il
campanello brillava come un’accusa. — Hai
mandato la tua aiutante a dirmi che, se avessi
avuto bisogno del tuo aiuto, avrei dovuto
suonare questo.
— Tu mi avevi detto che non volevi niente da
me — ribatté la Regina. — Che avevi tutto ciò
che desideravi.
Clary fece di tutto per ricordarsi il modo in
cui si era espresso Jace quando in passato
avevano avuto udienza presso la Regina. Lui
l’aveva lusingata, affascinata. Era stato come
se, all’improvviso, avesse acquisito un
vocabolario del tutto nuovo. Si girò e guardò
da sopra la spalla Alec e Isabelle, ma lei le fece
soltanto un gesto nervoso per incitarla a
continuare.
— Le cose cambiano — disse infine.
La Regina allungò le gambe con un gesto
voluttuoso. — Molto bene. Cosa vuoi da me?
— Voglio trovare Jace Lightwood.
Nel silenzio che seguì, il suono dei fuochi
fatui che gridavano di dolore era appena
percepibile. Finalmente la Regina disse: —
Devi ritenerci davvero molto potenti se credi
che il Popolo Fatato possa riuscire dove il
Conclave ha fallito.
— Il Conclave vuole trovare Sebastian. Ma a
me di Sebastian non importa: io voglio Jace —
affermò Clary. — E poi so già che sai più di
quanto fai trapelare. Hai previsto che sarebbe
successo. Nessuno lo sapeva, ma non credo che
tu mi abbia mandato il campanello proprio il
giorno della scomparsa di Jace senza sapere
che qualcosa bolliva in pentola.
— Forse sì — rispose la Regina, rimirando le
splendenti unghie dei suoi piedi.
— Ho notato che voi fate dite spesso “forse”
quando c’è una verità che volete nascondere —
disse Clary. — Così potete evitare di dare una
risposta diretta.
— Forse è così — rispose la Regina con un
sorriso divertito.
— Anche “chissà” è carino — propose Alec.
— Oppure “eventualmente” — aggiunse Izzy.
— Io non vedo niente di male nel dire “forse”
— osservò Simon. — Un po’ banale, ma rende
bene l’idea.
La Regina liquidò con un gesto le loro parole
come fossero fastidiose api che le ronzavano
attorno alla testa. — Io non mi fido di te, figlia
di Valentine — disse a Clary. — C’è stato un
tempo in cui volevo che mi facessi un favore,
ma quel tempo è passato. Meliorn ha il suo
posto in Consiglio. Non sono certa che ci sia
qualcosa che tu possa offrirmi.
— Se tu lo pensassi veramente — ribatté Clary
— non mi avresti mai fatto avere il campanello.
Per un istante i loro sguardi si incrociarono.
La Regina era stupenda, ma dietro quel volto
c’era qualcosa che ricordava a Clary le ossa di
un animaletto scolorite al sole. — Molto bene.
Potrei essere in grado di aiutarti. Ma a quel
punto vorrò una ricompensa — disse infine la
Regina.
— Che colpo di scena… — mormorò Simon.
Teneva le mani incollate in tasca e fissava la
Regina con disprezzo.
Alec rise.
Un lampo accese gli occhi della Regina. Un
secondo dopo, Alec barcollò all’indietro
lanciando un urlo. Teneva le mani davanti a sé,
guardandole a bocca aperta mentre si
piegavano verso l’interno, con le articolazioni
che si gonfiavano e la pelle che si corrugava. La
schiena gli si ingobbì, i capelli divennero grigi,
gli occhi azzurri persero luce e sprofondarono
in mezzo a rughe marcate. Clary rimase senza
fiato. Dove poco prima c’era Alec, adesso c’era
un vecchio ricurvo, canuto e tremante.
— Quanto rapidamente svanisce la bellezza
mortale — dichiarò trionfante la Regina. —
Guardati, Alexander Lightwood. Ti dono
un’anteprima di come sarai tra soli
sessant’anni. Che cosa penserà quel giorno il
tuo amato stregone della tua bellezza?
Alec ansimava. Isabelle corse subito al suo
fianco e gli prese il braccio. — Alec, non è
niente. Soltanto un incantesimo. — Poi si
rivolse alla Regina. — Ora toglilo. Toglilo!
— Se tu e i tuoi vi rivolgeste a me con
maggiore rispetto, allora potrei anche pensare
di farlo.
— Lo faremo — promise subito Clary. — Ci
scusiamo per la nostra maleducazione.
La Regina sospirò. — Sai, il tuo Jace mi
manca un po’… — disse. — Di tutti voi, era il
più bello e il più cortese.
— Manca anche a noi — rispose Clary con
voce grave. — Non volevamo sembrarti
sgarbati. A volte è difficile trattare con noi
umani, quando stiamo soffrendo.
— Bah — fece la Regina, però schioccò le dita
e sciolse l’incantesimo di Alec. Era di nuovo se
stesso, anche se pallido e sconvolto. La Regina
gli lanciò uno sguardo di superiorità, poi
rivolse di nuovo l’attenzione a Clary.
— Ci sono degli anelli — esordì la fata — che
appartenevano a mio padre. Voglio che tornino
a me, perché sono stati creati dalle fate e
racchiudono un grande potere. Ci consentono
di comunicare fra noi, mente con mente, come
fanno i vostri Fratelli Silenti. So da fonte certa
che al momento sono esposti all’Istituto.
— Ricordo di aver visto qualcosa del genere —
disse lentamente Izzy. — Due anelli, forgiati
dalle fate, contenuti in una teca di vetro al
secondo piano della biblioteca…
— Vuoi che rubi qualcosa dall’Istituto? —
chiese Clary stupita. Di tutti i favori che
avrebbe potuto immaginarsi, quello non era di
certo il primo della lista.
— Non è un furto restituire un oggetto al suo
legittimo proprietario — puntualizzò la Regina.
— E poi troverai Jace per noi? — volle sapere
Clary. — E non dire “forse”. Che cosa farai
esattamente?
— Vi assisterò nelle ricerche — rispose l’altra.
— Vi do la mia parola che il mio aiuto non avrà
prezzo. Posso spiegarvi, per esempio, il motivo
per cui tutti i vostri incantesimi di
ritrovamento sono stati vani. Posso inoltre
dirvi in quale città è più probabile che Jace si
trovi…
— Però il Conclave ti ha interrogata — la
interruppe Simon. — Come hai fatto a non dire
la verità?
— Non fanno mai le domande giuste.
— Ma perché non dire la verità? — volle
sapere Isabelle. — Dov’è la tua alleanza, in
tutto questo?
— Non c’è. Jonathan Morgenstern potrebbe
essere un potente alleato, se non lo rendo un
nemico. Perché metterlo in pericolo o suscitare
la sua collera senza alcun beneficio per noi?
Quello delle fate è un popolo antico. Noi non
prendiamo
decisioni
affrettate.
Prima
aspettiamo di vedere in quale direzione soffia
il vento.
— Allora per te questi anelli valgono tanto
che, se te li portiamo, tu rischieresti di farlo
arrabbiare? — chiese Alec.
La Regina si limitò a fare un sorriso languido
e carico di promesse. — Penso che per oggi
possa bastare — disse. — Fate ritorno da me
con gli anelli e ne riparleremo.
Clary esitò, voltandosi per guardare prima
Alec e poi Isabelle. — Siete d’accordo? Rubare
all’Istituto?
— Se significa trovare Jace… — fece Isabelle.
Alec annuì. — A ogni costo.
Clary si girò di nuovo verso la Regina, che la
guardava con sguardo impaziente. — Allora
direi che abbiamo trovato un accordo.
La Regina si stiracchiò e sul viso le comparve
un sorriso soddisfatto. — Arrivederci, giovani
Shadowhunters. Ma prima un monito, benché
non abbiate fatto nulla per meritarlo.
Ponderate con attenzione l’opportunità di dar
la caccia al vostro amico. Perché accade
sovente, con ciò che viene perso e ritrovato,
che lo si scopra diverso da come lo si era
lasciato…
Erano quasi le quattro, quando Alec arrivò
davanti al portone d’ingresso del palazzo di
Magnus, a Greenpoint. Isabelle lo aveva
convinto a cenare da Taki insieme a Clary e
Simon; sebbene lui in un primo tempo avesse
protestato, ora era felice di aver accettato. Gli
era servita qualche ora per riprendersi, dopo
quello che era accaduto alla Corte Seelie; non
voleva
che
Magnus
vedesse
quanto
l’incantesimo della Regina lo avesse turbato.
Alec non doveva più suonare il campanello
per salire in casa dello stregone: aveva la
chiave, fatto di cui era segretamente
orgoglioso. Aprì il portone e salì le scale,
oltrepassando il primo piano del vicino. Anche
se non aveva mai visto chi abitasse in quel loft,
immaginava che fosse qualcuno coinvolto in
una relazione piuttosto burrascosa: una volta
aveva trovato il pianerottolo disseminato di
oggetti personali, accompagnati da un biglietto
con la scritta BUGIE, BUGIE, SOLTANTO
BUGIE appuntato sul risvolto di una giacca.
Adesso invece, incollato alla porta, c’era un
bouquet di fiori da cui spuntava un bigliettino
con su scritto SCUSA. A New York era così:
degli affari dei tuoi vicini sapevi sempre più di
quanto non avresti voluto.
La porta di Magnus era socchiusa e l’ingresso
pervaso dalla musica a basso volume; quel
giorno toccava a Cˇajkovskij. Alec sentì i
muscoli delle spalle che si rilassavano mentre
la porta d’ingresso si richiudeva dietro di lui.
Non sapeva mai con certezza cosa aspettarsi da
quel posto… Adesso era in stile minimalista:
divani bianchi, tavoli componibili rossi, alle
pareti foto di Parigi in un bianco e nero
nettamente contrastato. Eppure col tempo
l’ambiente era diventato per lui sempre più
familiare, accogliente. L’odore era quello delle
cose che associava a Magnus: inchiostro,
colonia, tè nero Lapsang Souchong, il profumo
caramellato della magia. Prese in braccio
Chairman Meow, che dormiva sul davanzale di
una finestra, e si diresse verso lo studio.
Quando entrò, Magnus alzò lo sguardo.
Indossava quello che per lui era un completo
austero: jeans e maglietta nera con piccole
borchie attorno al collo e alle maniche. I
capelli neri erano sciolti, scompigliati e
aggrovigliati, come se, per noia, se li fosse
tormentati con le dita. Gli occhi del gatto erano
pesanti di stanchezza. Alla vista di Alec, lo
stregone lasciò cadere la penna e fece un
sorriso. — Tu piaci a Chairman.
— Gli piace chiunque gli dia una grattatina
dietro le orecchie — rispose Alec. Dopo aver
cambiato posizione al gatto appisolato, ebbe
quasi l’impressione di sentirsi rimbombare le
sue fusa dentro il petto.
Magnus si appoggiò allo schienale della sedia,
distendendo i muscoli delle braccia mentre
faceva uno sbadiglio. La scrivania era
disseminata di fogli di carta interamente
ricoperti da disegni e da una calligrafia
illeggibile. Sempre lo stesso schema: varianti
dei simboli rimasti sul pavimento del giardino
del tetto dal quale Jace era scomparso. —
Com’era la Regina Seelie?
— La solita.
— Una stronza tremenda, quindi?
— Praticamente. — Alec fornì a Magnus un
breve riassunto di quello che era successo alla
Corte delle fate. Era bravo a sintetizzare: poche
frasi efficaci, neanche una parola di troppo.
Non aveva mai capito le persone che
chiacchieravano senza sosta e nemmeno la
passione di Jace per i giochi di parole tortuosi.
— Sono preoccupato per Clary — commentò
Magnus. — Penso che stia per perdere la sua
testolina rossa.
Alec appoggiò Chairman Meow sulla
scrivania, dove l’animale si chiuse subito a
ciambella e si addormentò di nuovo. — Vuole
trovare Jace. Come biasimarla?
Lo sguardo di Magnus si intenerì. Agganciò
un dito alla vita dei jeans di Alec e lo tirò a sé.
— Stai dicendo che anche tu faresti lo stesso,
se fossi io a sparire?
Alec voltò la faccia, lanciando un’occhiata ai
fogli che Magnus aveva appena messo da
parte. — Stai guardando ancora quelle cose?
Con una punta di delusione, Magnus lasciò la
presa. — Deve esserci una chiave per decifrarli.
Qualche lingua a cui non ho ancora pensato.
Qualcosa di antico. Questa è vecchia magia
nera, molto oscura, niente che io abbia mai
visto prima d’ora. — Osservò di nuovo i fogli,
inclinando la testa di lato. — Potresti passarmi
la tabacchiera, per favore? Quella d’argento,
sul bordo della scrivania.
Alec seguì con lo sguardo il gesto di Magnus e
vide una piccola scatola d’argento adagiata sul
lato opposto della grande scrivania di legno. Si
allungò e la prese. Era una specie di scrigno in
miniatura che poggiava su dei piedini, con un
coperchio bombato sopra il quale comparivano
le iniziali W.S. tempestate di diamanti.
W, pensò. Will?
Will. Magnus aveva fatto quel nome quando
Alec gli aveva chiesto spiegazioni sulle cose
dette da Camille. Santo cielo. È stato molto
tempo fa.
Alec si morse il labbro. — Che cos’è?
— Una tabacchiera — disse Magnus senza
alzare la testa dai suoi carteggi. — Te l’ho
detto.
— Credo sia la prima volta che ne vedo una in
vita mia…
Magnus sorrise. — Erano molto di moda nel
Sette e nell’Ottocento. Questa la uso per
tenerci un po’ di tutto.
Allungò la mano e Alec gli consegnò la
scatolina. — Ti sei mai chiesto… — fece Alec,
interrompendosi e riprendendo di nuovo. — Ti
dà fastidio pensare che Camille è ancora in
giro, da qualche parte? Che è scappata? — E
che è stata colpa mia? pensò Alec senza dirlo.
Non c’era bisogno che Magnus lo sapesse.
— Non ha mai smesso di essere in giro, da
qualche parte — rispose Magnus. — So che il
Conclave non ne è entusiasta, ma sono
abituato a immaginarla che si vive la sua vita
senza venirmi a cercare. Se mai mi ha
infastidito, di certo non lo fa più da molto
tempo.
— Però tu la amavi. Una volta.
Magnus fece scorrere le dita sui diamanti
incastonati nel coperchio della tabacchiera. —
Così pensavo.
— Lei ti ama ancora?
— Non credo — rispose Magnus in tono
asciutto. — L’ultima volta che l’ho vista non è
stata molto gentile. Ovviamente sarà perché io
ho un fidanzato diciottenne con una runa della
resistenza e lei no.
— Riguardo a questa definizione, io… mi
oppongo! — farfugliò Alec. — È una
descrizione che non mi appartiene.
— È sempre stata un tipo geloso — sorrise
Magnus. Era tremendamente bravo a cambiare
argomento, pensò Alec. Magnus aveva già
messo in chiaro altre volte che non gradiva
parlare dei suoi amori passati, ma, a un certo
punto della conversazione, la sensazione di
Alec di sentirsi a proprio agio, in un ambiente
familiare, era svanita. Per quanto giovane
Magnus potesse sembrare (e in quel momento,
a piedi nudi, con i capelli in piedi, dimostrava
circa diciotto anni), a dividerli c’erano
incommensurabili oceani di tempo.
Magnus aprì la scatola, prese delle puntine e
le usò per fissare sulla scrivania il foglio che
poco prima stava studiando. Quando, alzato lo
sguardo, vide l’espressione di Alec, rimase
stupito.
— Tutto bene?
Invece di rispondere, Alec si piegò per
prendergli le mani. Magnus si lasciò alzare in
piedi, guardandolo con aria incuriosita. Prima
che potesse aprire bocca, Alec lo aveva già
tirato a sé per baciarlo. Lo stregone emise un
debole gemito di piacere e gli afferrò la
maglietta da dietro, infilandoci sotto le dita
fredde e appoggiandogliele sulla pelle. Alec gli
si strinse contro, bloccandolo fra sé e la
scrivania. Non che a Magnus dispiacesse,
certo.
— Dai — gli sussurrò all’orecchio. — È tardi,
andiamo a letto.
Magnus si morse il labbro e da sopra la spalla
rivolse ancora uno sguardo alle carte sulla
scrivania, concentrandosi su antiche sillabe di
lingue dimenticate. — Comincia ad andare tu.
Ti raggiungo fra cinque minuti.
— Certo. — Alec drizzò la schiena,
consapevole che, quando Magnus era assorto
nei suoi studi, cinque minuti potevano
tranquillamente diventare cinque ore. — Ci
vediamo dopo.
— Sssst!
Clary si portò l’indice alle labbra prima di far
cenno a Simon di precederla ed entrare in casa
di Luke. Tutte le luci erano spente, il salotto
buio e silenzioso. Indicò al ragazzo di dirigersi
verso camera sua, mentre lei andava in cucina
a prendere un bicchiere d’acqua. Arrivata a
metà strada, restò di sasso.
Dal corridoio sentì la voce di sua madre, una
voce che Clary capiva essere colma di tensione.
Come per lei perdere Jace era il peggiore degli
incubi, così per Jocelyn sapere che Sebastian
era vivo, a piede libero e capace di qualsiasi
cosa, era fonte di un’angoscia straziante.
— Ma l’hanno scagionata, Jocelyn — Clary
sentì dire a Luke, con la voce che variava dal
sussurro al tono normale. — Non ci sarà
nessun tipo di punizione.
— È tutta colpa mia. — La voce di Jocelyn,
invece, era soffocata, come se avesse sepolto la
testa contro la spalla di Luke. — Se non
avessi… messo al mondo quella creatura, ora
Clary non dovrebbe affrontare tutto questo.
— Ma tu non potevi saperlo… — La voce di
Luke si spense in un mormorio e, sebbene
Clary sapesse che lui aveva ragione, per un
istante provò un colpevole fremito di rabbia
verso sua madre. Pensò che Jocelyn avrebbe
dovuto uccidere Sebastian in culla, senza
dargli il tempo di crescere e rovinare le loro
vite, ma, nell’istante in cui lo fece, si vergognò
di se stessa. Si girò e tornò verso l’estremità
opposta della casa, precipitandosi in camera
sua e chiudendosi la porta alle spalle come se
qualcuno la stesse seguendo.
Simon, che era rimasto seduto sul letto a
giocare col Nintendo DS, la guardò stupito. —
Tutto okay?
Lei cercò di fargli un sorriso. Simon era una
presenza familiare in camera sua; crescendo,
era capitato più volte che dormissero da Luke.
Clary aveva fatto il possibile per trasformare
quella che prima era soltanto una stanza in
qualcosa di davvero suo: foto di lei con Simon
o con Jace e foto della sua famiglia o dei
Lightwood erano infilate a casaccio nella
cornice dello specchio sopra il cassettone.
Luke le aveva regalato un tavolo da disegno e
lei aveva ordinatamente riposto materiali e
colori dentro un armadietto a scomparti.
Inoltre aveva appeso i poster dei suoi anime
preferiti: Fullmetal Alchemist, Rurouni
Kenshin, Bleach.
Qua e là comparivano anche le prove della
sua vita da Shadowhunter: una voluminosa
copia del Codice con note e schizzi sui margini;
una mensola piena di libri sull’occulto e il
paranormale; lo stilo sopra la scrivania e,
infine, un nuovo mappamondo, dono di Luke,
che mostrava Idris bordata in oro al centro
dell’Europa.
E Simon, seduto a gambe incrociate al centro
del suo letto, era uno dei pochi elementi che
appartenevano tanto alla sua vecchia vita
quanto alla nuova. Lui la guardava con quei
suoi occhi neri a contrasto con la carnagione
pallida, lo scintillio del Marchio di Caino
appena visibile sulla fronte.
— Mia madre — disse appoggiandosi contro
la porta — non sta bene, davvero.
— Ma non si sente sollevata? Voglio dire, ti
hanno scagionata.
— Non riesce a fare a meno di pensare a
Sebastian. Non riesce a non sentirsi in colpa…
— Ma lei non c’entrava. La colpa è di
Valentine.
Clary non disse nulla. Stava ricordando
l’orribile pensiero che aveva appena avuto,
ovvero che sua madre avrebbe dovuto uccidere
Sebastian appena nato.
— Tutt’e due — proseguì Simon — vi sentite
responsabili di cose che non dipendono da voi.
Tu non ti perdoni di aver lasciato Jace su quel
tetto…
Clary alzò la testa di scatto e lo guardò dritto
negli occhi. Non ricordava di aver mai detto di
sentirsi in colpa per questo, pur avendolo fatto
in cuor suo. — Io non ho mai…
— Oh sì, invece — ribatté Simon. — Però l’ho
lasciato io, l’ha lasciato Izzy, l’ha lasciato Alec.
E Alec è il suo parabatai. Non c’era modo di
sapere. E forse, se tu fossi rimasta, le cose
sarebbero andate anche peggio.
— Forse. — Clary non voleva parlarne.
Evitando lo sguardo di Simon, andò in bagno a
lavarsi i denti e a mettersi il pigiama felpato.
Cercò di non incrociare la propria immagine
allo specchio. Odiava quel colorito pallido e le
occhiaie. Lei era forte: non avrebbe ceduto.
Aveva un piano. Non importava se era un po’
folle e prevedeva di dover rubare all’Istituto.
Finito di lavare i denti, uscì dal bagno
raccogliendosi i capelli a coda di cavallo. In
quell’istante sorprese Simon che rimetteva
dentro la borsa a tracolla una bottiglia di
quello che quasi sicuramente era il sangue
comprato da Taki.
Lo raggiunse e gli scompigliò i capelli. — Puoi
tenere le bottiglie in frigorifero, lo sai — gli
disse. — Se non ti piace a temperatura
ambiente, intendo.
— In realtà, freddo è anche peggio. La cosa
migliore è scaldarlo, ma credo che tua madre
non sarebbe felicissima di lasciarmi usare le
sue pentole.
— Jordan che dice? — domandò Clary,
chiedendosi se in effetti il coinquilino di Simon
ricordasse di avere ancora qualcuno a casa,
visto che Simon aveva dormito da lei tutte le
notti dell’ultima settimana. I primi giorni dopo
la scomparsa di Jace, lei non riusciva a
prendere sonno. Si metteva addosso cinque
coperte, eppure continuava a sentire freddo.
Rimaneva sdraiata a occhi aperti, tremante,
immaginandosi il sangue gelarsi nelle sue
vene, cristalli di ghiaccio che creavano attorno
al cuore un reticolo luccicante simile a un
corallo. Faceva sogni dominati da oceani neri,
distese di neve e laghi ghiacciati, nei quali il
viso di Jace era sempre nascosto dall’ombra,
da un lembo di nuvola o dai suoi stessi capelli
lucenti. Non dormiva più di qualche minuto
per volta, svegliandosi sempre con la
soffocante sensazione di annegare.
Il primo giorno in cui il Consiglio l’aveva
interrogata, era tornata a casa e si era messa a
letto. Era rimasta così, perfettamente sveglia,
finché non aveva sentito bussare alla finestra.
Poi Simon era entrato, evitando per un pelo di
cadere sul pavimento. Senza dire una parola,
era salito anche lui sul letto e le si era sdraiato
accanto. Aveva la pelle fredda per essere
arrivato da fuori, portava con sé odore di città
e d’inverno incombente.
Lei gli aveva sfiorato la spalla con la propria,
sciogliendo un briciolo della tensione che le
serrava il corpo come un pugno. Lui aveva la
mano fredda, certo, ma familiare, come lo era
anche il contatto della sua giacca di velluto
contro il braccio.
— Per quanto ti puoi fermare? — gli aveva
sussurrato al buio.
— Quanto vuoi tu.
Si era girata sul fianco per guardarlo. — A
Izzy non dispiacerà?
— È stata lei a consigliarmi di venire qui. Mi
ha detto che non dormivi e che, se avermi
vicino serviva a farti stare meglio, allora
dovevo restare. Oppure posso restare solo
finché non ti addormenti.
Clary aveva tirato un sospiro di sollievo. —
Rimani tutta la notte — gli aveva chiesto. —
Per favore.
Lui era rimasto. E quella notte Clary non
aveva avuto incubi.
Se c’era Simon, il suo sonno era sgombro,
privo di sogni, un mare buio fatto di nulla, un
oblio indolore.
— A Jordan non importa granché del sangue
— disse ora Simon. — A lui interessa che io mi
senta a mio agio con quello che sono: entrare
in contatto col proprio vampiro interiore
eccetera…
Clary gli scivolò accanto sul letto e abbracciò
un cuscino. — Il tuo vampiro interiore è
diverso dal tuo… vampiro esteriore?
— Decisamente. Vuole che indossi cappelli di
feltro e top con l’ombelico scoperto, ma io sto
lottando.
Clary abbozzò un sorriso. — Quindi il tuo
vampiro interiore è Magnus?
— Aspetta, mi hai fatto venire in mente una
cosa. — Simon si mise a rovistare dentro la
borsa a tracolla e ne estrasse due manga che
sventolò trionfante prima di consegnarli a
Clary. — Magical Love Gentleman numero
quindici e sedici — annunciò. — Esauriti
ovunque tranne che da Midtown Comics.
Clary li prese e osservò le copertine
coloratissime. Una volta avrebbe alzato in aria
le braccia con l’entusiasmo di una vera fan,
adesso invece non riuscì a produrre più di un
sorriso e un grazie. Ma Simon lo aveva fatto
per lei, pensò, il gesto gentile di un buon
amico. Era quello che contava, anche se non
poteva neanche lontanamente immaginare di
mettersi a leggere in quel momento. — Sei
fantastico — gli disse dandogli un colpetto con
la spalla. Si sdraiò contro i cuscini, tenendosi i
manga in equilibrio sulle gambe. — E grazie
per essere venuto con me alla Corte Seelie. So
che ti fa tornare in mente dei brutti ricordi,
ma… Quando ci sei tu sto sempre meglio.
— Sei stata grande. Ti sei mangiata la Regina
in un boccone! — Simon le si mise accanto,
spalla contro spalla, guardando in alto le
familiari crepe sul soffitto e le stelle adesive
fluorescenti che ormai non si illuminavano
più. — Quindi lo farai? Ruberai gli anelli per la
Regina?
— Sì. — Clary lasciò andare un respiro
trattenuto troppo a lungo. — Domani. A
mezzogiorno c’è una riunione del Conclave a
cui parteciperanno tutti. Lo farò in quel
momento.
— Non mi piace, Clary.
Lei si sentì irrigidire. — Non ti piace cosa?
— Che tu abbia a che fare con le fate. Le fate
sono bugiarde.
— Ma se non possono mentire!
— Dai, hai capito cosa intendo. E poi dire “le
fate sono fuorvianti” non suona bene.
Clary girò la testa e guardò Simon, tenendogli
appoggiato il mento sulla clavicola. Il braccio
di lui salì automaticamente a circondare le
spalle di lei, tirandosela vicino. Lui aveva il
corpo freddo e ancora umido per via della
pioggia; i capelli, di solito dritti come
spaghetti, erano arricciati. — Credimi,
nemmeno a me piace avere a che fare con la
Corte. Ma io per te lo farei — gli disse Clary. —
Come tu lo faresti per me, giusto?
— Certo che sì. Però resta una cattiva idea. —
Simon la guardò negli occhi. — Lo so come ti
senti. Quando mio padre è morto…
Lei si irrigidì. — Jace non è morto.
— Lo so, non era quello che intendevo dire. È
solo che… non hai bisogno di dire che stai
meglio quando ci sono io. Io sono sempre con
te. Il dolore ti fa sentire sola, ma non lo sei. So
che non credi in… che non credi alla religione
come ci credo io, però, al fatto di essere
circondata da persone che ti vogliono bene, ci
credi, no? — Aveva gli occhi grandi, fiduciosi.
Erano del solito castano scuro, ma in un certo
senso diversi, come se al loro colore abituale se
ne fosse aggiunto un altro strato. E la pelle era
priva di pori e traslucida allo stesso tempo.
Ci credo, pensò. Ma non sono sicura che
serva. Gli diede un altro colpetto con la spalla.
— Senti, ti dispiace se ti faccio una domanda?
È personale ma importante.
Nella voce di Simon si insinuò una nota di
allarme. — Cosa?
— Con questa storia del Marchio di Caino, se
stanotte per sbaglio ti do un calcio, me ne
becco altri sette negli stinchi da una forza
invisibile?
Lo sentì ridere. — Dormi, Fray.
capitolo 3
ANGELI CATTIVI
— Ehi bello! Cos’è, ti eri dimenticato che
abitavi qui? — disse Jordan appena Simon
entrò
nel
salotto
del
loro
piccolo
appartamento, ancora con le chiavi che gli
penzolavano in mano. In genere trovava
Jordan stravaccato sul divano, le lunghe
gambe ciondolanti oltre il bordo e il
telecomando della Xbox in mano. Quel giorno
era effettivamente sul divano, ma seduto
dritto, con le larghe spalle incurvate in avanti,
le mani nelle tasche dei jeans e nessuna traccia
di videogiochi accesi. Sembrava felice di
rivedere Simon, e un secondo dopo l’altro capì
perché.
Jordan non era solo in casa. Davanti a lui, su
una poltrona di velluto arancio consunto (in
quella casa non c’era un solo pezzo di
arredamento coordinato), sedeva Maia, che
aveva domato i suoi ricci selvaggi con due
trecce. L’ultima volta che Simon l’aveva vista,
era vestita di tutto punto per una festa. Adesso
era tornata alla sua solita divisa: jeans con
l’orlo sfrangiato, maglietta a maniche lunghe,
giacca di pelle color caramello. Sembrava a
disagio quanto Jordan: schiena dritta, sguardo
perso fuori dalla finestra. Quando vide Simon
fu felice di alzarsi in piedi e abbracciarlo. —
Ciao — lo salutò. — Sono venuta a vedere come
andava.
— Bene. Cioè, bene per quanto possa andare
bene con tutto quel che sta succedendo.
— In realtà non mi riferivo a Jace — disse. —
Mi riferivo a te. Come ti senti?
— Io? — Simon era sorpreso. — Sto bene.
Sono preoccupato per Isabelle e Clary. Sai che
il Conclave ha fatto delle indagini su di lei e…
— Ho sentito che è stata dichiarata innocente,
meno male. — A quel punto Maia si sciolse
dall’abbraccio. — Ma io pensavo a te. E a
quello che ti è successo con tua madre.
— Come fai a saperlo? — chiese Simon
lanciando un’occhiata a Jordan, il quale però
scosse la testa in modo quasi impercettibile.
Lui non aveva parlato.
Maia si portò una treccia davanti alla spalla.
— Ho incontrato per caso Eric, tu pensa. Mi ha
raccontato quello che è successo e ha detto
che, per questo motivo, rinunci da due
settimane ai concerti con i Millenium Lint.
— In realtà hanno cambiato nome — precisò
Jordan. — Ora si chiamano Midnight Burrito.
Maia fulminò Jordan con lo sguardo e lui
scivolò un po’ più in giù sul divano. Simon si
chiese cosa stessero dicendo prima che lui
entrasse in casa. — Ne hai parlato con altri
della tua famiglia? — domandò Maia con voce
tenera. I suoi occhi ambrati erano carichi di
preoccupazione. Simon sapeva che era una
reazione un po’ da orso, ma essere fissato in
quel modo non gli piaceva. Era come se l’ansia
di lei rendesse il problema reale, quando
altrimenti poteva far finta che non esistesse.
— Ma sì — rispose. — Con la famiglia tutto
bene.
— Sul serio? Perché hai dimenticato qui il
telefono — intervenne Jordan prendendo
l’apparecchio dal tavolo — e oggi tua sorella ti
ha chiamato più o meno ogni cinque minuti.
Come ieri, del resto.
Simon si sentì percorrere lo stomaco da un
brivido di freddo. Prese il cellulare dalle mani
di Jordan e guardò lo schermo. Diciassette
chiamate perse di Rebecca.
— Merda. Speravo di non arrivare a tanto —
disse.
— Be’, è tua sorella, prima o poi ti avrebbe
cercato — osservò Maia.
— Lo so, ma ho provato a tenerla un po’
tranquilla… Tipo lasciandole dei messaggi
quando sapevo di non trovarla, quel genere di
cose. È che… Sì, forse stavo solo cercando di
evitare l’inevitabile.
— E adesso?
Simon appoggiò il telefono sul davanzale
della finestra. — Continuo a evitarla?
— Non farlo — disse Jordan togliendosi le
mani di tasca. — Dovresti parlarle.
— Per dirle cosa? — La domanda gli uscì più
acida del previsto.
— Tua madre deve averle detto qualcosa — gli
fece notare Jordan. — Sarà preoccupata.
Simon fece di no con la testa. — Tra poche
settimane torna a casa per il Giorno del
Ringraziamento. Non voglio coinvolgerla in
quello che sta succedendo con mia madre.
— Ma lei è già coinvolta. Fa parte della tua
famiglia! — intervenne Maia. — Inoltre “quello
che sta succedendo con tua madre”, insomma
tutta questa storia, ormai fa parte della tua
vita.
— E allora penso che sia meglio se lei ne resta
fuori. — Simon sapeva che si stava
comportando in maniera irragionevole, ma
non riusciva a farne a meno. Rebecca era…
speciale. Diversa. Apparteneva a una delle
parti della sua vita che fino a quel momento
erano rimaste al riparo da tutto quel delirio.
Anzi, forse l’unica parte.
Maia lanciò in aria le mani, esasperata, e si
rivolse a Jordan. — Digli qualcosa! Sei o no il
suo custode pretoriano?
— Dai, piantatela — disse Simon prima
ancora che Jordan potesse aprire bocca. — Chi
di voi due è ancora in contatto con i genitori?
Con la famiglia?
Gli altri si scambiarono un rapido sguardo. —
Questo è vero, ma comunque nessuno di noi
aveva un bel rapporto già da prima…
— Come volevasi dimostrare — fece Simon. —
Siamo tutti orfani. I tre orfanelli!
— Non puoi ignorare tua sorella, e basta —
insistette Maia.
— Lo vedrai.
— E quando Rebecca tornerà a casa e la
troverà trasformata nel set dell’Esorcista? E
tua madre non saprà dirle dove sei finito? —
Jordan si sporse in avanti, tenendo le mani
sulle ginocchia. — Tua sorella chiamerà la
polizia e tua madre finirà nei guai.
— È che non credo di essere pronto a sentire
la sua voce — tentò di dire Simon, sapendo che
ormai non aveva più scuse. — Ora devo uscire
di nuovo, ma prometto che le manderò un
messaggio.
— Be’… — fece Jordan non guardando Simon
bensì Maia, nella speranza che lei avesse
notato il progresso appena fatto e ne fosse
compiaciuta. Simon intanto si stava chiedendo
se quei due si fossero visti, nelle due settimane
in cui lui era praticamente scomparso.
Avrebbe
detto
di
no,
a
giudicare
dall’atteggiamento imbarazzato che avevano
quando era entrato, ma con quei due non si
poteva mai dire. — È già un inizio.
Il cigolante ascensore d’ottone si fermò al
terzo piano dell’Istituto. Clary fece un respiro
profondo e uscì sul corridoio. Come promesso
da Alec e Isabelle, era silenzioso e deserto. Il
traffico su York Avenue arrivava all’interno
come tenue mormorio, tanto che Clary
immaginò di sentire il rumore dei granelli di
pulviscolo che si sfioravano l’un l’altro
danzando nel fascio di luce proveniente dalla
finestra. Lungo la parete c’erano gli
attaccapanni dove i residenti dell’Istituto
appendevano i cappotti quando entravano.
Una delle giacche nere di Jace era ancora lì,
con le sue maniche vuote e spettrali.
Clary rabbrividì e si incamminò lungo il
corridoio. Ricordava ancora la prima volta in
cui Jace l’aveva accompagnata in quel posto,
raccontandole con voce spensierata degli
Shadowhunters, di Idris, di tutto un mondo
segreto che lei non aveva mai saputo esistesse.
Mentre parlava lo aveva osservato, cercando di
non farsi notare, chiaro, ma sapendo che con
lui era impossibile: i capelli chiari che
risplendevano alla luce, i movimenti veloci
delle mani eleganti, la contrazione dei muscoli
delle braccia quando le piegava.
Raggiunse la biblioteca senza incontrare altri
Shadowhunters e aprì la porta. La stanza le
diede lo stesso brivido della prima volta che
l’aveva vista. Circolare, perché costruita dentro
una torre, la biblioteca aveva anche una
galleria soppalcata e protetta da una ringhiera
che correva lungo la metà della parete, appena
sopra le file di scaffali pieni di libri. La
scrivania, che per Clary era ancora quella di
Hodge, giaceva al centro della stanza, ricavata
da un unico tronco di quercia, con la sua
ampia superficie sostenuta da due angeli
inginocchiati. Per poco non si aspettò di
vederlo seduto ancora lì, col suo corvo dallo
sguardo attento, Hugo, appollaiato sulla
spalla.
Scuotendosi di dosso i ricordi, si mosse veloce
verso la teca circolare posta all’altra estremità
della stanza. Indossava un paio di jeans e
scarpe da tennis, e sulla caviglia aveva una
runa del Silenzio. L’effetto era quasi sinistro,
mentre saliva i gradini per raggiungere la
galleria. Anche lì sopra c’erano libri, ma erano
chiusi dentro delle vetrine. Alcuni, con le
copertine consunte e le rilegature ridotte a
pochi fili, avevano un’aria molto antica. Altri
invece erano chiaramente libri di magia
pericolosa: Culti indicibili, Peste del demonio,
Guida pratica per resuscitare i morti.
Fra gli scaffali chiusi a chiave c’erano delle
teche, ognuna delle quali conteneva manufatti
di grande rarità e bellezza: un raffinato flacone
di vetro con uno smeraldo come tappo; una
corona con un diamante al centro che aveva
l’aria di non potersi adattare ad alcuna testa
umana; un ciondolo a forma di angelo le cui ali
erano ingranaggi di un orologio. Nell’ultima,
come promesso da Isabelle, splendevano un
paio di anelli d’oro a forma di foglie incurvate,
a riprova che l’artigianato delle fate era
delicato come il respiro di un bambino.
La teca era chiusa, ovviamente, ma la runa di
apertura (Clary si mordicchiò il labbro mentre
la disegnava, attenta a non renderla troppo
potente in modo da evitare di mandare in
frantumi il vetro facendo accorrere tutti) ebbe
la meglio sul lucchetto. Fu solo quando si
rimise lo stilo in tasca che provò un attimo di
esitazione.
Era davvero lei? Rubare al Conclave per
ricompensare la Regina del Popolo Fatato, una
le cui promesse, come una volta aveva detto
Jace, erano scorpioni con un pungiglione
uncinato sulla coda?
Scosse la testa come per liberarsi dai dubbi…
e restò paralizzata. La porta della biblioteca si
stava aprendo. Sentì lo scricchiolio del legno,
voci soffocate, passi. In un secondo si buttò a
terra, sdraiandosi sul freddo parquet della
galleria.
— Avevi ragione, Jace — disse dal basso una
voce divertita e orribilmente familiare. — Qui
non c’è nessuno.
Fu come se il ghiaccio che Clary si sentiva
nelle vene si cristallizzasse, immobilizzandola
sul posto. Non riusciva a muoversi, a respirare.
Non provava uno shock così intenso da
quando aveva visto suo padre infilare una
spada nel petto di Jace. Molto lentamente, si
sporse verso il bordo della galleria e guardò
giù.
E si morse con dolore il labbro per impedirsi
di gridare.
Il soffitto sopra la sua testa saliva a punta e
terminava in un lucernario. La luce del sole
scendeva verso il basso illuminando parte del
pavimento come un occhio di bue su un
palcoscenico. Clary riusciva a vedere che i
frammenti di vetro e di marmo incastonati nel
pavimento, misti a gemme semipreziose,
formavano la sagoma dell’angelo Raziel con le
ali dischiuse, la coppa e la spada. In piedi,
accanto a una delle ali, c’era Jonathan
Christopher Morgenstern.
Sebastian.
Allora era quello l’aspetto di suo fratello. Il
suo vero aspetto, ora che era vivo, animato, in
movimento. Un viso pallido, tutto spigoli e
linee rette, fisico alto e magro in divisa nera.
Aveva i capelli di un bianco argenteo, non scuri
come la prima volta che lo aveva visto, quando
se li era tinti per imitare il colore del vero
Sebastian Verlac. Il suo bianco naturale gli
stava meglio. Gli occhi erano neri, guizzanti di
vita e di energia. L’ultima volta che lo aveva
visto, galleggiante dentro una bara di vetro
come se fosse Biancaneve, una delle sue mani
era ridotta a un moncone bendato. Ora quella
mano era di nuovo integra, con un braccialetto
d’argento che brillava al polso, ma niente di
visibile lasciava pensare che fosse mai stata
ferita o, meglio, amputata.
E lì, accanto a lui, coi suoi capelli lucenti che
brillavano alla pallida luce del sole, c’era Jace.
Non il Jace che aveva più volte immaginato nel
corso delle ultime due settimane: malconcio,
sanguinante, sofferente, affamato, rinchiuso in
una cella buia, che gridava di dolore o urlava il
suo nome. Davanti ai suoi occhi c’era un
ragazzo in salute, pieno di vita, bellissimo.
Teneva con disinvoltura le mani nelle tasche
dei jeans, i marchi visibili sotto la maglietta
bianca. Indossava un giubbino marrone
scamosciato, nuovo per Clary, che metteva in
risalto la sfumatura ambrata della sua pelle.
Reclinò la testa all’indietro, come se si stesse
godendo la sensazione del sole sulla pelle. — Io
ho sempre ragione, Sebastian — disse. —
Ormai dovresti saperlo.
Sebastian gli rivolse un’occhiata scettica, poi
gli fece un sorriso. Clary li fissava. Sì, aveva
proprio l’aspetto di un vero sorriso, ma come
poteva esserne sicura? Sebastian aveva sorriso
diverse volte anche a lei, ma poi la cosa si era
rivelata una menzogna. — Allora, dove sono i
libri sulle evocazioni? C’è un ordine in questo
caos?
— Non proprio, i libri non sono disposti in
ordine alfabetico. Seguono la speciale
classificazione di Hodge.
— Ma non è quello che ho ucciso io? Poco
pratico, direi — furono le parole di Sebastian.
— Forse è meglio se io vado di sopra e tu
guardi qui sotto.
Andò verso la scala che portava alla galleria.
Il cuore di Clary iniziò a palpitare di paura.
Associava Sebastian al sangue, al dolore, al
terrore e alla morte. Sapeva che una volta Jace
aveva lottato contro di lui e aveva vinto, ma
per poco non ci aveva rimesso la vita. In un
confronto corpo a corpo, Clary non avrebbe
mai potuto battere suo fratello. Sarebbe
riuscita a lanciarsi dalla ringhiera della galleria
al pavimento senza rompersi una gamba? E, se
lo avesse fatto, cosa sarebbe accaduto? Come
avrebbe reagito Jace?
Sebastian aveva già un piede sul gradino più
basso della scala, quando Jace gli gridò: —
Aspetta, sono qui, sotto la voce “Magia - Non
letale”.
— Non letale? E allora che gusto c’è? —
mormorò Sebastian, ma tolse comunque il
piede dal gradino e tornò da Jace.
— Questa sì che è una biblioteca — disse
scorrendo i titoli dei volumi a cui passava
accanto. — Cura e alimentazione del Pet Imp.
I demoni messi a nudo — lesse da uno dei libri.
Lo prese dallo scaffale e fece una lunga risata
gutturale.
— Che cos’è? — Jace alzò lo sguardo, mentre
gli angoli della bocca gli si sollevavano. La
voglia di correre al piano di sotto e buttarsi fra
le sue braccia era così forte che Clary dovette
mordersi di nuovo il labbro. Il dolore fu
lancinante.
— È pornografia — rispose Sebastian. —
Guarda. Demoni… messi a nudo!
Jace lo raggiunse da dietro, appoggiandogli
una mano sul braccio per stare in equilibrio
mentre gli leggeva da sopra la spalla. Era come
vederlo insieme ad Alec, una persona con cui
era del tutto a suo agio, che toccava con
disinvoltura. Eppure era uno spettacolo
orrendo, assolutamente orrendo. — Okay. E
come fai a dirlo?
Sebastian chiuse il libro e lo usò per dare un
colpetto alla spalla a Jace. — Ci sono cose in
cui sono più esperto di te. Hai preso i libri?
— Presi. — Jace sollevò un mucchio di pesanti
tomi da un tavolo vicino. — Facciamo in tempo
a passare in camera mia? Se potessi prendere
delle cose…
— Cosa ti serve?
Jace scrollò le spalle. — Vestiti, soprattutto.
Armi.
Sebastian fece di no con la testa. — Troppo
pericoloso. Dobbiamo entrare e uscire in
fretta, solo cose di emergenza.
— La mia giacca preferita è un’emergenza —
replicò Jace. Sembrava proprio di sentirlo
parlare con Alec, con un amico. — È un po’
come il proprietario, è calda e alla moda.
— Senti, abbiamo tutti i soldi che possiamo
desiderare — gli disse Sebastian. —
Comprateli, i vestiti. E fra poche settimane
sarai tu a gestire questo posto. Potrai issare la
tua giacca su un palo e sventolarla come una
bandiera.
Jace rise, quel suono morbido e ricco che
Clary adorava. — Ti avviso, quella giacca è
sexy. L’Istituto potrebbe accendersi del fuoco
della passione.
— E non gli farebbe male. Così è troppo triste.
— Sebastian afferrò Jace per la schiena del
giubbino che indossava in quel momento e gli
diede uno strattone. — Ora ce ne andiamo.
Tieniti stretti i libri. — Si guardò la mano
destra, dove luccicava un sottile anello
d’argento; col pollice della mano che non stava
trattenendo Jace, lo fece roteare.
— Ehi! — fece l’altro. — Pensi che… — Ma si
interruppe, e per un istante Clary pensò di
essere stata scoperta, visto che Jace aveva la
testa piegata verso l’alto. Invece, nel tempo che
trattenne il respiro, i due erano già svaniti,
scomparsi come miraggi in un soffio di vento.
Lentamente, Clary abbassò la testa sul
braccio. Il labbro le sanguinava nel punto dove
lo aveva morso; si sentiva il sangue in bocca.
Sapeva di doversi alzare, muoversi, scappare
via. Non doveva essere lì. Eppure il ghiaccio
dentro le sue vene era così freddo che temeva,
se si fosse mossa, di esplodere in mille
schegge.
Alec si svegliò con Magnus che gli scuoteva
una spalla. — Dai, fiorellino — gli disse. — È
ora di affrontare una nuova giornata.
Alec, ancora intontito, si liberò dal nido di
cuscini e di coperte, poi guardò il suo ragazzo.
Magnus, benché avesse dormito ben poco,
aveva un aspetto fastidiosamente pimpante.
Capelli bagnati che grondavano acqua sulle
spalle e rendevano trasparente la maglietta
bianca; jeans strappati e orli scuciti, di solito
segnale che aveva intenzione di trascorrere
l’intera giornata senza uscire di casa.
— Fiorellino? — ripeté Alec.
— Era una prova.
Alec fece di no con la testa. — Non ci siamo.
Magnus scrollò le spalle. — Continuerò a
lavorarci — disse porgendogli una tazza
azzurra sbreccata contenente il caffè come
piaceva ad Alec: poco zucchero e niente latte.
— Svegliati.
Alec si mise seduto, strofinò gli occhi e prese
la tazza. Il primo sorso amaro fece partire una
scintilla di energia che gli attraversò i nervi. Si
ricordò che la sera prima era rimasto sveglio
per un po’ ad aspettare Magnus, ma alla fine la
stanchezza aveva avuto la meglio e, verso le
cinque del mattino, era crollato. — Oggi salto
la riunione del Consiglio.
— Lo so, ma devi incontrare tua sorella e gli
altri, al parco vicino al Turtle Pond. Mi hai
chiesto di ricordartelo.
Alec buttò giù le gambe dal letto. — Che ore
sono?
Magnus gli tolse delicatamente la tazza dalle
mani prima che il caffè si rovesciasse e la
appoggiò sul comodino. — Tranquillo, hai
un’ora. — Si sporse in avanti e premette le
labbra contro le sue. Alec allora ricordò la
prima volta che si erano baciati, proprio in
quell’appartamento, e provò il desiderio di
stringere il suo ragazzo fra le braccia per
tirarlo a sé. Qualcosa però lo trattenne.
Si alzò, liberandosi dalle lenzuola, e andò
verso la cassettiera. Uno degli scomparti era
per lui. In bagno c’era anche il suo spazzolino.
E poi aveva la chiave della porta d’ingresso.
Insomma, occupava un territorio niente male
della vita di qualcun altro, eppure non riusciva
a liberarsi lo stomaco da quel senso di gelida
paura.
Magnus intanto si era rotolato sul letto e,
sdraiato a pancia in su, osservava Alec con un
braccio piegato sotto la testa. — Mettiti quella
sciarpa — gli consigliò indicandogli una
striscia di cachemire azzurro appesa
sull’attaccapanni. — Si abbina ai tuoi occhi.
Alec la guardò. All’improvviso si sentì
traboccare di odio: per la sciarpa, per Magnus,
ma soprattutto per se stesso. — Non dirmelo —
disse. — Non dirmi che la sciarpa ha cento
anni, che è un dono che la regina Vittoria ti ha
fatto prima di morire in cambio di qualche
speciale servigio alla Corona o cose del genere.
Magnus si mise seduto. — Che cosa ti è
preso?
Alec lo fissava. — Per caso sono io la cosa più
nuova di tutta la casa?
— Credo che l’onore spetti a Chairman Meow.
Ha solo due anni.
— Ho detto la più nuova, non la più giovane
— ribatté Alec. — Chi è W.S.? Si tratta di Will?
Magnus scosse la testa come se avesse
dell’acqua dentro le orecchie. — Ma cosa
diavolo… Parli della tabacchiera? W.S. sta per
Woolsey Scott. Lui…
— Lui è il fondatore del Praetor Lupus, lo so.
— Alec si mise i jeans e chiuse la zip. — Hai già
parlato di lui, e poi è un personaggio storico.
Tieni la sua tabacchiera nel cassetto delle
cianfrusaglie. Che altro c’è, là dentro? Il
tagliaunghie di Jonathan Shadowhunter?
Gli occhi da gatto di Magnus erano freddi. —
Perché questa scenata, Alexander? Io non ti
dico bugie. Se c’è qualcosa che vuoi sapere di
me, chiedimelo.
—
Figuriamoci!
—
esclamò
Alec
abbottonandosi la camicia. — Sei simpatico,
gentile e tante altre cose, ma di certo non sei
trasparente, fiorellino. Sai parlare tutto il
giorno dei problemi degli altri, ma di te e della
tua storia non dici nulla, e quando ti faccio una
domanda ti contorci come un verme su un
amo.
— Forse perché non puoi chiedermi qualcosa
del mio passato senza che si cominci a litigare
sul fatto che io vivrò per sempre e tu no —
ribatté Magnus. — Forse perché l’immortalità
si sta rapidamente trasformando nel terzo
incomodo della nostra relazione, Alec.
— La nostra relazione non prevede un terzo.
— Esattamente.
Alec si sentì irrigidire il collo. C’erano mille
cose che avrebbe voluto dire, ma non era mai
stato bravo con le parole quanto Jace o lo
stesso Magnus. E così strappò la sciarpa
azzurra dall’appendiabiti e se la avvolse, in
gesto di sfida, attorno al collo.
— Non aspettarmi alzato. Stanotte potrei
andare in perlustrazione — annunciò.
Uscendo di casa sbattendo la porta, sentì
Magnus che gli gridava: — E quella sciarpa,
per tua informazione, è di Gap! L’ho comprata
l’anno scorso!
Alec alzò gli occhi al cielo e infilò le scale che
portavano nell’atrio d’ingresso. L’unica
lampadina che di solito lo illuminava era
fulminata, rendendo tutto così buio che, per
un attimo, non si accorse della figura
incappucciata che gli stava scivolando
incontro. Quando la vide, si spaventò al punto
da far cadere il portachiavi, che colpì con
fragore il pavimento.
La sagoma stava davvero avanzando nella sua
direzione. Non riusciva a descriverla, né per
età né per sesso e forse nemmeno per specie.
La voce che proveniva da sotto il cappuccio era
bassa e gracchiante: — Ho un messaggio per
te, Alec Lightwood. Da parte di Camille
Belcourt.
— Questa sera vuoi che andiamo in
perlustrazione insieme? — chiese Jordan in
maniera involontariamente brusca.
Maia si girò per guardarlo, stupita. Lui era
appoggiato con la schiena al bancone della
cucina, con i gomiti sopra il ripiano. Nella sua
posizione c’era una disinvoltura troppo
studiata per essere sincera. Era quello il
problema, quando conoscevi troppo bene una
persona, pensò. Fingere era molto difficile,
così come ignorare il fatto che fosse lei a farlo,
persino nei casi in cui sarebbe stata la scelta
più facile.
— In perlustrazione insieme? — gli fece eco
lei. Simon era in camera sua a cambiarsi e
Maia gli aveva detto che lo avrebbe
accompagnato alla metro, ma ora se n’era
pentita. Sapeva che avrebbe dovuto chiamare
Jordan dopo l’ultima volta che lo aveva visto,
ovvero quando, poco saggiamente, l’aveva
baciato. Ma poi Jace era scomparso e il mondo
intero sembrava essere crollato, fornendole un
buon pretesto per evitare l’imbarazzante
questione.
Ovviamente, evitare di pensare all’ex
fidanzato che ti aveva spezzato il cuore e ti
aveva trasformata in un lupo mannaro era
molto più semplice se non lo avevi davanti agli
occhi, con addosso una maglietta verde che
stringeva nei punti giusti il suo fisico snello e
muscoloso e metteva in risalto gli occhi color
nocciola.
— Pensavo che avessero abbandonato le
ricerche — rispose Maia, distogliendo lo
sguardo.
— Be’, più che averle abbandonate hanno
deciso di ridurle. Ma io appartengo al Praetor,
non al Conclave. Posso cercare Jace anche da
solo.
— Giusto — disse lei.
Jordan stava giocherellando con qualcosa sul
bancone, ma l’attenzione era sempre rivolta a
Maia. — Vuoi ancora… cioè, ricordo che una
volta volevi andare a studiare a Stanford. E
adesso?
Maia ebbe un tuffo al cuore. — Non penso
all’università da quando… — si schiarì la voce.
— Da quando sono stata trasformata.
Lui arrossì. — Tu eri… sì, insomma, hai
sempre sognato di andare in California. Volevi
studiare storia, mi sarei trasferito anch’io e
avrei fatto surf. Ti ricordi?
Maia si infilò le mani nelle tasche del
giubbino di pelle. Si sentiva in dovere di essere
arrabbiata, ma in realtà non lo era. Per molto
tempo aveva incolpato Jordan di averle
distrutto la prospettiva di un futuro umano,
fatto di studi, una casa, magari una famiglia.
Eppure nel branco della vecchia stazione di
polizia c’erano altri lupi che continuavano
comunque a inseguire i loro sogni, le loro
passioni. Bat ne era un esempio. Era stata lei a
infilare la propria vita in un vicolo cieco. — Mi
ricordo — rispose arrossendo.
— A proposito di questa sera, nessuno ha mai
cercato al Brooklyn Navy Yard, così ho
pensato… Non è molto divertente farlo da solo,
però se non vuoi…
— No — fece Maia, sentendo la propria voce
come se fosse quella di un’altra. — Vengo con
te.
— Sul serio? — Gli occhi nocciola di Jordan si
illuminarono, e dentro di sé Maia si maledì:
non doveva riaccendere speranze, non se non
era sicura di cosa provava. Solo che era
davvero difficile credere che lui ci tenesse
tanto.
Il medaglione del Praetor Lupus che Jordan
aveva al collo luccicò mentre lui si chinava in
avanti e lei sentiva quel profumo familiare di
sapone e, sotto… odore di lupo. Lo guardò
dritto negli occhi proprio nell’istante in cui
Simon apriva la porta e usciva da camera sua
infilandosi una felpa. Il ragazzo si fermò di
colpo, spostando lo sguardo da Jordan a Maia
e inarcando lentamente le sopracciglia.
— Sai cosa? Alla metro posso andarci anche
da solo — disse a Maia mentre l’accenno di un
sorriso gli sollevava un angolo della bocca. —
Se vuoi rimanere qui…
— No. — Maia si tolse subito le mani di tasca,
dove fino a un secondo prima erano strette in
pugni nervosi. — No, vengo con te. Jordan,
noi… noi ci vediamo più tardi.
— Stasera — le disse lui, ma Maia non si voltò
per guardarlo. Ormai stava già correndo dietro
a Simon.
Simon camminava lentamente su per il
morbido pendio di una collina, in mezzo alle
grida, quasi una musica di sottofondo, di chi
giocava a frisbee sul grande prato alle sue
spalle, lo Sheep Meadow. Era una bella
giornata di novembre, fresca e ventosa, con il
sole che accendeva quanto restava delle foglie
sugli alberi in brillanti sfumature porpora, oro
e ambra.
La cima della collina era disseminata di
massi, segno evidente che il parco era stato
ricavato da quello che un tempo era un
territorio selvaggio fatto di alberi e pietre.
Isabelle era seduta in cima a uno di questi
massi; indossava un lungo vestito di seta color
verde bottiglia coperto da un cappotto nero
ricamato d’argento. Rimase a guardare Simon,
che camminava verso di lei, scostandosi i
lunghi capelli neri dal viso. — Pensavo che
saresti rimasto con Clary — gli disse quando
lui fu abbastanza vicino. — Ora dov’è?
— Sta uscendo dall’Istituto — rispose Simon
sedendosi accanto a lei sul masso e infilandosi
le mani nelle tasche della giacca a vento. — Mi
ha mandato un messaggio. Sarà qui fra poco.
— Anche Alec sta arrivando — cominciò a dire
Izzy, ma venne interrotta dal suono del
cellulare di Simon. — Credo che ti sia arrivato
un messaggio.
Lui scrollò le spalle. — Lo controllo dopo.
Isabelle gli lanciò uno sguardo da sotto le
lunghe ciglia. — Dicevo, anche Alec sta
arrivando. Viene da Brooklyn, perciò…
Di nuovo il cellulare.
— Okay, basta. Se non lo guardi tu, lo faccio
io. — Isabelle si sporse in avanti, noncurante
delle proteste di Simon, e gli mise una mano in
tasca sfiorandogli il mento con la testa. Simon
sentì il suo profumo alla vaniglia e l’odore
della pelle. Quando lei si rialzò, perché aveva
trovato il telefono, lui ne fu sollevato e deluso
allo stesso tempo.
Isabelle sgranò gli occhi. — Rebecca?! E chi è
Rebecca?
— Mia sorella.
Isabelle rilassò i muscoli. — Vuole incontrarti.
Dice che non ti ha visto da quando…
Simon le tolse il cellulare di mano e lo chiuse
per poi infilarselo subito in tasca. — Lo so, lo
so.
— Tu non vuoi vederla?
— Più di… praticamente più di ogni altra
cosa. Però non voglio che lo sappia. Di me,
intendo. — Prese un legnetto e lo lanciò. —
Guarda cosa è successo quando lo ha scoperto
mia madre…
— Allora dalle appuntamento da qualche
parte in un luogo pubblico, dove non possa
fare scenate. Lontano da casa tua.
— Anche se non potrà fare scenate, potrà
comunque guardarmi come mi ha guardato
mia madre — ribatté Simon con un filo di voce.
— Come se fossi un mostro…
Isabelle gli sfiorò il polso. — Mia madre ha
buttato fuori Jace quando pensava che fosse il
figlio e la spia di Valentine. Poi se n’è pentita
da morire. Stanno accettando il fatto che Alec
stia con Magnus. E tua madre accetterà te. Fai
in modo che tua sorella stia dalla tua parte, ti
sarà utile — disse inclinando appena la testa.
— Penso che a volte i fratelli capiscano più dei
genitori. Non c’è lo stesso livello di aspettative.
Io non potrei mai, dico mai, tagliare i ponti
con Alec, qualsiasi cosa faccia. Mai. E
nemmeno con Jace. — Gli strinse il braccio,
poi lasciò cadere la mano. — Il mio fratellino è
morto. Non lo rivedrò mai più. Non far passare
a tua sorella quello che ho passato io.
— Passato cosa? — Era Alec, che saliva la
collina smuovendo coi piedi le foglie secche sul
sentiero. Indossava la solita felpa cenciosa e
dei jeans, ma al collo aveva una sciarpa azzurra
dello stesso colore degli occhi. Quello deve
essere di sicuro un regalo di Magnus, pensò
Simon. Alec non si sarebbe mai comprato una
cosa del genere di sua iniziativa: il concetto di
“abbinamento” per lui era troppo.
Isabelle si schiarì la voce. — La sorella di
Simon…
Non disse altro. Ci fu una ventata d’aria
fredda che sollevò un turbine di foglie morte.
Isabelle alzò una mano per proteggersi il viso
dalla polvere, mentre l’aria cominciava ad
assumere l’inconfondibile luccichio traslucido
di un portale che si stava aprendo. Davanti ai
loro occhi comparve Clary, lo stilo in una
mano e il viso inondato di lacrime.
capitolo 4
E L’IMMORTALITÀ
— Sei davvero sicura che fosse Jace? — chiese
Isabelle a Clary per quella che le sembrò la
quarantasettesima volta.
Si morse il labbro già martoriato e contò fino
a dieci. — Sono io, Isabelle — disse infine. —
Sul serio pensi che non riconoscerei Jace? —
Guardò Alec, in piedi sopra di loro, con la
sciarpa azzurra che sventolava al vento come
una bandiera. — Tu potresti scambiare
Magnus per qualcun altro?
— No, figuriamoci — rispose il ragazzo senza
esitare. I suoi occhi azzurri erano pensierosi,
incupiti dalla preoccupazione. — È che… sì,
ovvio che te lo chiediamo. Perché questa cosa
non ha senso!
— Potrebbe essere loro ostaggio — tentò
Simon, appoggiando la schiena contro un
masso. La luce del sole d’autunno trasformò il
colore dei suoi occhi in quello del caffè. — Del
tipo che Sebastian lo sta minacciando
dicendogli che, se lui non sta al suo gioco, farà
del male a qualche persona a cui vuole bene.
Tutti gli occhi si posarono su Clary, ma lei
scosse la testa, scoraggiata. — Voi non avete
visto quei due insieme. Nessun ostaggio si
comporterebbe così. Era contentissimo di stare
con lui!
— E allora è posseduto — concluse Alec. —
Come con Lilith.
— Anche io l’ho pensato, all’inizio. Ma
quando era posseduto da lei, si comportava
come un robot. Continuava a ripetere le stesse
cose. Invece quello che ho visto io era il vero
Jace, che scherzava come scherza lui e
sorrideva come sorride lui!
— Forse ha la sindrome di Stoccolma —
propose Simon. — Hai presente? Quando ti
fanno il lavaggio del cervello e inizi a voler
bene al tuo aguzzino.
— Ci vogliono mesi per svilupparla — obiettò
Alec. — Che aspetto aveva? Ti sembrava ferito,
o malato in qualche modo? Potresti descrivere
sia lui che Sebastian?
Non era la prima volta che lo chiedeva. Il
vento sospinse alcune foglie secche attorno ai
piedi di Clary mentre lei descriveva per
l’ennesima volta l’aspetto di Jace: energico e in
piena salute. Idem per Sebastian. Avevano
un’aria del tutto tranquilla. I vestiti di Jace
erano puliti, ordinati, alla moda; Sebastian
portava un lungo impermeabile nero
dall’aspetto costoso.
— Sembra una pubblicità della Burberry in
versione dark — commentò Simon quando
Clary ebbe concluso.
Isabelle gli lanciò un’occhiataccia. — Magari
Jace ha un piano — disse. — Forse sta
ingannando Sebastian. Cerca di farselo amico
per capire quali sono i suoi piani.
— Penso che, se le cose stessero davvero così,
avrebbe trovato il modo per avvertirci —
osservò Alec. — Senza lasciarci qui nel panico
totale. Sarebbe troppo crudele.
— A meno che non possa rischiare di inviarci
un messaggio. Forse è convinto che ci fidiamo
comunque di lui. Ed è così! — esclamò Isabelle
alzando il tono di voce. Rabbrividì,
avvolgendosi le braccia attorno al corpo. Gli
alberi che profilavano il sentiero di ghiaia su
cui si trovavano i ragazzi scossero i loro spogli
rami.
— Forse dovremmo dirlo al Conclave —
propose Clary, sentendo la propria voce come
se venisse da lontano. — Questa cosa è… Non
vedo come potremmo gestirla da soli.
— Non possiamo avvisarli. — La voce di
Isabelle era dura.
— E perché?
— Se sospettassero che Jace sta collaborando
con Sebastian, l’ordine sarebbe di ucciderlo
immediatamente — spiegò Alec. — È la Legge.
— Anche se Isabelle avesse ragione? Anche se
lui stesse fingendo solo per compiacere
Sebastian? — chiese Simon con una punta di
perplessità nella voce. — Passando dalla sua
parte per ottenere informazioni?
— Ma non c’è modo di dimostrarlo. E se
raccontassimo tutto e poi Sebastian venisse a
saperlo? Allora è probabile che ucciderebbe
Jace — fece notare Alec. — E se Jace fosse
posseduto, anche il Conclave lo ucciderebbe.
No, non possiamo parlare con loro. — Il suo
tono di voce era perentorio. Clary lo guardò
stupita: di solito lui era il più attento di tutti
alle regole.
— Stiamo parlando di Sebastian — intervenne
Izzy. — Non c’è nessuno che il Conclave odi di
più, eccetto Valentine, che però è morto. Tutti
conoscono almeno una persona che è perita
durante la Guerra Mortale, e Sebastian è
quello che ha abbattuto le protezioni.
Clary si mise a scavare la ghiaia del viottolo
con la punta del piede. Quella situazione le
sembrava surreale, un sogno dal quale avrebbe
potuto svegliarsi da un momento all’altro. — E
allora cosa facciamo?
— Ne parliamo con Magnus. Vediamo se a lui
viene qualche idea — propose Alec tirandosi
un lembo della sciarpa. — Non andrà al
Consiglio, non se gli chiedo di non farlo.
— Farà meglio a evitarlo — disse Isabelle,
indignata. — Altrimenti si guadagnerebbe il
titolo di peggiore fidanzato in assoluto!
— Ho detto che non ci andrà se…
— Ma adesso ha ancora senso? — domandò
Simon. — Vedere la Regina Seelie, intendo.
Ora che sappiamo che Jace è posseduto, o che
forse si nasconde di proposito…
— Non si manca a un appuntamento con la
Regina Seelie — dichiarò Isabelle con
decisione. — Non se ti è cara la pelle.
— Ma lei si prenderebbe gli anelli di Clary e
noi non verremmo a sapere niente — ribatté
Simon. — Adesso abbiamo più informazioni,
domande nuove da farle. Anche se non le
ascolterà e risponderà solo a quelle vecchie. È
così che fanno le fate: niente favori a nessuno.
Non ci lascerà andare a parlare con Magnus e
poi tornare da lei.
— Non importa. — Clary si sfregò il viso con
le mani. Quando le tolse, erano asciutte. A un
certo punto, grazie a Dio, le lacrime avevano
smesso di scendere. Non voleva incontrare la
Regina con l’aspetto di chi ha appena pianto
come una fontana. — Ma io non ho preso gli
anelli.
Isabelle batté le palpebre per lo stupore. —
Che cosa?!
— Dopo aver visto Jace e Sebastian ero
troppo scioccata per prenderli. Sono corsa
fuori dall’Istituto e sono venuta qui tramite un
portale.
— Be’, allora non possiamo incontrare la
Regina — concluse Alec. — Se non hai fatto
quello che ti ha chiesto, sarà furiosa.
— Altro che furiosa! Hai visto cosa ha fatto ad
Alec l’ultima volta che siamo andati a corte. E
quello era solo un incantesimo. Questa volta
trasformerebbe Clary in un’aragosta o
qualcosa di simile…
— Lei lo sapeva già — disse Clary. — Ha detto
che avremmo potuto trovarlo diverso da come
l’avevamo lasciato. — La voce della Regina
Seelie le turbinò per la mente, facendola
rabbrividire.
Poteva capire perché Simon odiava tanto le
fate. Sapevano alla perfezione quali parole
potevano penetrarti nel cervello come una
scheggia, dolorosa e impossibile da ignorare.
— Ci sta solo prendendo in giro. Vuole quegli
anelli, ma non credo che possa aiutarci
davvero.
— D’accordo — disse Isabelle con qualche
dubbio. — Ma se sapesse già quello, forse
potrebbe sapere qualcosa in più. E chi altro
potrebbe darci una mano, visto che non
possiamo rivolgerci al Conclave?
— Magnus — rispose Clary. — Non ha fatto
che cercare di decifrare la magia di Lilith.
Forse sarebbe utile raccontargli quello che ho
visto.
Simon fece roteare gli occhi. — Non è male
conoscere la persona che sta con Magnus.
Altrimenti ho come l’impressione che
passeremmo il tempo a chiederci che diavolo
fare. O a raccogliere soldi vendendo limonate
fresche per ingaggiarlo…
Alec sembrò davvero indignato da quel
commento. — L’unico modo per raccogliere
abbastanza denaro per ingaggiare Magnus
vendendo limonate sarebbe scioglierci dentro
dell’anfetamina.
— Era così per dire. Lo sappiamo che il tuo
ragazzo costa caro. Mi piacerebbe solo che non
dovessimo sempre ricorrere a lui per qualsiasi
problema.
— Piacerebbe anche a lui. Magnus oggi ha un
altro impegno, ma stasera gli parlo e
domattina ci incontriamo tutti nel suo loft.
Clary annuì. Non poteva nemmeno
immaginare di alzarsi il giorno dopo. Sapeva
che prima avessero parlato con Magnus,
meglio sarebbe stato, ma si sentiva talmente
stanca, esausta… Come se sul pavimento della
biblioteca, all’Istituto, avesse perso litri di
sangue.
Isabelle si era avvicinata a Simon. — Allora
direi che questo ci lascia il resto del
pomeriggio libero. — Andiamo da Taki? Ti
darebbe un po’ di sangue.
Simon
guardò
Clary,
chiaramente
preoccupato per lei. — Tu vuoi venire?
— No, va bene così. Io torno a Williamsburg
in taxi. Devo passare un po’ di tempo con mia
madre… Dopo la storia di Sebastian era già a
pezzi, e ora…
La chioma corvina di Isabelle ondeggiò al
vento quando buttò la testa in avanti e poi
all’indietro. — Non puoi dirle quello che hai
visto. Luke fa parte del Consiglio, non
potrebbe tenerlo nascosto, e tu non puoi
chiedere a tua madre di fare lo stesso con lui.
— Lo so. — Clary guardò le tre paia di occhi
ansiosi che la stavano fissando. Come erano
arrivati a quel punto? pensò. Lei, che non
aveva mai nascosto niente a Jocelyn, niente di
serio, per lo meno, stava per tornare a casa e
nascondere qualcosa di enorme tanto a lei
quanto a Luke. Qualcosa di cui poteva parlare
soltanto con persone come Alec e Isabelle
Lightwood o Magnus Bane, persone di cui, fino
a sei mesi prima, ignorava addirittura
l’esistenza. Era strano come il mondo potesse
spostarsi dal proprio asse, stravolgendo tutte
le tue convinzioni in quel che sembrava un
briciolo di tempo.
Almeno aveva Simon. La sua era una
presenza fissa, costante. Gli diede un bacio
sulla guancia, salutò gli altri e si voltò,
consapevole che tutti e tre la stavano
guardando preoccupati mentre lei attraversava
il parco, con le ultime foglie morte autunnali
che le scricchiolavano sotto le scarpe come
fragili ossicini.
Alec aveva mentito. Non era Magnus che quel
pomeriggio aveva un impegno: era lui.
Sapeva che era sbagliato, ma non poteva
farne a meno. Era come una droga, quel
desiderio di sapere di più. E ora eccolo lì, nel
sottosuolo, con la stregaluce in mano, a
chiedersi cosa diavolo stesse per fare.
Come tutte le linee metropolitane di New
York, anche quella puzzava di ruggine e
umidità, di metallo e degrado. Ma a differenza
di qualsiasi altra stazione in cui era stato, in
quella regnava un silenzio inquietante. A parte
alcune macchie da infiltrazione, le pareti e le
piattaforme erano pulite. Soffitti a volta, dai
quali scendeva qua e là un lampadario, si
levavano sopra la sua testa coi loro archi
rivestiti di piastrelle verdi. Quelle che, su una
parete, componevano la targa col nome,
formavano la scritta CITY HALL in
stampatello.
La stazione metropolitana di City Hall era
fuori servizio dal 1945, anche se il Comune
continuava a tenerla in ordine come fosse un
monumento. I convogli del 6 ci passavano
nelle occasioni speciali, per poi tornare nella
direzione opposta, ma nessuno sostava mai su
quella piattaforma. Per arrivarci, Alec si era
calato da una botola del City Hall Park
circondata da alberi di corniolo, cadendo da
una distanza che probabilmente avrebbe rotto
le gambe a qualsiasi mondano. Ora era in piedi
e respirava aria polverosa, col battito cardiaco
che accelerava.
Era quello il luogo indicato dalla lettera che il
Soggiogato vampiro gli aveva consegnato
nell’ingresso della casa di Magnus. All’inizio
aveva deciso che non avrebbe mai utilizzato
quell’informazione. Poi, però, non era stato in
grado di buttare via il messaggio. L’aveva
accartocciato e messo nella tasca dei jeans, da
dove, per tutto il giorno, e persino a Central
Park, gli stava corrodendo la mente.
Era come la situazione con Magnus. Non
riusciva a non pensarci, come quando pensi
continuamente a un dente che fa male ben
sapendo che il risultato è solo di peggiorare le
cose. In realtà Magnus non aveva fatto niente
di male: non era colpa sua se aveva qualche
centinaio di anni e se era già stato innamorato
altre volte. Eppure Alec non trovava pace. E
ora, sapendo qualcosa di più o forse di meno,
rispetto al giorno prima, sulla situazione di
Jace, stava scoppiando. Doveva parlarne con
qualcuno, andare da qualche parte, fare
qualcosa!
E così, eccolo in quel luogo. Dove c’era anche
lei, ne era sicuro. Il soffitto a volta ospitava, al
centro, un lucernario dal quale proveniva la
luce del parco e dal quale si irradiavano
quattro file di piastrelle simili alle zampe di un
ragno. All’estremità della piattaforma c’era
una breve scala che finiva nell’oscurità. Alec
avvertiva la presenza della magia: qualsiasi
mondano avrebbe visto solo un muro di
mattoni, ma lui vide una porta aperta. In
silenzio, salì su per i gradini.
Si ritrovò in una stanza buia, col soffitto
basso. Un lucernario di vetro color ametista
lasciava passare un filo di luce. In uno degli
angoli semibui era collocato un elegante
divano di velluto con lo schienale dorato, a
forma di arco, sul quale sedeva Camille.
Era bellissima come Alec la ricordava, anche
se l’ultima volta non era al massimo dello
splendore: l’aveva trovata sporca e incatenata
a una tubatura dentro un edificio in
costruzione. Ora invece indossava un elegante
completo nero e delle scarpe rosse col tacco
alto. I capelli le scendevano sulle spalle a onde
morbide e boccoli. Teneva aperto sulle
ginocchia un libro: La Place de l’Étoile di
Patrick Modiano. Conosceva abbastanza il
francese da saper tradurre il titolo: “Il posto
della stella”.
Lei lo guardò come se si aspettasse di
incontrarlo.
— Ciao, Camille — le disse Alec.
La donna sbatté lentamente le ciglia. —
Alexander Lightwood — disse. — Ho
riconosciuto i tuoi passi sulle scale.
Appoggiò una guancia al dorso della mano e
gli fece un sorriso, un sorriso con un che di
distante. Aveva lo stesso calore della polvere.
— Non credo che tu abbia un messaggio per
me da parte di Magnus.
Alec non disse nulla.
— Certo che no — proseguì lei. — Che stupido
da parte mia. Come se sapesse dove sei!
— Come hai fatto a sapere che ero io? Sulle
scale, intendo.
— Sei un Lightwood — rispose Camille. —
Quelli della tua famiglia non si arrendono mai.
Sapevo che le mie parole, quella notte, non ti
avrebbero lasciato indifferente. Il messaggio di
oggi è stato solo per rinfrescarti la memoria.
— Non c’è bisogno che mi ricordi cosa mi hai
promesso. Oppure stavi mentendo?
— Quella notte avrei detto qualsiasi cosa per
tornare libera — ammise. — Ma non stavo
mentendo. — Si chinò in avanti, lo sguardo
luminoso e cupo allo stesso tempo. — Tu sei un
Nephilim, del Conclave e del Consiglio. Sulla
mia testa c’è una taglia per aver ucciso degli
Shadowhunters. Ma so che tu non sei venuto
qui per consegnarmi a loro. Tu sei qui perché
vuoi delle risposte.
— Voglio sapere dov’è Jace — dichiarò Alec.
— Lo vuoi sapere — rispose lei — ma non c’è
motivo per cui io debba avere la risposta, e
infatti non ce l’ho. Se lo sapessi, te lo direi. So
che è stato preso dal figlio di Lilith, e io non ho
motivo di esserle fedele. Se n’è andata. So che
ci sono stati dei pattugliamenti per cercarmi,
per scoprire qualsiasi cosa potessi sapere. Ora
te lo posso dire: non so nulla. Se sapessi dove
si trova il tuo amico, ora lo sapresti anche tu.
Non ho motivi per inimicarmi ancora di più i
Nephilim. — Si passò una mano tra i folti
capelli biondi. — Ma non è questa la ragione
della tua presenza. Ammettilo, Alexander.
Alec sentì il proprio respiro accelerare. Aveva
pensato a quella situazione, sveglio di notte
sdraiato accanto a Magnus, sentendolo
respirare, e sentendo i propri respiri,
contandoli. Ognuno di essi rappresentava un
passo verso l’invecchiamento e la morte. Ogni
notte lo trascinava più vicino alla fine di tutto.
— Hai detto che conoscevi un modo per
rendermi immortale — disse finalmente Alec.
— Hai detto che conoscevi un modo per far sì
che io e Magnus potessimo stare insieme per
sempre.
— L’ho fatto, vero? Interessante…
— E voglio che tu ora me lo dica.
— E lo farò — gli rispose Camille deponendo
il libro. — Ma a un prezzo.
— No — ribatté Alec. — Io ti ho liberata. E ora
tu mi dirai quello che voglio sapere, altrimenti
ti consegnerò al Conclave. Ti incateneranno
sul tetto dell’Istituto e aspetteranno l’alba.
Lo sguardo di lei si fece duro, impassibile. —
Non mi importa delle minacce.
— E allora dammi quello che voglio.
Camille si alzò in piedi, passandosi le mani
sulla giacca per lisciarla. — Vieni a
prendertelo, Shadowhunter.
Fu come se tutta la frustrazione, il panico e la
disperazione
delle
ultime
settimane
sgorgassero fuori da Alec in un istante. Balzò
verso Camille proprio mentre lei si lanciava su
di lui con i canini scoperti.
Alec ebbe appena il tempo di sfilare la spada
angelica dalla cintura che lei gli stava già quasi
addosso. Non era la prima volta che lottava
contro un vampiro; la loro potenza e agilità
erano impressionanti. Era come lottare contro
un tornado scatenato. Si buttò di lato, rotolò
sui piedi e le tirò contro una scala a pioli
caduta a terra con cui la bloccò il tempo
necessario per sollevare la spada e sussurrare:
— Nuriel.
La lama si accese come una stella, e Camille
esitò. Poi si scagliò di nuovo all’attacco,
infilzando le sue lunghe unghie nella guancia e
sulla spalla di Alec. Il ragazzo sentì il caldo
umido del sangue. Si voltò di scatto per
trafiggerla, ma lei saltò in alto volando fuori
dalla sua portata, ridendo e prendendosi gioco
di lui.
Alec corse verso le scale che portavano giù
alla piattaforma. Lei gli corse dietro, lui la
schivò lateralmente, fece una giravolta e spiccò
un salto in aria e, facendo leva contro il muro,
puntò verso di lei, che nello stesso istante si
stava tuffando su di lui. Si scontrarono a
mezz’aria, Camille che gridava e si abbatteva
su Alec, Alec che teneva Camille stretta per un
braccio, anche mentre si schiantavano insieme
a terra, restando quasi senza fiato per la
caduta. Trattenerla verso il basso era cruciale
per vincere la battaglia, e in cuor suo Alec
ringraziò Jace per avergli fatto provare e
riprovare in palestra quelle mosse finché non
aveva imparato a sfruttare ogni superficie per
sollevarsi in aria per almeno qualche secondo.
Cercò di colpirla con la spada angelica mentre
rotolavano sul pavimento, ma lei schivava i
colpi con facilità, muovendosi tanto in fretta
da sembrare un turbine. Gli diede un calcio
con i tacchi, infilzandoglieli nelle gambe. Lui
fece una smorfia di dolore e imprecò. Camille
rispose con un fiume in piena di volgarità sulla
vita sessuale di Alec con Magnus e su quella
che aveva avuto lei con lo stregone; la cosa
avrebbe potuto continuare, se non avessero
raggiunto il centro della stanza, il punto in cui
il lucernario del soffitto creava un cerchio di
luce del sole sul pavimento. Afferrandole il
polso, Alec le piegò una mano all’ingiù, dentro
la luce.
Lei urlò, mentre sulla pelle le comparivano
grosse vesciche bianche. Alec riusciva a sentire
il calore che quella mano rigonfia emanava.
Tenendo le dita intrecciate a quelle di Camille,
risollevò l’arto malridotto e lo riportò
all’ombra. A quel punto le tirò una gomitata
sulle labbra, aprendogliele in due. Sangue di
vampiro, di un rosso più brillante di quello
umano, le colò dall’angolo della bocca.
— Ne hai avuto abbastanza? — ringhiò. — Ne
vuoi ancora?
Fece per rimetterle di nuovo la mano al sole.
Aveva già iniziato a rigenerarsi, il rosso
dell’ustione che passava al rosa.
— No! — Camille sussultò, tossì e cominciò a
tremare: tutto il suo corpo era percorso da
spasmi. Dopo un istante, Alec si rese conto che
in realtà il vampiro stava ridendo, ridendo fra i
rivoli di sangue. — Mi hai fatto sentire viva,
Nephilim. Davvero una bella lotta, ti devo
ringraziare.
— Ringraziami dando la risposta alla mia
domanda — la esortò Alec, ansimando. —
Altrimenti ti riduco in cenere. Sono stufo dei
tuoi giochetti.
Le labbra di Camille si distesero in un sorriso.
I tagli si erano già rimarginati, sebbene il viso
fosse ancora insanguinato. — Non c’è modo di
renderti immortale. Non senza la magia nera o
trasformandoti in un vampiro, e tu hai
rifiutato entrambe le opzioni.
— Ma tu hai detto… Hai detto che c’era un
altro modo per restare insieme…
— Oh, sì. — Gli occhi le brillarono. — Magari
non sarai in grado di guadagnare
l’immortalità, piccolo Nephilim, almeno non a
condizioni per te accettabili… Ma puoi portare
via quella di Magnus.
Clary era seduta in camera sua a casa di Luke,
una penna stretta nella mano, un foglio di
carta disteso sulla scrivania di fronte. Il sole
era tramontato e la lampada da tavolo accesa
illuminava la runa appena cominciata.
Le si era insinuata in testa quando era sul
treno della metro, tornando a casa, mentre
guardava assente fuori dal finestrino. Non
l’aveva mai vista prima, e appena arrivata in
stazione era corsa a casa, scansando le
domande della madre e chiudendosi in camera
per riprodurre quell’immagine sulla carta
mentre ancora era fresca nella sua mente.
Qualcuno bussò alla porta. Clary nascose
subito il disegno sotto un foglio bianco mentre
sua madre entrava nella stanza.
— Lo so, lo so — disse Jocelyn alzando una
mano come per difendersi dalle proteste di
Clary. — Vuoi essere lasciata sola. Ma Luke ha
preparato la cena e dovresti mangiare
qualcosa.
Clary guardò la madre. — E tu anche. —
Quando era sotto stress, anche Jocelyn, come
sua figlia, tendeva a perdere l’appetito, e ora
aveva le guance scavate. Ormai avrebbe dovuto
essere alle prese coi preparativi per la luna di
miele, impegnata a fare i bagagli per qualche
posto magnifico e lontano. Invece il
matrimonio era stato posticipato a data da
destinarsi, e di notte, attraverso le pareti, Clary
la sentiva piangere. Conosceva quel genere di
lacrime, nate dalla rabbia e dal senso di colpa,
lacrime che dicevano è tutta colpa mia.
— Mangerò, se vuoi — disse Jocelyn
sforzandosi di sorridere. — Luke ha fatto la
pasta.
Clary girò la sedia, piegandosi apposta per
impedire alla madre la vista della scrivania. —
Mamma — le disse. — C’è una cosa che vorrei
chiederti.
— Che cosa?
Clary mordicchiò l’estremità della penna, una
cattiva abitudine sviluppata da quando aveva
iniziato a disegnare. — Mentre ero nella Città
Silente con Jace, i Fratelli mi hanno detto che
quando nasce uno Shadowhunter si fa una
cerimonia per proteggerlo. Sono le Sorelle di
Ferro e i Fratelli Silenti a occuparsene. E così
mi stavo chiedendo…
— Se l’abbiamo fatta anche per te?
Clary annuì.
Jocelyn emise un sospiro e distese le braccia
verso l’alto. — Sì. La organizzai tramite
Magnus. C’erano un Fratello Silente, una
persona votata al silenzio e uno stregone
femmina al posto di una Sorella di Ferro. Io
quasi non volevo farla. Non volevo pensare che
il soprannaturale avrebbe potuto metterti in
pericolo, dopo che ti avevo nascosta con tanta
attenzione. Invece Magnus mi convinse, ed
ebbe ragione.
Clary la guardò, incuriosita. — Chi era lo
stregone femmina?
— Jocelyn! — Luke la stava chiamando dalla
cucina. — L’acqua bolle!
Jocelyn depose un rapido bacio sulla testa di
Clary. — Scusami, emergenza culinaria. Ci si
vede tra cinque minuti?
Clary annuì mentre sua madre lasciava in
fretta la stanza, poi tornò a girarsi verso la
scrivania. La runa che aveva iniziato era
ancora lì, che le solleticava i pensieri.
Ricominciò a disegnare, completando quello
che aveva appena accennato. Una volta
terminata l’opera, si appoggiò allo schienale e
osservò il risultato. Era simile alla runa di
apertura, ma diversa. Era uno schema
semplice come una croce e nuovo al mondo
come un bimbo appena nato. Racchiudeva in
sé una minaccia silenziosa, qualcosa che
rivelava come avesse origine dalla rabbia, dal
senso di colpa e dall’impotenza.
Era una runa di grande forza. Ma anche se
Clary sapeva esattamente cosa significava e
come usarla, non le veniva in mente un solo
modo per renderla utile in quella situazione.
Era come quando ti si ferma la macchina su
una strada deserta, tu rovisti disperatamente
nel bagagliaio e tiri fuori, trionfante, una
prolunga elettrica invece dei cavetti da
batteria.
Si sentì come se il suo potere si stesse
prendendo gioco di lei. Imprecando, lasciò
cadere la penna sulla scrivania e si prese il viso
fra le mani.
L’interno del vecchio ospedale era stato
accuratamente
imbiancato,
scelta
che
conferiva una luce inquietante a tutte le
superfici. Quasi tutte le finestre erano sbarrate
da assi di legno, ma anche in penombra Maia
con la sua potente vista riusciva a distinguere i
dettagli: il sottile strato di polvere di gesso nei
corridoi spogli, i segni dove erano state
posizionate le torce dei muratori, i pezzi di cavi
attaccati alle pareti con grumi di intonaco, il
fruscio dei topi negli angoli più bui.
Una voce le parlò da dietro le spalle: — Ho
perlustrato l’ala est, niente. Tu?
Maia si voltò. Era Jordan, jeans scuri e felpa
nera aperta per metà su una maglietta verde.
Gli rispose scuotendo la testa. — Niente anche
nell’ala ovest. Qualche bella scala traballante e
degli interessanti dettagli architettonici, se ti
interessa quel genere di cose.
Jordan fece segno di no. — E allora
andiamocene. Questo posto mi mette i
brividi…
Maia fu d’accordo, felice di non essere stata
lei la prima a dirlo. Si mise accanto a Jordan e
insieme scesero le scale; i pezzi di intonaco
sbriciolato che ricoprivano il corrimano erano
così abbondanti da sembrare neve. Non sapeva
bene perché aveva accettato di continuare le
ricerche insieme a lui, ma non poteva negare
che insieme formavano una bella squadra.
Era facile stare con Jordan. Nonostante
quanto accaduto fra di loro poco prima della
scomparsa di Jace, lui sapeva tenere le
distanze senza farla sentire in imbarazzo. La
luce della luna splendeva intensa su di loro
mentre uscivano dall’ospedale ed entravano
nel grande edificio antistante. Era di marmo
bianco, con quelle finestre sbarrate che
sembravano occhi assenti. Un albero ricurvo,
che spargeva a terra le sue ultime foglie,
incombeva davanti al portone d’ingresso.
— Sì, è stata una perdita di tempo —
commentò Jordan. Maia lo guardò. Lui era
impegnato a fissare il vecchio ospedale della
marina, quindi era il momento ideale. Le
piaceva osservarlo mentre lui non la guardava,
perché poteva studiarne l’angolo della
mascella, il modo in cui i capelli scuri gli si
arricciavano sulla nuca, la sporgenza delle
clavicole sotto la scollatura a V della maglietta,
e tutto questo senza la sensazione che lui si
aspettasse qualcosa dai suoi sguardi. Quando
si erano conosciuti, lui era il classico belloccio
“alternativo”, viso squadrato e ciglia lunghe,
ma ora sembrava più grande con quelle nocche
graffiate e i muscoli che si muovevano
armoniosi sotto la maglietta aderente. La
carnagione aveva ancora quella sfumatura
olivastra che ricordava le origini italiane e il
nocciola degli occhi era sempre lo stesso, ma
ora le pupille erano orlate dal cerchio dorato
dei licantropi. Le stesse che vedeva lei tutte le
mattine, allo specchio, dentro il proprio
sguardo. Le pupille che aveva a causa di
Jordan.
— Maia? — Jordan la stava guardando con
aria interrogativa. — A cosa stai pensando?
— Oh! — La ragazza batté le palpebre, colta di
sorpresa. — No, credo anch’io che non sia stato
utile perlustrare l’ospedale. A essere sinceri,
non so nemmeno perché ci abbiano mandati
qui. Il Brooklyn Navy Yard. Perché Jace
dovrebbe essere da queste parti? Non mi
sembra che avesse una passione per le
barche…
L’espressione di Jordan passò dal semplice
stupore di poco prima a qualcosa di molto più
cupo. — Quando i cadaveri finiscono nell’East
River, spesso finiscono qui, al Navy Yard.
— Pensi davvero che stiano cercando un
cadavere?
— Non lo so. — Jordan si voltò con un’alzata
di spalle e si mise a camminare, con l’erba
secca e irregolare del prato che frusciava
contro gli stivali. — Forse continuo a cercare
solo perché smettere mi sembrerebbe
sbagliato.
Lui aveva il passo lento di chi non ha fretta.
Camminavano
spalla
a
spalla,
quasi
sfiorandosi. Maia teneva lo sguardo fisso
all’orizzonte, sul profilo di Manhattan, una
mano di bianco lucido che si rifletteva
sull’acqua. Mentre si avvicinavano alle acque
basse della Wallabout Bay, comparvero alla
vista anche il ponte di Brooklyn e il rettangolo
illuminato del South Street Seaport sull’acqua.
Maia riusciva a sentire i miasmi delle acque
inquinate, della sporcizia e dei motori diesel
del Navy Yard, uniti all’odore degli animaletti
che si muovevano nell’erba.
— Non credo che Jace sia morto — disse
infine. — Credo che non voglia essere
ritrovato.
A quelle parole, Jordan si voltò a guardarla.
— Quindi per te non dovremmo cercarlo?
— No. — Esitò. Erano sbucati vicino al fiume,
accanto a un muretto. Mentre camminavano,
Maia ci faceva scorrere sopra la mano. Tra loro
e l’acqua c’era solo una stretta striscia
d’asfalto. — Quando sono scappata qui, a New
York, non volevo essere trovata. Ma mi
sarebbe piaciuta l’idea di qualcuno che mi
stesse cercando come ora tutti stanno
cercando Jace Lightwood.
— Jace ti piaceva? — le chiese Jordan in tono
neutrale.
— Piacermi? Be’, sì, ma non in quel senso!
Jordan rise. — Non intendevo in quel senso.
Anche se in genere viene considerato un bello
spaziale!
—
Per
caso
stai
per
assumere
quell’atteggiamento tipico dei ragazzi etero che
non sono in grado di giudicare se altri uomini
sono attraenti o no? Jace e quel tizio peloso
che lavora alla tavola calda sulla Nona per te
sono uguali?
— Be’, il tizio peloso ha quel neo enorme,
perciò direi che Jace lo batte di poco. Sempre
se ti piace il genere biondo e scolpito, per la
serie “Abercrombie farebbe i salti mortali per
prendermi”. — Jordan la guardava da sotto le
sue lunghe ciglia.
— Ho sempre preferito i mori — disse Maia a
bassa voce.
Lui guardò verso il fiume. — Tipo Simon.
— Be’… sì. — Era da tempo che Maia non
ripensava a Simon in quel senso. — Direi di sì.
— E poi a te piacciono i musicisti — riprese
Jordan allungandosi per staccare una foglia da
un ramo basso. — Voglio dire, io sono un
cantante, Bat era un DJ, e Simon…
— Mi piace la musica — disse Maia
scostandosi i capelli dal viso.
— Cos’altro ti piace? — Jordan stava
spezzettando la foglia tra le dita. Si fermò per
sollevarsi e mettersi a sedere sul muretto, col
viso rivolto verso Maia. — Nel senso, c’è
qualcosa che ti piace così tanto da pensare di
poterla fare, sì, per vivere?
Lei lo guardò con stupore. — Che cosa vuoi
dire?
— Ricordi quando ho fatto questi? — Si aprì
la cerniera e tolse la felpa. La maglietta che
indossava era a maniche corte e lasciava
scoperti, attorno a entrambi i bicipiti, i
tatuaggi con i mantra in sanscrito. Maia se li
ricordava bene. Erano opera della loro amica
Valerie, che aveva lavorato per ore nel suo
negozio di Red Bank senza volere niente in
cambio. Fece un passo verso Jordan. Con lui
seduto e lei in piedi, erano quasi fronte a
fronte. Maia allungò una mano e con le dita
percorse, esitando, le lettere del braccio
sinistro. Appena le sfiorò, Jordan chiuse gli
occhi d’istinto.
— Conducimi dall’irrealtà alla realtà — lesse
Maia ad alta voce. — Conducimi dalle tenebre
alla
luce.
Conducimi
dalla
morte
all’immortalità. — La pelle di lui era liscia
sotto la punta delle sue dita. — Parole tratte
delle Upanishad.
— Una tua idea. Eri tu quella che leggeva
sempre. Eri tu quella che sapeva tutto… —
Riaprì gli occhi per guardarla. Erano di una
tonalità più chiara rispetto all’acqua alle sue
spalle. — Maia, qualsiasi cosa vorrai fare, io ti
aiuterò. Ho risparmiato gran parte dello
stipendio che mi passa il Praetor. Quei soldi
potrei darli a te, così ci paghi la retta di
Stanford. Be’, almeno una parte. Se ci vuoi
ancora andare.
— Non lo so — disse lei con la mente che le
turbinava. — Quando mi sono unita al branco,
pensavo che si potesse essere lupi mannari e
basta. Pensavo che fosse questione di vivere
con gli altri senza avere una propria identità.
Così mi sembrava meno pericoloso... Invece
Luke una vita ce l’ha, è il proprietario di una
libreria. E tu, tu sei nel Praetor. Forse… Forse
si può essere più di una cosa soltanto.
— E tu lo sei sempre stata. — Il tono di
Jordan era basso, quasi gutturale. — Sai,
quello che hai detto prima… Che quando sei
scappata ti piaceva pensare che qualcuno ti
stesse cercando. — Fece un respiro profondo.
— Io ti cercavo. E non ho mai smesso.
Gli occhi di Maia incrociarono quelli di
Jordan. Lui non si muoveva, ma le mani
stringevano le ginocchia così forte che le
nocche erano diventate bianche. Lei si sporse
in avanti, abbastanza da vedergli un accenno
di barba incolta lungo la mascella e da sentire
il suo odore di lupo, di dentifricio, di maschio.
Appoggiò le mani sopra le sue. — Be’ — disse.
— Mi hai trovata.
I loro visi erano solo a pochi centimetri di
distanza. Lei sentì il suo respiro sulle proprie
labbra prima che lui la baciasse. Maia si
abbandonò, chiudendo gli occhi. La bocca di
lui era morbida come la ricordava; le labbra
sfioravano le sue con dolcezza, facendole
venire i brividi in tutto il corpo. Alzò le braccia
per mettergliele attorno al collo, per lasciar
scivolare le dita fra i riccioli scuri, per toccare
piano la pelle della nuca, l’orlo consumato
della maglietta.
Lui la strinse più forte. Stava tremando. Maia
avvertì il calore del suo corpo possente contro
il proprio mentre lui le faceva scendere le mani
lungo la schiena. — Maia… — sussurrò. Aveva
iniziato a sollevarle l’orlo della felpa, tenendola
stretta alla base della schiena. Le sue labbra si
mossero contro quelle di lei. — Ti amo. Non ho
mai smesso di amarti.
Sei mia. Sei mia per sempre.
Col cuore che le batteva all’impazzata, Maia si
staccò di colpo da Jordan riabbassandosi la
felpa. — Jordan… fermati.
Lui la guardò con aria perplessa e
preoccupata. — Scusami. Non ti è piaciuto?
Non ho più baciato nessun’altra, da quando…
— La voce gli si smorzò.
Lei scosse la testa. — No. È che… non posso.
— D’accordo — fece lui. Aveva un aspetto
molto vulnerabile, lì seduto con la tristezza
scritta in faccia. — Non dobbiamo fare niente…
Lei annaspava per cercare le parole. — È
troppo.
— Ma è stato solo un bacio.
— Hai detto che mi ami — disse lei con voce
tremante. — Mi hai offerto i tuoi risparmi. Non
posso accettarlo.
— Accettare cosa? — fece lui con una scintilla
di offesa. — Il denaro o l’amore?
— Entrambi. Non posso e basta, okay? Non
con te, non in questo momento. — Cominciò a
indietreggiare. Lui la stava guardando, a bocca
socchiusa.
— Non seguirmi, ti prego — gli disse, poi
corse via, nella direzione da cui erano venuti.
capitolo 5
IL FIGLIO DI VALENTINE
Stava di nuovo sognando paesaggi glaciali.
Un’aspra tundra che si estendeva ovunque,
blocchi di ghiaccio alla deriva sulle nere
acque dell’Artico, montagne incappucciate di
neve, città scavate nel gelo con torri
scintillanti come quelle demoniache di
Alicante.
Davanti alla città gelata c’era un lago,
anch’esso ghiacciato. Clary stava scivolando
giù per un ripido pendio, cercando di
raggiungere il lago, anche se non sapeva bene
perché. Due figure sinistre, incappucciate,
sorgevano al centro della distesa gelata.
Avvicinandosi a essa, slittando sulla discesa,
con le mani che le bruciavano a contatto con
il ghiaccio e la neve che le riempiva le scarpe,
si accorse che uno dei due individui era un
ragazzo dotato di ali nere, che gli partivano
dalla schiena, simili a quelle di un corvo. I
capelli erano bianchi come tutto il ghiaccio
che li circondava. Sebastian. E accanto a lui
c’era Jace, la sua chioma dorata era l’unica
nota di colore in un paesaggio altrimenti
bianco e nero.
Quando Jace si allontanò da Sebastian e
iniziò ad avanzare verso di lei, anche dalla
sua schiena esplosero delle ali, bianco oro e
lucenti. Clary scivolò sugli ultimi centimetri
che la dividevano dalla superficie gelata del
lago e crollò sulle ginocchia, esausta. Aveva le
mani bluastre e sanguinanti, le labbra
screpolate e i polmoni che si inaridivano a
ogni respiro gelato.
— Jace — sussurrò.
Lui era lì, a rimetterla in piedi avvolgendola
tra le sue ali. E lei era di nuovo calda, il
disgelo le partiva dal cuore e le percorreva
tutte le vene, riportando in vita mani e piedi e
provocandole un formicolio a metà fra dolore
e piacere. — Clary — le disse Jace
accarezzandole teneramente i capelli. — Mi
prometti che non griderai?
Gli occhi di Clary si aprirono. Per un istante
fu così disorientata da avere l’impressione che
il mondo le girasse attorno, come fosse a bordo
di una giostra impazzita. Era in camera sua, a
casa di Luke. Il solito materasso sotto di lei, il
guardaroba con lo specchio incrinato, la fila di
finestre che davano sull’East River, il
calorifero che sibilava e lanciava schizzi. Una
luce tenue si insinuava da fuori, un vago
chiarore rosso aleggiava intorno al rilevatore
di fumo sopra l’armadio. Era sdraiata su un
fianco, sotto una montagna di coperte, e si
sentiva la schiena piacevolmente calda. Un
braccio le penzolava giù dal letto. Si chiese se
Simon fosse entrato dalla finestra, mentre
dormiva, sdraiandosi accanto a lei, come
facevano da piccoli.
Ma il corpo di Simon non emanava calore.
Si sentì salire il cuore in gola. Ora che era del
tutto sveglia, si rigirò sotto le coperte. Accanto
aveva Jace, sdraiato su un fianco, che la
guardava, con la testa appoggiata alla mano.
Il debole chiarore della luna rendeva i suoi
capelli simili a un’aureola, mentre gli occhi
brillavano di luce dorata come quelli di un
gatto. Era completamente vestito; indossava
ancora la maglietta bianca a maniche corte che
Clary gli aveva visto quello stesso giorno, e
aveva le braccia coperte di rune che si
arrampicavano come edera.
Trattenne il respiro, sbalordita. Jace, il suo
Jace, non l’aveva mai guardata in quel modo.
L’aveva guardata con desiderio, sì, ma non con
quello sguardo languido, predatore, quasi
rapace, che ora le scombussolava il battito
cardiaco.
Aprì la bocca, per pronunciare il suo nome o
per urlare, non sapeva bene, ma non ebbe
modo di scoprirlo: Jace si mosse così in fretta
che neanche lo vide. Un istante prima era
sdraiato di fianco a lei, adesso le stava sopra,
tenendole una mano premuta sulla bocca. Le
stringeva i fianchi tra le ginocchia, facendole
sentire il proprio corpo snello e muscoloso
contro il suo.
— Non ti farò del male — le disse. — Non lo
farei mai. Ma non voglio che gridi. Ti devo
parlare.
Lei gli lanciò uno sguardo truce.
Jace, a sorpresa, rise. Era la sua solita risata,
ma ridotta a un sussurro. — So leggere le tue
espressioni, Clary Fray. Se ti togliessi la mano
dalla bocca, un secondo dopo staresti già
gridando. O sfruttando l’allenamento per
rompermi i polsi. Su, promettimi che non lo
farai. Giura sull’Angelo.
Questa volta Clary alzò gli occhi al cielo.
— Okay, hai ragione — riprese Jace, — non
puoi giurare se ti tengo la mano sulla bocca,
quindi ora la tolgo. E se strilli… — Inclinò la
testa di lato, così che un ciuffo di capelli
biondo chiaro gli cadde sugli occhi. — Sparirò.
Tolse la mano. Clary giaceva immobile, col
respiro affannato e la pressione del corpo di
Jace contro di sé. Sapeva che lui era più veloce
e che non c’era mossa che non avrebbe parato,
ma per il momento pareva intenzionato a
considerare il loro incontro come un gioco,
come qualcosa di divertente. Lo vide chinarsi
ancora più giù su di sé e si accorse che aveva la
maglietta alzata; sentiva i potenti muscoli dei
suoi addominali contro la propria pelle nuda.
Arrossì.
Nonostante il calore alle guance, era come se
nelle vene le scorressero freddi aghi di
ghiaccio. — Che ci fai qui?
Lui si rialzò leggermente, con aria delusa. —
Non è esattamente la risposta alla mia
domanda, sai? Mi aspettavo di più, un alleluia
o qualcosa del genere. Voglio dire, non è che il
tuo ragazzo resusciti tutti i giorni.
— Lo sapevo già che non eri morto — gli disse
fra labbra intorpidite. — Ti ho visto in
biblioteca. Con…
— Con il colonnello Mustard?
— Con Sebastian.
Jace accennò una risata soffiando dalle
narici. — Sapevo che c’eri anche tu. Lo sentivo.
Clary avvertì la tensione nei muscoli. — Mi
hai lasciato credere che te n’eri andato — gli
disse. — Prima di rivederti, pensavo che…
pensavo davvero che ci fosse la possibilità che
tu fossi… — Si interruppe; non riusciva a dirlo.
Morto. — È imperdonabile. Se lo avessi fatto io
con te…
— Clary. — Si chinò di nuovo sopra di lei.
Sentiva le sue mani calde sui polsi, il respiro
suadente nell’orecchio. Era consapevole, in
ogni punto del corpo, che la loro pelle nuda si
stava sfiorando. Una distrazione tremenda. —
Ho dovuto farlo. Era troppo pericoloso. Se te lo
avessi detto, avresti dovuto scegliere fra dire al
Consiglio che ero ancora vivo e lasciare che mi
cercassero, oppure mantenere un segreto che
ai loro occhi ti avrebbe resa una complice. Poi,
quando mi hai visto in biblioteca, ho dovuto
aspettare. Dovevo sapere se mi amavi ancora, e
se avresti riferito o no al Consiglio quello che
avevi visto. Non lo hai fatto. Dovevo sapere se
ti importava più di me che della Legge. Ed è
così, vero?
— Non lo so — sussurrò Clary. — Non lo so.
Chi sei tu?
— Sono ancora Jace — rispose lui. — E ti amo
ancora.
Lacrime calde si gonfiarono negli occhi di
Clary; quando batté le palpebre, le sgorgarono
fuori, sulle guance. Lui piegò la testa
dolcemente e gliele baciò, facendo poi lo stesso
con la bocca. Clary sentì il sapore salato delle
sue stesse lacrime sulle labbra di lui e
dischiuse piano le sue, dolcemente, come stava
facendo anche Jace. Quel tocco e quel sapore
familiare la travolsero: per una frazione di
secondo si abbandonò a lui, mentre tutti i
dubbi affondavano dentro il desiderio cieco,
irrazionale, di tenerlo vicino a sé, di tenerlo lì…
Ma in quel momento si aprì la porta.
Sebastian.
Da vicino, Clary notava meglio le differenze
rispetto a quando l’aveva visto a Idris. Aveva i
capelli di un bianco assoluto, gli occhi neri
come tunnel circondati da ciglia lunghe come
le zampe di un ragno. Indossava una camicia
bianca, con le maniche rimboccate, da cui
spuntava una cicatrice rossa che cerchiava il
polso destro come un bracciale in rilievo.
Anche sul palmo della mano ce n’era una,
molto brutta e probabilmente più recente.
— Ti ricordo che quella che stai deflorando è
mia sorella — disse puntando il suo nero
sguardo su Jace. Aveva parlato con un tono di
voce divertito.
— Mi dispiace — rispose Jace, che non
sembrava affatto dispiaciuto. Si era appoggiato
all’indietro sulle coperte, flessuoso come un
gatto. — Ci siamo lasciati un po’ andare.
Clary trattenne il respiro. Sentire quelle
parole era sgradevole. — Fuori di qui — disse a
Sebastian.
Lui si appoggiò allo stipite della porta col
gomito e un fianco, e Clary rimase colpita da
quanto quel gesto le ricordasse Jace. Non
avevano lo stesso aspetto, però si muovevano
allo stesso modo. Come se…
Come se avessero imparato a muoversi dalla
stessa persona.
— Ma guarda — disse Sebastian. — È questo il
modo di rivolgersi al proprio fratello
maggiore?
— Magnus avrebbe dovuto lasciarti in
versione attaccapanni — disse Clary con
disprezzo.
— Ah, te lo ricordi, vero? Mi sembrava che
quel giorno ci fossimo divertiti. — Sogghignò, e
con un’ondata di nausea, Clary ricordò quando
lui l’aveva portata alle rovine bruciate della
casa di sua madre e l’aveva baciata tra le
macerie, pur sapendo chi erano l’uno per
l’altra e godendo del fatto che lei ne era
all’oscuro.
Guardò Jace di sottecchi. Lui sapeva
benissimo che Sebastian l’aveva baciata. Lo
aveva anche provocato, con quella storia, tanto
che per poco Jace non lo aveva ucciso. Adesso
invece non pareva arrabbiato, divertito
piuttosto, e forse anche un po’ infastidito per
essere stato interrotto.
— Dovremmo rifarlo — disse Sebastian
guardandosi le unghie. — Passare un po’ di
tempo in famiglia.
— Non mi importa quello che dici. Tu non sei
mio fratello — disse Clary. — Sei un assassino.
— Davvero non capisco come le due cose
possano annullarsi a vicenda — ribatté
Sebastian. — Non è come nel caso del povero
papà. — Così dicendo, spostò pigramente lo
sguardo su Jace. — In genere non mi piace
intromettermi negli affari di cuore di un
amico, ma non ho nessuna voglia di
restarmene
in
corridoio
all’infinito.
Specialmente senza poter accendere le luci. Mi
annoio!
Jace si mise a sedere, riabbassandosi la
maglietta. — Dacci solo cinque minuti.
Sebastian fece un sospiro molto teatrale e
chiuse la porta sbattendola. Clary fissò Jace. —
Cosa sta succedendo, Jace? Mi vuoi dire cosa
ca…
— Le parole, Fray! — Lo sguardo di lui
guizzava. — Rilassati.
Clary punto l’indice contro la porta. — Hai
sentito quello che ha detto. Del giorno in cui
mi ha baciata. Jace, lui sapeva che ero sua
sorella!
Qualcosa balenò negli occhi di lui, qualcosa
che oscurò il loro consueto riflesso ambrato,
ma quando ricominciò a parlare fu come se le
parole di Clary si fossero scontrate con una
parete di marmo senza lasciare segni.
Clary indietreggiò. — Jace, mi ascolti quando
parlo?
— Senti, io ti capisco se non ti va che tuo
fratello ti stia aspettando in corridoio. Non
avevo previsto di baciarti. — Sorrise in un
modo che, in circostanze diverse, Clary
avrebbe trovato adorabile. — Solo che in quel
momento mi era sembrata una buona idea.
Clary si precipitò fuori dalle lenzuola, senza
distogliere lo sguardo da Jace. Prese la
vestaglia che teneva appesa al bordo del letto e
la indossò. Jace rimase a osservarla senza fare
niente per fermarla, anche se aveva gli occhi
che brillavano al buio. — Io… io non ci capisco
niente. Prima sparisci, poi torni con lui
comportandoti come se io non dovessi
nemmeno farci caso, come se non fosse un
problema, come se non… ricordassi.
— Te l’ho detto — le rispose Jace. — Dovevo
essere sicuro di potermi fidare. Non volevo
farti sapere dov’ero mentre eri ancora fra gli
indagati del Conclave. Pensavo che sarebbe
stato difficile, per te…
— Difficile per me?! — Quasi le mancava il
fiato dalla rabbia. — Le verifiche a scuola sono
difficili. I percorsi a ostacoli sono difficili. Il
tuo sparire così mi ha praticamente uccisa,
Jace! E come credi che abbiano reagito Alec?
Isabelle? Maryse? Hai idea di come sia stato?
Riesci a immaginartelo? Non sapere nulla,
cercarti…
La strana espressione di prima passò di
nuovo sul volto di Jace; sembrava che stesse
sentendo Clary senza davvero ascoltarla. — Ah,
sì, volevo appunto chiedertelo — disse
sorridendo come un angelo. — Qualcuno mi
sta cercando?
— Se qualcuno ti sta… — Clary scosse la testa,
stringendosi la vestaglia attorno al corpo.
All’improvviso voleva proteggersi da quello
sguardo, coprirsi davanti a tutta quella
bellezza familiare, a quel sorriso da cacciatore
che rivelava come Jace fosse pronto a fare con
lei, a lei, qualsiasi cosa, non importava chi
stesse aspettando in corridoio.
— Speravo che mettessero dei volantini, come
quando si perdono i gatti — riprese Jace. —
Scomparso ragazzo dalla strabiliante bellezza.
Risponde al nome di Jace o di Tanta Roba.
— Spero di aver capito male.
— Non ti piace Tanta Roba? Pensi che Dolce
Sogno sia più raffinato? Oppure ci sarebbe
Fustacchione, che però è decisamente troppo
vintage…
— Taci! — esclamò Clary con violenza. — E
vattene.
— Io… — Jace sembrò colto alla sprovvista, e
Clary ricordò quanto fosse rimasto stupito
fuori dalla tenuta, quando lei lo aveva
allontanato. — Okay, ora basta. Sarò serio.
Clarissa, sono qui perché voglio che vieni con
me.
— Venire con te dove?
— Vieni con me… — seguì un attimo di
esitazione — … e con Sebastian. Poi ti
spiegherò tutto.
Per un istante Clary restò di ghiaccio,
tenendo gli occhi fissi su quelli di lui. Il
chiarore argenteo della luna gli contornava la
curva delle labbra, la forma degli zigomi,
l’ombra delle ciglia, l’arco che formava il collo.
— L’ultima volta che sono venuta con te da
qualche parte mi sono ritrovata stesa a terra
priva di sensi per poi essere trascinata nel bel
mezzo di una cerimonia di magia nera.
— Ma quello non ero io, era Lilith.
— Il Jace Lightwood che conosco io non
starebbe nella stessa stanza di Jonathan
Morgenstern senza ucciderlo.
— Scopriresti che sarebbe controproducente
— commentò Jace con disinvoltura, infilandosi
gli stivali. — Siamo legati, io e lui. Ferisci lui e
io sanguinerò.
— Legati? Cosa intendi per legati?
Jace buttò all’indietro la chioma soffice,
ignorando la domanda. — È una cosa più
grande di te, Clary. Non capiresti. Lui ha un
piano. È disposto a impegnarsi, a sacrificarsi.
Se solo tu mi lasciassi spiegare…
— Ha ucciso Max, Jace — disse Clary, — il tuo
fratellino…
Lui trasalì, e per un istante di folle speranza
Clary pensò di essere riuscita a fare breccia nel
suo cuore. Invece l’espressione gli tornò subito
distesa, come un lenzuolo spiegazzato dopo il
passaggio del ferro da stiro. — Quello è stato…
quello è stato un incidente. E poi anche
Sebastian è mio fratello.
— No — scosse la testa Clary. — Lui non è tuo
fratello, è il mio. E Dio solo sa quanto vorrei
non fosse vero. Non avrebbe mai dovuto
nascere…
— Come puoi dire una cosa del genere? —
fece Jace buttando le gambe giù dal letto. —
Hai mai pensato che forse le cose non sono
bianche o nere come pensi tu? — Si piegò per
prendere la cintura con le armi e allacciarsela.
— C’è stata una guerra, Clary, e molte persone
si sono fatte male, ma… allora le cose erano
diverse. Ora so che Sebastian non farebbe mai
intenzionalmente del male a qualcuno che
ama. Sta servendo una causa più grande di lui,
e a volte ci sono dei danni collaterali…
— Hai appena detto che tuo fratello è stato un
danno collaterale? — La voce le salì fino a un
mezzo grido d’incredulità. Si sentiva sul punto
di soffocare.
— Clary, non mi stai ascoltando. È una cosa
importante…
— Come, secondo Valentine, era importante
quello che stava facendo lui?
— Valentine sbagliava — le disse. — Aveva
ragione nel dire che il Conclave era corrotto,
ma si sbagliava sul modo in cui sistemare le
cose. Sebastian invece non sbaglia. Se tu
almeno ci ascoltassi…
— Ci ascoltassi… — ripeté Clary. — Mio Dio,
Jace… — Lui la guardava dal letto, e lei, benché
sentisse che il cuore le si stava spezzando, con
la mente viaggiava all’impazzata per ricordare
dove aveva lasciato lo stilo, o per chiedersi se
sarebbe riuscita a raggiungere il taglierino nel
cassetto del comodino e, nel caso, se avrebbe
avuto la forza di usarlo.
— Clary? — Jace inclinò la testa di lato,
studiandole il viso. — Tu… tu mi ami ancora,
vero?
— Io amo Jace Lightwood — fu la risposta di
lei. — Mentre tu non so chi sei.
Jace cambiò espressione ma, prima che
potesse aprire bocca, un urlo squarciò il
silenzio. Un urlo, e il suono di un vetro che
andava in frantumi.
Clary riconobbe la voce all’istante. Era quella
di sua madre.
Senza dedicare un altro sguardo a Jace,
spalancò la porta della camera e si precipitò in
corridoio per raggiungere il salotto, un locale
ampio separato dalla cucina mediante un
lungo bancone. Proprio lì accanto c’era
Jocelyn, con indosso pantaloni da ginnastica,
una maglietta a frange e i capelli raccolti in
uno chignon disordinato. Sicuramente era
andata in cucina per prendere qualcosa da
bere. Ai suoi piedi, un bicchiere rotto e la
moquette verde inzuppata d’acqua.
Sulla pelle del suo viso non era rimasta una
sola nota di colore: era bianco come un cencio.
Guardava dall’altra parte della stanza, e Clary,
ancora prima di voltare la testa, sapeva cosa
stava fissando.
Suo figlio.
Sebastian era appoggiato alla parete del
salotto, accanto alla porta, il viso spigoloso
privo di espressione. Abbassò le palpebre e
guardò Jocelyn da sotto le ciglia. C’era
qualcosa in quella postura, in quell’aspetto,
che sarebbe potuto uscire dritto da una
fotografia di Hodge con Valentine a diciassette
anni.
— Jonathan — sussurrò Jocelyn. Clary rimase
immobile, persino quando piombò in corridoio
Jace, intuendo subito cosa era successo e
fermandosi. La mano sinistra del ragazzo era
sulla cintura con le armi, le dita sottili a pochi
centimetri dall’elsa di uno dei pugnali, e Clary
sapeva che ci avrebbe messo meno di un
secondo ad afferrarlo.
— Ora vado sotto il nome di Sebastian —
disse il fratello di Clary. — Ho deciso che non
mi interessava mantenere il nome scelto da te
e da mio padre. Mi avete tradito entrambi,
perciò preferisco avere meno legami possibili
con voi.
L’acqua fuoriuscita dal bicchiere rotto era
andata a formare un cerchio scuro ai piedi di
Jocelyn. La donna fece un passo in avanti,
cercando con lo sguardo il viso di Sebastian,
scrutandolo dall’alto in basso. — Pensavo fossi
morto — sussurrò. — Morto. Ho visto le tue
ossa ridotte in cenere.
Sebastian la guardò, i suoi occhi neri calmi e
sottili. — Se tu fossi una vera madre, una brava
madre, avresti saputo che ero vivo. Qualcuno,
una volta, ha detto che le madri portano con sé
le chiavi del nostro animo per tutta la vita. Ma
tu hai buttato via la mia.
Jocelyn emise un rumore dal fondo della
gola. Si appoggiava al bancone per sorreggersi.
Clary voleva correre da lei, ma si sentiva
incollata al pavimento. Qualunque cosa stesse
accadendo tra sua madre e suo fratello, lei non
c’entrava.
— Non dirmi che non sei nemmeno un po’
contenta di vedermi, madre — proseguì
Sebastian. Anche se le parole erano
supplicanti, la voce risultava atona. — Non
sono tutto quello che potresti desiderare in un
figlio? — Spalancò le braccia. — Bello, forte,
proprio come il nostro caro e vecchio papà.
Jocelyn scosse la testa, grigia in viso. — Che
cosa vuoi, Jonathan?
— Voglio quello che vogliono tutti — rispose
lui. — Voglio quello che mi spetta. In questo
caso, l’eredità dei Morgenstern.
— L’eredità dei Morgenstern è sangue e
devastazione — disse Jocelyn. — Qui non
siamo Morgenstern. Né io, né mia figlia. — Si
mise dritta in piedi. La mano era ancora
aggrappata al bancone, ma Clary aveva capito
che nell’espressione di sua madre era tornato
un po’ del vecchio fuoco. — Se adesso te ne vai,
Jonathan, non dirò al Conclave che sei stato
qui. — Gli occhi le guizzarono su Jace. — Lo
stesso vale per te. Se sapessero che state
collaborando, vi ucciderebbero entrambi.
Clary, d’istinto, si spostò per mettersi davanti
a Jace. Lui ora guardava Jocelyn da sopra le
sue spalle. — Ti importa, se muoio? — le
chiese.
— Mi importa di quello che succederebbe a
mia figlia — rispose Jocelyn.
— E la Legge è dura, troppo dura. Forse
quello che ti è successo… si può rimediare. —
Con lo sguardo tornò su Sebastian. — Ma per
te, caro Jonathan, è davvero troppo tardi.
La mano aggrappata al bancone saettò in
avanti brandendo il kindjal a manico lungo di
Luke. Sul viso le brillavano gocce di pianto, ma
la presa del coltello era salda.
— Sembro proprio lui, vero? — disse
Sebastian senza scomporsi.
Sembrava aver notato a malapena l’arma. —
Valentine. È per quello che mi guardi così.
Jocelyn scosse la testa. — Hai l’aspetto che
hai sempre avuto dal primo momento che ti ho
visto. Quello di una creatura demoniaca. — La
sua voce era triste e addolorata. — E mi
dispiace tanto.
— Di cosa?
— Di non averti ucciso quando sei nato. — E
così dicendo uscì da dietro il bancone facendo
roteare il kindjal dentro la mano.
Clary si irrigidì, ma Sebastian non fece una
mossa. I suoi occhi scuri seguivano quelli di
sua madre che gli si avvicinava. — È questo che
vuoi? — le chiese. — Tu vuoi che io muoia? —
Aprì le braccia come per volerla accogliere, poi
fece un passo in avanti. — Prego. Commetti
pure un figlicidio. Non te lo impedirò.
— Sebastian! — esclamò Jace. Clary gli lanciò
un’occhiata
sbalordita.
Era
davvero
preoccupato per lui?
Jocelyn fece un altro passo in avanti.
Muoveva il coltello così velocemente che
distinguerne i contorni era impossibile.
Quando l’arma si fermò, la punta mirava dritto
al cuore di Sebastian.
Eppure lui non si muoveva.
— Fallo — le disse piano. Poi piegò appena la
testa di lato. — Pensi di farcela? Avresti potuto
uccidermi appena nato, ma non l’hai fatto. — Il
suo tono di voce si fece più profondo. — Forse
sai che l’amore per un figlio è incondizionato.
Forse, amandomi abbastanza, avresti potuto
salvarmi.
Per un istante si fissarono l’un l’altra, madre e
figlio, occhi verde ghiaccio che incontravano
carboni ardenti. Agli angoli della bocca di
Jocelyn c’erano due profondi solchi che, Clary
avrebbe potuto giurarci, solo due settimane
prima non esistevano. — Stai bluffando —
disse lei con la voce che le tremava. — Tu non
provi nulla, Jonathan. Tuo padre ti ha
insegnato a fingere di provare le emozioni
umane come si insegna a parlare a un
pappagallo. Lui non sa cosa sta dicendo,
proprio come te. Quanto vorrei… Dio, sì,
quanto vorrei che ne fossi davvero capace.
Invece…
Jocelyn sollevò la lama tracciando un arco
rapido, netto, tagliente. Il colpo perfetto
avrebbe dovuto entrare sotto le costole di
Sebastian per arrivare dritto al cuore. Almeno
in teoria, se Sebastian non fosse stato persino
più veloce di Jace. Si voltò di spalle,
allontanandosi, e la punta della lama gli fece
solo un graffio superficiale sul petto.
Accanto a Clary, Jace trattenne il respiro, e lei
si girò per guardarlo. Sulla maglietta gli era
comparsa una macchia rossa che andava
allargandosi. Quando Jace si toccò, vide che la
punta delle dita era insanguinata. Siamo
legati. Ferisci lui e io sanguinerò.
Senza pensarci due volte, Clary si precipitò al
centro della stanza, mettendosi fra Jocelyn e
Sebastian. — Mamma! — esclamò, senza fiato.
— Fermati!
Jocelyn aveva ancora il coltello in mano e non
staccava gli occhi da Sebastian. — Clary, togliti
di mezzo.
Sebastian scoppiò a ridere. — Carino, vero?
La sorellina che difende il suo fratellone!
— Non sto difendendo te — ribatté Clary
continuando a guardare sua madre in viso. —
Qualsiasi cosa succeda a Jonathan, succede
anche a Jace. Capisci, mamma? Se uccidi lui,
Jace muore. Sta già sanguinando! Mamma, ti
prego!
Jocelyn non mollava la presa sull’arma, ma
aveva un’aria esitante. — Clary…
— Santo cielo, che situazione — commentò
Sebastian. — Voglio proprio vedere come la
risolvete. Dopotutto io non ho motivo di
andarmene.
— Sì, invece — disse una voce che proveniva
dal corridoio. — Ce l’hai.
Era Luke, a piedi nudi, con addosso un paio
di jeans e un vecchio maglione. Aveva l’aspetto
scarmigliato, e senza gli occhiali sembrava
stranamente più giovane. In equilibrio sulla
spalla teneva un fucile a canne mozze, puntato
dritto contro Sebastian. — Questo è un fucile a
pompa Winchester calibro 12 che il branco usa
per abbattere i lupi mannari impazziti — disse.
— Anche se non ti uccido, posso farti saltare
una gamba, figlio di Valentine.
Fu come se tutti nella stanza trasalissero
nello stesso istante. Tutti tranne Luke e
Sebastian. Quest’ultimo, con un sorriso che gli
divideva la faccia in due, si voltò verso
l’avversario guardandolo come se la sua arma
non esistesse. — Figlio di Valentine, dici? È
così che mi vedi? In altre circostanze avresti
potuto essere il mio patrigno.
— In altre circostanze — ribatté Luke, facendo
scivolare un dito sul grilletto — avresti potuto
essere umano.
Sebastian rimase perplesso. — E lo stesso si
può dire di te, lupo mannaro.
Era come se il mondo avesse rallentato. Luke
guardava lungo la canna del fucile, Sebastian
sorrideva.
— Luke — lo chiamò Clary. Sembrava uno di
quei sogni, uno di quegli incubi in cui vorresti
urlare ma tutto quello che ti esce dalla gola è
un debole sussurro. — Luke, non farlo!
Il dito del suo patrigno si irrigidì sul grilletto.
A quel punto Jace, che stava di fianco a Clary,
esplose: partì di corsa, saltò oltre il divano e si
avventò su Luke proprio nell’istante in cui
partì il colpo.
Il proiettile volò in alto e colpì una delle
finestre, che scoppiò verso l’esterno. Luke
barcollò all’indietro per il contraccolpo. Jace
gli strappò il fucile dalle mani e lo scagliò via,
facendolo finire fuori dalla finestra rotta.
— Luke… — cercò di dirgli. Ma l’altro lo colpì.
Pur sapendo tutto quello che sapeva, lo shock
di vedere Luke, colui che aveva difeso Jace
un’infinità di volte davanti a sua madre, a
Maryse e al Conclave, lo stesso Luke noto per
la sua calma e la sua gentilezza, che colpiva
Jace in pieno volto fu per Clary come ricevere
un pugno in prima persona. Jace, del tutto
impreparato, finì all’indietro contro il muro.
E Sebastian, che fino a quel momento non
aveva mostrato emozioni diverse dallo scherno
e dal disgusto, ringhiò. Ringhiò ed estrasse
dalla cintura un pugnale lungo e sottile. Luke
sgranò gli occhi e fece per voltarsi, ma
Sebastian fu più veloce di lui, più veloce di
chiunque Clary avesse mai visto. Jace
compreso. Infilzò il pugnale nel petto di Luke,
facendolo ruotare con violenza prima di
estrarlo, rosso fino all’impugnatura. Luke si
lasciò cadere contro il muro e scivolò a terra
lasciandosi dietro una scia di sangue, sotto lo
sguardo esterrefatto di Clary.
Jocelyn lanciò un grido il cui suono fu
peggiore di quello del proiettile che aveva
distrutto la finestra, ma Clary ebbe
l’impressione di sentirlo provenire da lontano,
quasi da sott’acqua. Stava fissando Luke,
collassato a terra, mentre il tappeto attorno a
lui si tingeva veloce di rosso.
Sebastian sollevò di nuovo il pugnale. Clary
allora gli si scagliò contro, colpendolo più forte
che poteva sulla spalla per fargli perdere
l’equilibrio. Lo smosse a malapena, ma riuscì a
fargli cadere l’arma. Sebastian si girò per
guardarla. Aveva un labbro ferito. Clary non ne
capiva il motivo, finché davanti agli occhi non
le comparve anche Jace, sporco di sangue nel
punto in cui era stato colpito da Luke.
— Ora basta! — Jace afferrò Sebastian per le
spalle della giacca. Era pallido, non stava
guardando né Luke né Clary. — Smettila. Non
è questo il motivo per cui sono venuto qui.
— Lasciami andare!
— No. — Jace passò un braccio davanti a
Sebastian e gli afferrò la mano. Il suo sguardo
si incrociò con quello di Clary. Mosse le labbra
per pronunciare qualcosa, poi balenò una luce
argentea – l’anello al dito di Sebastian – ed
entrambi sparirono, dissolti nello spazio di un
respiro. Proprio mentre scomparivano, una
scia metallica volò in aria nel punto in cui i due
si trovavano un secondo prima e andò a
conficcarsi nel muro.
Il kindjal di Luke.
Clary si girò per guardare la madre, che aveva
lanciato l’arma. Ma lei però non la vide. Si era
già precipitata al fianco di Luke, buttandosi in
ginocchio sopra il tappeto insanguinato e
prendendo in grembo il proprio compagno.
Lui aveva gli occhi chiusi e dagli angoli della
bocca gli colavano rivoli rossi. A qualche
centimetro di distanza giaceva il pugnale
d’argento di Sebastian, ancora più rosso.
— Mamma — sussurrò Clary. — Luke è…
— Il pugnale è d’argento — disse Jocelyn con
voce scossa. — Non guarirà tanto in fretta, non
senza una cura speciale. — Sfiorò il viso di
Luke con la punta delle dita. Clary notò con
sollievo che il petto di lui si alzava e abbassava,
anche se di poco. Riusciva a sentire il sapore
delle lacrime bruciargli in fondo alla gola e, per
un attimo, rimase colpita dalla calma di sua
madre. Ma poi pensò che quella era la stessa
donna che un tempo aveva visto le ceneri della
sua casa, i corpi carbonizzati della sua
famiglia, genitori e figlio compresi, e che era
riuscita lo stesso ad andare avanti.
— Vai in bagno a prendere degli asciugamani
— le ordinò. — Dobbiamo fermare l’emorragia.
Clary barcollò ed entrò quasi alla cieca nel
piccolo bagno piastrellato di Luke. Sul retro
della porta era appeso un asciugamano grigio;
lo tirò giù e tornò in salotto. Jocelyn teneva
Luke sulle ginocchia con una mano, mentre
con l’altra stringeva un cellulare. Alla vista di
Clary, lo lasciò cadere e prese subito
l’asciugamano. Dopo averlo piegato in due, lo
appoggiò sopra la ferita che Luke aveva sul
petto e premette forte. Clary vide la stoffa
tingersi di scarlatto.
— Luke — sussurrò Clary. Lui non si mosse.
Aveva il viso di un tremendo color grigio.
— Ho appena avvisato il suo branco — disse
Jocelyn. Non guardò sua figlia; Clary si rese
conto che Jocelyn non le aveva fatto una sola
domanda su Jace e su Sebastian, né le aveva
chiesto come mai lei e Jace fossero usciti dalla
stessa stanza, né che cosa stessero facendo.
Era completamente concentrata su Luke. —
Hanno mandato alcuni dei loro membri a
perlustrare la zona. Appena arrivano,
dobbiamo andarcene. Jace tornerà a cercarti.
— Non puoi saperlo… — cominciò a dire Clary
sussurrando da una gola prosciugata.
— Invece sì — dichiarò Jocelyn. — Valentine è
tornato da me dopo quindici anni. I
Morgenstern sono fatti così. Non si arrendono
mai, perciò lui tornerà da te.
Jace non è Valentine, avrebbe voluto dire, ma
la frase le si spense sulle labbra. Avrebbe
anche voluto buttarsi sulle ginocchia e
prendere la mano di Luke, stringerla forte,
dirgli che gli voleva bene. Invece, ricordando le
mani di Jace sulle proprie in camera da letto,
non lo fece. Era colpa sua. Non meritava di
consolare Luke: meritava solo dolore e senso
di colpa.
Stridore di passi sul portico. Mormorio
sommesso di voci. Jocelyn alzò subito la testa:
era il branco.
— Clary, vai a prendere le tue cose — le
ordinò. — Prendi quello che pensi ti servirà ma
niente più di quello che riesci a portare. Non
torneremo in questa casa.
capitolo 6
NESSUNA ARMA IN QUESTO MONDO
La prima neve aveva iniziato a scendere a
fiocchi leggeri, simili a piume, da un cielo
grigio acciaio. Clary e sua madre camminavano
veloci lungo Greenpoint Avenue, con la testa
piegata contro il gelido vento che saliva
dall’East River.
Jocelyn non aveva detto una parola da
quando avevano lasciato Luke nella stazione di
polizia abbandonata che fungeva da quartier
generale del branco. Era stato tutto molto
caotico: i lupi mannari che trasportavano il
loro capobranco all’interno, gli strumenti per
curarlo, Clary e la madre che tentavano di
guardarlo mentre gli altri serravano i ranghi
intorno a lui quasi volessero proteggerlo dalla
vista altrui. Sapeva perché non potevano
portarlo in un normale ospedale, ma era stata
dura, durissima, lasciarlo lì, in quella stanza
bianca che veniva utilizzata come infermeria.
Il fatto non era tanto che Jocelyn e Clary non
piacessero agli altri lupi, ma che loro due non
appartenevano al branco, e mai lo avrebbero
fatto. Clary si era guardata attorno in cerca di
Maia, un’alleata, ma non l’aveva trovata. Alla
fine Jocelyn l’aveva mandata fuori in corridoio,
perché la stanza era troppo affollata, e lei si era
lasciata cadere sul pavimento, abbracciando lo
zaino che teneva sulle ginocchia. Erano le due
di notte e non si era mai sentita così sola. Se
Luke fosse morto…
Quasi non ricordava di aver mai vissuto senza
la sua presenza. Era grazie a lui e a sua madre
se sapeva cosa voleva dire essere amati in
modo incondizionato. Uno dei suoi primi
ricordi era Luke che la prendeva in braccio per
posarla tra i rami di un albero di mele, nella
sua fattoria a nord di New York. Prima, in
infermeria, lo aveva sentito rantolare mentre
Bat, il suo comandante in terza, apriva il kit di
soccorso. In teoria, ricordava Clary, le persone
rantolavano quando stavano per morire. Non
riusciva a ricordare l’ultima cosa che aveva
detto a Luke. Ma quando qualcuno muore,
bisogna ricordarselo, no?
Quando Jocelyn era finalmente uscita
dall’infermeria, con l’aria esausta, aveva
offerto una mano a Clary e l’aveva aiutata a
rialzarsi dal pavimento.
— Mamma, Luke è…
— Stabile — aveva risposto Jocelyn. Poi aveva
guardato su e giù per il corridoio e le aveva
detto che dovevano andare.
— Andare dove? — Clary era sconcertata. —
Pensavo saremmo rimaste qui, con Luke. Non
voglio lasciarlo.
— Nemmeno io. — Jocelyn era stata
irremovibile e Clary aveva ripensato alla donna
che aveva voltato le spalle a Idris, a tutto ciò
che aveva conosciuto, andandosene per
iniziare una nuova vita da sola. — Ma non
possiamo neanche lasciare che Jace e
Jonathan ci raggiungano qui. Metteremmo in
pericolo il branco, oppure Luke. E il primo
posto dove Jace verrebbe a cercarti è proprio
qui.
— E allora, dove… — aveva tentato di dire
Clary, ma si era accorta, ancora prima di
completare la frase, che stava per fare una
domanda inutile. Dove andavano, in quel
periodo, ogni volta che avevano bisogno
d’aiuto?
La pavimentazione sconnessa della strada era
coperta da un leggero strato di bianco, simile a
zucchero a velo. Prima di uscire di casa,
Jocelyn si era messa un cappotto lungo, ma
sotto aveva ancora i vestiti macchiati del
sangue di Luke. A labbra strette, fissava la
strada
davanti
a
sé
con
sguardo
imperturbabile. Clary si chiese se fosse quello
l’aspetto che aveva quando era stato il
momento di lasciare Idris, con gli stivali
coperti di cenere e la Coppa Mortale nascosta
sotto la giacca.
Scosse la testa per cancellare quella scena. Si
stava lasciando trasportare dalla fantasia,
pensando a scenari a cui non aveva assistito,
mentre la mente cercava di scappare
dall’orrore di cui era stata testimone diretta.
L’immagine non richiesta di Sebastian che
infilzava il coltello nella carne di Luke le balzò
alla mente, così come il suono della voce amata
e familiare di Jace mentre pronunciava le
parole “danni collaterali”.
Perché accade sovente, con ciò che viene
perso e ritrovato, che lo si scopra diverso da
come lo si era lasciato…
Jocelyn rabbrividì e alzò il cappuccio per
proteggersi i capelli. Bianchi fiocchi di neve
avevano iniziato a mischiarsi alle ciocche color
rosso intenso. Lei continuava a tacere, e la
strada, fiancheggiata da ristoranti polacchi e
russi intervallati da parrucchieri e centri
estetici, era deserta, in quella notte bianca e
gialla. A un tratto, davanti alle palpebre chiuse
di Clary, si accese il flash di un ricordo:
stavolta un ricordo vero, non un capriccio della
fantasia. Sua madre che la conduceva lungo
una strada nera come la notte, fra cumuli di
neve sporca. Un cielo minaccioso, grigio e
plumbeo…
Aveva già visto quella scena, la prima volta
che i Fratelli Silenti le avevano scavato nella
mente. E ora aveva capito di cosa si trattava:
sua madre che la portava da Magnus per
alterarle i ricordi. Doveva essere accaduto in
pieno inverno, ma la strada era Greenpoint
Avenue.
L’edificio di mattoni rossi in cui viveva
Magnus si stagliò davanti ai loro occhi. Jocelyn
aprì le porte a vetri dell’ingresso e Clary cercò
di respirare dalla bocca mentre la madre
suonava il citofono dello stregone una, due, tre
volte. Una seconda porta si aprì, e madre e
figlia salirono le scale.
L’appartamento di Magnus era aperto; lo
stregone le stava aspettando appoggiato allo
stipite della porta. Indossava un pigiama giallo
canarino e ai piedi aveva delle pantofole verdi
con le facce di due alieni, complete di antenne
a molla; i capelli erano un ammasso caotico di
ricci e di punte. Gli occhi da gatto rivolsero alle
nuove arrivate uno sguardo stanco.
— Rifugio di San Magnus per Shadowhunters
perduti — annunciò con voce profonda. —
Benvenute — disse aprendo un braccio. — Le
camere ancora libere sono da quella parte.
Pulitevi gli stivali sullo zerbino.
Fece un passo indietro dentro casa e le lasciò
passare prima di chiudere la porta. Quel
giorno lo stile dell’arredamento era una sorta
di finto vittoriano: divani a schienale alto e
grandi specchi con cornice dorata ovunque. Le
colonne erano avvolte da luci a forma di fiori.
In fondo a un breve corridoio che partiva dal
salotto, c’erano tre camere libere. Clary scelse
a caso quella sulla destra. Aveva le pareti
arancione, come la sua vecchia stanza di Park
Slope, ospitava un divano letto, e la piccola
finestra dava sulle vetrine buie di una tavola
calda
chiusa.
Chairman
Meow
era
acciambellato sul letto col muso infilato sotto
la coda. Clary gli si sedette accanto e gli
accarezzò le orecchie, sentendolo vibrare in
tutto il suo piccolo corpo peloso. Mentre lo
coccolava, si accorse di cosa c’era sulla manica
della sua felpa: macchie scure e grumi di
sangue. Il sangue di Luke.
Si alzò e se la strappò di dosso con foga. Prese
dallo zaino un paio di jeans puliti e una
maglietta nera col collo a V e si rivestì. Si diede
un’occhiata veloce al vetro della finestra, che le
restituì il debole riflesso di una ragazza coi
capelli flosci, bagnati di neve, e le lentiggini
evidenti come chiazze di vernice. Non che le
importasse del suo aspetto. Ripensò a Jace che
la baciava (le sembravano passati giorni
anziché ore) e lo stomaco le fece male come se
avesse ingoiato una miriade di coltellini.
Si tenne al bordo del letto per un lungo
istante, finché il dolore non fu scomparso. Poi
fece un respiro profondo e tornò in salotto.
Sua madre era seduta su una delle sedie coi
profili di legno dorato, e le sue lunghe dita da
artista avvolgevano una tazza di limonata
calda. Magnus era pigramente seduto su un
divano color rosa acceso e aveva poggiato i
piedi nelle pantofole verdi sopra il tavolino da
caffè. — Il branco lo ha stabilizzato — stava
dicendo Jocelyn con voce esausta. — Ma non
sanno quanto resisterà. In un primo tempo
pensavano che sulla lama ci fosse polvere
d’argento, ma deve essere qualcos’altro. La
punta del coltello… — In quell’istante alzò lo
sguardo, vide Clary e tacque.
— Non c’è problema, mamma. Sono grande
abbastanza da sentire cosa è successo a Luke.
— È che non sanno bene di cosa si tratta —
disse piano Jocelyn. — La punta della lama
usata da Sebastian si è spezzata contro una
delle costole, incastrandosi nell’osso. E ora
non riescono a estrarla. Perché… si muove.
— Si muove? — Magnus era stupito.
— Quando hanno cercato di rimuoverla, si è
rintanata nell’osso e lo ha quasi spezzato —
spiegò Jocelyn. — Luke è un lupo mannaro,
guarisce in fretta, ma quella cosa è dentro di
lui, gli sfregia gli organi interni e impedisce
alla ferita di rimarginarsi.
— Metallo demoniaco — dichiarò Magnus. —
Non argento.
Jocelyn si sporse in avanti. — Credi di poterlo
aiutare? Non importa quanto costerà,
pagherò…
Magnus si alzò in piedi. Le sue pantofole
aliene e i capelli arruffati sembravano davvero
poco consoni rispetto alla gravità delle
circostanze. — Non lo so.
— Ma hai guarito Alec — intervenne Clary —
quando il Demone Superiore lo ha ferito…
Magnus cominciò a camminare avanti e
indietro. — Con lui sapevo qual era il
problema. Invece, in questo caso, non so di
quale metallo demoniaco si tratta. Potrei fare
degli esperimenti, tentare diversi incantesimi
di guarigione, ma non sarebbe la soluzione più
rapida per curarlo...
— E quale sarebbe, allora? — volle sapere
Jocelyn.
— Il Praetor — rispose Magnus. — I Lupi
Guardiani. Conoscevo il loro fondatore,
Woolsey Scott. In seguito ad alcuni, diciamo,
incidenti, ha sviluppato una grande passione
per il modo in cui i metalli e le droghe
demoniache agiscono sui licantropi, così come
i Fratelli Silenti prendono nota delle varie
soluzioni per guarire i Nephilim. Nel corso
degli anni il Praetor è diventato molto
riservato ed esclusivo, purtroppo, ma un loro
membro potrebbe avere accesso alle
informazioni che ci servono.
— Luke non ne fa parte — disse Jocelyn. — E
la lista dei membri è segreta.
— Luke no, ma Jordan sì! — esclamò Clary. —
Sta con loro, potrebbe scoprire qualcosa.
Adesso lo chiamo…
— Lo chiamo io — la fermò Magnus. — Non
posso entrare nel quartier generale del
Praetor, ma posso lasciare un messaggio che
dovrebbe avere un certo peso. Torno subito. —
Detto questo, trascinò le pantofole fino alla
cucina, con le antenne che ondeggiavano
mollemente come alghe mosse dalla corrente.
Clary si girò verso sua madre, che nel
frattempo stava fissando la sua tazza di
limonata calda. Era una delle sue bevande
preferite, quando aveva bisogno di riprendersi,
anche se in verità Clary proprio non capiva
come si potesse desiderare di bere dell’acqua
calda inacidita. Notò che i capelli di sua madre,
inzuppati di neve, si stavano asciugando
formando dei riccioli, proprio come i suoi
quando c’era umidità.
— Mamma — le disse, e Jocelyn sollevò lo
sguardo. — Quel coltello che hai lanciato…
prima, a casa di Luke. Era per Jace?
— Era per Jonathan. — Non lo avrebbe mai
chiamato Sebastian, Clary lo sapeva.
— È esattamente… — Clary fece un respiro
profondo — … è quasi la stessa cosa. Hai visto
anche tu. Quando hai pugnalato Sebastian,
Jace ha iniziato a sanguinare. È come se
fossero speculari, in qualche modo. Ferisci
Sebastian e Jace sanguinerà. Uccidilo, e Jace
morirà.
— Clary — disse sua madre sfregandosi gli
occhi stanchi. — Possiamo non parlarne
adesso?
— Ma tu hai detto che secondo te tornerà a
cercarmi. Jace, intendo. Ho bisogno di sapere
che non gli farai del male…
— Be’, non posso promettertelo, perché non
posso saperlo, Clary. Non posso. — Sua madre
la guardava con sguardo risoluto. — Vi ho visti
uscire da camera tua.
Clary arrossì. — Non voglio…
— Cosa? Parlarne? Troppo tardi, hai iniziato
tu. Ti puoi ritenere fortunata che non sono più
nel Conclave. Da quant’è che sapevi dov’era
Jace?
— Ma io non so dov’è! Stasera è la prima volta
che gli parlo da quando è scomparso. Sì, l’ho
visto all’Istituto con Seb… Jonathan, ieri. Ne
ho parlato con Alec, Isabelle e Simon, ma non
potevo dirlo a nessun altro: se il Conclave lo
prendesse…
Jocelyn alzò i suoi occhi verdi. — E perché
no?
— Perché è Jace. E perché lo amo.
— Quello non è Jace. Le cose stanno così,
Clary. Lui non è più quello che era. Non vedi
che…
— Certo che lo vedo, non sono stupida. Ma ho
fiducia. L’ho già visto posseduto e l’ho visto
anche tornare in sé. Penso che il vero Jace sia
ancora lì dentro, da qualche parte. So che ci
deve essere un modo per salvarlo!
— E se invece non ci fosse?
— Dimostramelo.
— Non puoi dimostrare qualcosa che non c’è,
Clarissa. Io capisco che lo ami, e lo hai sempre
amato, troppo. Credi che io non amassi tuo
padre? Credi che non gli abbia dato tutte le
possibilità? E guarda com’è finita. Jonathan:
se non fossi rimasta con tuo padre, lui non
esisterebbe nemmeno…
— E io neanche — ribatté Clary. — Nel caso te
ne fossi dimenticata, io sono arrivata dopo mio
fratello, non prima. — Fissò la madre con
sguardo severo. — Stai dicendo che sarebbe
stato meglio non avermi, pur di liberarti di
Jonathan?
— No, io…
Si sentì il suono gracchiante delle chiavi nella
serratura, e la porta dell’appartamento si aprì.
Era Alec. Indossava un lungo cappotto nero di
pelle aperto su un maglione azzurro, aveva i
capelli neri punteggiati di neve. Le guance
erano rosse come mele, ma per il resto il viso
era pallido.
— Dov’è Magnus? — chiese. Mentre guardava
verso la cucina, Clary notò che aveva un livido
sulla mascella, sotto l’orecchio, grande come
l’impronta di un pollice.
— Alec! — Magnus arrivò in salotto slittando
sul pavimento e con la mano lanciò un bacio al
fidanzato. Si era tolto le pantofole e ora era a
piedi nudi. Quando vide Alec, i suoi occhi da
gatto si illuminarono.
Clary conosceva quell’espressione. Era la
stessa di quando lei guardava Jace. Alec, però,
non contraccambiò lo sguardo: si stava
togliendo il cappotto per appenderlo
all’attaccapanni da muro, con fare visibilmente
turbato. Le mani gli tremavano, le ampie
spalle erano rigide.
— Hai ricevuto il mio messaggio? — gli chiese
Magnus.
— Sì. Comunque ero a pochi isolati da qui. —
Alec guardò Clary, poi sua madre, e sul viso gli
comparvero ansia e incertezza. Anche se era
stato al ricevimento di Jocelyn e l’aveva già
incontrata diverse volte, non si poteva certo
dire che si conoscessero bene. — È vero quello
che ha detto Magnus? Hai rivisto Jace?
— E Sebastian — aggiunse Clary.
— Ma Jace… — fece per dire Alec. — Com’era?
Voglio dire, come ti è sembrato?
Clary sapeva esattamente cosa voleva sapere:
per una volta lei e Alec si erano capiti meglio di
chiunque altro in quella stanza.
— Non si sta prendendo gioco di Sebastian —
rispose con un filo di voce. — È davvero
cambiato. Non è più lui, per niente.
— In che senso? — la incalzò Alec con uno
strano misto di rabbia e vulnerabilità. — In che
senso è cambiato?
Clary aveva un buco nei jeans, all’altezza del
ginocchio. Ci infilò dentro il dito e iniziò a
grattare. — Il modo in cui parla… Si fida di
Sebastian, crede in quello che lui sta facendo,
qualunque cosa sia. Gli ho ricordato che lui è
l’assassino di Max, ma sembrava non
importargli… — A quel punto la sua voce si
incrinò. — Ha detto che Sebastian è suo
fratello tanto quanto Max.
Alec sbiancò, e i pomelli rossi delle guance
risaltarono come chiazze di sangue. — Non ha
detto niente di me? Di Izzy? Non ha chiesto di
noi?
Clary fece di no con la testa, a malapena in
grado di sopportare l’espressione sul viso di
Alec. Con la coda dell’occhio vide che anche
Magnus lo stava guardando e che aveva il viso
paralizzato dalla tristezza. Si chiese se fosse
ancora geloso di Jace oppure dispiaciuto per
Alec.
— Perché è venuto a casa tua? — domandò
Alec scuotendo il capo. — Non capisco.
— Voleva che lo seguissi, che andassi con lui e
Sebastian. Penso che voglia trasformare il loro
duo di cattivi in un trio. — Scrollò le spalle. —
Magari si sente solo. Sebastian non deve essere
il massimo della compagnia.
— Non lo sappiamo. Magari è un fenomeno a
Scarabeo — fece Magnus.
— È un assassino psicopatico — replicò Alec
con voce atona. — E Jace lo sa.
— Ma ora Jace non è più Jace… — esordì
Magnus, ma si interruppe al suono del
telefono. — Rispondo io. Come si fa a sapere
chi altro sta scappando dal Conclave e ha
bisogno di un posto dove stare? D’altronde,
non è che in questa città non esistano
alberghi… — E con ciò si avviò in cucina.
Alec si buttò sul divano. — Sta lavorando
troppo — disse seguendo con sguardo
preoccupato il suo ragazzo. — È stato sveglio
ogni notte, tutta la notte, per decifrare quelle
rune.
— Lo fa per conto del Conclave? — si informò
Jocelyn.
— No — disse piano Alec. — Lo fa per me. Per
quello che Jace significa per me. — Sollevò la
manica e mostrò a Jocelyn la runa parabatai
sull’avambraccio interno.
— Tu sapevi che Jace non era morto — disse
Clary iniziando a rimuginare. — Perché sei il
suo parabatai, per via del legame che vi
unisce. In effetti avevi sentito che qualcosa
non andava.
— Difatti Jace è posseduto — disse Jocelyn. —
Non è più lo stesso. Valentine disse che,
quando Luke divenne un Nascosto, provò la
stessa cosa, una specie di senso di
inadeguatezza.
Alec scosse la testa. — Ma quando Jace è
stato posseduto da Lilith, io non l’ho sentito —
spiegò. — Ora invece avverto qualcosa di…
sbagliato. Qualcosa di guasto. — Si guardò le
scarpe. — Lo senti, quando il tuo parabatai
muore, è come se si spezzasse una corda a cui
sei legato e tu cominci a cadere nel vuoto. —
Guardò Clary. — Successe una volta, a Idris,
nel corso di una battaglia. Ma durò solo un
istante, e quando tornai ad Alicante Jace era
vivo, perciò mi convinsi di essermi
immaginato tutto.
Clary scosse la testa ripensando a Jace e alla
sabbia intrisa di sangue del lago Lyn. E invece
no.
— Quello che provo ora è un’altra cosa —
proseguì Alec. — Sento che lui è assente dal
mondo ma che non è morto. Nemmeno
imprigionato… Semplicemente, non è qui.
— Esatto — fece Clary. — Tutte e due le volte
che li ho visti, lui e Sebastian sono svaniti
nell’aria. Nessun portale: un attimo erano lì,
quello dopo non c’erano più.
— Quando parli di lì e di qui — disse Magnus
mentre tornava in salotto sbadigliando — e di
questo e quel mondo, in realtà stai parlando di
dimensioni. Esistono soltanto pochi stregoni
in grado di utilizzare la magia dimensionale,
come ad esempio il mio vecchio amico Ragnor.
Le dimensioni non giacciono l’una accanto
all’altra, sono piegate insieme come fogli di
carta. Nei punti in cui si intersecano, è
possibile creare delle tasche dimensionali che
impediscono alla magia di trovarti. Dopotutto
non sei qui: sei lì.
— Forse è per questo che non riusciamo a
rintracciarlo? Il motivo per cui Alec non riesce
a sentirlo? — propose Clary.
— È una possibilità… — Magnus sembrava
quasi stupito. — Vorrebbe dire che non c’è
davvero modo di trovarli, se loro non vogliono.
E, se dovesse accadere di trovarli, non lo si
potrebbe comunicare fino a qui. Si tratta di
magia complessa e costosa. Sebastian deve
avere delle conoscenze… — Suonò il citofono e
tutti sussultarono. Magnus invece alzò gli
occhi al cielo. — Calma, calma — disse prima
di sparire nell’ingresso.
Fece ritorno un istante dopo in compagnia di
un uomo avvolto in una tunica color
pergamena, con la parte posteriore e i bordi
decorati da rune color mogano scuro. Benché
avesse il cappuccio alzato che gli riparava il
viso, sembrava perfettamente asciutto, come
se su di lui non si fosse posato neanche un
fiocco di neve. Quando lo abbassò, Clary non
fu sorpresa nel riconoscere il viso di Fratello
Zaccaria.
Jocelyn appoggiò di colpo la tazza sul
tavolino. Stava guardando il Fratello Silente.
Ora che aveva il cappuccio all’indietro, la
chioma scura era visibile, ma la faccia restava
in ombra, tanto che Clary non gli vedeva gli
occhi ma soltanto gli zigomi con incise le rune.
— Tu… — fece Jocelyn con la voce che le si
smorzava. — Eppure Magnus mi aveva detto
che tu non avresti mai…
Eventi inattesi richiedono misure inattese. Le
parole di Fratello Zaccaria aleggiarono
nell’aria andando a toccare la mente di Clary, e
lei capì, dall’espressione degli altri, che anche
loro riuscivano a sentirle. Al Conclave non
dirò niente di ciò che emergerà questa notte.
Se avrò la possibilità di salvare l’ultimo
discendente della dinastia Herondale, la
considero di maggiore importanza rispetto
alla fedeltà che devo al Conclave.
— Allora siamo d’accordo — disse Magnus.
Formava una strana coppia, con il Fratello
Silente accanto: uno dei due pallido e slavato
nella sua tunica, l’altro col pigiama giallo
canarino. — Scoperto niente di nuovo sulle
rune di Lilith?
Le ho studiate con attenzione e ho ascoltato
tutte le testimonianze deposte in Consiglio,
disse Fratello Zaccaria. Credo che il suo
rituale sia stato duplice. Prima ha usato il
morso del Diurno per risvegliare la coscienza
di Jonathan Morgenstern. Il suo corpo era
ancora debole, ma mente e volontà erano
vive. Penso che, quando Jace Herondale è
stato lasciato solo con lui sul tetto, Jonathan
abbia attinto al potere delle rune di Lilith
costringendo Jace a entrare nel cerchio
magico che circondava lui. A quel punto la
volontà di Jace sarebbe stata subordinata
alla sua. Penso anche che abbia sfruttato il
sangue di Jace per ricavare la forza
necessaria per alzarsi e scappare dal tetto,
portando il ragazzo con sé.
— E in qualche modo questo ha creato fra
loro una specie di connessione? — chiese
Clary. — Perché, quando mia madre ha
pugnalato Sebastian, Jace ha iniziato a
sanguinare.
Sì. Quello di Lilith è stato una sorta di rito di
gemellaggio, non diverso dalla nostra
cerimonia parabatai, solo molto più potente e
pericoloso. Quei due ora sono legati
indissolubilmente. Se uno dovesse morire,
morirebbe anche l’altro. Nessuna arma in
questo mondo può ferire soltanto uno dei due.
—
Quando
dici
che
sono
legati
indissolubilmente — disse Alec chinandosi in
avanti — significa che… Voglio dire, Jace odia
Sebastian. Ha ucciso nostro fratello!
— E io non vedo come Sebastian possa
andare matto per Jace. È stato geloso di lui per
tutta la vita. Pensava che fosse il preferito di
Valentine… — aggiunse Clary.
— Per non parlare del fatto che Jace lo ha
ucciso! — fece notare Magnus. — Quello
darebbe fastidio a chiunque.
— È come se Jace non ricordasse nessuna di
queste cose — concluse Clary, demoralizzata.
— No, più che non ricordarle… non ci crede.
Se le ricorda. Ma il potere del loro legame è
tale per cui i pensieri di Jace passano sopra
quei fatti, come l’acqua passa sopra alle rocce
nel letto di un fiume. È come l’incantesimo che
Magnus ha fatto alla tua mente, Clarissa.
Quando hai visto frammenti del Mondo
Invisibile, la tua mente voleva rifiutarli,
respingerli. Non ha senso tentare di far
ragionare Jace su Jonathan. La verità non
può rompere il loro legame.
Clary ripensò a quello che era successo
quando aveva ricordato a Jace che Sebastian
aveva ucciso Max, a come il suo viso si era
temporaneamente corrugato in un’espressione
meditabonda per poi rilassarsi di nuovo, segno
che si era dimenticato di quelle parole tanto in
fretta quanto lei le aveva pronunciate.
Consolatevi, per quanto possibile, pensando
che Jonathan Morgenstern è vincolato quanto
il vostro Jace. Non può ferirlo o fargli del
male, e nemmeno è nelle sue intenzioni,
aggiunse Zaccaria.
Alec alzò le braccia al cielo. — Quindi ora si
adorano? Sono migliori amici? — Il dolore e la
gelosia erano evidenti nella sua voce.
No. Ora l’uno è l’altro. Vedono come vede
l’altro e sanno che per loro l’altro è
indispensabile. Sebastian è il capo, la figura
dominante fra i due. Quello che lui crede, lo
crede anche Jace. Quello che lui vuole, Jace lo
farà.
— Dunque è posseduto — commentò Alec in
tono freddo.
Quando una persona è posseduta, spesso
mantiene intatta una parte della propria
coscienza originaria. Chi lo ha provato dice
che è come veder compiere le proprie azioni
dall’esterno, gridando senza però essere
sentiti. Jace invece è padrone del proprio
corpo e della propria mente. Lui si ritiene
sano. E crede che questo sia ciò che vuole.
— E allora che cosa voleva da me? — chiese
Clary con la voce che le tremava. — Perché
stanotte è venuto in camera mia? — Sperò di
non stare arrossendo. Cercò di rimuovere il
ricordo di quel bacio, la pressione del corpo di
lui contro il suo, sul letto.
Lui ti ama ancora, disse Fratello Zaccaria in
tono sorprendentemente gentile. Sei il perno
attorno a cui ruota tutto il resto. Questo non è
cambiato.
— Ed è proprio per questo motivo che siamo
dovute scappare — disse Jocelyn, tesa. —
Tornerà a cercarla. Non potevamo rimanere
alla stazione di polizia. E non so dove
potremmo essere al sicuro…
— Qui — le disse Magnus. — Posso creare
delle difese che terranno Jace e Sebastian alla
larga.
Clary vide il sollievo negli occhi di sua madre.
— Ti ringrazio — disse.
Magnus minimizzò. — Per me è un privilegio.
Mi piace tenere a bada gli Shadowhunters
arrabbiati, soprattutto quelli posseduti.
Lui non è posseduto, ricordò Fratello
Zaccaria.
— Pura semantica — fece Magnus. — La
domanda è: che cosa hanno in mente quei
due? Qual è il loro piano?
— Clary ha spiegato che quando li ha visti in
libreria, Sebastian diceva che presto sarebbe
stato lui a capo dell’Istituto — rispose Alec. —
Quindi qualcosa l’hanno in mente di sicuro.
—
Proseguire
l’opera
di
Valentine,
probabilmente — propose Magnus. — Abbasso
i Nascosti, a morte tutti gli Shadowhunters
recalcitranti e tutto il resto.
— Forse — Clary non ne era certa. — Jace ha
detto qualcosa sul fatto che Sebastian stava
servendo una causa superiore.
— Solo l’Angelo sa cosa intendono —
intervenne Jocelyn. — Sono stata sposata con
un fanatico per anni e so cosa vuol dire “causa
superiore”: torturare gli innocenti, commettere
brutali assassini, voltare le spalle ai tuoi vecchi
amici, tutto in nome di qualcosa che credi più
grande di te ma che non è altro che avidità e
immaturità ribattezzate in modo altisonante.
— Mamma — protestò Clary, preoccupata di
sentire Jocelyn parlare in tono così
amareggiato.
Ma lei stava guardando Fratello Zaccaria. —
Hai detto che non c’è arma al mondo che possa
ferire soltanto uno dei due — ripeté. —
Nessuna di cui tu sia a conoscenza…
Lo sguardo di Magnus si accese di colpo,
come quello di un gatto abbagliato dalla luce.
— Credi che…
— Le Sorelle di Ferro — disse Jocelyn. —
Sono loro le esperte di armi e armamenti.
Magari hanno la risposta giusta.
Clary sapeva che le Sorelle di Ferro erano il
corrispettivo femminile dei Fratelli Silenti.
Loro però non avevano occhi e bocca cuciti, e
vivevano in solitudine pressoché totale dentro
una fortezza in una località sconosciuta. Non
erano guerriere, bensì artigiane: le loro mani
forgiavano armi, stilo e spade angeliche capaci
di difendere la vita degli Shadowhunters.
C’erano rune che solo loro sapevano incidere,
così come erano loro le uniche depositarie dei
segreti su come trasformare la sostanza color
bianco argento chiamata adamas in torri
demoniache, stilo e pietre runiche di
stregaluce. Difficili da incontrare, non
partecipavano alle riunioni del Consiglio, né si
avventuravano ad Alicante.
È possibile, disse Fratello Zaccaria dopo una
lunga pausa.
— Se si potesse uccidere Sebastian
mantenendo in vita Jace, lo si libererebbe
anche dalla sua influenza? — chiese Clary.
Seguì una pausa ancora più lunga. E poi: Sì,
rispose Fratello Zaccaria. Sarebbe il risultato
più probabile.
— Allora dovremmo andare dalle Sorelle. —
La stanchezza incombeva su Clary come un
manto, rendendole pesanti le palpebre e acido
il sapore in bocca. Si sfregò gli occhi, cercando
di allontanarla. — Adesso.
— Non posso venire — disse Magnus. — Solo
gli Shadowhunters donna possono entrare
nella Città di Diamante.
— E neanche tu ci andrai — ordinò Jocelyn a
Clary con il più serio dei suoi toni alla “No, tu
in discoteca con Simon dopo mezzanotte non
ci vai”. — Qui sei più al sicuro, ci sono le
protezioni.
— Isabelle! — esclamò Alec. — Ci può andare
lei.
— Avete idea di dove sia? — chiese Clary.
— A casa, suppongo — rispose Alec alzando
una spalla. — Posso chiamarla e…
— Ci penso io — decise Magnus sfilandosi il
cellulare dalla tasca e digitando un messaggio
con fare da grande esperto. — È tardi, non è il
caso di svegliarla. Tutti abbiamo bisogno di
riposare. Se devo mandare qualcuno di voi
dalle Sorelle di Ferro, lo farò domani.
— Io andrò con lei — annunciò Jocelyn. —
Nessuno cerca me in particolare ed è meglio
che Isabelle non vada da sola. Anche se ora,
tecnicamente,
non
sono
più
una
Shadowhunter, comunque lo sono stata.
L’importante è che sia in regola almeno una
delle due.
— Non è giusto — si lamentò Clary.
Sua madre non la guardò nemmeno. —
Clary…
Lei si alzò in piedi. — Nelle ultime due
settimane sono stata praticamente in prigione
— disse con voce tremante. — Il Conclave non
voleva che cercassi Jace. E ora che tocca a me,
ripeto a me, non mi lasciate nemmeno venire
con voi dalle Sorelle di Ferro!
— Non sarebbe sicuro. Probabilmente Jace è
già sulle tue tracce…
A quel punto Clary perse il controllo. — Ogni
volta che cerchi di tenermi al sicuro, tu mi
rovini la vita!
— No, è che più ti fai coinvolgere da Jace, più
sei tu stessa a rovinartela! — ribatté sua
madre. — Tutti i rischi che hai corso, tutti i
pericoli che hai affrontato, sono stati per colpa
sua! Ti ha puntato un coltello alla gola,
Clarissa.
— Quello non era lui — disse Clary col tono di
voce più debole e affranto che potesse
immaginare. — Pensi che rimarrei un solo
secondo con un ragazzo che mi ha minacciata
con un coltello, anche se lo amassi? Forse hai
vissuto troppo a lungo nel mondo degli umani,
mamma, ma la magia esiste. E la persona che
stiamo cercando non è Jace. Se però muore…
— Non ci sono speranze di riaverlo — decretò
Alec.
— Potrebbe essere già troppo tardi — gli fece
eco Jocelyn. — Dio, Clary, guarda i fatti.
Pensavi che voi due foste fratello e sorella! Hai
sacrificato tutto per salvargli la vita e un
Demone Superiore lo ha usato per arrivare a
te! Quando affronterai il fatto che voi due non
siete fatti per stare insieme?
Clary barcollò all’indietro come se sua madre
le avesse dato uno schiaffo.
Fratello Zaccaria se ne stava fermo in piedi
come una statua, come se nessuno stesse
gridando. Magnus e Alec osservavano la scena:
Jocelyn aveva le guance accaldate e gli occhi
luccicanti di rabbia. Senza osare parlare, Clary
girò sui tacchi e attraversò a grandi passi il
corridoio per raggiungere la stanza libera di
Magnus, sbattendo la porta dietro di sé.
— Bene, sono qui — annunciò Simon. La
superficie pianeggiante del giardino sul tetto
era sferzata da un vento gelido che lo indusse a
infilare le mani nelle tasche dei jeans. A dire il
vero non sentiva freddo, ma gli sembrava la
cosa giusta da fare. Alzò il tono di voce. — Io
mi sono presentato. E tu dove sei?
Il giardino sul tetto del Greenwich Hotel, ora
chiuso e quindi deserto, era stato progettato in
stile inglese: cespugli potati meticolosamente,
mobili in vetro e vimini disposti con eleganza,
ombrelloni con il logo dell’aperitivo francese
Lillet che erano battuti dalle folate di un vento
energico. I graticci delle rose rampicanti, ora
spogli per il freddo, coprivano come ragnatele
le pareti di pietra che circondavano il giardino,
oltre le quali Simon riusciva a scorgere il
paesaggio scintillante del Lower Manhattan. —
Ci sono — disse una voce mentre un’ombra
leggera si staccava da una poltrona di vimini e
si alzava. — Iniziavo a dubitare del tuo arrivo,
Diurno.
— Raphael — disse Simon in tono rassegnato.
Avanzò attraverso le panchine di legno che si
insinuavano fra le bordure fiorite e i laghetti
incorniciati di quarzo lucente. — Io anche.
Quando si avvicinò, Simon lo riconobbe
chiaramente. Era dotato di un’eccellente
visione notturna e, se non l’aveva individuato
prima, era solo per la capacità di Raphael di
fondersi con le ombre. L’altro vampiro
indossava un abito nero con le maniche della
giacca risvoltate, a sfoggiare il bagliore dei
gemelli a forma di catena. Aveva ancora il viso
di un cherubino, sebbene lo sguardo puntato
su Simon fosse freddo. — Quando il capoclan
dei vampiri di Manhattan ti chiama, Lewis, tu
rispondi.
— E se invece non lo facessi? Mi
pugnaleresti? — rispose Simon allargando le
braccia. — Prova. Fammi quello che ti pare.
Divertiti!
— Dios, quanto sei noioso — rispose Raphael.
Dietro di lui, accanto alla parete, Simon
intravedeva le lucenti cromature della moto
volante che l’altro aveva usato per arrivare fin
lì.
Simon riabbassò le braccia. — Sei tu che mi
hai chiesto un incontro.
— Ho un’offerta di lavoro per te — disse
Raphael.
— Sul serio? Siete a corto di personale,
all’hotel?
— Mi serve una guardia del corpo.
Simon lo scrutò perplesso. — Cos’è, di recente
hai visto Kevin Costner in Bodyguard? Be’,
sappi che non ho intenzione di innamorarmi di
te e di portarti in giro fra le mie possenti
braccia.
Raphael gli lanciò un’occhiata di gelo. — Ti
pagherei di più solo per esser sicuro di vederti
lavorare in silenzio.
Simon lo fissò. — Stai dicendo sul serio, vero?
— Non mi prenderei la briga di venirti a
cercare se non fosse così. E se avessi voglia di
scherzare, passerei il tempo con qualcuno che
mi sta simpatico. — Raphael tornò a sedersi
sulla poltrona. — Camille Belcourt gira a piede
libero per New York. Gli Shadowhunters sono
completamente assorbiti da questa stupida
storia del figlio di Valentine e non si
disturberanno a cercarla. Lei per me
rappresenta un pericolo immediato, perché
vuole ristabilire il controllo sul clan di
Manhattan. La maggior parte dei membri mi è
fedele. Uccidermi sarebbe il modo più rapido
per tornare in cima alla gerarchia.
— Okay — disse piano Simon. — Ma perché
io?
— Sei un Diurno. Altri possono proteggermi
di notte, ma tu puoi farlo di giorno, quando la
gran parte di noi è impotente. E poi hai il
Marchio di Caino. Con te di mezzo, Camille
non oserebbe mai colpirmi.
— Hai ragione su tutto, ma non lo farò.
Sul viso di Raphael comparve un’espressione
incredula. — E perché no?
Le parole esplosero dalla bocca di Simon. —
Ma stai scherzando? Perché tu per me non hai
mai fatto niente, da quando sono diventato un
vampiro. Anzi, hai fatto del tuo meglio per
rendere la mia vita uno schifo e per metterle
fine. Perciò, se vuoi sentirtelo dire nel
linguaggio da vampiri: è con immenso diletto,
mio signore, che ora le dico… scordatelo.
— Non è saggio rendermi tuo nemico, Diurno.
Come amici…
Simon rise, incredulo. — Aspetta un secondo.
Eravamo amici? Ah, per te quello era essere
amici?
I canini di Raphael uscirono allo scoperto.
Simon si rese conto che era veramente
arrabbiato. — So perché mi respingi, Diurno.
Non lo fai per orgoglio. Tu sei talmente
coinvolto dagli Shadowhunters da pensare di
essere uno di loro. Ti abbiamo visto. Anziché
passare le notti da noi, come dovresti, te ne
stai in compagnia della figlia di Valentine. E
vivi con un lupo mannaro. Sei una vergogna!
— Ti comporti così a ogni colloquio di lavoro?
Raphael digrignò i denti. — Devi decidere se
essere un vampiro o uno Shadowhunter,
Diurno.
— Allora preferisco Shadowhunter, perché
finora la mia esperienza di vampiri non è stata
un granché. E poi, scusa il gioco di parole, ma
proprio non sono in vena di starti a sentire.
Raphael si alzò in piedi. — Stai commettendo
un grave errore.
— Ti ho già detto che…
L’altro vampiro lo liquidò con un gesto della
mano. — Sta per arrivare una grande oscurità.
Colpirà la Terra con tenebre e fiamme. Quando
sarà terminata, i tuoi preziosi Shadowhunters
non ci saranno più. Noi, i Figli della Notte,
sopravviveremo, perché viviamo al buio. Ma se
tu continui a rinnegare ciò che realmente sei,
anche tu verrai distrutto, e nessuno alzerà un
dito per aiutarti.
Senza pensarci, Simon alzò una mano per
toccarsi il Marchio sulla fronte.
Raphael rise sommessamente. — Ah, sì! Il
marchio dell’Angelo su di te. Ma quando
regneranno le tenebre, anche gli angeli
periranno. La loro forza non ti aiuterà. E farai
meglio a pregare di non perdere mai quel
segno prima che arrivi la guerra, perché, se
dovesse capitare, ci sarà una fila di nemici ad
aspettare il loro turno per ucciderti. E io sarò il
primo.
Clary era rimasta a lungo distesa pancia
all’aria sul divano di Magnus. Aveva sentito
sua madre che attraversava il corridoio ed
entrava in un’altra delle stanze libere,
chiudendosi la porta alle spalle. Attraverso le
pareti della sua camera, riusciva a sentire
Magnus e Alec che, in salotto, parlavano a
bassa voce. Pensò che avrebbe potuto
aspettare di sentirli andare a letto, ma Alec
aveva detto che nell’ultimo periodo Magnus
stava sveglio a lungo per studiare le rune;
anche se apparentemente Fratello Zaccaria era
riuscito a interpretarle, Clary non poteva
contare sul fatto che quei due si sarebbero
coricati di lì a poco.
Si mise seduta sul letto accanto a Chairman
Meow, che emise un rumore indistinto di
protesta, e cominciò a frugare nello zaino. Ne
estrasse una scatola di plastica trasparente e la
aprì. C’erano le sue matite colorate, qualche
gessetto… e il suo stilo.
Si alzò infilandosi la scatola nella tasca della
giacca. Poi prese il cellulare dalla scrivania e
scrisse un messaggio: VEDIAMOCI DA TAKI.
Rimase ad aspettare l’avvenuto invio e poi
infilò l’apparecchio nei jeans, inspirando
profondamente.
Non era giusto nei confronti di Magnus, lo
sapeva, il quale aveva promesso a sua madre
che si sarebbe preso cura di lei, e di certo non
era prevista una fuga di nascosto. Ma lei,
Clary, aveva tenuto la bocca chiusa, senza
promettere niente. E poi… poi si trattava di
Jace.
Faresti qualsiasi cosa per salvarlo. A ogni
costo, non importa quanto dovresti pagare
all’inferno o al paradiso. Dico bene?
Estrasse lo stilo, appoggiò la punta sulla
vernice arancione della parete e iniziò a
disegnare un portale.
Un martellare insistente scosse Jordan da un
sonno profondo. Scattò all’istante e rotolò giù
dal letto per mettersi accovacciato sul
pavimento. Anni di preparazione con il Praetor
gli avevano lasciato in eredità riflessi veloci e
una perenne tendenza al sonno leggero. Un
rapido controllo visivo e olfattivo della stanza
gli disse che era vuota: solo lui e il chiarore
della luna che si riversava sul pavimento.
Il rumore riprese e questa volta Jordan lo
riconobbe. Era di qualcuno che stava bussando
vigorosamente alla porta. Di solito dormiva
con addosso soltanto i boxer, così si infilò di
corsa un paio di jeans e una maglietta, aprì la
porta della camera con un calcio e uscì
nell’atrio. Se era un gruppo di studenti del
college che si divertivano a bussare a tutte le
porte dell’edificio, presto avrebbero imparato
che cosa voleva dire trovarsi di fronte a un
lupo mannaro incavolato.
Raggiunta la porta, si bloccò. Un’immagine
gli tornò davanti agli occhi, la stessa che aveva
avuto durante le ore che gli ci erano volute per
addormentarsi: Maia al Navy Yard che correva
via da lui, lo sguardo che aveva quando si era
allontanata. L’aveva forzata a spingersi troppo
in là, se ne rendeva conto, le aveva chiesto
troppo e troppo in fretta. Probabilmente
rovinando tutto. A meno che… Magari lei ci
aveva ripensato. In fondo c’era stato un
periodo in cui la loro relazione era stata una
serie
continua
di
liti
furibonde
e
rappacificazioni altrettanto passionali.
Con il cuore che gli pulsava forte, spalancò la
porta. E poi spalancò gli occhi. Sulla soglia
c’era Isabelle Lightwood, coi suoi lunghi
capelli corvini e lucenti che le arrivavano quasi
alla vita. Indossava stivali scamosciati neri, alti
fino alle ginocchia, dei jeans aderenti e una
maglietta di seta rossa con il solito ciondolo al
collo che brillava di una luce cupa.
— Isabelle? — Jordan non riuscì a nascondere
la sorpresa nella voce, oppure, come sospettò
Isabelle, la delusione.
— Be’, sì, nemmeno io cercavo te — gli disse
subito Izzy passandogli accanto ed entrando
nell’appartamento. Portava con sé l’odore
tipico degli Shadowhunters, simile a quello del
vetro riscaldato al sole; sotto, un profumo alla
rosa. — Stavo cercando Simon.
Jordan la guardò di traverso. — Sono le due
di notte.
Lei fece spallucce. — È un vampiro.
— Ma io no.
— Aaaah? — Le rosse labbra di Isabelle si
arricciarono agli angoli. — Ti ho forse
svegliato? — Allungò una mano verso il basso e
gli diede un colpetto al primo bottone dei
jeans, toccandogli la pancia piatta con la punta
dell’unghia. Jordan si sentì contrarre i
muscoli. Izzy era stupenda, non c’era da
discutere. E faceva anche un po’ paura. Si
chiese come facesse il mite Simon a gestirla. —
Forse è meglio se te li abbottoni tutti. Carini
quei boxer, comunque — gli disse. Se lo lasciò
alle spalle e andò verso la camera di Simon.
Jordan la seguì, abbottonandosi per bene i
jeans e borbottando che non c’era niente di
strano ad avere dei pinguini danzanti stampati
sulla biancheria intima.
Isabelle infilò la testa in camera di Simon. —
Non è qui. — Si chiuse la porta dietro le spalle
e appoggiò la schiena al muro, guardando
Jordan. — Dunque, hai detto che sono le due
di notte?
— Già. Sarà da Clary, ultimamente ha
dormito spesso da lei.
Isabelle si morse un labbro. — Giusto. Certo.
Jordan stava di nuovo avendo quella
sensazione, che ogni tanto gli capitava, di aver
detto qualcosa di sbagliato senza sapere
esattamente cosa. — C’è un motivo per cui sei
venuta qui? Cioè, è successo qualcosa? C’è
qualche problema?
— Problema? — Isabelle slanciò le braccia al
cielo. — Intendi dire oltre al fatto che mio
fratello è scomparso e che probabilmente gli è
stato fatto il lavaggio del cervello? Che i miei
genitori stanno divorziando? E che Simon è da
Clary?
Si interruppe bruscamente e gli passò accanto
per andare in salotto. Lui le corse dietro.
Quando la raggiunse, lei era già in cucina a
rovistare fra gli scaffali della dispensa. — Non
avete niente da bere? Un bel Barolo? Un
Sagrantino?
Jordan la prese per le spalle e la condusse con
gentilezza via dalla dispensa. — Siediti — le
disse. — Ti verso un po’ di tequila.
— Tequila?
— Quello che abbiamo. Tequila o sciroppo per
la tosse.
Sedendosi su uno degli sgabelli allineati
lungo il bancone della cucina, Isabelle sventolò
la mano in segno di delusione. Jordan si
sarebbe aspettato di vedere unghie lunghe
laccate di rosso o di rosa, curate alla
perfezione, che si abbinavano al resto del look,
invece no. Lei era una Shadowhunter: aveva le
mani coperte di graffi, le unghie corte e
squadrate. La runa della comprensione le
splendeva, nera, sulla mano destra. —
D’accordo.
Jordan prese la bottiglia di Jose Cuervo, la
aprì e ne versò un bicchierino, allungandolo a
Isabelle sul bancone. Lei lo trangugiò in un
secondo, dopodiché fece una smorfia e batté il
bicchiere contro il legno.
— Non è abbastanza — disse sporgendosi sul
bancone per strappare la bottiglia di mano a
Jordan. Buttò la testa all’indietro e bevve uno,
due, tre sorsi. Quando la rimise giù, aveva le
guance in fiamme.
— Dove hai imparato a bere così? — le chiese
lui non sapendo se doveva esserne colpito o
spaventato.
— A Idris si può consumare alcol dai quindici
anni. Non che la gente ci faccia molto caso. Io
per esempio bevo acqua e vino con i miei
genitori da quando sono bambina — spiegò
Isabelle con un’alzata di spalle, gesto a cui
mancava un po’ della sua tipica fluidità di
movimento.
— Okay. Vuoi lasciarmi un messaggio per
Simon, c’è altro che posso dire o…
— No. — Prese un’altra sorsata. — Mi sono
ubriacata e sono venuta qui per parlargli,
invece lui è da Clary. Figuriamoci.
— Pensavo che fossi tu a dirgli di starle
vicino.
— Già — rispose lei giocherellando con
l’etichetta della tequila. — Proprio così.
— Quindi — fece Jordan con quello che
riteneva un tono da persona ragionevole —
digli di smetterla.
— Non posso farlo — Isabelle sembrava
sfinita. — Sono in debito con lei.
Jordan appoggiò i gomiti sul bancone. Si
sentiva un po’ come i baristi dei film, quelli che
ti davano sempre un consiglio saggio. — E cosa
le devi?
— Una vita — fu la risposta della ragazza.
Jordan rimase stupito. Quella notizia andava
un po’ oltre le sue capacità di barman e di
consulente. — Clary ti ha salvato la vita?
— Ha salvato la vita di Jace. Avrebbe potuto
chiedere qualunque cosa all’Angelo Raziel,
invece ha salvato mio fratello. Ci sono davvero
poche persone di cui mi fido nella mia vita. Di
cui mi fido davvero. E queste persone sono mia
madre, Alec, Jace e Max. Una l’ho già persa. E
Clary è l’unico motivo per cui non ne ho persa
anche un’altra.
— Pensi che sarai mai in grado di fidarti di
qualcuno che non sia tuo parente?
— Non sono imparentata con Jace. Non
esattamente — disse Isabelle evitando lo
sguardo di Jordan.
— Hai capito cosa intendo — sussurrò lui
lanciando un eloquente sguardo verso la
stanza di Simon.
Izzy aggrottò le sopracciglia. — Gli
Shadowhunters vivono secondo un codice
d’onore, lupo mannaro — gli disse, e per un
istante mostrò tutta l’arroganza dei Nephilim.
Jordan ricordò perché così tanti Nascosti non
li sopportavano. — Clary ha salvato un
Lightwood. Io le devo la vita. Se non posso
dargliela, anche perché non vedo cosa se ne
farebbe, posso comunque darle qualsiasi cosa
la renda meno infelice.
— Non puoi darle Simon. Simon è una
persona, Isabelle. Lui va dove gli pare.
— Già — fece lei. — E a quanto pare non gli
dispiace andare dove c’è lei, vero?
Jordan esitò. C’era qualcosa, nelle parole di
Isabelle, che non lo convinceva affatto, eppure
non poteva nemmeno dire che si sbagliasse
completamente. Simon, con Clary, si trovava a
proprio agio come con nessun altro. In realtà,
lui non si sentiva nella posizione di elargire
consigli
sull’argomento,
essendo
stato
innamorato di una sola ragazza in tutta la sua
vita. Però si ricordava di quando Simon gli
aveva detto, in tono sarcastico, che quella di
Clary era una “storia a prova di bomba
atomica”.
Se in quel sarcasmo ci fosse della gelosia,
Jordan non poteva dirlo con certezza. E non
sapeva
nemmeno
se
fosse
possibile
dimenticare la prima ragazza che avesse mai
amato, soprattutto se l’avevi di fronte agli
occhi tutti i giorni.
Isabelle schioccò le dita. — Ehi, dico a te! Mi
stai ascoltando? — Chinò la testa di lato
liberandosi il viso da nere ciocche di capelli e
guardò Jordan con fermezza. — E comunque,
cosa sta succedendo fra te e Maia?
— Niente — disse lui in tono eloquente. —
Non sono sicuro che smetterà mai di odiarmi.
— Probabilmente no — commentò Isabelle. —
E a buon diritto.
— Grazie tante.
— Non sono una che rassicura la gente per
niente — replicò Izzy allontanando la bottiglia
di tequila. I suoi occhi scuri, fissi su Jordan,
erano pieni di vita. — Vieni qui, lupo.
Aveva abbassato il tono di voce. Ora era
dolce, suadente. Jordan deglutì, la gola
improvvisamente asciutta. Ricordò che
quando aveva visto Isabelle con addosso quel
vestito rosso, fuori dagli Ironworks, si era
chiesto se fosse davvero lei quella con cui
Simon stava facendo il doppio gioco,
coinvolgendo anche Maia. Nessuna delle due
sembrava il genere di ragazza che potevi
tradire pensando di riuscire a sopravvivere.
E nessuna delle due era il genere di ragazza a
cui dicevi di no. Aggirò lentamente il bancone
avvicinandosi a Isabelle. Arrivato a pochi passi
di distanza, lei slanciò le braccia e lo tirò verso
di sé prendendolo per i polsi. Gli fece scorrere
le mani su per le braccia, sul rigonfiamento dei
bicipiti, sui muscoli delle spalle. Jordan sentì il
battito cardiaco che accelerava. Riusciva a
percepire il calore che emanava il corpo di lei,
il suo profumo e l’odore dolciastro della
tequila. — Sei stupendo — gli disse. Le mani di
Isabelle gli scivolarono sul petto e lì si
fermarono. — Lo sai, vero?
Jordan si chiese se Isabelle riuscisse a sentire
il suo cuore pulsare sotto la maglietta. Sapeva
come lo guardavano le ragazze per strada, a
volte anche i ragazzi, e sapeva cosa vedeva ogni
giorno allo specchio, ma non ci aveva mai
pensato troppo. Si era concentrato su Maia
talmente a lungo da considerare importante
che fosse lei e soltanto lei a trovarlo attraente,
se mai si fossero rivisti. Con lui ci avevano
provato in tante, ma non come Isabelle, mai in
maniera così esplicita. Si chiese se stesse per
baciarlo. Da quando aveva quindici anni, non
aveva mai baciato nessuna che non fosse Maia.
E Isabelle aveva lo sguardo puntato su di lui,
grandi occhi scuri e labbra dischiuse color
fragola. Si chiese se, baciandole, ne avrebbe
sentito anche il sapore.
— Non me ne importa niente — disse a un
tratto la ragazza.
— Isabelle, non credo che… Aspetta. Come,
scusa?
— Dovrebbe importarmene — disse. — Voglio
dire, c’è di mezzo Maia, perciò credo che non ti
sarei comunque saltata addosso per strapparti
i vestiti, ma il fatto è che ora non voglio. In un
altro momento magari sì.
— Ah — fece Jordan. Provò sollievo, ma
anche una piccola punta di delusione. —
Dunque… è un bene?
— Penso a lui costantemente — confessò Izzy.
— È tremendo. Non mi era mai successa una
cosa del genere.
— Parli di Simon?
— Il piccolo bastardo mondano tutto pelle e
ossa — disse togliendo le mani dal petto di
Jordan. — Solo che non lo è. Pelle e ossa,
intendo, non più. E neppure mondano. E mi
piace passare il tempo con lui. Mi fa ridere e
mi piace come sorride. Hai presente quando
gli sale prima un lato della bocca e poi l’altro…
Be’, vivi con lui, lo avrai notato per forza.
— A dire il vero no — ammise Jordan.
— Quando non c’è mi manca — confessò
Isabelle. — Pensavo… non so, dopo quello che
è successo quella notte con Lilith, le cose tra di
noi sono cambiate. Ma ora è sempre con Clary.
E io non potrò mai essere arrabbiata con lei.
— Hai perso tuo fratello.
Isabelle lo guardò. — Cosa?
— Insomma, lui si fa in quattro per aiutare
Clary a sentirsi meglio dopo che ha perso Jace
— osservò Jordan. — Ma Jace è tuo fratello.
Forse Simon dovrebbe sforzarsi anche per far
stare meglio te, no? Tu non ce l’hai con Clary,
ma potresti benissimo avercela con lui.
Isabelle lo fissò per un lungo istante. — Ma
noi due non siamo niente. Lui non è il mio
ragazzo. È solo che mi piace. — Fece una
smorfia. — Merda. Non posso credere di averlo
detto. Forse sono più ubriaca di quanto
pensassi.
— Più o meno lo avevo già capito da quello
che stavi dicendo prima — disse Jordan
rivolgendole un sorriso.
Isabelle non ricambiò, ma abbassò le ciglia e
lo guardò da sotto in su. — Non sei così male —
gli disse. — Se vuoi posso dire a Maia qualcosa
di carino su di te.
— No, grazie — rispose lui, che non sapeva
bene cosa intendesse Isabelle per “carino” e
forse temeva anche di scoprirlo. — Sai, è
normale, quando stai passando un periodo
difficile, voler stare con la persona che… —
Stava per dire “ami”, ma si rese conto che non
aveva mai usato quel termine, e perciò cambiò
strada. — Che per te è importante. Ma non
penso che Simon sappia quello che provi per
lui.
Le ciglia di Isabelle si risollevarono. — Non
parla mai di me?
— Pensa che tu sia davvero forte — rispose
Jordan. — E che non abbia per niente bisogno
di lui. Penso che senta di essere… superfluo,
nella tua vita. Della serie, cosa ti posso dare se
sei già perfetta? Perché dovresti volere un
ragazzo come lui? — Jordan esitò un istante.
Dire tutte quelle cose non era nelle sue
intenzioni, e non era nemmeno sicuro di
quanto potessero valere per Simon piuttosto
che per se stesso e Maia.
— Quindi, secondo te, dovrei dirgli come mi
sento? — chiese Isabelle con un filo di voce.
— Sì, decisamente. Digli quello che provi.
— Okay… — Lei afferrò di nuovo la bottiglia
di tequila e bevve un sorso. — Vado subito a
casa di Clary e glielo dico.
Jordan sentì squillare dentro al petto un
piccolo campanello d’allarme. — Non puoi.
Sono praticamente le tre di notte e…
— Se aspetto, poi perdo il coraggio — ribatté
lei con quel tono ragionevole usato solo dai
veri ubriachi. Altro sorso di tequila. — Vado là,
busso alla finestra e gli dico come mi sento.
— Ma almeno sai qual è la finestra di Clary?
Isabelle strabuzzò gli occhi. — Nooo.
Nella testa di Jordan si materializzò la
terribile visione di un’Isabelle sbronza che
svegliava Jocelyn e Luke. — Isabelle, no. — Si
allungò per toglierle la bottiglia di mano, ma
lei fu più veloce.
— Mi sa che sto cambiando opinione su di te
— disse lei in un tono semiminaccioso che
avrebbe fatto più paura se solo fosse stata in
grado di puntare gli occhi dritti su di lui. —
Credo che in fondo non mi piaci poi così tanto.
— Si mise dritta, si guardò i piedi con
un’espressione di stupore sul viso e… cadde
all’indietro. Fu solo grazie ai suoi riflessi
scattanti che Jordan riuscì a prenderla prima
che finisse sul pavimento.
capitolo 7
UNA TRASFORMAZIONE RADICALE
Clary era alla sua terza tazza di caffè da Taki
quando Simon finalmente entrò. Indossava dei
jeans, una felpa rossa con la zip (perché
preoccuparsi di indossare cappotti di lana
quando non sentiva freddo?) e stivali da
motociclista. La gente si voltò a guardarlo
quando serpeggiò tra i tavoli per raggiungere
Clary. Era migliorato molto da quando Isabelle
aveva iniziato a occuparsi del suo look, pensò
la ragazza mentre lui le andava incontro. Qua e
là, fra i capelli scuri, erano intrappolati dei
fiocchi di neve, ma, mentre le guance di Alec
erano diventate scarlatte per il freddo, quelle
di Simon erano rimaste pallide e incolori. Si
infilò nel séparé, di fronte a Clary, e la guardò
con occhi lucidi e pensierosi.
— Chiamato? — domandò, con una voce
profonda ed echeggiante che voleva imitare
quella del conte Dracula.
— Tecnicamente ho mandato un sms.
Gli passò il menu facendolo scivolare sopra il
tavolo e aprendolo sulla pagina dedicata ai
vampiri. L’aveva già letta altre volte, ma al solo
pensare a pudding o frullati fatti col sangue le
venivano i brividi. — Spero di non averti
svegliato.
— Oh, no — disse Simon. — Se ti dico dov’ero
non ci credi…
Il ragazzo smorzò la voce appena vide
l’espressione che Clary aveva sul viso. — Ehi.
— All’improvviso le sue dita erano sotto il
mento di lei, sollevandole la testa. Il
buonumore se n’era andato dal suo sguardo,
rimpiazzato dalla preoccupazione. — Che è
successo? Altre notizie su Jace?
— Sapete già cosa volete? — Era Kaelie, la fata
cameriera dagli occhi azzurri che aveva
consegnato a Clary il campanello della Regina.
Ora la stava guardando con un sorriso o,
meglio, una smorfia di superiorità che spinse
l’altra a digrignare i denti.
Clary ordinò una fetta di torta di mele, Simon
un mix di cioccolata calda e sangue. Kaelie
portò via i menu e Simon guardò Clary con
ansia. La ragazza fece un respiro profondo e gli
raccontò di quella notte fin nei minimi
dettagli: la comparsa di Jace, quello che le
aveva detto, la colluttazione in salotto e infine
le condizioni di Luke. Spiegò anche quello che
Magnus aveva detto sulle tasche dimensionali
e sugli altri mondi, aggiungendo che non c’era
modo di mandare messaggi o individuare chi
voleva rimanere nascosto. Più lei parlava, più
lo sguardo di Simon si incupiva, finché, al
termine del racconto, il ragazzo si prese la
testa fra le mani.
— Simon? — Nel frattempo Kaelie era tornata
al loro tavolo per poi andarsene di nuovo,
vedendo che le ordinazioni non erano state
toccate. Clary gli toccò una spalla. — Cosa c’è?
È per Luke e…
— È colpa mia. — Lo disse guardandola a
occhi asciutti. I vampiri versavano lacrime
miste a sangue, pensò Clary. Lo aveva letto da
qualche parte. — Se non avessi morso
Sebastian…
— Lo hai fatto per me. Per permettermi di
continuare a vivere. — Parlava in tono gentile.
— Tu mi hai salvato la vita.
— Tu hai salvato la mia almeno sei o sette
volte. Mi sembrava giusto. — La voce gli si
incrinò. Clary ricordò quando aveva vomitato
il sangue nero di Sebastian, in ginocchio nel
giardino sul tetto.
— Attribuire le colpe non ci porterà da
nessuna parte — disse Clary. — E raccontarti
tutto non è il motivo per cui ti ho fatto correre
qui. Voglio dire, te lo avrei detto comunque,
ma avrei aspettato fino a domani, se non fosse
stato così…
Lui la guardò con circospezione e bevve un
sorso dalla sua tazza. — Così come?
— Ho un piano.
Simon sbuffò. — Era quello che temevo.
— Ma i miei piani non sono così tremendi!
— Quelli di Isabelle sono tremendi — le disse
Simon puntandole un dito contro. — I tuoi
sono suicidi. Se va bene.
Clary appoggiò la schiena all’indietro,
incrociando le braccia sopra il petto. — Lo vuoi
sentire oppure no? Devi mantenere il segreto.
— Mi caverei gli occhi con una forchetta
piuttosto che svelare i tuoi segreti — disse
Simon, poi la guardò preoccupato. — Aspetta
un secondo, pensi che sia necessario?
— Non lo so. — Clary si coprì il viso con le
mani.
— Dimmelo e basta — la esortò lui in tono
rassegnato.
Sospirando, Clary si mise una mano in tasca e
ne estrasse un sacchettino di velluto che aprì
sul tavolo. Ne caddero fuori due anelli d’oro,
che atterrarono con un debole tintinnio.
Simon li guardò, sbalordito. — Ti vuoi
sposare?
— Non essere idiota. — Si sporse in avanti,
abbassando di colpo la voce. — Simon, questi
sono gli anelli. Quelli che voleva la Regina
della Corte Seelie.
— Avevi detto che non eri riuscita a prenderli,
mi pare… — Simon si interruppe, sollevando
gli occhi sul viso di lei.
— Ho mentito. Li ho presi. Ma dopo aver
visto Jace in biblioteca, non ho voluto darli alla
Regina. Ho avuto la sensazione che un giorno
avrebbero potuto servirci. E mi sono resa
conto che lei, in ogni caso, non ci avrebbe dato
nessun tipo di informazione utile. Gli anelli mi
sono sembrati più preziosi di un altro round
con la Regina.
Simon li prese in mano, nascondendoli alla
vista di Kaelie mentre passava. — Clary, non
puoi prendere cose che la Regina vorrebbe e
tenerle per te. È molto pericolosa, come
nemico.
Clary lo guardò con aria supplicante. —
Almeno possiamo vedere se funzionano?
Simon fece un sospiro e le consegnò uno degli
anelli; era leggero, ma la sensazione era quella
di oro vero. Clary si preoccupò per un istante
che non fosse della misura giusta, ma appena
se lo infilò all’indice destro fu come se l’anello
si adattasse da solo al suo dito, fino a collocarsi
alla perfezione nello spazio sotto la nocca. Vide
Simon che si rimirava la mano destra e capì
che anche a lui era successa la stessa cosa.
— E ora possiamo parlare, credo — disse. —
Dimmi qualcosa. Sì, con la mente intendo.
Clary lo guardò, sentendosi strana come
qualcuno a cui fosse stato chiesto di recitare
una parte mai studiata. Simon?
Lui batté le palpebre. — Credo che… potresti
rifarlo?
Questa volta Clary si concentrò davvero,
cercando di focalizzare l’attenzione su Simon:
il suo essere se stesso, il modo in cui parlava,
la sensazione di ascoltare la sua voce, la
percezione di averlo vicino. I suoi sussurri, i
suoi segreti, il modo in cui la faceva ridere.
Dunque, disse fra sé, ora che sono dentro i
tuoi pensieri, vorresti vedere qualche
immagine mentale di Jace nudo?
Simon sobbalzò. — L’ho sentito! E… no!
L’eccitazione cominciò a scorrere fra le vene
di Clary. Stava funzionando! — Dai, ora rivolgi
tu un pensiero a me.
Ci volle meno di un secondo. Sentì Simon,
nello stesso modo in cui sentiva Fratello
Zaccaria, una voce senza suono dentro la
propria mente. Davvero lo hai visto nudo?
Be’, non del tutto. Però…
— Basta così — disse Simon ad alta voce, e
anche se il tono era fra il divertito e l’agitato,
aveva gli occhi che brillavano.
— Funzionano. Cavolo, funzionano davvero!
Lei si sporse in avanti. — Quindi posso dirti la
mia idea?
Simon si toccò l’anello che aveva al dito,
avvertendo, sotto la pelle, la decorazione a
intaglio e le venature delle foglie. Certo.
Clary iniziò a spiegare, ma lui la interruppe
prima di lasciarla arrivare alla fine. Questa
volta lo fece a voce alta.
— No. Assolutamente no.
— Simon — ribatté lei. — È un ottimo piano!
— Parli del piano in base al quale tu segui
Jace e Sebastian in qualche ignota tasca
dimensionale e noi usiamo gli anelli per
comunicare, così chi è rimasto nella
dimensione normale può rintracciarti? Intendi
quel piano?
— Sì.
— Allora no. Non lo è per niente.
Clary si abbandonò contro lo schienale. —
Non te la puoi cavare dicendo no e basta.
— Questo piano implica la mia presenza,
perciò io dico no e ancora no!
— Simon…
Lui diede una pacca sul posto a sedere
accanto a sé, come se ci fosse qualcuno. —
Lascia che ti presenti il mio caro amico No.
— Magari riusciamo a trovare un accordo —
propose la ragazza mangiando un boccone di
torta.
— No.
— Simon!!
— “No” è una parola magica — le disse. —
Senti come funziona. Tu dici: “Simon, ho un
piano folle, suicida. Ti andrebbe di aiutarmi a
metterlo in pratica?” E io rispondo: “Perbacco,
no!”
— Lo farò comunque — dichiarò Clary.
Lui, dall’altra parte del tavolo, la fissò. —
Come hai detto?
— Lo farò con o senza il tuo aiuto — ribadì. —
Se non posso usare gli anelli, allora seguirò
comunque Jace ovunque si trovi e cercherò di
rimettermi in contatto con voi scappando di
nascosto, cercando un telefono, qualcosa
insomma. Se sarà possibile. Simon, io lo
faccio. È solo che se tu mi aiuti ho più
possibilità di sopravvivere. Tu di rischi non ne
avresti.
— A me non importa dei rischi che potrei
correre io — sibilò Simon sporgendosi sopra il
tavolo. — A me importa quello che potrebbe
succedere a te! Cavolo, io sono praticamente
indistruttibile. Lascia andare me, e tu rimani
qui.
— Certo — rispose Clary. — Jace non lo
troverà affatto strano. Potresti dirgli che sei
sempre stato segretamente innamorato di lui e
che non sopporti di stargli lontano.
— Potrei dirgli che ci ho pensato su, e che,
trovandomi d’accordo con la filosofia sua e di
Sebastian, vorrei unirmi a loro.
— Ma se non sai nemmeno qual è la loro
filosofia!
— Hai ragione. Forse andrebbe meglio se gli
dicessi che lo amo. Tanto lui è convinto che
tutti siano innamorati di lui.
— Ma io… — disse Clary — lo sono veramente.
Simon la guardò a lungo, in silenzio.
— Sei seria — concluse. — So che lo faresti
davvero. Con o senza di me. Senza alcuna rete
di protezione.
— Non c’è niente che non farei per Jace.
Simon appoggiò la testa contro il sedile di
plastica del séparé. Sulla sua fronte, il Marchio
di Caino lanciò un debole bagliore argenteo. —
Non dirlo — replicò.
— Tu non faresti niente per chi ti ama?
— Io per te farei quasi tutto — rispose piano
lui. — Per te morirei. E lo sai. Ma uccidere
un’altra persona, un innocente? E se fossero
molte vite innocenti? O magari il mondo
intero? È davvero amore dire a qualcuno che,
se dovessi scegliere tra lui e qualsiasi altra vita
sul pianeta, sceglieresti lui? È che… non so. Ma
esiste poi un tipo di amore che si possa
definire morale?
— L’amore non è morale o immorale — disse
Clary. — È amore e basta.
— Lo so. Ma i gesti che compiamo in nome
dell’amore, quelli sì, sono morali o immorali. E
in genere non è un problema. In genere, pur
trovando Jace irritante, so che non ti
chiederebbe mai di fare qualcosa che andasse
contro la tua natura. Né per lui né per nessun
altro. Quello che hai visto tu, però, non è il
vero Jace, giusto? E io non so, Clary, non so
cosa potrebbe chiederti di fare.
Clary appoggiò i gomiti sul tavolo,
improvvisamente stanca.
— Forse non è Jace, ma è quanto di più simile
a lui mi resta. Senza, non si può tornare
all’originale. — Sollevò lo sguardo e lo puntò
sugli occhi di Simon. — O forse mi stai dicendo
che non ci sono più speranze?
Seguì un lungo silenzio. Clary riusciva
letteralmente a vedere l’innato senso
dell’onestà di Simon lottare col desiderio di
proteggere la sua migliore amica. Finalmente
rispose: — Non ho mai detto questo. Sono
ancora ebreo, sai, anche da vampiro. Nel mio
cuore continuo a ricordare e a credere, persino
alle parole che non posso dire. D… — tossì e
deglutì — strinse con noi un’alleanza, proprio
come quella che gli Shadowhunters sono
convinti di aver stretto con Raziel. E noi
crediamo alle sue promesse. Perciò non puoi
mai perdere la speranza, hatikva, perché se
tieni in vita la speranza, lei terrà in vita te. — A
quel punto parve leggermente imbarazzato. —
Lo diceva sempre il mio rabbino.
Clary fece scivolare una mano sul tavolo e la
appoggiò su quella di Simon. Era difficile che
lui parlasse della propria religione con lei o
con altri, anche se Clary sapeva della sua fede.
— Significa che sei d’accordo?
Simon emise un verso di sconforto. — Penso
significhi che hai vinto il mio spirito e che mi
hai sconfitto.
— Fantastico.
— Ovviamente ti rendi conto che mi stai
mettendo in condizione di avvisare tutti,
ovvero tua madre, Luke, Alec, Izzy, Magnus…
— Forse non dovevo dirti che per te non
c’erano rischi… — precisò lei con aria
innocente.
— Hai ragione — fece Simon. — Però
ricordati, quando tua madre mi si attaccherà
alla caviglia come una furiosa mamma orsa
separata dai suoi cuccioli, che l’ho fatto per te.
Jordan si era appena riaddormentato quando
i colpi alla porta tornarono a farsi sentire. Si
girò dall’altra parte ed emise un gemito
sconsolato. La radiosveglia sul comodino
segnava, a lettere gialle lampeggianti, le
quattro del mattino.
Altri colpi. Jordan si mise suo malgrado in
piedi, infilò i jeans e barcollò fino all’ingresso.
Dischiuse la porta con la vista annebbiata. —
Senti…
Le parole gli si spensero sulle labbra. Sulla
porta c’era Maia. Indossava un paio di jeans e
una giacca di pelle color caramello; i capelli
erano raccolti all’indietro con delle bacchette
color bronzo. Sulla tempia le ricadeva un unico
ricciolo. E le dita di Jordan morivano dalla
voglia di allungarsi per sistemarglielo
delicatamente dietro l’orecchio.
Invece tenne le mani ben infilate nelle tasche
dei jeans.
— Bella maglietta — gli disse lei lanciando
uno sguardo impassibile al suo petto nudo.
Appeso alla spalla di Maia c’era uno zaino. Per
un attimo Jordan sentì un colpo al cuore.
Stava lasciando la città? Se ne stava andando
per scappare via da lui? — Ascolta, Jordan…
— Chi è? — La voce proveniente da dietro le
spalle di Jordan era roca, sconvolta come il
letto dal quale probabilmente si era appena
districata. Jordan vide Maia restare a bocca
aperta e, quando si voltò, si accorse che dietro
le sue spalle c’era Isabelle. Indossava una delle
magliette di Simon e si stava strofinando gli
occhi.
La bocca di Maia si richiuse di colpo. — Sono
io — disse in tono non particolarmente gentile.
— Sei… in visita a Simon?
— Come? No, Simon non c’è — Taci, Isabelle,
pensò Jordan in preda al panico. — Simon è…
— la ragazza fece un gesto vago — uscito.
Le guance di Maia si accesero di rosso. — Qui
dentro c’è odore di bar.
— Colpa della tequila da due soldi di Jordan
— disse Isabelle sventolando la mano. — Sai
com’è…
— E quella è la sua maglietta? — indagò Maia.
Isabelle abbassò lo sguardo su se stessa e poi
lo alzò di nuovo su Maia. Con un certo ritardo,
sembrò aver capito cosa stesse passando per la
testa dell’altra ragazza.
— Quindi prima Simon mi ha tradita con te, e
adesso tu e Jordan…
— Simon ha anche tradito me con te. E
comunque tra me e Jordan non c’è niente.
Sono passata per vedere Simon, ma lui non
c’era e così ho deciso di dormire in camera sua.
Dove ora torno.
— No — disse Maia bruscamente. — Non
farlo. Dimentica Simon e dimentica Jordan.
Anche tu devi sentire quello che ho da dire.
Isabelle restò immobile con una mano sulla
porta di Simon, mentre il viso, rosso per il
sonno, impallidiva lentamente. — Jace —
disse. — È per questo che sei qui?
Maia fece di sì con la testa.
Isabelle si lasciò andare contro la porta. — Sei
venuta a dire che è… — Le si incrinò la voce e
ricominciò da capo. — Hanno trovato…
— È tornato — disse Maia. — Per Clary. —
Fece una pausa. — Con lui c’era Sebastian. C’è
stata una colluttazione e Luke è rimasto ferito.
Ora sta morendo.
Isabelle soffocò un grido in gola. — Jace? Jace
ha fatto del male a Luke?
Maia cercò di evitare il suo sguardo. — Non
so cosa sia successo di preciso. So soltanto che
Jace e Sebastian sono venuti a cercare Clary e
che c’è stato uno scontro. Luke è stato
aggredito.
— Clary…
— Tutto a posto. È da Magnus con sua madre.
— A quel punto Maia si rivolse a Jordan. —
Magnus mi ha chiamata per chiedermi di
venire da te. Ha cercato di chiamarti, ma non
ci è riuscito. Vuole che ti metti in contatto con
il Praetor Lupus.
— Mettermi in contatto con… — Jordan
scosse il capo. — Non si può alzare la cornetta
e chiamare il Praetor. Non esiste un 899-899LUPIMANNARI!
Maia incrociò le braccia. — E allora tu come li
contatti, sentiamo?
— Ho un supervisore. Lui mi raggiunge
quando vuole oppure lo chiamo io in caso di
emergenza.
— Questa è un’emergenza. — Maia si infilò i
pollici nei passanti della cintura. — Luke
potrebbe morire e Magnus dice che forse il
Praetor sa come aiutarlo. — Guardò Jordan coi
suoi grandi occhi scuri.
Doveva dirglielo, pensò Jordan. Dirle che a
quelli del Praetor non piaceva immischiarsi
negli affari del Conclave, che preferivano
concentrarsi su loro stessi e sulla loro
missione: aiutare i nuovi Nascosti. Non c’era
garanzia che avrebbero accettato di prestare
aiuto, anzi, l’opzione più probabile era che si
sarebbero irritati per quella richiesta.
Ma era Maia che glielo stava chiedendo. Si
trattava di una cosa che poteva fare per lei e
che magari lo avrebbe portato un passo più in
là sulla lunga strada verso la rappacificazione,
dopo tutto quanto era accaduto.
— Okay — disse. — Allora andiamo al loro
quartier generale e presentiamoci di persona.
Sono nella zona di North Fork, a Long Island.
Quindi lontano da qui. Possiamo andarci col
mio furgone.
— Bene. — Maia issò lo zaino su entrambe le
spalle. — Sapevo che saremmo dovuti andare
da qualche parte; è per questo che mi sono
portata la mia roba.
— Maia — era Isabelle, rimasta in silenzio
talmente a lungo che Jordan si era quasi
dimenticato della sua presenza. Si voltò e la
vide appoggiata al muro, accanto alla porta di
Simon. Si stava abbracciando la schiena come
se avesse freddo. — Lui sta bene?
Maia trasalì. — Luke? No, è…
— Jace. — La voce di Isabelle era un respiro
profondo. — Jace sta bene? Gli hanno fatto del
male, lo hanno catturato o magari…
— Sta bene — rispose Maia in tono neutrale.
— E se n’è andato. Scomparso insieme a
Sebastian.
— E Simon? — Lo sguardo di Isabelle guizzò
verso Jordan. — Hai detto che era con Clary.
Maia scosse la testa. — No. Non c’era —
rispose tenendo una mano stretta sulla bretella
dello zaino. — Ma ora c’è una cosa che
sappiamo e che a te non piacerà. Jace e
Sebastian sono in qualche modo legati l’uno
all’altro. Ferisci Jace e ferirai anche Sebastian.
Uccidi lui e Sebastian morirà. Vale anche
viceversa, lo ha detto Magnus.
— Il Conclave lo sa? — domandò subito
Isabelle. — Non li hanno informati, vero?
Maia fece di no con la testa. — Non ancora.
— Lo scopriranno — dichiarò Isabelle. —
L’intero branco ne è a conoscenza. Qualcuno
parlerà, e a quel punto sarà caccia all’uomo.
Uccideranno lui solo per uccidere Sebastian.
Lo uccideranno comunque. — Si portò le mani
alla testa, infilando le dita tra i folti capelli
neri. — Voglio mio fratello — disse. — Voglio
vedere Alec.
— Bene — fece Maia. — Perché, dopo avermi
chiamata, Magnus mi ha anche inviato un
messaggio: sentiva che saresti stata qui e
voleva dirti di andare nel suo appartamento di
Brooklyn il prima possibile.
Fuori si gelava. Il freddo era così intenso che
persino la runa thermis di cui Isabelle si era
munita e il leggero parka preso dall’armadio di
Simon non le impedivano del tutto di tremare
mentre apriva il portone del palazzo dove
abitava Magnus e vi si infilava dentro.
Le aprirono la seconda porta e salì le scale,
facendo scorrere una mano lungo la ringhiera
scheggiata. Una parte di lei voleva macinare
un gradino dopo l’altro, sapendo che Alec,
lassù, avrebbe capito i suoi sentimenti;
un’altra, invece, quella che per tutta la vita
aveva tenuto nascosto ai fratelli il segreto dei
loro genitori, avrebbe preferito fermarsi sul
pianerottolo, rannicchiarsi e rimanere sola con
la sua tristezza.
Poi, la parte di lei che odiava far affidamento
sugli altri (Perché non dovrebbero deluderti?)
e che era orgogliosa di proclamare che Isabelle
Lightwood non aveva bisogno di nessuno le
ricordò un dettaglio importante: se si trovava
lì, era perché avevano chiesto la sua presenza.
Loro avevano bisogno di lei.
E questo a Isabelle non dava fastidio. Anzi, le
piaceva proprio. Era questo il motivo per cui le
ci era voluto tempo per affezionarsi a Jace, la
prima volta in cui lui, un ragazzino pelle e ossa
di dieci anni con gli occhi spiritati color oro
chiaro, aveva attraversato il portale da Idris.
Alec era stato subito entusiasta di lui, mentre a
Isabelle non era piaciuta tutta quella sicurezza
di sé.
Quando sua madre le aveva spiegato che il
padre di Jace era stato ucciso davanti ai suoi
occhi, lei si era immaginata di vederlo arrivare
in lacrime, alla ricerca di conforto e magari di
consigli. Invece no, sembrava che quel
ragazzino non avesse bisogno di nessuno. A
soli dieci anni era già dotato di un’ironia
caustica e diffidente, unita a un temperamento
spigoloso. Sì, aveva pensato Isabelle con
sgomento, Jace era proprio come lei.
Alla fine, era stata la loro natura di
Shadowhunters a legarli: una passione comune
per le armi affilate, le scintillanti spade
angeliche, il dolce dolore dei marchi sulla
pelle, il ritmo frastornante delle battaglie. Una
volta che Alec volle andare a caccia da solo con
Jace, senza Izzy, lui la difese: — Lei ci serve, è
la migliore. Escluso me, ovvio.
Gli aveva voluto bene soltanto per quello.
Ora si trovava davanti all’appartamento di
Magnus. Dalla fessura tra la porta e il
pavimento filtrava della luce, e riusciva a
sentire un mormorio di voci. Spinse la
maniglia e venne accolta da un’ondata di
calore che la rese felice di fare un passo avanti.
La piacevole temperatura si doveva a un
fuoco scoppiettante che bruciava nel camino;
questo benché l’edificio fosse sprovvisto di
canne fumarie, perché le fiamme avevano la
sfumatura verde-azzurra dell’incantesimo.
Magnus e Alec erano seduti su uno dei divani
sistemati vicino al camino. Appena Isabelle
entrò in casa, Alec la guardò e balzò in piedi.
Con indosso pantaloni della tuta neri e
maglietta bianca col collo sdrucito, attraversò
la stanza a piedi nudi per correrle incontro e
stringerla fra le braccia.
Per un attimo Isabelle rimase in silenzio
dentro il cerchio delle braccia del fratello,
sentendo il cuore di lui che pulsava e le mani
che le salivano su e giù per la schiena, sui
capelli, un po’ impacciate. — Iz — le disse. —
Andrà tutto bene, Izzy.
Lei si liberò di colpo dalla stretta
strofinandosi gli occhi. Dio, quanto odiava
piangere. — Come fai a dirlo? — gli chiese
bruscamente. — Come potrà andare tutto
bene, dopo una cosa del genere?
— Izzy… — Alec prese i capelli della sorella e
glieli mise tutti di lato su una spalla, tirandoli
poi con un gesto leggero. Quel gesto le fece
tornare in mente il periodo in cui aveva le
trecce e Alec gliele tirava, con molta, molta
meno dolcezza di quella che stava dimostrando
in quel momento. — Non crollare. Abbiamo
bisogno di te. — Abbassò la voce. — A
proposito, lo sai che odori di tequila?
Isabelle guardò Magnus, che intanto li stava
osservando, seduto sul divano, coi suoi
imperscrutabili occhi da gatto. — Dov’è Clary?
— gli chiese. — E sua madre? Pensavo fossero
qui.
— Stanno dormendo. Avevano bisogno di
riposare — rispose lo stregone.
— E io no?
— Per caso tu hai appena visto il tuo
fidanzato o il tuo patrigno mentre veniva quasi
ucciso davanti ai tuoi occhi? — fu la secca
risposta di Magnus. Indossava un pigiama a
righe coperto da una vestaglia di seta nera. —
Isabelle Lightwood — le disse alzandosi e
intrecciando morbidamente le dita davanti sé.
— Come ha detto Alec, abbiamo bisogno di te.
Isabelle si mise ben dritta sulla schiena,
buttando le spalle all’indietro. — Bisogno di
me… per cosa?
— Per andare dalle Sorelle di Ferro —
annunciò Alec. — Ci serve un’arma capace di
dividere Jace e Sebastian in modo da poterli
colpire separatamente… cioè, hai capito cosa
intendo. Vogliamo uccidere Sebastian senza
fare del male a Jace. Ed è solo questione di
tempo, prima che il Conclave venga a sapere
che Jace non è prigioniero di Sebastian, ma
che sta collaborando con lui e…
— Non è Jace — protestò Isabelle.
— Potrebbe non essere lui — ammise
Magnus, — ma se morisse, anche il tuo Jace se
ne andrebbe per sempre.
— Come sai, le Sorelle di Ferro parlano
soltanto con le donne — disse Alec. — E
Jocelyn non può andare da sola, perché lei non
è più una Shadowhunter.
— Cosa mi dici di Clary?
— Si sta ancora allenando. Non saprebbe
porre le domande giuste, né usare il giusto
atteggiamento. Tu e Jocelyn invece sì. Lei poi
ha detto di essere già stata da loro: ti aiuterà a
orientarti quando, tramite portale, ti
manderemo fino al limite delle protezioni
attorno alla Città di Diamante. Partirete
entrambe, questa mattina stessa.
Isabelle ci pensò su. L’idea di avere
finalmente qualcosa da fare, qualcosa di
definito, attivo e importante era un sollievo.
Avrebbe preferito un incarico che avesse
qualcosa a che fare con l’uccisione di demoni o
l’amputazione delle gambe di Sebastian, ma
era sempre meglio di niente. Le leggende che
circondavano la Città la descrivevano come un
luogo sperduto e ostile, e le Sorelle di Ferro si
vedevano ancora più raramente dei Fratelli
Silenti. Isabelle non ne aveva mai incontrata
una.
— A che ora si parte? — chiese.
Alec sorrise per la prima volta da quando la
sorella era arrivata e le scompigliò i capelli. —
Ecco la mia Isabelle!
— Piantala. — Izzy si divincolò dalla carezza
di Alec e vide che Magnus, nel frattempo, li
stava osservando col sorriso sulle labbra. Si
alzò facendo leva sulle braccia e si passò una
mano fra i capelli neri, già ritti in piedi come se
fosse scoppiata una bomba.
— Ho tre stanze libere — disse. — In una c’è
Clary e in un’altra sua madre. Ti faccio vedere
la terza.
Tutte le stanze si diramavano da un corridoio
lungo e stretto e senza finestre che sfociava in
salotto. Due delle porte erano chiuse, perciò
Magnus accompagnò Isabelle alla terza, in una
camera con le pareti color fucsia. Dalle aste
cromate sopra le finestre pendevano tende
nere
agganciate
tramite
manette.
Il
coprilenzuolo era decorato con una fantasia a
cuori rosso scuro.
Isabelle si guardò attorno. Si sentiva nervosa,
agitata, per niente pronta a dormire. — Belle
manette. Ora capisco perché qui non ci hai
messo Jocelyn.
— Mi serviva un modo per poter far scorrere
le tende — rispose Magnus facendo spallucce.
— Hai qualcosa da metterti per dormire?
Isabelle si limitò a fare un cenno con la testa,
perché non voleva ammettere di aver portato
con sé una maglietta di Simon presa nel suo
appartamento. In realtà i vampiri non avevano
odori, ma la maglietta era comunque
impregnata del tenue, rassicurante profumo
del suo sapone da bucato. — È un po’ strano —
disse. — Mi chiedi di venire subito qui e poi mi
metti a letto dicendomi che si parte domani…
Lo stregone si appoggiò contro la parete
accanto alla porta, braccia incrociate e sguardo
felino fisso su di lei. Per un istante le ricordò
Church, solo meno propenso a mordere. —
Voglio bene a tuo fratello, lo sai, vero? — le
disse.
— Se vuoi il mio permesso per sposarlo, fate
pure — ribatté Isabelle. — Poi l’autunno è una
bella stagione, potresti metterti uno smoking
arancione.
— Non è felice — riprese Magnus come se lei
non avesse parlato.
— Certo che non lo è! — esclamò l’altra. —
Jace…
— Jace — pronunciò con intensità Magnus,
mentre lungo i fianchi le mani gli si serravano
in pugni. Isabelle rimase a guardarlo. Aveva
sempre pensato che a Magnus Jace non
dispiacesse, anzi, che addirittura gli andasse a
genio, dopo che avevano risolto la questione
dei sentimenti di Alec.
E ad alta voce disse: — Pensavo che tu e Jace
foste amici.
— Non è quello — fece lui. — Ci sono certe
persone alle quali l’universo sembra aver
riservato un destino speciale. Speciale nei
vantaggi e speciale nei tormenti. Dio sa quanto
tutti noi siamo attratti da ciò che è bello e
dannato. Io stesso sono stato così, ma alcuni
non possono essere cambiati. O, se succede, è
solo grazie a un amore e un sacrificio così
grandi da distruggere chi lo dona.
Isabelle scosse la testa lentamente. — Mi hai
fraintesa. Jace è nostro fratello, ma, per Alec…
Jace è anche il suo parabatai.
— So cosa significa — disse Magnus. — Ho
conosciuto dei parabatai così vicini da essere
quasi la stessa persona. Sai cosa succede,
quando uno dei due muore, a quello che
rimane…
— Basta! — Isabelle si coprì le orecchie con le
mani, poi le riabbassò lentamente. — Come
osi, Magnus Bane? Come osi rendere le cose
ancora peggiori di quello che sono?
— Isabelle? — Magnus aprì le mani.
Sembrava un po’ scosso, come turbato dalle
sue stesse considerazioni. — Mi dispiace. A
volte dimentico che… nonostante la tua forza e
il tuo autocontrollo, hai la stessa vulnerabilità
di Alec.
— Alec non ha niente di vulnerabile —
dichiarò Isabelle.
— No — disse Magnus. — Amare come scegli
di amare, quello sì che richiede forza. Il fatto è
che ti volevo qui per lui. Ci sono delle cose che
io, per Alec, non posso fare. Cose che non
posso dargli. — Per un istante, Magnus sembrò
lui stesso insolitamente fragile. — Tu conosci
Jace da quanto lo conosce lui. Gli puoi dare un
conforto che per me è impossibile dargli. E poi
ti vuole bene.
— Certo che mi vuole bene. Sono sua sorella.
— Il sangue non è amore — replicò Magnus in
tono amaro. — Chiedilo a Clary.
Clary venne scagliata fuori dal portale come
una pallottola da una canna di fucile. Fece una
capriola verso il basso e cadde dritta in piedi,
un atterraggio da manuale. Resistette in quella
posizione solo pochi istanti prima che, troppo
stordita dal portale per concentrarsi, perdesse
l’equilibrio e cadesse di schiena, la botta
attutita dallo zaino. Fece un sospiro, pensando
che un giorno gli allenamenti avrebbero
davvero dato i loro frutti, e si rimise in piedi,
ripulendosi il sedere dalla polvere.
Era di fronte alla casa di Luke. Il fiume le
scintillava da sopra una spalla e, dietro, Lower
Manhattan si innalzava in una foresta di luci.
La casa era proprio come l’avevano lasciata,
ore prima, chiusa e al buio. In piedi, sul
sentiero di sassi e terriccio che portava ai
gradini d’ingresso, deglutì forte.
Con le dita della mano sinistra si toccò
lentamente l’anello che portava alla destra.
Simon?
La risposta giunse immediatamente. Sì?
Dove sei?
Sto camminando verso la metro. Sei tornata
a casa tramite portale?
A casa di Luke. Se Jace torna, come penso
succederà, lo farà qui.
Silenzio. Poi: Bene, se hai bisogno di me, sai
come trovarmi, credo.
Credo. Clary fece un respiro profondo.
Simon?
Sì?
Ti voglio bene.
Pausa. Anche io ti voglio bene.
E finì così. Non ci fu il clic di una cornetta
riagganciata, ma Clary percepì l’interruzione
del contatto, come se dentro la testa le fosse
stata tagliata una corda. Si chiese se fosse
quello a cui si riferiva Alec quando parlava
dell’interruzione del legame fra parabatai.
Avanzò verso la casa di Luke e salì
lentamente i gradini. Quella era casa sua. Se
Jace fosse tornato a cercarla, come le aveva
accennato che avrebbe fatto, è lì che sarebbe
andato. Si sedette sull’ultimo gradino, si mise
lo zaino sulle ginocchia e aspettò.
Simon, in piedi di fronte al frigorifero di casa
sua, bevve un’ultima sorsata di sangue freddo
mentre il ricordo della voce mentale di Clary
gli si dileguava dalla mente. Era appena
rientrato; l’appartamento era buio, il frigo
emetteva il suo ronzio, e il tutto aveva uno
strano odore di… tequila? Forse Jordan aveva
bevuto. La porta di camera sua era chiusa,
comunque, e Simon non trovava niente da
ridire sul fatto che era ancora a letto: erano da
poco passate le quattro di notte.
Rimise la bottiglia in frigo e si diresse verso la
propria camera. Sarebbe stata la prima notte
passata a casa in tutta la settimana. Si era
abituato ad avere qualcuno con cui condividere
il letto, un corpo contro il quale rotolare nel
cuore della notte. Gli piaceva il modo in cui
Clary gli si sistemava accanto, accucciata nel
sonno con una mano sotto la testa. E poi, se
proprio doveva ammetterlo, gli piaceva anche
il fatto che lei non riusciva a dormire se non
c’era anche lui. Era una cosa che lo faceva
sentire utile, indispensabile; pur riconoscendo
che, se a Jocelyn non importava che dormisse
nello stesso letto della figlia, il suo potenziale
di minaccia sessuale doveva probabilmente
essere pari a quello di un pesce rosso.
Certo, lui e Clary avevano più volte condiviso
il letto, da quando avevano cinque anni fino ai
dodici circa. Magari c’entrava qualcosa, pensò
mentre apriva la porta della camera. Avevano
passato gran parte di quelle notti alle prese
con attività torbide quali, per esempio, fare a
chi ci metteva di più a mangiare un
cioccolatino al caramello. Oppure si portavano
di nascosto un lettore DVD portatile e…
Batté le palpebre. Camera sua era la stessa di
sempre: pareti spoglie, scaffali di plastica con i
vestiti, la chitarra appesa al muro e il
materasso sul pavimento. Ma sopra il letto
c’era un foglio di carta, un quadrato bianco
sullo sfondo nero della coperta a frange. La
calligrafia poco leggibile e tondeggiante gli
risultava familiare. Isabelle.
Lo prese e lesse:
Simon, ho cercato di chiamarti, ma a quanto
pare hai il telefono spento. Non so dove sei
adesso. Non so nemmeno se Clary ti ha già
detto quello che è successo stanotte. Ma io
devo andare da Magnus e vorrei tanto che ci
fossi anche tu.
Non ho mai paura, ma stavolta ne ho per
Jace. Ho paura per mio fratello. Non ti chiedo
mai niente, Simon, ma stavolta vieni. Ti
prego.
Isabelle
Simon lasciò cadere il messaggio dalle mani.
Si ritrovò fuori di casa e giù per le scale prima
ancora che la carta avesse toccato terra.
Quando Simon arrivò a casa di Magnus, tutto
taceva. Davanti al camino scoppiettante, lo
stregone era seduto su un divano
dall’imbottitura voluminosa e teneva i piedi
appoggiati sopra il tavolino da caffè. Stava
giocherellando con una ciocca dei capelli di
Alec, che dormiva con la testa sulle sue
ginocchia. Lo sguardo dello stregone, rivolto
alle fiamme, era assente, come se stesse
ripensando a un passato lontano. Simon non
poté fare a meno di ricordare quello che una
volta
gli
aveva
detto
a
proposito
dell’immortalità:
Un giorno resteremo soltanto io e te.
Simon rabbrividì, e Magnus alzò gli occhi. —
Isabelle ti ha chiesto di passare, lo so — disse
parlando a voce bassa per non svegliare Alec.
— È da quella parte, in fondo al corridoio.
Prima stanza a sinistra.
Simon annuì e, lanciando un saluto a
Magnus, si avviò. Aveva addosso uno strano
nervosismo, come se si stesse preparando per
un primo appuntamento. Isabelle, a quanto
ricordava, non gli aveva mai chiesto né di
aiutarla né di starle vicino; anzi, non aveva mai
ammesso in alcun modo di avere bisogno di
lui.
Aprì la porta della prima stanza a sinistra ed
entrò. Era buia, a luci spente. Se non fosse
stato per le sue doti da vampiro,
probabilmente non avrebbe visto nulla. Invece
riuscì a individuare i contorni di un armadio,
sedie sulle quali erano stati lasciati dei vestiti e
un letto con le coperte buttate indietro.
Isabelle dormiva su un fianco, coi lunghi
capelli neri sparsi sul cuscino.
Simon rimase a guardarla. Era la prima volta
che la vedeva dormire. Sembrava più giovane
del solito: viso rilassato e lunghe ciglia che
sfioravano la punta degli zigomi. Aveva la
bocca leggermente aperta e le ginocchia
piegate. Indossava solo una maglietta: la sua
maglietta, azzurra e con la scritta CLUB
DELL’AVVENTURA
“MOSTRO
DI
LOCHNESS”.
CERCHIAMO
RISPOSTE,
IGNORIAMO I FATTI.
Simon si chiuse la porta dietro le spalle,
sentendosi più deluso di quanto si sarebbe
aspettato. Non pensava di trovarla già
addormentata. Voleva parlarle, sentire la sua
voce. Si tolse le scarpe e le si sdraiò accanto.
Isabelle occupava sicuramente più spazio
vitale di Clary. Era alta quasi quanto lui, ma
quando le mise una mano sulla spalla, ebbe la
sensazione che le sue ossa fossero gracili,
delicate. Le accarezzò il braccio. — Iz? — la
chiamò. — Isabelle?
Lei emise un mormorio e affondò la faccia nel
cuscino. Lui le si avvicinò ancora di più:
Isabelle sapeva di alcol e profumo alle rose.
Be’, in fondo era questa la risposta. Aveva
pensato di stringerla fra le braccia per baciarla
con dolcezza, ma “Simon Lewis, il molestatore
di donne collassate” non era certo l’epitaffio
con cui voleva essere ricordato.
Si sdraiò a pancia in su e guardò il soffitto.
Intonaco crepato, segnato da macchie
d’umidità. Magnus doveva sbrigarsi a
chiamare qualcuno per rimediare. Come se
avesse sentito la sua presenza, Isabelle rotolò
di lato e gli appoggiò una guancia contro la
spalla. — Simon? — disse con voce impastata.
— Sì — rispose lui accarezzandole
delicatamente il viso.
— Sei venuto. — Isabelle gli allungò un
braccio sul petto, sistemandosi in modo che la
testa le si incastrasse nella spalla di lui. — Non
credevo l’avresti fatto.
— Certo che sono venuto.
Le altre parole che lei gli disse gli si
smorzarono contro il collo. — Scusa, stavo
dormendo.
Lui sorrise fra sé, appena, al buio. — Non c’è
problema. Anche se mi avessi chiesto di venire
qui solo per stringerti mentre dormivi, lo avrei
fatto.
Lui la sentì irrigidirsi, poi rilassarsi di nuovo.
— Simon?
— Sì?
— Mi racconti una storia?
Simon rimase perplesso. — Che genere di
storia?
— Una in cui i buoni vincono e i cattivi
perdono. E rimangono morti.
— Quindi una specie di fiaba? — disse Simon.
Si arrovellò il cervello. Delle fiabe conosceva
solo le versioni Disney, e la prima immagine
che gli venne in mente fu quella di Ariel con il
reggiseno a conchiglia. A otto anni si era
innamorato di lei, ma forse non era il caso di
specificarlo.
— No. — La parola uscì dalla bocca di Isabelle
come un respiro. — Noi studiamo le fiabe a
scuola. Molte di quelle magie sono vere, ma…
no, voglio qualcosa che non ho mai sentito.
— Okay, ne ho una bella — rispose Simon
accarezzandole i capelli e sentendo le sue ciglia
che gli solleticavano il collo mentre lei
chiudeva gli occhi. — Tanto tempo fa, in una
galassia lontana lontana…
Clary non sapeva dire da quanto tempo fosse
seduta sui gradini d’ingresso della casa di
Luke, quando il sole cominciò a sorgere;
levandosi dietro la casa, tingeva il cielo di un
rosa scuro e rendeva il fiume una striscia di
grigio-azzurro. Lei stava tremando, e lo faceva
da così tanto che tutto il corpo le si era
praticamente contratto in un singolo, forte
spasmo di freddo. Per riscaldarsi aveva
utilizzato due rune, ma non erano state
d’aiuto; aveva la sensazione che i brividi
fossero più un fattore psicologico che altro.
Sarebbe arrivato? Se era rimasto il Jace che
lei pensava, lo avrebbe fatto; quando le aveva
accennato che sarebbe tornato, Clary sapeva
che intendeva il prima possibile. Jace non era
paziente. E non gli piaceva scherzare.
Eppure non poteva fare altro che aspettare.
Di lì a breve il sole sarebbe sorto del tutto,
dando inizio a una nuova giornata. Sua madre
avrebbe ricominciato a tenerla d’occhio e lei
avrebbe dovuto rinunciare a Jace per un altro
giorno, se non di più.
Chiuse gli occhi contro lo splendore della
luce, appoggiando i gomiti sul gradino più in
alto dietro di sé. Per un istante si abbandonò
alla fantasia che tutto fosse come una volta,
proprio uguale: nel pomeriggio avrebbe
incontrato Jace per gli allenamenti, o la sera
per cena, e lui l’avrebbe abbracciata facendola
ridere come sempre.
Caldi sprazzi di luce le sfiorarono il viso. A
malincuore, gli occhi le si riaprirono.
Ed ecco Jace che saliva i gradini per andarle
incontro, al solito silenzioso come un gatto.
Indossava una felpa blu scuro che gli faceva
sembrare i capelli del colore del sole. Clary si
mise seduta dritta, con il cuore che le
martellava. Era come se i contorni della figura
di Jace fossero definiti dal bagliore della luce.
Ripensò a quella notte a Idris, quando i fuochi
d’artificio avevano attraversato il cielo
facendole pensare ad angeli che si
trasformavano in gocce ardenti.
Lui la raggiunse e le porse le mani; Clary le
prese e si lasciò aiutare ad alzarsi. I suoi occhi
d’oro chiaro le scrutavano il viso. — Non ero
sicuro di trovarti qui.
— Da quando non sei sicuro di me?
— Prima eri piuttosto arrabbiata. — Le
racchiuse una guancia dentro il palmo della
mano, su cui c’era una grossa cicatrice; Clary
riusciva a sentirla contro la propria pelle.
— E se non mi avessi trovata qui, cosa avresti
fatto?
La tirò a sé. Anche lui tremava. Il vento gli
soffiava nei capelli mossi, disordinati e lucenti.
— Come sta Luke?
Sentendo pronunciare quel nome, Clary
rabbrividì di nuovo. Jace, pensando che avesse
freddo, la strinse più forte. — Si riprenderà —
gli rispose con cautela. È colpa tua, colpa tua,
colpa tua.
— Non volevo che si facesse male. — Jace la
teneva fra le braccia, disegnandole una lenta
linea retta su e giù per la colonna vertebrale. —
Mi credi?
— Jace… Perché sei qui?
— Per chiedertelo di nuovo. Di venire con me.
Clary chiuse gli occhi. — Senza dirmi dove?
— Fiducia — rispose lui piano. — Devi avere
fiducia. Ma anche sapere che, se vieni con me,
non c’è ritorno. Per molto tempo.
Clary ripensò al momento in cui era uscita dal
Java Jones e lo aveva trovato ad aspettarla. In
quel momento, la sua vita era cambiata in un
modo che non avrebbe mai più potuto
cancellare.
— Non c’è mai stato ritorno — gli disse. —
Non con te. — Aprì gli occhi. — Andiamo.
Lui sorrise, un sorriso radioso come il sole
che spuntava da dietro le nuvole, e lei sentì i
muscoli rilassarsi. — Sei sicura?
— Sicura.
Jace si chinò in avanti e la baciò. Sollevandosi
per abbracciarlo, lei sentì che sulle labbra di
Jace c’era qualcosa di amaro. E a quel punto le
tenebre calarono come un sipario che segnava
la fine di un atto teatrale.
parte seconda
CERTE COSE
OSCURE
T’amo come si amano certe cose oscure.
(PABLO NERUDA, Sonetto XVII)
capitolo 8
IGNIS AURUM PROBAT
Maia non era mai stata a Long Island, ma se
proprio
avesse
dovuto
immaginarsela,
l’avrebbe descritta come un posto molto simile
al New Jersey: un’area per lo più suburbana,
dove vivevano i pendolari che facevano la
spola con New York o con Philadelphia.
Aveva buttato la borsa sul furgone di Jordan,
sorprendentemente poco familiare ai suoi
occhi. Ai tempi in cui uscivano insieme
guidava una Toyota rossa, sempre piena di
bicchierini vuoti accartocciati e sacchetti di
fast food; il posacenere traboccava di sigarette
consumate fino al filtro. L’abitacolo di quel
furgone, con una sola pila di giornali sul sedile
del passeggero, a confronto sembrava pulito.
Salendo, li spostò di lato senza dire una parola.
Non
avevano
parlato
attraversando
Manhattan e nemmeno sull’autostrada verso
Long Island, finché Maia si era appisolata con
una guancia premuta contro il freddo vetro del
finestrino. Si era svegliata quando avevano
superato un dosso, era balzata in avanti e,
battendo le palpebre, si era strofinata gli occhi.
— Scusa — le aveva detto Jordan, dispiaciuto.
— Volevo lasciarti dormire fino all’arrivo.
Lei si era seduta dritta, guardandosi attorno.
Stavano percorrendo una strada asfaltata a
due corsie e il cielo cominciava appena a
rischiararsi. A destra e a sinistra c’erano
soltanto campi, qua e là una fattoria o un silo,
in lontananza qualche cottage con la
staccionata di legno.
— È bello qui — aveva commentato, stupita.
— Già. — Jordan aveva cambiato marcia e si
era schiarito la voce. — Dato che ormai sei
sveglia… prima che arriviamo alla Praetor
House, posso farti vedere una cosa?
Lei aveva esitato solo un istante, poi annuito.
E ora eccoli lì a sobbalzare su e giù per una
stradina sterrata bordata dagli alberi. In gran
parte erano spogli, la strada fangosa. Girò la
manovella del finestrino per annusare l’aria.
Alberi, acqua di mare, foglie in lenta
decomposizione, animaletti che correvano fra
l’erba alta. Fece un altro respiro profondo
quando lasciarono la strada e si fermarono su
una piazzola circolare. Davanti a loro c’era la
spiaggia, che si stendeva fino allo specchio
grigio-azzurro dell’acqua. Il cielo era quasi
lilla.
Maia diresse lo sguardo su Jordan, che invece
lo teneva dritto davanti a sé. — Venivo sempre
qui, quando mi allenavo alla Praetor House —
disse. — A volte anche solo per osservare
l’acqua e schiarirmi le idee. L’alba in questo
posto… ogni volta diversa, ma sempre
stupenda.
— Jordan.
Lui non si voltò per guardarla. — Sì?
— Scusami per prima. Per essere corsa via, al
Navy Yard.
— Tutto a posto. — Espirò lentamente, ma a
giudicare dalle spalle tese e dal modo in cui
stringeva il cambio, Maia sapeva che non era
così, non proprio. Si sforzò di non badare al
modo in cui la tensione gli plasmava i muscoli
delle braccia, accentuando la curva dei bicipiti.
— Per te è stato troppo, lo capisco. Solo che…
— Penso che dovremmo andarci piano.
Cercare di essere amici.
— Io non voglio essere tuo amico — fu la
risposta di lui.
Maia non riuscì a nascondere lo stupore. —
No?
Jordan spostò la mano dal cambio al volante.
La ventola del riscaldamento diffondeva aria
calda che andava a mischiarsi a quella più
fredda proveniente dal finestrino abbassato di
Maia. — Non vorrei affrontare questo
argomento adesso.
— Ma io voglio — ribatté lei. — Ne voglio
parlare adesso. Non mi va di pensare alla
nostra situazione mentre siamo alla Praetor
House.
Jordan scivolò giù con la schiena lungo il
sedile, mordicchiandosi un labbro. I capelli
arruffati gli ricaddero sopra la fronte. —
Maia…
— Se non vuoi che siamo amici, allora cosa
dovremmo essere? Nemici, di nuovo?
Lui girò la testa, con una guancia appoggiata
al sedile. Quegli occhi erano proprio come lei li
ricordava, nocciola con tocchi di verde, azzurro
e oro. — Non voglio che siamo amici — le disse
— perché ti amo ancora. Maia, lo sai che non
ho più baciato nessun’altra, da quando ci
siamo lasciati?
— Isabelle…
— Isabelle voleva ubriacarsi e parlare di
Simon. — Tolse le mani dal volante, sembrò
sul punto di protenderle verso di lei, ma poi se
le lasciò cadere in grembo, un’aria sconfitta sul
volto. — Sei l’unica che abbia mai amato. È
solo pensando a te che sono riuscito ad
affrontare gli allenamenti, con l’idea che un
giorno avrei potuto farmi perdonare. E ci
riuscirò, in tutti i modi possibili tranne uno.
— Che non sarai mio amico.
— Non sarò un semplice amico, Maia. Io ti
amo. Io sono innamorato di te. Lo sono
sempre stato e lo sarò sempre. Essere soltanto
un amico mi ucciderebbe.
Lei rivolse lo sguardo verso l’oceano. Il
cerchio del sole spuntava appena sopra la
superficie dell’acqua, illuminandola coi suoi
raggi nelle tonalità del viola, dell’oro e
dell’azzurro. — È bellissimo qui.
— Ed è per questo che ci venivo. Non riuscivo
a dormire, perciò restavo ad ammirare l’alba.
— Parlava con voce sommessa.
— Ora invece dormi? — gli chiese Maia.
Lui chiuse gli occhi. — Maia… se stai per dire
che no, che da me non vuoi altro che amicizia…
allora dillo e basta. Via il dente, via il dolore,
okay?
Sembrava una persona che si preparava a
ricevere un colpo. Le ciglia gli adombravano gli
zigomi; sulla pelle olivastra del collo c’erano
piccole cicatrici bianche, cicatrici che gli aveva
lasciato lei. Maia si slacciò la cintura di
sicurezza e si protese verso il sedile di lui. Sentì
che Jordan tratteneva il respiro, ma non si
mosse mentre lei si piegava per baciargli la
guancia inalando il suo profumo. Stesso
sapone, stesso shampoo, ma niente più tracce
dell’odore persistente di sigaretta. Stesso
ragazzo. Gli percorse la guancia di baci, arrivò
all’angolo
della
bocca
e,
finalmente,
sporgendosi ancora un po’, mise le labbra
sopra le sue.
Jordan sentì la propria bocca dischiudersi
sotto quella di Maia e, dal fondo alla gola,
emise un ringhio. In genere i lupi mannari non
erano delicati fra loro, invece le mani di lui lo
furono quando la sollevò per mettersela sulle
ginocchia e abbracciarla, mentre il loro bacio si
faceva più profondo. Il tocco di lui, il calore del
velluto di cui erano rivestite le sue braccia, il
battito del cuore, il sapore della bocca, lo
scontro di labbra e di lingue le tolsero il fiato.
Gli fece scivolare le mani dietro il collo e si
lasciò andare definitivamente, mentre sentiva
il solletico leggero dei suoi capelli, lo stesso di
sempre.
Quando infine si allontanarono, lui aveva gli
occhi acquosi. — Erano anni che lo aspettavo.
Maia gli passò un dito sulla base del collo.
Sentiva il proprio cuore battere forte. Per
qualche istante non erano stati due lupi
mannari in missione per un’organizzazione
segreta, ma due semplici ragazzi che si
baciavano in macchina, sulla spiaggia. — Ed è
stato all’altezza delle aspettative?
— Molto meglio. — L’angolo della bocca di lui
si sollevò. — Significa che…
— Be’, non è il genere di cose che si fanno tra
amici, giusto?
— Ah no? Allora devo dirlo a Simon. Resterà
profondamente deluso.
— Jordan! — Maia gli diede un colpetto
leggero sulla spalla, ma stava sorridendo.
Come lui, del resto, con quel grande sorriso un
po’ ebete e inconsueto che gli si stava
allargando in faccia. Maia gli si avvicinò di
nuovo e gli appoggiò il viso sull’incavo del
collo, inalando, insieme all’aria del mattino,
anche un po’ di Jordan.
Stavano combattendo sul lago ghiacciato, la
città di gelo che brillava in lontananza come
un faro. L’angelo con le ali dorate e l’angelo
con le ali simili a fiamme nere. Clary se ne
stava in piedi sul ghiaccio mentre sangue e
piume le cadevano attorno. Quelle dorate
bruciavano come fiamme nei punti in cui le
toccavano la pelle, mentre quelle nere erano
fredde come ghiaccio.
Clary si svegliò con il cuore a mille,
intrappolata in un groviglio di coperte. Si alzò,
tirandosele giù fino alla vita. Era in una stanza
che non conosceva. I muri erano intonacati di
bianco e lei si trovava in un letto di legno nero,
con indosso gli stessi vestiti della sera prima.
Scivolò giù, appoggiando i piedi nudi sul
freddo pavimento di pietra, e si guardò attorno
in cerca dello zaino.
Lo trovò subito, su una poltrona di pelle nera.
La stanza era priva di finestre: l’unica luce
proveniva da un lampadario di vetro nero
smerigliato. Mise una mano nello zaino e
scoprì con disappunto, ma non con sorpresa,
che qualcuno l’aveva già ispezionato. La
scatola col materiale da disegno era sparita,
stilo compreso. Non restava altro che la
spazzola per capelli, i jeans e la biancheria
intima di ricambio. Almeno aveva ancora al
dito l’anello d’oro.
Lo sfiorò piano e col pensiero si rivolse a
Simon. Ci sono.
Niente.
Simon?
Nessuna risposta. Deglutì per scacciare il
senso di disagio. Non aveva idea di dove si
trovasse, né di che ore fossero o di quanto
tempo avesse passato al freddo. Magari Simon
stava dormendo. Non poteva andare nel
panico e convincersi che gli anelli non
funzionavano. Doveva inserire il pilota
automatico: capire dov’era, scoprire quello che
poteva. Avrebbe provato a ricontattarlo più
tardi.
Fece un respiro profondo e cercò di
concentrarsi su quanto la circondava. Nella
stanza c’erano due porte. Provò ad aprire la
prima e scoprì che dava su un piccolo bagno in
vetro e acciaio cromato, munito di vasca con
piedini di rame. Anche lì, nessuna finestra. Si
lavò rapidamente, si asciugò con una salvietta
bianca e soffice, indossò jeans e felpa puliti.
Poi tornò in camera da letto, dove si infilò le
scarpe e provò con la seconda porta.
Tombola. Lì c’era il resto della casa. Un
appartamento? Una villa? Si trovava in una
grande stanza, metà della quale occupata da
un lungo tavolo di vetro. Dal soffitto
pendevano altri lampadari di vetro nero
smerigliato che proiettavano ombre danzanti
sulle pareti. Era tutto molto moderno, dalle
sedie in pelle nera al grande camino
incorniciato d’acciaio. Dentro ardeva un fuoco.
Segno che doveva esserci qualcuno, o almeno
che c’era stato di recente.
L’altra metà della stanza ospitava un grande
televisore, un tavolino da caffè nero laccato su
cui erano sparsi videogiochi e joy-pad, e divani
bassi in pelle. Una scala di vetro a chiocciola
portava al piano superiore. Dopo essersi
guardata attorno, Clary iniziò a salire i gradini.
Il vetro era perfettamente trasparente e dava
l’impressione di percorrere una scala invisibile
che portava in cielo.
Il secondo piano era molto simile al primo:
pareti chiare, pavimento nero, un lungo
corridoio su cui si aprivano diverse porte. La
prima dava su quella che era chiaramente la
camera padronale, dove un enorme letto di
palissandro, celato da tende bianche
trasparenti, occupava gran parte dello spazio.
C’erano delle finestre di colore blu scuro. Clary
attraversò la stanza per guardare fuori.
Per un attimo si chiese se fosse di nuovo ad
Alicante. Vedeva, oltre un canale, un altro
edificio con le finestre chiuse da imposte verdi.
In alto, il cielo era grigio, il canale bluverdastro e, sulla destra, c’era un ponte che
portava sull’altra riva. Sopra, due persone.
Una di esse aveva una macchina fotografica
davanti al viso e si stava dando un gran daffare
a scattare foto. No, niente Alicante.
Amsterdam? Venezia? Guardò dappertutto per
trovare il modo di aprire la finestra, ma senza
successo. Picchiò contro il vetro e gridò, ma i
passanti sul ponte non si accorsero di lei e,
dopo pochi istanti, proseguirono.
Clary tornò nella camera da letto, si avvicinò
a uno degli armadi e lo aprì. Le prese un colpo.
Il guardaroba strabordava di vestiti, vestiti da
donna. Erano magnifici: pizzo, raso, perline e
fiori. I cassetti contenevano sottovesti e
biancheria intima, magliette di cotone e seta,
gonne, ma niente jeans né pantaloni. C’erano
persino delle scarpe allineate, aperte e con il
tacco, nonché collant ben piegati. Per un
istante Clary rimase a guardare, chiedendosi se
ci fosse in giro un’altra ragazza o se magari a
Sebastian fosse venuta la mania di vestirsi da
donna. Ma su tutti i vestiti c’era ancora il
cartellino, ed erano pressoché della sua taglia.
Non solo: continuando a guardare, si rese
conto che i colori erano esattamente quelli che
le donavano di più. C’era tutta la gamma degli
azzurri, dei verdi e dei gialli, in linee tagliate
per una figura minuta. Alla fine, prese uno dei
capi più semplici, una camicia verde scura, con
le maniche ad aletta, decorata sul davanti da
un’allacciatura di seta. Se la provò, dopo aver
buttato la sua maglietta sul pavimento, e si
guardò nello specchio appeso dentro il
guardaroba.
Le stava alla perfezione. Metteva in risalto la
sua figura snella stringendole la vita e
rendendo più intenso il verde degli occhi.
Staccò l’etichetta per non vedere quanto era
costata e corse fuori dalla stanza, avvertendo
un brivido freddo lungo la schiena.
La camera successiva era sicuramente quella
di Jace. Lo capì nell’istante in cui ci mise
piede. C’era il suo odore, l’odore della sua
colonia, del suo sapone e della sua pelle. Il
letto, rifatto alla perfezione, era in legno a
effetto ebano, con le coperte bianche. Tutto era
in ordine, come nella sua stanza all’Istituto.
Accanto al letto c’erano pile di libri con titoli in
italiano, francese e latino. Il pugnale d’argento
degli Herondale, col suo motivo di uccelli, era
conficcato nel muro intonacato. Quando Clary
guardò più da vicino, si accorse che serviva a
tenere ferma una fotografia: lei e Jace,
immortalati da Izzy. Ricordava ancora quella
bella giornata di inizio ottobre, Jace seduto sui
gradini d’ingresso dell’Istituto con un libro
sulle ginocchia. Lei era un gradino più su, gli
teneva una mano sulla spalla e si sporgeva in
avanti per vedere cosa stava leggendo. Lui
aveva la mano appoggiata sopra quella di lei,
un gesto quasi assente, ma intanto sorrideva.
Quel giorno non era riuscita a guardarlo in
faccia, non sapeva che stava sorridendo a quel
modo, lo scopriva solo adesso. Le si contrasse
la gola e dovette uscire anche da quella stanza
per riprendere fiato.
Non poteva comportarsi a quel modo, si
rimproverò, come se il rivedere il vecchio Jace
fosse ogni volta un pugno nello stomaco.
Doveva fingere che non le importasse, e che
non notasse la differenza. Entrò nella stanza
successiva e scoprì che era ancora una camera
da letto, molto simile a quella di prima, non
fosse stato per il disordine totale: il letto era un
groviglio di coperte e lenzuola in seta nera, la
scrivania di vetro e acciaio giaceva sotto un
cumulo di libri e riviste, vestiti da ragazzo
sparpagliati
ovunque.
Jeans,
giacche,
magliette e attrezzature. L’occhio le cadde su
qualcosa che brillava, sopra il comodino
accanto al letto. Avanzò senza distogliere lo
sguardo, incredula dei propri occhi.
Era il cofanetto di sua madre, quello con le
iniziali J.C. Quello che sua madre tirava fuori
ogni anno, una volta l’anno, per poi riversarci
sopra un fiume di lacrime silenziose che le
scorrevano giù per le guance fino alle mani.
Clary conosceva il contenuto di quell’oggetto:
una ciocca di capelli fini e bianchi come un
soffione; brandelli di una maglietta da
bambino; una scarpina talmente piccola da
starci nel palmo di una mano. Erano i resti di
suo fratello, una sorta di collage del bambino
che sua madre avrebbe voluto, che aveva
sognato, prima che Valentine facesse quello
che aveva fatto e che trasformasse il suo stesso
figlio in un mostro.
J.C.
Jonathan Christopher.
Si sentì contorcere lo stomaco e indietreggiò
rapidamente per lasciare la stanza, finendo
dritta contro un muro di carne e ossa. Delle
braccia la avvolsero, stringendola forte, e Clary
vide che erano snelle, muscolose, ricoperte da
una peluria chiara. Per un attimo pensò che a
stringerla fosse Jace, e cominciò a rilassarsi.
— Che cosa ci fai in camera mia? — le disse
all’orecchio Sebastian.
Isabelle era stata abituata a svegliarsi presto
ogni mattina, con la pioggia o con il sole, e una
leggera sbronza non le impedì certo di farlo
anche quel giorno. Si mise lentamente a sedere
e abbassò gli occhi su Simon.
Non aveva mai trascorso un’intera notte a
letto con qualcuno, a parte quando aveva
quattro anni e per paura dei temporali correva
in camera dei genitori. Non riusciva a fare a
meno di guardare Simon come se fosse una
specie di animale esotico. Era straiato sulla
schiena, a bocca leggermente aperta, con i
capelli sugli occhi. Normali capelli castani,
normali occhi castani. Aveva la maglietta
leggermente alzata. La pancia era piatta e
liscia, ma senza addominali in rilievo, e nei
tratti del viso c’era ancora qualcosa di
infantile. Ma cos’era che le piaceva, di lui? Era
carino, certo, ma lei era uscita con dei cavalieri
mozzafiato del Popolo Fatato, con degli
Shadowhunters supersexy e così via…
— Isabelle — disse a un tratto Simon senza
aprire gli occhi. — Piantala di fissarmi.
Lei fece un sospiro spazientito e si lanciò giù
dal letto, poi rovistò nella borsa per recuperare
le sue cose e uscì a cercare il bagno.
Era a metà del corridoio, e una porta si aprì
proprio in quel momento, facendo emergere
Alec in una nuvola di vapore. Aveva un
asciugamano attorno alle spalle e si stava
strofinando con vigore i capelli neri. Isabelle
pensò che in fondo non doveva stupirsi di
vederlo, perché anche lui era stato abituato ad
alzarsi presto.
— Sai di sandalo — gli disse come saluto. Era
un odore che lei odiava. Preferiva le essenze
più dolci: vaniglia, cannella, gardenia.
Alec la guardò. — A noi piace il sandalo.
Isabelle fece una smorfia. — O è un caso di
pluralis maiestatis, oppure tu e Magnus state
diventando una di quelle coppie che pensano
di essere una cosa sola. “A noi piace il
sandalo”; “Adoriamo la musica sinfonica”;
“Speriamo che il nostro regalo di Natale ti
piaccia”… Il che, se mi permetti, è solo un
modo furbo per evitare di comprare due regali.
Alec batté le sue ciglia umide. — Lo capirai…
— Se stai dicendomi che lo capirò quando
anch’io
sarò
innamorata,
prendo
quell’asciugamano e ti soffoco.
— E se tu continui a impedirmi di tornare in
camera mia a vestirmi, dico a Magnus di far
venire le fate ad annodarti i capelli.
— Oh, togliti dai piedi — fece Isabelle tirando
un calcio alla caviglia di Alec, il quale si
incamminò, senza fretta, lungo il corridoio.
Aveva la sensazione che, se si fosse voltata a
guardarlo, lo avrebbe sorpreso a farle una
linguaccia, perciò preferì non girarsi. Si chiuse
invece nel bagno e aprì la doccia a pieno getto.
Quando vide la mensola con i prodotti per il
corpo, fece un’esclamazione poco signorile.
Shampoo al sandalo, balsamo al sandalo,
sapone al sandalo. Puah.
Dopo che finalmente uscì, con la divisa
indosso e i capelli raccolti, trovò Alec, Magnus
e Jocelyn che la aspettavano in salotto. C’erano
ciambelle, di cui non aveva voglia, e caffè, che
invece prese. Lo macchiò con una generosa
quantità di latte e si mise comoda. Rimase
stupita dall’aspetto di Jocelyn: anche lei
indossava la divisa da Shadowhunter.
Era strano, pensò. La gente le diceva spesso
che assomigliava a sua madre, anche se lei non
riusciva a rendersene conto, e in quel
momento si chiese se per loro due fosse come
per Clary e Jocelyn. Stesso colore di capelli, sì,
ma anche stessi lineamenti, inclinazione della
testa,
mento
imbronciato.
La
stessa
sensazione, guardandole, che da fuori
sembravano bambole di porcellana, ma dentro
erano d’acciaio. A dire il vero, a Isabelle
sarebbe piaciuto ereditare gli occhi azzurri di
Maryse e di Robert, come Clary quelli verdi
della madre. L’azzurro era molto più
interessante del nero.
— Come per la Città Silente, c’è una sola Città
di Diamante, ma molte porte attraverso cui
trovarla — spiegò Magnus. — Per noi, la più
vicina è l’antico monastero agostiniano di
Grymes Hill, a Staten Island. Io e Alec ci
arriveremo con voi tramite portale, e
aspetteremo il vostro ritorno, perché noi non
possiamo proseguire oltre.
— Lo so — disse Isabelle. — Perché voi siete
maschi. Bleah!
Alec le puntò un dito contro. — Prendila sul
serio, Isabelle. Le Sorelle di Ferro non sono
come i Fratelli Silenti. Sono molto meno
amichevoli e non amano essere disturbate.
— Prometto che mi comporterò al meglio —
annunciò Isabelle posando la tazza di caffè, ora
vuota, sul tavolo. — Andiamo.
Magnus la guardò con aria sospetta per un
istante, poi scrollò le spalle. Quel giorno aveva
trasformato i capelli, con il gel, in un milione
di punte; gli occhi erano truccati di nero, il che
li rendeva più felini che mai. Oltrepassò
Isabelle e si avvicinò alla parete già
mormorando in latino, finché la sagoma
familiare di un portale, simile a un arcano
portone contornato da simboli luccicanti, non
iniziò a delinearsi. Si alzò un vento freddo e
tagliente che spinse all’indietro le ciocche di
capelli di Isabelle.
Per prima si fece avanti Jocelyn. Quando
attraversò il portale, fu un po’ come guardare
una persona che spariva dentro un’onda
d’acqua, ingoiata in un bagliore argenteo che
offuscò il rosso dei capelli mentre lei svaniva
emettendo un debole luccichio.
La seconda fu Isabelle. Era abituata al senso
di vuoto che dava il trasporto via portale: un
rombo nelle orecchie e niente aria nei
polmoni. Chiuse gli occhi e li riaprì quando il
vortice la liberò, facendola cadere in mezzo a
delle sterpaglie secche. Si alzò in piedi,
pulendosi le ginocchia dalle erbacce morte, e
vide che Jocelyn la stava guardando. Aprì la
bocca per parlare, ma la richiuse non appena
comparve Magnus, col portale scintillante che
già si chiudeva alle sue spalle.
Nemmeno quel viaggio aveva scompigliato i
capelli a punta di Magnus, che se li toccò con
orgoglio. — Guarda che roba — disse a
Isabelle.
— Magia?
— Gel. Tre dollari e novantanove al
supermercato.
Isabelle fece roteare gli occhi, esasperata, poi
si guardò attorno per ispezionare la zona. Si
trovavano sulla cima di una collina, coperta da
cespugli secchi ed erba ingiallita. Più in basso
c’erano alberi anneriti dall’autunno e, molto in
lontananza, sullo sfondo di un cielo limpido,
Isabelle intravedeva la parte superiore del
Ponte di Verrazzano, che collega Staten Island
a Brooklyn. Quando si voltò, si accorse che
dietro le sue spalle, sopra un tappeto di foglie
spente, si ergeva il monastero. Era imbrattato
qua e là da graffiti.
Uno stormo di avvoltoi collorosso, disturbati
dall’arrivo dei viaggiatori, volavano attorno
alla torre del campanile ormai decrepita.
Isabelle osservò l’edificio con attenzione, per
cercare di capire se ci fosse un incantesimo da
svelare. Se così fosse stato, allora avevano a
che fare con qualcosa di davvero potente.
Niente. Malgrado gli sforzi, davanti a sé non
vedeva altro che una costruzione in rovina.
— Non ci sono incantesimi — dichiarò
Jocelyn, cogliendola di sorpresa. — Quello che
vedi è pura realtà.
Jocelyn avanzò a fatica, schiacciando con gli
stivali gli arbusti inariditi che si trovava sul
cammino. Un attimo dopo Magnus scrollò le
spalle e la seguì, con Alec e Isabelle dietro.
Non c’era alcun sentiero: i rami crescevano a
grovigli, scuri contro l’aria limpida, e il
fogliame crepitava secco sotto i loro piedi.
Mentre si avvicinavano all’edificio, Isabelle
notò che in alcuni punti l’erba secca era stata
distrutta da pentagrammi e cerchi runici
disegnati con bombolette spray.
— Mondani — disse Magnus spostando un
ramo dal cammino di Isabelle. — Fanno i loro
stupidi giochetti con la magia, ma non la
capiscono davvero. Spesso si sentono attratti
da luoghi come questo, centri di energia, senza
nemmeno sapere il perché. Bevono, stanno
insieme e coprono le pareti di graffiti, come se
fosse possibile lasciare un segno umano su ciò
che è magico. — Raggiunsero una porta,
sbarrata con assi di legno, che si apriva in una
parete di mattoni. — Ci siamo.
Isabelle guardò la porta con grande
attenzione. Anche stavolta nessun sentore di
incantesimo, sebbene, concentrandosi a fondo,
riuscisse a intravedere un debole luccichio,
simile a quello del sole sull’acqua. Jocelyn e
Magnus si scambiarono uno sguardo, poi lei si
rivolse a Isabelle. — Sei pronta?
Isabelle annuì e, senza aggiungere altro,
Jocelyn fece un passo in avanti dissolvendosi
fra le tavole di legno della porta. A quel punto
Magnus guardò Isabelle con impazienza.
Alec le si avvicinò, e lei avvertì il tocco della
mano del fratello sulla spalla. — Non ti
preoccupare — le disse. — Non ti succederà
niente, Iz.
Lei sollevò il mento. — Lo so — rispose, poi
seguì Jocelyn dentro la porta.
Clary trattenne il fiato, ma prima che potesse
replicare si sentirono dei passi sulla scala e, in
fondo al corridoio, comparve Jace. Sebastian
mollò subito la presa su Clary e la girò verso di
sé. Col sorriso di un lupo, le arruffò i capelli. —
Che bello vederti, sorellina.
Clary era senza parole. Jace si diresse verso di
loro senza emettere un suono. Indossava un
giubbino di pelle nero, una maglietta bianca e
dei jeans, ed era scalzo. — Stavi abbracciando
Clary? — chiese a Sebastian guardandolo
sbalordito.
L’altro fece spallucce. — È mia sorella. Sono
contento di vederla.
— Tu non abbracci le persone — ribatté Jace.
— Non ho avuto tempo di preparare dei
biscotti.
— Non è niente, Jace — intervenne Clary,
liquidando con un gesto il fratello. — Sono
inciampata. Mi ha soltanto aiutata a non
cadere.
Se Sebastian fu sorpreso di sentire che Clary
lo stava difendendo, di certo non lo diede a
vedere. Il suo volto non tradiva alcuna
espressione, mentre la ragazza attraversava il
corridoio per raggiungere Jace, che la baciò
sulla guancia sfiorandole la pelle con le dita
fredde. — Che cosa ci facevi, qui sopra? — le
chiese lui.
— Ti stavo cercando — rispose lei, scrollando
le spalle. — Mi sono svegliata e non riuscivo a
trovarti, così ho pensato che magari stavi
ancora dormendo.
— Vedo che hai scoperto il nascondiglio dei
vestiti — disse Sebastian indicando la
maglietta di Clary. — Ti piacciono?
Jace gli lanciò un’occhiataccia. — Siamo usciti
a prendere da mangiare — disse a Clary. —
Niente di particolare, pane e formaggio. Vuoi
pranzare?
E fu così che, qualche minuto dopo, Clary si
ritrovò seduta al grande tavolo di vetro e
acciaio. Dal genere di pietanze che aveva
davanti, capì che la sua seconda ipotesi su
dove si trovasse era giusta: Venezia. Pane,
formaggi, affettati misti, marmellata di uva e
di fichi, bottiglie di vino. Jace era seduto di
fronte a lei, Sebastian a capotavola. Le tornò
alla mente l’inquietante ricordo della notte in
cui aveva incontrato Valentine, al Renwick di
New York, quando si era messo a capotavola
fra lei e Jace offrendo loro del vino e dicendo
che erano fratello e sorella.
In quel momento guardò di sottecchi il suo
vero fratello. Pensò all’espressione di sua
madre quando l’aveva visto. Valentine.
Sebastian, però, non era la copia carbone del
padre. Aveva visto delle foto di Valentine alla
loro età. Il viso di Sebastian temperava i
lineamenti duri del padre con la bellezza della
madre; era alto, ma con le spalle meno larghe,
più snello e felino nei movimenti. Aveva gli
zigomi e la bocca sottile e morbida di Jocelyn,
gli occhi scuri e i capelli biondo platino di
Valentine.
In quel momento, lui alzò lo sguardo, come se
l’avesse sorpresa a guardarlo. — Vino? — le
disse porgendo la bottiglia.
Lei annuì, anche se il vino non le era mai
piaciuto molto e, dall’episodio del Renwick,
l’aveva addirittura odiato. Si schiarì la voce
mentre Sebastian le riempiva il bicchiere. — E
dimmi, questo posto… è tuo? — gli chiese.
— Era di nostro padre — rispose lui
appoggiando la bottiglia. — Di Valentine. Si
muove, dentro e fuori dai mondi. Lo usava sia
come ritiro, sia come mezzo di trasporto. Mi ci
ha portato qualche volta, spiegandomi come
entrare e come farlo spostare.
— Non c’è la porta d’ingresso.
— C’è, se sai come trovarla — disse Sebastian.
— Papà è stato molto furbo, riguardo a questo
posto.
Clary guardò Jace, che scosse la testa. — A me
non lo ha mai fatto vedere. Neanche
immaginavo che esistesse.
— Fa molto… casa da single rampanti —
commentò Clary. — Non avrei mai pensato a
Valentine come a uno che…
— Aveva anche un televisore a schermo piatto
— fece Jace sorridendole. — Non che prenda i
canali, però ci puoi guardare i DVD. Alla
tenuta avevamo una ghiacciaia che funzionava
con la stregaluce. Qui c’è un frigorifero di
ultima generazione.
— Quello era per Jocelyn — intervenne
Sebastian.
Clary alzò lo sguardo. — Cosa?
— Tutte quelle cose moderne. Gli
elettrodomestici. E i vestiti. Come quella
maglietta che indossi ora. Erano per nostra
madre, nel caso avesse deciso di tornare. — Gli
occhi scuri di Sebastian incontrarono i suoi.
Provò un senso di nausea. Questo è mio
fratello, e stiamo parlando dei nostri genitori.
Si sentì girare la testa: troppe cose, troppo in
fretta. Non aveva mai avuto il tempo di
pensare a Sebastian come a un suo fratello
reale, vivente. Quando aveva scoperto chi era
in realtà, lui era già morto.
— Scusa se è strana — disse Jace in tono di
scuse, indicando la camicetta. — Possiamo
comprarti degli altri vestiti.
Clary si sfiorò appena la manica. Tessuto
setoso, sottile, di lusso. Allora era quella la
spiegazione: tutto più o meno della sua taglia,
tutto di tonalità che le donavano. Perché
somigliava a sua madre.
Fece un respiro profondo. — Tutto bene —
disse. — È solo che… cosa fate di preciso?
Andate in giro stando dentro questo
appartamento e…
— Vediamo il mondo? — disse piano Jace. —
C’è di peggio.
— Ma non potrete farlo per sempre.
Sebastian non aveva mangiato molto, ma in
compenso aveva bevuto due bicchieri di vino.
Ora era al terzo e gli occhi gli luccicavano. —
Perché no?
— Be’, perché… perché il Conclave vi sta
cercando, e non potete continuare a scappare e
a nascondervi per sempre… — la voce di Clary
le si smorzò in gola mentre spostava gli occhi
dall’uno all’altro. Si erano scambiati lo sguardo
di due persone al corrente di qualcosa che tutti
gli altri ignoravano. Era uno sguardo che Jace
non scambiava con altri, di fronte a lei, da
molto, molto tempo.
Sebastian parlò lentamente, a bassa voce: —
È una domanda o un’affermazione?
— Lei ha il diritto di conoscere i nostri piani
— disse Jace. — È venuta qui sapendo di non
poter tornare indietro.
— Un bell’atto di fede — fece Sebastian
passando un dito sul bordo del bicchiere. Era
un gesto che Clary aveva già visto fare a
Valentine. — In te. Lei ti ama. È per questo che
è qui. Non è così?
— E allora? — replicò Clary. Forse avrebbe
potuto fingere che ci fosse un’altra ragione, ma
gli occhi di Sebastian erano così tenebrosi e
penetranti… Dubitava che le avrebbe creduto.
— Mi fido di Jace.
— Ma non di me — le fece eco Sebastian.
Clary scelse le parole con estrema cura. — Se
Jace si fida di te, allora voglio fidarmi anch’io
— disse. — E sei mio fratello. Conterà
qualcosa. — Sentì in bocca il sapore amaro
della bugia. — Anche se non ti conosco
veramente.
— Allora, forse, dovresti investire un po’ di
tempo per imparare a farlo — propose
Sebastian. — E a quel punto ti racconteremo i
nostri piani.
Ti racconteremo. Nostri. Nella sua mente
c’era lui e c’era Jace. Non c’era Jace con Clary.
— Non mi va di tenerla all’oscuro —
intervenne Jace.
— Glielo diremo fra una settimana. Che
differenza fa?
Jace gli lanciò un’occhiataccia. — Due
settimane fa eri morto.
— Infatti non ho parlato di ben due settimane
— puntualizzò l’altro. — Sarebbe una pazzia.
La bocca di Jace si increspò agli angoli.
Guardò Clary.
— Sono disposta ad aspettare che vi fidiate di
me — affermò, sapendo che era la cosa più
giusta da dire. E più difficile. — Non importa
quanto ci vorrà.
— Una settimana — disse Jace.
— Una settimana — acconsentì Sebastian. —
E questo significa che lei resta qui, in casa.
Niente contatti con nessuno. Non le si apre la
porta, niente andirivieni.
Jace si appoggiò allo schienale. — E se ci sono
io con lei?
Sebastian gli lanciò una lunga occhiata da
sotto le ciglia abbassate. Aveva uno sguardo
calcolatore. Clary capì che stava decidendo
cosa consentire a Jace di fare, quanto lunga
poteva essere la catena di suo “fratello”. —
D’accordo — disse infine con voce piena di
condiscendenza. — Se ci sei tu.
Clary abbassò lo sguardo sul suo bicchiere di
vino. Aveva sentito Jace rispondere con un
mormorio, ma non riusciva a guardarlo. L’idea
di lui che dovesse ricevere il permesso di fare
qualcosa, proprio lui che faceva sempre quello
che voleva, le faceva venire il voltastomaco.
Avrebbe voluto alzarsi e spaccare la bottiglia in
testa a Sebastian, ma sapeva che era
impossibile. Ferisci uno, e l’altro sanguinerà.
— Com’è il vino? — Era la voce di Sebastian,
con un netto sottofondo sarcastico.
Clary svuotò il bicchiere fino all’ultima
goccia, mentre il sapore amaro le andava di
traverso. — Delizioso.
Isabelle riemerse in un paesaggio alieno.
Davanti a lei, sotto un incombente cielo grigio
scuro, si estendeva una pianura color verde
intenso. Alzò il cappuccio della divisa e guardò
davanti a sé, incuriosita. Non aveva mai visto
una distesa di cielo così grandiosa, a volta, e
nemmeno una pianura di quella vastità:
brillava come una gemma color muschio.
Facendo un passo, si accorse che il muschio
c’era davvero, e che cresceva tutto attorno alle
rocce sparse su una terra nera come il carbone.
— È una pianura vulcanica — spiegò Jocelyn.
Era in piedi accanto a Isabelle e il vento aveva
iniziato a liberare qualche ciocca rosso rame
dal suo stretto chignon. La somiglianza con
Clary era impressionante. — Queste, un tempo,
erano pianure laviche. Probabilmente l’intera
area è di origine vulcanica. Lavorando con
l’adamas, le Sorelle hanno bisogno di un
calore incredibile, per forgiare le loro
creazioni.
— Uno se lo immaginerebbe un posto un po’
più caldo — brontolò Isabelle.
Jocelyn le lanciò un’occhiataccia e iniziò a
camminare verso una direzione che a Isabelle
sembrò scelta a caso. La seguì arrancando. — A
volte sei così simile a tua madre che mi lasci
quasi senza parole, Isabelle.
— Lo prendo come un complimento — fece
l’altra socchiudendo gli occhi. Nessuno poteva
osare insultare la sua famiglia.
— Guarda che non lo dicevo per offenderti.
Isabelle tenne gli occhi puntati verso
l’orizzonte, dove il cielo cupo incontrava la
pianura verde smeraldo. — Conoscevi bene i
miei genitori?
Jocelyn le diede un rapido sguardo di
sottecchi. — Sì, abbastanza. Eravamo tutti
insieme, a Idris. Li ho rivisti poco tempo fa,
dopo anni.
— Li conoscevi già quando si sono sposati?
Il sentiero scelto da Jocelyn aveva cominciato
a farsi ripido, perciò la risposta fu leggermente
affannata. — Sì.
— Erano… innamorati?
Jocelyn si fermò e si voltò per guardarla. —
Isabelle, dove vuoi arrivare?
— A parlare d’amore? — rispose la ragazza
dopo un attimo di silenzio.
— Non so per quale motivo dovresti ritenermi
un’esperta dell’argomento.
— Be’, in fondo sei riuscita a tenerti attorno
Luke per tutta la vita, prima di accettare di
sposarlo. È notevole. Anche io vorrei avere lo
stesso potere sui ragazzi.
— Eh sì — le disse Jocelyn. — Voglio dire, ce
l’hai. Ma non è una cosa da desiderare. —
Jocelyn si portò le mani fra i capelli, e Isabelle
sussultò. Per quanto quella donna somigliasse
alla figlia, le mani lunghe e sottili, flessuose e
delicate, erano quelle di Sebastian. Isabelle
ricordò di averne tagliata una, nella valle di
Idris, quando la sua frusta aveva squarciato
pelle e ossa. — I tuoi genitori non sono perfetti,
Isabelle, perché nessuno lo è. Sono persone
complicate. E hanno appena perso un figlio.
Quindi, se ti stai riferendo al fatto che tuo
padre è rimasto a Idris…
— Mio padre ha tradito mia madre —
confessò tutto d’un fiato la ragazza, e per poco
non si portò d’istinto una mano alla bocca per
coprirla. Aveva mantenuto quel segreto per
anni, e dirlo ad alta voce a Jocelyn aveva il
sapore del tradimento, malgrado tutto.
L’espressione dell’altra cambiò. Ora c’era
comprensione nel suo sguardo. — Lo so.
Isabelle trasalì. — Lo sanno tutti?
Jocelyn scosse la testa. — No, solo alcuni. Io
ero… in una posizione privilegiata per saperlo.
Di più non ti posso dire.
— Chi era? — volle sapere Isabelle. — Con chi
l’ha tradita?
— Nessuno di tua conoscenza, Isabelle…
— Tu non sai chi conosco io! — esclamò lei
alzando la voce. — E poi piantala di
pronunciare il mio nome a quel modo, come se
fossi una bambina piccola.
— Non spetta a me dirtelo — disse Jocelyn in
tono asciutto prima di riprendere a
camminare.
Isabelle si mosse subito per seguirla, anche se
il sentiero si era fatto improvvisamente molto
scosceso, un muro di verde che saliva a
incontrare il cielo minaccioso.
— Ho tutto il diritto di sapere. Sono i miei
genitori. E se ora non me lo dici, io…
Si fermò, inspirando forte. Avevano raggiunto
la cima del crinale e, non si sapeva come,
davanti ai loro occhi era spuntata dal suolo
una fortezza, come un fiore dischiusosi
all’improvviso. Era interamente ricavata da
adamas bianco argenteo, che rifletteva il cielo
striato di nuvole. Torri con la cima ricoperta di
elettro si levavano verso l’alto, e il tutto era
circondato da un’alta muraglia, anch’essa di
adamas, nella quale si apriva un unico
cancello formato da due enormi lame infilzate
obliquamente nel terreno, come a formare un
mostruoso paio di forbici.
— La Città di Diamante — annunciò Jocelyn.
— Grazie tante — ribatté Isabelle. — C’ero
arrivata da sola.
Jocelyn emise un suono al quale Isabelle era
abituata, visto che lo aveva già sentito varie
volte dai suoi genitori. Ed era pressoché sicura
che si trattava della definizione che gli adulti
davano degli adolescenti. A quel punto, la
donna iniziò la discesa dalla collina verso la
fortezza. Isabelle, stanca di arrancare, accelerò
il passo per superarla. Era più alta della madre
di Clary e aveva le gambe più lunghe, inoltre
non vedeva il motivo per cui avrebbe dovuto
aspettarla se poi lei si ostinava a trattarla come
una bambina. Scese a grandi passi dal pendio,
schiacciando il muschio sotto gli stivali, finché
si abbassò per attraversare il cancello a forma
di forbici…
E lì rimase senza fiato. Si ritrovò in piedi sulla
minuscola sporgenza di una roccia, mentre di
fronte a lei la terra si apriva in un enorme
baratro, in fondo al quale ribolliva un fiume di
lava rosso oro che circondava la fortezza.
Dall’altra parte del fossato, troppo grande da
saltare anche per uno Shadowhunter, c’era
l’unica entrata visibile dell’edificio, ovvero un
ponte levatoio sollevato.
— Certe cose — disse a quel punto Jocelyn,
giunta di soppiatto al suo fianco — non sono
semplici come sembrano a prima vista.
Isabelle trasalì, poi la guardò di traverso. —
Direi che non è proprio il posto adatto per far
spaventare una persona…
Jocelyn si limitò a incrociare le braccia al
petto e a sollevare le sopracciglia. — Hodge ti
avrà certo insegnato il metodo più adatto per
avvicinarti alla Città di Diamante — disse. — In
fondo, è accessibile a tutte le donne
Shadowhunter in buoni rapporti con il
Conclave.
— Certo che sì — rispose Isabelle in tono
altezzoso, sforzandosi con la mente di
ricordare. Solo chi ha il sangue dei Nephilim…
Alzò una mano e si tolse una delle bacchette di
metallo dai capelli. Quando ne fece ruotare la
base, questa scattò e si trasformò in un
pugnale con la runa del coraggio sulla lama.
Isabelle sollevò le mani sopra il precipizio. —
Ignis aurum probat — esclamò, poi usò la
lama per incidersi il palmo sinistro. Provò un
dolore lancinante, e dalla ferita sgorgò un
rivolo di sangue scarlatto che si riversò nel
burrone. Ci fu un bagliore di luce azzurra e si
sentì un frastornante sferragliare: il ponte
levatoio si stava lentamente abbassando.
Isabelle sorrise e pulì la lama del pugnale
sulla divisa. Poi, con un altro rapido scatto, lo
fece ridiventare una bacchetta di metallo, e se
la rimise nei capelli.
— Sai che cosa significa? — chiese Jocelyn,
senza staccare gli occhi dal ponte che si
abbassava verso di loro.
— Cosa?
— Quello che hai detto, il motto delle Sorelle
di Ferro.
A quel punto il ponte era quasi orizzontale. —
Significa che il fuoco tempra l’oro.
— Giusto — fece Jocelyn. — Ma non solo per
quanto riguarda le armi o altri oggetti
metallici. Vale anche per le avversità che
mettono alla prova la forza di carattere. Nei
momenti più difficili, nei momenti più bui,
alcune persone brillano.
— Oh, davvero? — fece Izzy. — Be’, io sono
stanca dei momenti bui e difficili. Forse non
voglio brillare.
Il ponte levatoio si abbassò del tutto davanti
ai loro piedi, con un boato. — Se sei anche solo
un poco come tua madre — ribatté Jocelyn —
non potrai fare nulla per evitarlo.
capitolo 9
LE SORELLE DI FERRO
Alec sollevò nella mano la pietra runica di
stregaluce, che emanava raggi splendenti,
rischiarando prima un angolo della stazione
City Hall e poi un altro. Sobbalzò allo squittio
di un topo che attraversava di corsa la
piattaforma
polverosa.
Alec
era uno
Shadowhunter, non era la prima volta che si
trovava in un luogo tetro, ma nella decadenza
di quella stazione c’era qualcosa che gli faceva
venire i brividi lungo la schiena.
Forse quello che sentiva era il fremito della
slealtà, dopo aver abbandonato la postazione
di guardia a Staten Island ed essersi
precipitato al ferry nell’esatto istante in cui
Magnus se n’era andato. Non aveva riflettuto
su quello che stava facendo, lo aveva fatto e
basta, come se viaggiasse con il pilota
automatico. Se si sbrigava, era sicuro di
riuscire a tornare prima di Isabelle e Jocelyn,
prima ancora che qualcuno si rendesse conto
del suo allontanamento.
A quel punto Alec alzò la voce. — Camille! —
gridò. — Camille Belcourt!
Sentì una risatina, che rimbombò contro i
muri della stazione. E poi eccola là, in cima
alle scale, col chiarore della stregaluce che la
rendeva simile a un’ombra. — Alexander
Lightwood — gli disse. — Sali.
In quel momento svanì. Alec seguì la propria
luce dardeggiante su per i gradini e trovò
Camille
dove
l’aveva
già
incontrata,
nell’ingresso della stazione. Era vestita
secondo la moda di un’epoca lontana: un lungo
abito di velluto stretto in vita, capelli a boccoli
candidi raccolti in alto, labbra rosso scuro.
Doveva essere bellissima, anche se lui non era
il più adatto a giudicare la bellezza femminile.
Il fatto di odiarla, poi, non era affatto d’aiuto.
— E quel costume? — le chiese.
Lei fece un sorriso. Aveva la pelle bianca e
liscia, priva di linee scure. Segno che si era
nutrita di recente. — Un ballo in maschera giù
in centro. Ho mangiato niente male. Perché sei
qui, Alexander? Sentivi la mancanza di un po’
di buona conversazione?
Se fosse stato Jace, pensò Alec, avrebbe
risposto con una battuta a tono, con qualche
gioco di parole o un insulto velato. Invece si
mordicchiò un labbro e disse: — Mi hai chiesto
di tornare, se fossi stato interessato alla tua
offerta.
Camille accarezzò lo schienale del divano con
una mano. Era l’unico mobile in tutto
l’ingresso della stazione. — E hai deciso che lo
sei.
Alec annuì.
Lei ridacchiò. — Ti rendi conto di quello che
mi stai chiedendo?
Alec si sentiva il cuore martellare nel petto e
si chiese se anche Camille potesse sentirlo. —
Hai detto che potevi rendere Magnus mortale.
Mortale come me.
Le labbra carnose di lei si assottigliarono. —
Vero — rispose. — E devo ammettere che
dubitavo del tuo interesse. Te n’eri andato
piuttosto bruscamente.
— Non scherzare con me — le disse. — Non
voglio poi così tanto quello che mi offri.
— Bugiardo — rispose lei in tono indifferente.
— In quel caso non saresti qui. — Oltrepassò il
divano per avvicinarsi ad Alec, scrutandogli il
volto. — Visto da vicino non assomigli così
tanto a Will come pensavo. Hai i suoi colori,
ma lineamenti diversi… forse la mascella un
po’ sfuggente…
— Taci — le disse lui. D’accordo, non era
ironico ai livelli di Jace, ma meglio di niente.
— Non voglio sentir parlare di Will.
— Molto bene — fece lei stiracchiandosi
languidamente, come un gatto. — È stato molti
anni fa, quando io e Magnus ci frequentavamo.
Eravamo a letto insieme, dopo una serata
piuttosto focosa… — Vide Alec sussultare e
sorrise. — Hai presente, no?, quei discorsi che
si fanno a letto, in cui si rivelano le proprie
debolezze… Magnus mi parlò di un
incantesimo con cui era possibile privare uno
stregone della sua immortalità.
— Allora perché non potrei scoprire io stesso
di che incantesimo si tratta e poi realizzarlo? —
La voce di Alec si alzò e poi si ruppe. — Perché
avrei bisogno di te?
— Primo, perché sei uno Shadowhunter. Non
hai idea di come si praticano gli incantesimi —
spiegò con calma. — Secondo, perché se lo fai
tu, lui saprà chi è il colpevole. Se invece me ne
occupo io, penserà a una vendetta, a un gesto
di rancore. E poi a me non importa quello che
pensa. A te invece sì…
Alec la guardava con attenzione. — E lo farai
per me come un favore?
Camille rise, il suono di mille campanelli. —
Certo che no — rispose. — Tu fai un favore a
me, e io ne faccio uno a te. È così che
funzionano queste cose.
La mano di Alec si strinse forte attorno alla
stregaluce, finché i bordi non gli si infilzarono
nella mano. — E che favore vuoi da me?
— Molto semplice — fece lei. — Uccidere
Raphael Santiago.
Il ponte che sovrastava il burrone tutto
intorno alla Città di Diamante era punteggiato
da coltelli infilzati, a lama insù, posti a
intervalli irregolari lungo il percorso, così da
rendere possibile attraversare il ponte solo
molto lentamente, scegliendo i passi con
destrezza. Isabelle non ebbe molta difficoltà,
ma rimase sorpresa nel vedere con quanta
bravura si facesse strada Jocelyn, non più
attiva come Shadowhunter da oltre quindici
anni.
Quando Isabelle ebbe raggiunto il capo
opposto del ponte, la runa della destrezza che
aveva sulla pelle si era già volatilizzata,
lasciando solo un leggero marchio bianco.
Jocelyn era solo un passo dietro di lei e, per
quanto Isabelle la trovasse irritante, fu felice di
vederla sollevare una mano in cui brillava una
pietra runica di stregaluce, con la quale
illuminò lo spazio ai loro piedi.
Le pareti erano fatte di adamas liscio e
argenteo, ed emanavano da sole un certo
splendore. Su una di esse era apparsa
un’ombra, un’ombra i cui contorni si facevano
sempre più chiari e sempre più vicini. A un
tratto una parte del muro scivolò all’indietro e
uscì una donna.
Indossava un abito bianco lungo e ampio, ben
stretto ai polsi, e sotto il seno da una corda
color bianco argenteo, una corda demoniaca. Il
viso era liscio e antico al tempo stesso.
Avrebbe potuto avere qualsiasi età. I capelli
erano lunghi e scuri, raccolti in una spessa
treccia che scendeva lungo la schiena. Sopra gli
occhi e le tempie era tatuata una maschera dal
disegno intricato, che circondava uno sguardo
arancione come fiamme crepitanti.
— Chi è che chiama le Sorelle di Ferro? —
chiese. — Pronunciate i vostri nomi.
Isabelle guardò in direzione di Jocelyn, che la
invitò con un gesto a parlare per prima. Lei si
schiarì la voce. — Sono Isabelle Lightwood e lei
è Jocelyn Fr… Fairchild. Siamo venute per
chiedere il vostro aiuto.
— Jocelyn Morgenstern — replicò la donna.
— Nata Fairchild, ma non è così semplice
eliminare la macchia di Valentine dal proprio
passato. Voi avete voltato le spalle al Conclave?
— È così — rispose Jocelyn. — Io ne sono
esclusa. Ma Isabelle è figlia del Conclave. Sua
madre…
— È a capo dell’Istituto di New York — disse
l’altra donna. — Siamo lontane, ma non prive
di fonti d’informazione. E poi non sono una
sciocca. Mi chiamo Sorella Cleophas, sono una
Artigiana. Plasmo l’adamas in modo che le
altre Sorelle possano inciderlo. Riconosco la
frusta che tieni avvolta attorno alla vita con
tanta astuzia — proseguì indicando Isabelle. —
Quanto al ninnolo che porti al collo…
— Visto che sai così tante cose — la
interruppe Jocelyn, mentre la mano di Isabelle
saliva lentamente sopra il ciondolo di rubino,
— sai anche perché siamo qui? Perché siamo
venute da te?
Le palpebre di Sorella Cleophas si
abbassarono e la donna fece un sorriso cauto.
— A differenza dei nostri Fratelli che non
parlano, noi qui alla Fortezza non sappiamo
leggere nella mente. Per questo ci basiamo su
una rete di informatori, in gran parte molto
affidabili. Presumo che la vostra visita abbia
qualcosa a che fare con la situazione di Jace
Ligthwood, dato che c’è sua sorella, e di tuo
figlio, Jonathan Morgenstern.
— Ci troviamo di fronte a un enigma — spiegò
Jocelyn. — Jonathan Morgenstern complotta
contro il Conclave, come suo padre, e il
Conclave ha emesso un mandato di morte
contro di lui. Ma Jace, Jonathan Lightwood, è
molto amato dalla sua famiglia, che non ha
fatto niente di male, e da mia figlia. L’enigma
sta nel fatto che Jace e Jonathan sono legati da
una magia di sangue molto antica.
— Magia di sangue? Che genere di magia di
sangue?
Jocelyn prese gli appunti di Magnus che
teneva piegati nella tasca della divisa e li passò
alla Sorella. Lei li analizzò con il suo sguardo
fiero e intenso. Isabelle fu sorpresa di notare
che Cleophas aveva le dita della mano molto
lunghe, ma non erano eleganti quanto
piuttosto grottesche, come se le ossa fossero
state allungate fino a rendere la mano simile a
un ragno albino. Le unghie erano appuntite e
ognuna terminava con dell’elettro.
Scosse la testa. — Le Sorelle hanno poco a che
fare con la magia di sangue. — Fu come se il
fuoco che aveva negli occhi divampasse e poi si
attenuasse. E un secondo dopo, un’altra ombra
apparve dietro la superficie di vetro opaco
della parete di adamas. Questa volta Isabelle
guardò più da vicino mentre una seconda
Sorella di Ferro si faceva avanti. Era come
osservare qualcuno che emergeva da una
nuvola di fumo bianco.
— Sorella Dolores — disse Cleophas,
passando gli appunti di Magnus alla nuova
arrivata. Assomigliava molto a Cleophas:
stessa figura alta e sottile, stesso abito bianco,
stessi capelli lunghi che però erano grigi e
raccolti in due trecce legate con filo dorato.
Malgrado la chioma color cenere, la pelle del
viso era priva di rughe e lo sguardo luminoso.
— Capisci qualcosa?
Dolores passò rapidamente in rassegna gli
appunti. — Un incantesimo di gemellaggio —
disse. — Molto simile alla nostra cerimonia di
parabatai, solo che la loro alleanza è
demoniaca.
— Cosa la rende tale? — domandò Isabelle. —
Se il legame fra parabatai è innocuo…
— Davvero? — disse Cleophas, ma Dolores le
lanciò uno sguardo per zittirla.
— Il rituale dei parabatai unisce due
individui ma lascia libere le loro volontà —
spiegò Dolores. — Anche questo li vincola, ma
rende uno subordinato all’altro. Ciò di cui è
convinto l’elemento primario, convincerà
anche il secondario; quello che desidera l’uno,
desidera
anche
l’altro.
Essenzialmente
rimuove il libero arbitrio del secondo partner,
ed è per questo che viene considerato
demoniaco. Perché è il libero arbitrio a
renderci creature celesti.
— Pare significhi anche che, quando uno dei
due viene ferito, anche l’altro subisce il colpo
— aggiunse Jocelyn. — Possiamo presumere
che la stessa cosa valga anche per la morte?
— Sì. Nessuno dei due sopravviverebbe alla
morte dell’altro. E pure questo non rientra nel
nostro rituale parabatai, perché sarebbe
troppo crudele.
— La domanda che vi poniamo è questa —
riprese Jocelyn. — È mai stata creata un’arma,
o potreste voi crearne una, in grado di ferire
soltanto uno dei due? O di dividerli?
Sorella Dolores abbassò lo sguardo sugli
appunti e poi li passò a Jocelyn. Le sue mani,
come quelle della compagna, erano lunghe e
sottili, bianche come lanugine. — Non esiste
arma da noi forgiata, o che mai potremmo
forgiare, in grado di fare una cosa del genere.
Isabelle serrò le mani lungo i fianchi, tanto
che le unghie le incisero i palmi. — State
dicendo che non esiste nulla?
— Nulla a questo mondo — spiegò Dolores. —
Una lama del Paradiso o dell’Inferno potrebbe
farcela. La spada dell’arcangelo Michele, con la
quale Giosuè combatté a Gerico, perché è
infusa di fuoco paradisiaco. E ci sono anche
lame forgiate nelle tenebre dell’Inferno che
potrebbero esservi d’aiuto, ma come ottenerle,
questo non lo so.
— E se anche lo sapessimo, la Legge ci
impedirebbe di dirvelo — aggiunse Cleophas
con fermezza. — Capirete, ovviamente, che
dovremo informare il Conclave di questa
vostra visita…
— Cosa mi dite della spada di Giosuè? — la
interruppe Isabelle. — Potete procurarvela? O
possiamo farlo noi?
— Soltanto un angelo potrebbe donarvela —
rispose Dolores. — E invocare un angelo
significa essere spazzati via dal fuoco del
Paradiso.
— Ma Raziel… — fece Isabelle.
Le labbra di Cleophas divennero una linea
sottile. — Raziel ci ha lasciato gli Strumenti
Mortali a cui ricorrere nei momenti di
disperato bisogno, ma quell’unica possibilità è
stata sprecata quando Valentine lo ha
invocato. Non saremo mai più in grado di
esigere di nuovo il suo aiuto. Usare gli
Strumenti a quel modo è stato un crimine.
L’unico motivo per cui Clarissa Morgenstern è
innocente è che fu suo padre a invocare
l’angelo, non lei.
— Mio marito ne evocò anche un altro —
disse Jocelyn. Parlava in tono calmo. —
L’angelo Ithuriel. Lo tenne imprigionato per
diversi anni.
Entrambe le Sorelle esitarono prima che
Dolores prendesse la parola. — Intrappolare
un angelo è il più lugubre dei crimini — disse.
— Il Conclave non darebbe mai la sua
approvazione. Anche se riusciste a evocarne
uno, non potreste mai convincerlo a soddisfare
la vostra richiesta. Non esiste un incantesimo
per farlo. Non potreste mai convincere l’angelo
a darvi la spada dell’arcangelo: potete
prendergliela con la forza, ma non esiste
crimine peggiore. Meglio che muoia il vostro
Jonathan, piuttosto che vedere un angelo
infangato a quel modo.
A quelle parole Isabelle, che nel frattempo
aveva incominciato a infervorarsi, esplose. — È
questo il problema, con voi. Con tutti voi,
Sorelle di Ferro e Fratelli Silenti. Qualsiasi
cosa abbiano fatto per trasformarvi da
Shadowhunter in quello che siete, be’, vi ha
strappato via ogni sentimento. Saremo in parte
angeli, è vero, ma siamo anche in parte umani.
Voi non capite l’amore, né le cose che ci spinge
a fare, e neppure la famiglia…
Le fiamme si accesero negli occhi arancio di
Dolores. — Io avevo una famiglia — disse. —
Un marito e dei figli, tutti uccisi dai demoni.
Non mi era rimasto niente. Ero sempre stata
brava a costruire oggetti, perciò sono diventata
una Sorella di Ferro. In questo modo ho
trovato una pace che credo non avrei trovato
da nessun’altra parte. Ed è per questo motivo
che ho scelto il nome Dolores, perché contiene
il significato di dolore. Perciò non venirci a
dire cosa sappiamo o non sappiamo sulla
sofferenza o sull’essere umani.
— Voi non sapete niente — ribatté Isabelle. —
Siete dure come la pietra demoniaca. Non c’è
da stupirsi che la usiate per circondarvi.
— Il fuoco tempra l’oro, Isabelle Lightwood —
disse Cleophas.
— Oh, piantala — fece lei. — Non siete state di
nessun aiuto, né l’una né l’altra.
Girò sui tacchi e tornò verso il ponte,
guardando appena i punti in cui i coltelli
rendevano il sentiero una trappola mortale e
lasciando che fosse l’allenamento a guidarla
d’istinto. Raggiunse l’altra sponda e varcò il
cancello; solo quando uscì fuori, crollò. In
ginocchio sul muschio e le rocce vulcaniche,
sotto l’immenso cielo grigio, si lasciò andare a
un fremito silenzioso, ma senza lacrime.
Le sembrarono passati secoli quando sentì
accanto a sé dei passi leggeri. Jocelyn si
inginocchiò per metterle un braccio attorno
alle spalle. Isabelle fu sorpresa di notare che il
suo gesto non la infastidiva. Sebbene la madre
di Clary non le fosse mai piaciuta, nel suo
tocco c’era qualcosa di così universalmente
materno da spingerla ad abbandonarsi a esso,
quasi contro la propria volontà.
— Vuoi sapere che cosa hanno detto, dopo
che te ne sei andata? — le chiese una volta che
ebbe cessato di tremare.
— Scommetto qualcosa su come io sia una
disgrazia per tutti gli Shadowhunters del
mondo eccetera.
— A dire il vero, Cleophas ha detto che saresti
un’ottima Sorella di Ferro, e di avvisarla, nel
caso fossi interessata — disse Jocelyn
accarezzandole lievemente la testa.
Malgrado tutto, Isabelle dovette soffocare
una risata. Alzò gli occhi su Jocelyn. —
Dimmelo.
La mano dell’altra donna si fermò. — Dirti
cosa?
— Chi era. Chi era la persona con cui mio
padre ha avuto una relazione. Tu non capisci:
ogni volta che vedo una donna dell’età di mia
madre, mi chiedo se è lei. La sorella di Luke. Il
Console. Tu…
Jocelyn emise un sospiro. — Annamarie
Highsmith. È morta nell’attacco di Valentine
ad Alicante. Dubito che tu l’abbia mai
incontrata.
Isabelle rimase un istante a bocca aperta, poi
la chiuse di nuovo. — Non ho mai nemmeno
sentito il suo nome.
— Bene. — Jocelyn si sporse per sistemarle
una ciocca di capelli all’indietro. — Ti senti un
po’ meglio, ora che lo sai?
— Certo — mentì Isabelle, tenendo lo sguardo
fisso in basso. — Mi sento molto meglio.
Dopo pranzo Clary era tornata nella camera
al piano di sotto adducendo la scusa di essere
esausta. Una volta richiusa la porta alle sue
spalle, aveva riprovato a mettersi in contatto
con Simon. In realtà si rendeva conto che, data
la differenza di fuso orario tra New York e
Venezia, città in cui si trovava in quel
momento, lui stava sicuramente dormendo. O
almeno era quello che sperava. Molto meglio
pensare a quell’ipotesi rispetto alla possibilità
che gli anelli non funzionassero…
Era in camera soltanto da una mezz’ora circa,
quando sentì bussare alla porta. Disse “avanti”
appoggiandosi all’indietro sulle mani e
piegando le dita, come se potesse servire a
nascondere l’anello.
La porta si aprì lentamente. Sulla soglia, a
guardarla c’era Jace. Le tornò alla mente
un’altra notte, la calura estiva e un colpo alla
porta. Era Jace. Ripulito, in jeans e maglietta
grigia, i capelli lavati a formare un’aureola
umida e dorata. I lividi sul volto stavano già
passando dal viola al grigio chiaro. Aveva le
mani dietro la schiena.
— Ehi — disse. Ora aveva le mani bene in
vista e indossava un maglione color bronzo,
dall’aria soffice, che gli metteva in risalto l’oro
negli occhi. Sul viso non c’erano lividi, e anche
le occhiaie alle quali Clary ormai si era quasi
abituata erano sparite.
È felice così? Davvero felice? E se lo è, da
cosa lo state proteggendo?
Clary mise a tacere la vocina che sentiva in
testa e si sforzò di sorridere. — Come va?
Anche lui sorrise. Il suo era un sorriso
malizioso, di quelli che le facevano scorrere il
sangue più in fretta nelle vene. — Mi concedi
un appuntamento?
Presa alla sprovvista, Clary balbettò. — Un ccosa?
— Un appuntamento — ripeté Jace. — Quella
cosa che si prende spesso con i dentisti.
Soltanto che in questo caso sarà una serata di
romanticismo
al
fulmicotone
con
il
sottoscritto.
— Oh davvero? — Clary non sapeva bene
come reagire. — Al fulmicotone?
— Eh be’, stiamo parlando del sottoscritto —
fece Jace. — Guardarmi mentre gioco a
Scarabeo è già abbastanza per far sospirare
molte fanciulle. Tu pensa se io volessi anche
metterci dell’impegno.
Clary si mise a sedere dritta e si diede
un’occhiata. Jeans e maglietta di seta verde.
Pensò ai cosmetici che c’erano in quella strana
stanza simile a un reliquiario. Non poteva
farne a meno: avrebbe voluto un pochino di
lucidalabbra.
Jace le porse una mano. — Sei stupenda — le
disse. — Andiamo.
Gli prese la mano e lasciò che la aiutasse ad
alzarsi. — Non so…
— Dai. — La voce di Jace aveva quel tono
autoironico e seducente che Clary ricordava
dai tempi in cui avevano cominciato a
conoscersi, da quella volta in cui l’aveva
portata nella serra per mostrarle i fiori che
sbocciavano a mezzanotte. — Siamo in Italia, a
Venezia, una delle città più belle del mondo.
Peccato non vederla, non credi?
Jace la tirò a di sé e lei gli cadde contro il
petto. Il tessuto della camicia era setoso sotto
le dita; il profumo del sapone e dello shampoo
quello di sempre. Clary ebbe un tuffo al cuore.
— Oppure potremmo restarcene qui — propose
lui, con un po’ di affanno nella voce.
— Così posso svenire guardandoti scrivere
una parola lunghissima a Scarabeo? — Fece
uno sforzo per staccarsi da lui. — E
risparmiami le battute sulla lunghezza, per
favore.
— Accidenti, donna, tu mi leggi nel pensiero
— fece lui. — Ma esiste una battuta sporca che
non riesci a prevedere?
— Sono i miei speciali poteri magici. Riesco a
leggerti nel pensiero ogni volta che pensi al
sesso.
— Quindi per il novantacinque per cento del
tempo.
Clary inclinò all’indietro la testa per
osservarlo. — Novantacinque? E l’altro cinque?
— Oh, sai, le solite cose… Demoni che potrei
uccidere, gente che mi ha dato fastidio tempo
fa, anatre.
— Anatre?
Lui liquidò la domanda con un gesto della
mano. — Esatto. Ora stai a guardare. — Le
prese le spalle e la voltò con delicatezza, di
modo che entrambi guardassero nella stessa
direzione. Un secondo dopo, Clary non capì
bene in che modo, fu come se le pareti della
stanza si sciogliessero attorno a loro,
lasciandoli in piedi su un selciato. Rimase
senza fiato e si girò per guardare dietro di sé,
ma vide soltanto la facciata di un antico
edificio in pietra con delle grandi finestre in
alto. File di palazzi dello stesso genere si
affacciavano sul canale accanto al quale si
trovavano. Se piegava la testa a sinistra,
vedeva, in lontananza, che il canale sfociava in
un corso d’acqua molto più largo, profilato da
edifici maestosi. Ovunque regnava l’odore
dell’acqua e della pietra.
— Fico, eh? — disse Jace con orgoglio.
Lei si voltò a guardarlo. — Anatre? — chiese
di nuovo.
L’angolo della bocca di lui si sollevò in un
sorriso. — Odio le anatre. Non so perché, ma le
ho sempre odiate.
Era mattino presto, quando Maia e Jordan
arrivarono alla Praetor House, il quartier
generale del Praetor Lupus. Il furgone cigolò e
sobbalzò sul lungo sentiero bianco che tagliava
i prati curati alla perfezione e giungeva fino
all’enorme villa che si ergeva come la prua di
una nave in lontananza. Dietro Maia
intravedeva file di alberi e, ancora più in là, le
acque azzurre di un braccio di mare.
— È qui che si svolgeva la vostra
preparazione? — chiese la ragazza. — Questo
posto è magnifico!
— Non lasciarti ingannare — le disse Jordan
con un sorriso. — È un campo di
addestramento, e che addestramento!
Lei lo guardò di sottecchi. Jordan continuava
a sorridere. Lo faceva praticamente senza sosta
da quando all’alba lei lo aveva baciato sulla
spiaggia. Parte di lei si sentiva come se una
mano l’avesse sollevata e riportata indietro nel
passato, quando amava Jordan oltre ogni cosa
immaginabile, mentre un’altra parte era
completamente sconvolta, come se si fosse
svegliata in un paesaggio del tutto ignoto,
lontana dal conforto della vita quotidiana e dal
calore del branco.
Era una sensazione molto strana. Non
spiacevole, pensò. Soltanto… strana. Jordan si
fermò su uno spiazzo rotondo davanti alla
villa; osservando l’edificio da vicino, Maia notò
che era fatto di blocchi di pietra dorata color
bruno fulvo, quello della pelliccia dei lupi. Un
portone a due battenti, nero, si stagliava in
cima a una massiccia scalinata in pietra. Il
centro dello spiazzo era dominato da una
grande meridiana, il cui quadrante in rilievo
diceva che erano le sette del mattino. Attorno
al bordo c’era incisa una scritta: SEGNO SOLO
LE ORE LIETE.
Maia aprì la portiera e scese dal furgone,
proprio mentre le porte della villa si aprivano e
una voce chiamava: — Praetor Kyle!
Sia Jordan che Maia alzarono lo sguardo. A
scendere le scale era un uomo di mezza età,
con un abito color carbone e i capelli biondi
striati di grigio. Jordan, cancellando dal viso
qualsiasi espressione, lo salutò. — Praetor
Scott, lei è Maia Roberts, del branco di
Garroway. Maia, questo è Praetor Scott. Si può
dire che sia lui il capo del Praetor Lupus.
— È dall’Ottocento che gli Scott governano
l’ordine — spiegò l’uomo lanciando uno
sguardo a Maia, la quale inchinò la testa in
segno di riverenza. — Jordan, devo ammettere
che non ci aspettavamo di rivederti tanto
presto. La faccenda del vampiro di Manhattan,
il Diurno…
— È sotto controllo — tagliò corto Jordan. —
Non è quello il motivo per cui siamo qui. Il
problema è tutt’altro…
Praetor Scott sollevò un sopracciglio. — Così
però mi incuriosisci…
— Si tratta di una questione urgente —
intervenne Maia. — Luke Garroway, il nostro
capobranco…
Praetor Scott le lanciò un’occhiata tagliente
per zittirla. Anche se non aveva un branco,
quell’uomo era un maschio alfa, lo si capiva
dall’atteggiamento. Gli occhi, sotto quelle
sopracciglia folte, erano verde-grigio; attorno
alla gola, sotto il colletto della camicia, brillava
il ciondolo di bronzo del Praetor con sopra
l’orma di un lupo. — È il Praetor a decidere
quali argomenti sono da considerare urgenti —
affermò. — E poi noi non siamo un albergo,
aperto agli ospiti senza invito. Jordan ha corso
un rischio a portarti qui, e ne è consapevole. Se
non fosse uno dei nostri diplomati più
promettenti, potrei anche mandarvi via
entrambi.
Jordan si infilò i pollici nella cintura dei jeans
e guardò a terra. Un istante dopo Praetor Scott
gli mise una mano sulla spalla.
— Sta di fatto, a ogni modo — riprese, — che
sei uno dei nostri diplomati più promettenti. E
hai l’aria esausta; si vede che sei stato sveglio
tutta la notte. Vieni, andiamo a parlare nel mio
ufficio.
L’ufficio doveva essere in fondo a un lungo e
tortuoso corridoio rivestito di legno scuro. La
villa risuonava di voci e, accanto a una scala
che portava al piano superiore, c’era un
cartello con un elenco di regole da rispettare.
REGOLE DELLA CASA
Vietato compiere metamorfosi nei corridoi.
Vietato ululare.
Vietato introdurre argento nell’edificio.
I vestiti vanno indossati sempre. SEMPRE.
Vietato lottare e/o mordere.
Scrivere il proprio nome sul cibo prima di
metterlo nel frigorifero comune.
Nell’aria si diffuse il profumo della colazione,
e a Maia brontolò lo stomaco. Praetor Scott
sembrò divertito. — Vi faccio preparare
qualcosa da mangiare, se avete fame.
— Grazie — mormorò Maia. Erano arrivati in
fondo al corridoio e Praetor Scott aprì una
porta contrassegnata dalla targhetta con la
scritta UFFICIO.
Le sopracciglia del lupo mannaro si
aggrottarono. — Rufus — disse. — Che ci fai tu
qui?
Maia sbirciò dentro la stanza. Era spaziosa e
disordinata, ma in maniera piacevole. C’era
una finestra panoramica rettangolare che dava
su vasti prati sui quali erano assembrati gruppi
di persone, per lo più giovani, alle prese con
quelle che sembravano esercitazioni militari;
indossavano pantaloni da ginnastica neri e
magliette dello stesso colore. Le pareti della
stanza erano piene di libri sulla licantropia,
molti dei quali in latino, ma Maia non ebbe
difficoltà a riconoscere la parola lupus. La
scrivania consisteva in una lastra di marmo
appoggiata sopra le statue di due lupi che
ringhiavano.
Davanti c’erano due sedie. Su una era seduto
un uomo corpulento, anzi un lupo mannaro
corpulento, con le spalle curve in avanti e le
mani giunte. — Praetor — disse con voce
gracchiante, — vorrei discutere con lei
dell’episodio di Boston.
— Ti riferisci al fatto di aver rotto la gamba al
tuo assistito? — domandò il Praetor in tono
asciutto. — Ne parleremo, Rufus, ma non in
questo momento. Qualcosa di più urgente mi
chiama.
— Ma, Praetor…
— Non ho altro da aggiungere, Rufus — ribadì
Scott col tono squillante di un maschio alfa i
cui ordini non possono essere messi in
discussione. — Ricordati che questo è un luogo
di riabilitazione, cosa che comporta anche
l’apprendere il rispetto dell’autorità.
Brontolando sottovoce, Rufus si alzò dalla
sedia. Soltanto quando fu in piedi, Maia si rese
davvero conto di quanto fosse enorme la sua
taglia. Troneggiava sia su di lei sia su Jordan,
la maglietta nera gli tirava sul petto e le
maniche per poco non esplodevano attorno ai
bicipiti. Aveva la testa rasata quasi a zero e una
guancia segnata da graffi profondi come solchi
arati nel terreno. Le lanciò un’occhiata
minacciosa mentre li scansava per uscire in
corridoio.
— Va da sé che alcuni di noi — mormorò
Jordan — siano più semplici da riabilitare di
altri.
Mentre il suono del passo pesante di Rufus si
smorzava lungo il corridoio, Scott si sedette
sulla poltrona girevole dietro la scrivania e
premette il pulsante di un interfono dall’aria
sorprendentemente moderna. Dopo aver
richiesto la colazione con fare conciso, si
appoggiò all’indietro, tenendo le mani
allacciate dietro la testa.
— Sono tutto orecchi — disse.
Mentre Jordan raccontava i fatti e avanzava
la loro richiesta a Praetor Scott, Maia non era
in grado di tenere a freno né lo sguardo né la
mente. Si chiese come sarebbe stato crescere
in quel posto, in quell’elegante casa con regole
e divieti, anziché con la libertà, a confronto
sfrenata, del branco. A un certo punto, un lupo
mannaro vestito di nero (che a quanto pareva
era il colore regolamentare del Praetor Lupus)
entrò nell’ufficio portando un vassoio di peltro
con arrosti, formaggi e bevande iperproteiche.
Maia guardò il tutto con un certo sconforto:
sapeva che ai lupi mannari servivano più
proteine rispetto alla gente normale, anzi
molte di più, ma… arrosto a colazione?
— Ti accorgerai — le disse Praetor Scott
mentre lei sorseggiava con cautela un
beverone iperproteico — che lo zucchero
raffinato è nocivo per i lupi mannari. Se smetti
di assumerlo per un certo periodo di tempo,
smetterai anche di desiderarlo. Il tuo
capobranco te lo ha mai detto?
Maia cercò di immaginarsi Luke, il quale
adorava cucinare frittelle di forme strane e
divertenti, mentre le dava lezioni sullo
zucchero, ma senza successo.
— Capisco la preoccupazione per il tuo
capobranco — disse Scott. Sul polso gli brillava
un Rolex d’oro. — Di norma, osserviamo una
rigida politica di non ingerenza negli affari che
non riguardino i nuovi Nascosti. In realtà, non
diamo la priorità neppure ai lupi mannari
rispetto ad altri Nascosti, benché solo i
licantropi siano ammessi al Praetor.
— Ma è proprio questo il motivo per cui ci
serve il vostro aiuto — disse Jordan. — I
branchi sono, per loro natura, sempre in
movimento,
itineranti.
Non
hanno
l’opportunità di costruire cose come
biblioteche in cui depositare la loro
conoscenza. Con questo non sto dicendo che
non siano colti, ma che tutto si basa sulla
tradizione orale, e che ogni branco sa qualcosa
di diverso. Potremmo visitarne uno dopo
l’altro, e magari qualcuno saprebbe come
curare Luke, ma non abbiamo tempo. Qui —
disse indicando i libri lungo le pareti — c’è
quanto di più simile esista, in un certo senso,
agli archivi dei Fratelli Silenti o al Labirinto a
spirale degli stregoni.
Scott non sembrava convinto. Maia mise giù
la sua bevanda proteica. — E poi Luke non è
un capobranco qualsiasi — disse. — È il
rappresentante licantropo del Consiglio. Se voi
ci aiutate a curarlo, il Praetor avrebbe una voce
in Consiglio a suo favore.
Un barlume si accese nello sguardo di Scott.
— Interessante — disse. — Molto bene. Darò
un’occhiata ai miei manuali, è probabile che ci
vorrà qualche ora. Jordan, se devi guidare fino
a Manhattan, ti consiglio di riposare. Non c’è
bisogno che finisci col furgone contro un
albero.
— Potrei guidare io… — tentò Maia.
— Anche tu sembri altrettanto stanca.
Jordan, come sai, per te ci sarà sempre una
stanza qui alla Praetor House, anche se ti sei
già diplomato. E Nick è fuori per una missione,
quindi c’è un letto anche per Maia. Perché non
andate a riposarvi? Vi chiamo quando ho
finito. — Ruotò la poltrona e si mise a
esaminare i libri alle pareti.
Jordan fece segno a Maia che era il momento
di andare, e lei si alzò in piedi, ripulendosi i
jeans dalle briciole. Era a metà strada verso la
porta, quando Praetor Scott parlò di nuovo.
— Ah, e tu, Maia Roberts — disse con un
velato tono di avvertimento. — Spero saprai
che, quando si fanno promesse a nome d’altri,
poi è compito nostro assicurarci che loro le
mantengano.
Simon si svegliò sentendosi ancora esausto,
battendo le palpebre nell’oscurità. Le spesse
tende nere davanti alle finestre lasciavano
passare ben poca luce, ma il suo orologio
interiore gli diceva che era giorno. E anche che
Isabelle se n’era andata, lasciando la sua metà
di letto sottosopra, con le coperte buttate
all’indietro.
Era giorno e non aveva ancora parlato con
Clary, da quando lei era partita. Estrasse una
mano da sotto le coperte e si guardò l’anello
d’oro alla mano destra. Di foggia raffinata, era
bordato da disegni o parole di un alfabeto che
non conosceva.
Serrando la mandibola, si mise a sedere e lo
toccò. Clary?
La risposta fu chiara e immediata. Dal
sollievo, per poco non cadde giù dal letto.
Simon. Grazie a Dio.
Puoi parlare?
No. Percepì, più che sentì, un senso di
turbamento nella voce mentale di Clary. Sono
felice che mi hai cercato, ma adesso non è il
momento. Non sono sola.
Ma stai bene?
Sì. Non è ancora successo niente. Sto
cercando
di
raccogliere
informazioni.
Prometto che appena so qualcosa ti faccio
sapere.
Okay. Stai attenta.
Anche tu.
E fu così che la voce di Clary sparì. Lasciando
scivolare le gambe oltre il bordo del materasso,
Simon fece del suo meglio per appiattirsi i
capelli arruffati dal sonno e andò a vedere se
qualcun altro era sveglio.
Sì. Alec, Magnus, Jocelyn e Isabelle erano
tutti seduti attorno al tavolo del salotto. Alec e
lo stregone indossavano dei jeans, mentre le
due donne erano in divisa, Isabelle con la
frusta avvolta intorno al braccio destro. Alzò
gli occhi quando lui entrò nella stanza, ma non
sorrise. Aveva le spalle tese, la bocca stretta in
una linea sottile. Tutti avevano davanti una
tazza di caffè.
— C’è un motivo per cui il rituale degli
Strumenti Mortali è così complicato. —
Magnus fece volare la zuccheriera verso di sé e
lasciò cadere un po’ di polvere bianca dentro la
tazza. — Gli Angeli agiscono per ordine di Dio,
non degli esseri umani. E nemmeno degli
Shadowhunters. Evocane uno, ed è probabile
che ti ritroverai addosso la collera divina. Il
senso degli Strumenti Mortali non sta nel
permettere a qualcuno di evocare Raziel, ma
nel proteggere l’evocatore dalla sua ira, una
volta che lui sia effettivamente comparso.
— Valentine — disse Alec.
— Sì, Valentine ha anche evocato un angelo
minore, che però non gli ha mai rivolto la
parola, giusto? Non gli ha mai dato un briciolo
di aiuto, benché lui abbia raccolto il suo
sangue. E deve aver utilizzato incantesimi di
potenza inaudita anche solo per legarlo.
Secondo me ha vincolato la sua vita alla tenuta
di Wayland, così, quando l’angelo è morto, la
tenuta è finita in macerie. — Tamburellò sulla
tazza con una delle sue unghie laccate di
azzurro. — E si è dannato. Che si creda o no a
Inferno e Paradiso, è certo che si è dannato.
Quando ha evocato Raziel, lui lo ha
annientato, in parte come vendetta per quello
che aveva fatto al suo fratello angelo.
— Perché stiamo parlando di evocare gli
angeli? — chiese Simon, mettendosi a sedere a
una estremità del lungo tavolo.
— Isabelle e Jocelyn sono andate a consultare
le Sorelle di Ferro — spiegò Alec — per
chiedere se esiste un’arma da usare contro
Sebastian senza nuocere a Jace.
— E non c’è?
— Niente che esista a questo mondo — spiegò
Isabelle. — Potrebbe farlo un’arma del
Paradiso, o qualcosa legato a una seria
alleanza demoniaca. Stavamo analizzando la
prima opzione.
— Evocare un angelo per farvi dare un’arma?
— È già capitato — intervenne Magnus. —
Raziel diede la Spada Mortale a Jonathan
Shadowhunter. Nelle antiche leggende, la
notte prima della battaglia di Gerico, un
angelo comparve per dare a Giosuè una spada.
— Uh! — esclamò Simon. — Avrei pensato che
gli angeli fossero per la pace, non per le armi.
Magnus fece una smorfia. — Gli angeli non
sono soltanto semplici intermediari. Sono
soldati. Si dice che Michele abbia guidato degli
eserciti. E poi non sono tipi pazienti, di certo
non con le faccende degli esseri umani.
Chiunque abbia cercato di evocare Raziel
senza la protezione degli Strumenti Mortali è
stato fulminato all’istante. Evocare i demoni è
facile. Ce ne sono tanti, e molti di loro sono
deboli. Ma un demone debole può essere
d’aiuto solo se…
— Non possiamo evocare un demone — disse
Jocelyn, spaventata. — Il Conclave…
— Pensavo che il parere del Conclave avesse
smesso di importarti già anni fa — osservò
Magnus.
— Non si tratta soltanto di me — rispose
Jocelyn. — Ma di tutti voi. Di Luke. Di mia
figlia. Se il Conclave sapesse…
— Be’, non lo saprà, giusto? — intervenne
Alec con una punta di irruenza nella voce,
normalmente gentile. — A meno che tu non
vada a dirglielo.
Jocelyn guardò prima il viso immobile di
Isabelle, poi quello inquisitore di Magnus,
infine gli ostinati occhi azzurri di Alec. — Ci
state davvero pensando? Evocare un demone?
— Non un demone qualsiasi — disse Magnus.
— Azazel.
Lo sguardo di Jocelyn divampò. — Azazel? —
Con lo sguardo scrutò i volti degli altri, come
in cerca di appoggio, ma Izzy e Alec
abbassarono gli occhi sulle rispettive tazze e
Simon si limitò a un’alzata di spalle.
— Non so chi sia Azazel — disse il ragazzo. —
Non è uno dei personaggi di Batman? — Si
guardò attorno, ma Isabelle si limitò a
sollevare gli occhi al cielo, spazientita.
Clary? pensò Simon.
La voce di lei giunse carica di angoscia. Cosa?
Cos’è successo? Mia madre ha scoperto che
me ne sono andata?
Non ancora, rispose col pensiero Simon.
Azazel è o non è un personaggio di Batman?
Seguì una lunga pausa. Lo è, Simon. Bravo.
Ma non mi pare il caso di usare gli anelli
magici per fare domande del genere!
E con quelle parole sparì. Simon alzò lo
sguardo dalla propria mano e si accorse che
Magnus lo stava guardando con aria
interrogativa. — Avranno anche lo stesso
nome, Robin — gli disse lo stregone, — ma io
mi riferisco a un Demone Superiore.
Luogotenente dell’Inferno e Forgiatore d’Armi.
Era un angelo che insegnò all’umanità a
produrre armi quando questa era una
competenza che solo gli angeli possedevano.
Per questo motivo cadde e ora è un demone.
“Tutta la terra è stata corrotta dagli
insegnamenti di Azazel e ogni peccato va
attribuito a lui”.
Alec guardò Magnus con un’espressione
sbalordita. — Come fai a sapere queste cose?
— È un mio amico — rispose l’altro. Notando
le loro facce, fece un sospiro. — Okay, non
proprio. È una frase contenuta nel cosiddetto
Libro di Enoch.
— Sembra pericoloso — fece Alec corrugando
la fronte. — Mi immagino qualcuno ancora più
potente di un Demone Superiore… come Lilith.
— Per fortuna è già legato — lo rassicurò
Magnus. — Se lo si evoca, lo spirito arriva, ma
il corpo rimane legato alle rocce frastagliate di
Duduael.
— Le rocce frastagliate di… oh, chi se ne
importa — disse Isabelle avvolgendosi i lunghi
capelli neri in uno chignon. — È il demone
delle armi. Punto. Io dico di fare un tentativo.
— Non posso credere che ci stiate anche solo
pensando — intervenne Jocelyn. — Ho
imparato da mio marito cosa può succedere
quando ci si diletta a evocare demoni. Clary…
— A quel punto si interruppe, come se avesse
sentito su di sé lo sguardo di Simon, e si voltò.
— Simon — gli disse. — Sai se Clary è già
sveglia? L’abbiamo lasciata dormire, ma sono
quasi le undici.
Simon esitò. — Non lo so — Ed era vero.
Ovunque fosse, poteva anche essersi
addormentata. Benché le avesse appena
parlato.
Jocelyn sembrava perplessa. — Ma non eri in
camera con lei?
— No, io ero… — Simon si interruppe,
rendendosi conto del pasticcio in cui si era
cacciato. C’erano tre camere da letto libere.
Jocelyn in una, Clary in un’altra. Il che
significava che lui doveva aver dormito nella
terza stanza con…
— Isabelle? — disse Alec sollevando le
sopracciglia. — Hai dormito in camera di
Isabelle?
Lei sventolò la mano. — Non c’è da
preoccuparsi, fratellone. Non è successo
niente. Ovvio — disse, mentre le spalle del
fratello si rilassavano. — Ero ubriaca fradicia,
praticamente collassata. Avrebbe potuto fare
quello che voleva e io non me ne sarei accorta.
— Oh, per favore — disse Simon. — Ti ho solo
raccontato tutta la trama di Guerre Stellari.
— Non credo di ricordarlo — ribatté Isabelle,
prendendo un biscotto dal piatto sul tavolo.
— Ah, davvero? E chi era il migliore amico
d’infanzia di Luke Skywalker?
—
Biggs
Darklighter
—
rispose
immediatamente Isabelle, poi colpì il tavolo
con un palmo della mano. — Così però non
vale! — esclamò, circondando il biscotto che
aveva in bocca con un sorriso.
— Ah! — sospirò Magnus. — Amore tra nerd.
È una cosa bellissima, nonché oggetto di
scherno e ilarità da parte di chi fra noi ha gusti
più sofisticati.
— D’accordo, adesso basta — dichiarò Jocelyn
alzandosi in piedi. — Vado a prendere Clary.
Se avete intenzione di evocare un demone, io
non voglio esserci, e non voglio nemmeno che
ci sia mia figlia. — Si diresse verso l’entrata,
ma Simon le bloccò la strada.
— Non puoi farlo — le disse.
Jocelyn lo guardò con aria risoluta. — Lo so,
Simon, che stai per dire che questo è per noi il
posto più sicuro dove stare. Ma se volete
evocare un demone, io…
— Non è quello — Simon fece un respiro
profondo, che però non gli fu di alcun aiuto,
dato che il suo sangue non elaborava più
l’ossigeno. Provò un leggero senso di nausea.
— Non puoi andare a svegliarla perché…
Perché lei non c’è.
capitolo 10
LA CACCIA SELVAGGIA
La vecchia stanza di Jordan alla Praetor
House aveva l’aspetto di un dormitorio
qualsiasi di un college qualsiasi. C’erano due
letti di ferro, appoggiati a due pareti opposte.
Dalla finestra che le separava si vedevano, tre
piani più sotto, dei prati verdi. Il lato della
camera destinato a Jordan era piuttosto
spoglio; a quanto pareva si era portato quasi
tutti i libri e le fotografie a Manhattan, però ai
muri restavano appese immagini di spiagge e
oceani, nonché una tavola da surf. Maia si
sentì percorrere da un fremito quando vide che
sul comodino c’era una loro foto, dentro una
cornice dorata, scattata a Ocean City sullo
sfondo del lungomare e della spiaggia.
Jordan guardò prima la fotografia e poi Maia,
arrossendo. Lasciò scivolare la borsa sul letto e
si tolse la giacca, dando le spalle alla ragazza.
— Quando tornerà il tuo compagno di stanza?
— chiese Maia per interrompere un silenzio
fattosi all’improvviso imbarazzante. Non
sapeva perché fossero entrambi a disagio. Di
sicuro prima, nel furgone, non lo erano stati,
ma adesso che si trovavano in camera di
Jordan era come se gli anni trascorsi senza
parlare li stessero spingendo via l’uno
dall’altra.
— Chi lo sa? Nick è in missione. Una faccenda
pericolosa, potrebbe non tornare. — Jordan
sembrava rassegnato, riguardo a questo. Buttò
la giacca sullo schienale della sedia. — Perché
non ti sdrai un po’? Io faccio una doccia. — Si
diresse verso il bagno, e Maia fu sollevata nel
vedere che era comunicante con la camera.
Non se la sentiva di affrontare uno di quei
bagni comuni in fondo al corridoio.
— Jordan… — fece per dire, ma lui si era già
chiuso la porta alle spalle. Maia sentì scorrere
l’acqua. Con un sospiro, si tolse le scarpe e si
sdraiò sul letto libero di Nick. La coperta era
un plaid blu scuro e profumava di pigna.
Quando alzò lo sguardo, si accorse che il
soffitto era tappezzato di foto. Lo stesso
ragazzo biondo, diciassette anni su per giù, le
sorrideva da ogni scatto. Nick, con ogni
probabilità. Aveva l’aria felice. Anche Jordan
lo era stato, lì alla Praetor House?
Allungò un braccio per girare verso di sé la
fotografia di loro due insieme. Era stata
scattata parecchi anni prima, quando Jordan
era ancora pelle e ossa, con dei grandi occhi
nocciola che gli dominavano tutto il viso.
Avevano le braccia l’uno attorno all’altra, la
pelle scottata e lo sguardo felice. Il sole aveva
scurito il colorito di entrambi, e Jordan teneva
la testa leggermente inclinata verso di lei,
come se fosse sul punto di dirle qualcosa o di
baciarla. Maia non se lo ricordava. Non più.
Pensò al ragazzo al quale apparteneva il letto
su cui ora era seduta, al ragazzo che forse non
sarebbe più tornato. Pensò anche a Luke, che
moriva lentamente, e ad Alaric, a Gretel,
Justine, Theo e tutti gli altri membri del
branco che avevano perso la vita nella guerra
contro Valentine. Pensò a Max e a Jace, due
Lightwood perduti: sì, perché doveva
ammettere che, dentro di sé, non pensava che
sarebbero riusciti a salvare Jace. Infine,
stranamente, pensò a Daniel, il fratello che
non aveva mai rimpianto. E fu sorpresa di
sentire delle lacrime pungerle in fondo agli
occhi.
Si mise a sedere di colpo, con la sensazione
che il mondo si stesse inclinando e che lei
stesse tentando invano di aggrapparsi per non
precipitare dentro un abisso. Sentiva il buio
chiudersi sopra la sua testa. Con Jace in quella
situazione e Sebastian ancora vivo, le cose non
potevano che peggiorare. Ci sarebbero state
soltanto altre morti e altre perdite. Doveva
ammetterlo: da settimane, ormai, il momento
in cui si era sentita più viva era stato quando
aveva baciato Jordan sul furgone.
Come in un sogno, si ritrovò in piedi.
Attraversò la stanza e aprì la porta del bagno.
La doccia era un parallelepipedo di vetro
opaco, attraverso il quale intravedeva la
sagoma di Jordan. Dubitava che lui riuscisse a
sentirla, vista l’acqua scrosciante, mentre si
toglieva il maglione e sgusciava fuori prima dai
jeans e poi dalla biancheria intima. Con un
respiro profondo si avvicinò alla doccia, fece
scorrere la porta ed entrò.
Jordan si voltò subito, scostandosi i capelli
bagnati dagli occhi. L’acqua della doccia era
calda; aveva le guance arrossate e gli occhi gli
brillavano come se l’acqua li avesse lucidati. O
forse non era soltanto l’acqua a fargli affluire il
sangue alla pelle quando, con lo sguardo, si
accorse della presenza di Maia. Di tutta la sua
presenza. Lei ricambiò con occhi decisi, privi
di imbarazzo, che indugiarono su come il
ciondolo del Praetor Lupus gli luccicava
nell’incavo bagnato del collo e su come la
schiuma del sapone gli scivolava su petto e
spalle mentre lui la fissava, battendo le
palpebre per liberarsi dagli schizzi d’acqua.
Era bellissimo, ma d’altronde non aveva mai
pensato diversamente.
— Maia? — le disse, titubante. — Sei…?
— Ssst — lei gli mise un dito sulle labbra,
chiudendo con l’altra mano la porta della
doccia. Poi gli si avvicinò, avvolgendolo con
entrambe le braccia, lasciando che l’acqua
ripulisse entrambi dal buio. — Non parlare.
Baciami e basta.
E lui lo fece.
— In nome dell’Angelo, cosa significa che
Clary non c’è? — chiese Jocelyn, bianca in
volto. — Come fai a saperlo, se ti sei appena
svegliato? E dove è andata?
Simon deglutì. Era cresciuto considerando
Jocelyn quasi una seconda madre. Era
abituato al suo atteggiamento protettivo verso
la figlia, anche se lei lo aveva sempre
considerato un alleato, da quel punto di vista,
una figura capace di interporsi fra Clary e i
pericoli del mondo. — Mi ha mandato un
messaggio ieri sera… — esordì, ma si
interruppe quando Magnus gli fece segno di
avvicinarsi al tavolo.
— Tanto vale che ti siedi — gli disse. Isabelle e
Alec, ai lati dello stregone, osservavano la
scena con occhi spalancati. Magnus invece non
sembrava
particolarmente
stupito.
—
Raccontaci quello che sta succedendo. Ho
come la sensazione che ci vorrà un po’ di
tempo…
E in effetti fu così, anche se ce ne volle meno
di quanto Simon avesse sperato. Una volta
conclusa la spiegazione, chino sul tavolo e con
lo sguardo fisso sui graffi del tavolo di Magnus,
sollevò la testa solo per incontrare gli occhi
verdi di Jocelyn che lo squadravano, freddi
come acque artiche. — Hai lasciato che mia
figlia se ne andasse… con Jace… in un luogo
introvabile, indefinito, dove nessuno di noi
può raggiungerla?!
Simon si guardò le mani. — Io posso
raggiungerla — disse, tenendo alzata la mano
destra con l’anello d’oro sul dito. — Te l’ho
detto. Ho avuto sue notizie stamattina. Mi ha
fatto sapere che sta bene.
— Ma tu non avresti mai dovuto lasciarla
andare!
— Non è che l’ho “lasciata” andare. Lo
avrebbe fatto comunque. Pensavo che almeno
poteva avere qualche sicurezza in più, dato che
non ero certo in grado di fermarla.
— In effetti — disse Magnus — credo che non
ci sarebbe riuscito nessuno. Clary fa quello che
vuole. — Guardò Jocelyn. — Non puoi tenerla
in gabbia.
— Io mi fidavo di te! — disse lei a Magnus. —
Come ha fatto a uscire?
— Con un portale.
— Ma tu hai detto che c’erano delle formule
per…
— Tenere fuori le minacce, non per tenere
dentro gli ospiti. Jocelyn, tua figlia non è
stupida e fa quello che ritiene opportuno. Non
puoi fermarla. Nessuno può farlo. È molto,
molto simile a sua madre…
Jocelyn fissò Magnus per un istante, a bocca
leggermente aperta, e Simon capì che di sicuro
lo stregone aveva conosciuto la madre di Clary
da giovane, quando aveva tradito Valentine e il
Circolo e per poco non era morta durante la
Rivolta. — Ma è soltanto una ragazzina — disse
Jocelyn, rivolgendosi poi a Simon. — Le hai
parlato? Usando… quegli anelli? Da quando è
partita?
— Questa mattina — rispose Simon. — Ha
detto che stava bene. Che andava tutto bene.
Invece di essere sollevata, Jocelyn sembrò
arrabbiarsi ancora di più.
— Non ho dubbi che abbia detto così, figurati.
Non riesco a credere che tu le abbia lasciato
fare una cosa del genere. Avresti dovuto
fermarla…
— E come, legandola? — replicò Simon,
incredulo. — Ammanettandola al tavolo della
cucina?
— Sì, se fosse stato necessario. Sei più forte di
lei. Sono delusa dal tuo…
Isabelle si alzò in piedi. — Okay, adesso basta
— disse lanciando un’occhiata di fuoco a
Jocelyn. — È totalmente, assolutamente
ingiusto rimproverare Simon per qualcosa che
Clary ha deciso da sola di fare. E se Simon
l’avesse legata, cosa sarebbe successo? Avevi
intenzione di tenerla prigioniera per sempre?
Alla fine avresti dovuto lasciarla andare, e a
quel punto non si sarebbe più fidata di Simon,
quando già non si fida più di te, dopo che le hai
rubato i ricordi. E anche quello, se non sbaglio,
è stato fatto per proteggerla. Forse, se non ti
comportassi sempre così, Clary saprebbe
distinguere meglio tra cosa è pericoloso e cosa
no, diventando più sincera e… meno
sconsiderata!
Tutti gli occhi erano puntati su Isabelle e, per
un istante, Simon si ricordò di una cosa che gli
aveva detto una volta Clary: Izzy faceva di rado
dei discorsi, ma quando capitava, li rendeva
memorabili. Jocelyn era sbiancata.
— Andrò alla stazione di polizia per stare con
Luke — disse. — Simon, mi aspetto notizie da
te ogni ventiquattr’ore per sapere se mia figlia
sta bene. Se non ti sento tutte le sere, vado al
Conclave.
Detto questo, uscì a grandi passi
dall’appartamento sbattendo la porta dietro le
spalle così forte che, nel muro accanto,
comparve una crepa.
Isabelle si rimise seduta, questa volta vicino a
Simon. Lui non le disse niente, ma le porse
una mano che lei strinse, intrecciando le dita
con le sue.
Jace e Clary trascorsero la mattinata
passeggiando per le calli che correvano lungo i
canali dove il colore dell’acqua passava dal
verde intenso al blu scuro. Si fecero strada fra i
turisti di piazza San Marco e sopra il Ponte dei
Sospiri, per poi sorseggiare un espresso al
Caffè Florian. Quel labirinto intricato di strade
fece tornare in mente a Clary Alicante, città
che tuttavia non aveva la stessa atmosfera di
raffinata decadenza tipica di Venezia. Lì non
c’erano strade con automobili, soltanto viottoli
tortuosi e ponti sospesi sopra canali in cui
scorreva acqua verde come malachite. Mentre
il cielo sopra le loro teste si tingeva del blu
profondo tipico dell’autunno inoltrato,
cominciarono ad accendersi le luci: dentro ai
negozietti, nei bar e nei ristoranti che
sembravano spuntare dal nulla e poi sparire
nell’ombra via via che Clary e Jace passavano
lasciandosi luce e risate alle spalle.
Quando Jace chiese a Clary se fosse pronta
per la cena, lei annuì con decisione.
Cominciava a sentirsi in colpa: non era riuscita
a ricavare da lui nessuna informazione,
eppure, di fatto, si stava divertendo. Mentre
attraversavano un ponte che portava a
Dorsoduro, una delle zone più tranquille della
città, lontana dalle orde di turisti, decise che
quella sera avrebbe scoperto qualcosa,
qualcosa degno di essere riferito a Simon.
Jace le teneva stretta la mano mentre insieme
percorrevano un ultimo ponte e la strada si
affacciava su una grande piazza accanto a un
canale enorme, quasi un mare. Alla loro destra
sorgeva la cupola di una basilica. Dall’altra
parte del canale, il resto della città rischiarava
la notte proiettando le sue luci sull’acqua, che
tremolava di barlumi paglierini. Le mani di
Clary fremevano dalla voglia di stringere
gessetti e matite per disegnare la luce che
abbandonava il cielo, l’acqua che si incupiva, il
contorno frastagliato degli edifici e i loro
riflessi che scomparivano nel canale. Sembrava
tutto dipinto di blu acciaio. Da qualche parte,
un suono di campane.
Strinse la mano di Jace. In quel luogo si
sentiva lontana anni luce da tutto ciò che
apparteneva alla sua vita, lontana in un modo
mai provato a Idris. Venezia aveva in comune
con Alicante la sensazione di trovarsi in un
posto fuori dal tempo, strappato al passato,
come se si fosse immersa in un quadro o fra le
pagine di un libro. Ma era anche una città
reale, di cui aveva sentito parlare mentre
cresceva e che aveva desiderato visitare.
Guardò di traverso in direzione di Jace, che nel
frattempo stava fissando il canale. La luce blu
acciaio si era posata anche su di lui,
incupendogli gli occhi, le ombre sotto gli
zigomi, i contorni della bocca. Quando si
accorse che Clary lo stava osservando, si voltò
verso di lei e le sorrise.
Le fece fare il giro della chiesa e la condusse
giù per dei gradini ricoperti di muschio fino a
un passaggio lungo il canale. L’odore era
ovunque quello della pietra bagnata,
dell’acqua, dell’umidità e degli anni. Mentre il
cielo si rabbuiava, qualcosa ruppe la superficie
dell’acqua, a pochi passi da Clary. Sentendo il
rumore degli spruzzi, la ragazza si girò in
tempo per vedere una donna con i capelli verdi
che emergeva dall’acqua sorridendole. Aveva
un viso meraviglioso, ma denti da squalo e
occhi gialli da pesce. I capelli erano incrostati
di perle. Si immerse di nuovo sotto la
superficie dell’acqua, senza incresparla
minimamente.
— Una sirena — disse Jace. — Ci sono alcune
loro antiche famiglie che vivono qui a Venezia,
da molto, molto tempo. Sono un po’ strane.
Starebbero meglio in acque pulite, al largo, a
cibarsi di pesci anziché di spazzatura. —
Guardò verso l’orizzonte. — L’intera città sta
affondando. Tra un centinaio di anni sarà tutto
sott’acqua. Immaginati di nuotare nel mare e
toccare la punta della basilica di San Marco…
— disse indicando l’acqua.
Clary provò una punta di tristezza al pensiero
di tutta quella bellezza destinata a perdersi. —
Non c’è niente che possono fare?
— Per sollevare una città intera? O per tenere
a bada il mare? Non molto — rispose Jace.
Erano arrivati davanti a una scalinata in salita.
Il vento si alzò dall’acqua e sollevò i capelli oro
scuro di Jace dalla fronte e dal collo. — Tutto
tende all’entropia. L’intero universo si sta
espandendo, le stelle si allontanano l’una
dall’altra e Dio solo sa cosa finisce dentro le
crepe — si interruppe. — Okay, questa suonava
un po’ folle.
— Forse è stato tutto quel vino a pranzo.
— Io reggo bene l’alcol. — Quando voltarono
l’angolo, li accolse un paesaggio incantato di
luci. Clary dovette battere le palpebre per
abituarsi a tutto quello splendore. Era un
ristorantino con dei tavoli sia dentro che fuori;
le lampade termiche fra i tavoli, attorno alle
quali erano avvolte luci natalizie, ricordavano
una foresta di alberi magici. Jace si staccò da
Clary il tempo sufficiente per occupare un
tavolo, e ben presto furono seduti accanto al
canale, ad ascoltare gli spruzzi d’acqua che
lambivano le pietre e a guardare le gondole che
salivano e scendevano con la marea.
La stanchezza cominciava a investire Clary a
ondate, come l’acqua contro le sponde del
canale. Disse a Jace quello che voleva
mangiare e lasciò che fosse lui a ordinare, in
italiano. Fu felice quando vide il cameriere che
se ne andava: finalmente poteva piegarsi in
avanti e appoggiare i gomiti sul tavolo per
tenersi la testa fra le mani.
— Credo di soffrire il fuso orario — annunciò.
— Il fuso orario interdimensionale!
— Be’, il tempo in effetti è una dimensione —
puntualizzò Jace.
— Pedante! — esclamò lei, lanciandogli una
briciola di pane presa dal cestino sul tavolo.
Lui sorrise. — L’altro giorno stavo cercando
di ricordare i peccati capitali — disse. —
Avarizia, invidia, gola, ironia, pedanteria…
— Sono praticamente sicura che l’ironia non
sia un peccato capitale.
— E io sono praticamente sicuro di sì.
— La lussuria — ribatté lei. — Quella è un
peccato capitale.
— E le sculacciate.
— Credo che rientrino sempre nella lussuria.
— Credo che invece dovrebbero avere una
categoria a sé — disse Jace. — Avarizia, invidia,
gola, ironia, pedanteria, lussuria e sculacciate.
— Negli occhi aveva il riflesso delle luci
bianche del Natale. Era bello come non mai,
pensò Clary, e altrettanto distante, difficile da
raggiungere veramente. Quando ripensò a
quello che lui le aveva detto a proposito della
città che stava affondando e degli spazi fra le
stelle, le vennero in mente i versi di una
canzone di Leonard Cohen che il gruppo di
Simon proponeva come cover, e neanche
troppo bene. “There is a crack in everything /
That’s how the light gets in”: c’è una crepa in
tutto, è così che entra la luce. Forse ce n’era
una anche nella calma di Jace, un modo per
raggiungere il vero lui, che, ne era convinta,
ancora esisteva.
I suoi occhi color ambra la stavano studiando.
Si sporse per toccarle la mano, ma solo dopo
qualche istante Clary si accorse che le stava
tenendo le dita sull’anello d’oro. — E questo
cos’è? — chiese. — Non ricordavo che avessi un
anello delle fate.
Aveva parlato in tono neutrale, ma che bastò
a provocarle un tuffo al cuore. Mentirgli
davanti agli occhi non era un’attività con cui
aveva molta pratica. — Era di Isabelle — disse
facendo spallucce. — Stava buttando tutti i
regali del suo ex, Meliorn. L’ho visto, l’ho
trovato carino e lei ha detto che potevo tenerlo.
— E l’anello dei Morgenstern?
Quella sembrava una domanda che
richiedeva verità. — L’ho dato a Magnus, così
poteva usarlo per rintracciarti.
— Magnus… — Jace pronunciò quel nome
come se fosse quello di uno sconosciuto,
dopodiché sospirò. — Sei ancora convinta di
aver preso la decisione giusta? Venire qui con
me?
— Sì. Sono felice di stare con te. E poi… be’,
ho sempre sognato di visitare l’Italia. Non ho
mai viaggiato molto, mai uscita dagli Stati
Uniti…
— Ma sei stata ad Alicante — le ricordò lui.
— Okay, fatta eccezione per terre magiche che
nessun altro può vedere, non ho viaggiato
molto. Io e Simon avevamo dei progetti. Alla
fine delle superiori volevamo partire, zaino in
spalla, e girare l’Europa. — La voce le si
smorzò. — Ora sembra una stupidata.
— No, non è vero. — Le si avvicinò e le mise
una ciocca di capelli dietro l’orecchio. — Resta
con me. Possiamo vedere il mondo intero.
— Sono già con te. Non andrò da nessuna
parte.
— Non c’è un posto in particolare dove
vorresti andare? Parigi? Budapest? La Torre di
Pisa?
Soltanto se cade in testa a Sebastian, pensò
lei. — Possiamo andare a Idris? Cioè, voglio
dire, la casa può viaggiare fin laggiù?
— Non posso oltrepassare le difese. — La
mano di lui le scese lungo la guancia. — Mi sei
mancata tanto, sai?
— Vuoi dire che non hai vissuto momenti
romantici con Sebastian mentre eri lontano da
me?
— Ci ho provato — fece lui — ma per quanto
lo fai bere, non cede.
Clary afferrò il suo bicchiere. Cominciava ad
abituarsi al sapore del vino. Lo sentiva mentre
tracciava il suo ardente percorso giù per la
gola, riscaldandole le vene, rendendo la notte
più simile a un sogno. Era in Italia, col suo
stupendo fidanzato, e stava trascorrendo una
serata altrettanto stupenda resa ancora più
piacevole dal cibo delizioso che le si scioglieva
in bocca. Quello era il genere di momenti che
si ricordano per tutta la vita. Eppure era come
sfiorare soltanto il bordo della felicità: ogni
volta che guardava Jace, la gioia svaniva. Come
poteva, allo stesso tempo, essere e non essere
Jace? Come si poteva, allo stesso tempo, avere
il cuore spezzato ed essere felici?
Erano sdraiati sul letto destinato a una sola
persona, avvolti stretti sotto la coperta di
flanella di Jordan. Maia gli teneva la testa
appoggiata sull’incavo del braccio, mentre il
sole che entrava dalla finestra le scaldava viso
e spalle. Jordan era appoggiato su un braccio,
chino sopra di lei, accarezzandole i capelli con
l’altra mano; le srotolava i ricci fino alle punte
e poi lasciava che si riavvolgessero fra le
proprie dita.
— Mi mancavano i tuoi capelli — le disse
posandole un bacio sulla fronte.
Maia sentì che da qualche parte, dentro di sé,
stava traboccando una risata, quel genere di
risata data dalla vertigine dell’infatuazione.
— Soltanto i capelli?
— No. — Lui stava sorridendo, gli occhi
nocciola accesi di verde, i capelli castani
completamente arruffati. — I tuoi occhi. — Li
baciò, prima uno e poi l’altro. — La tua bocca .
— Baciò anche quella, e lei agganciò con una
mano la catenina col ciondolo del Praetor
Lupus che gli pendeva dal petto. — Mi è
mancato tutto di te.
Maia si avvolse la collana attorno alle dita. —
Jordan… Mi dispiace per prima. Per averti
risposto male quando parlavamo dei soldi e di
Stanford. Era troppo, in una volta sola.
Lo sguardo di lui si incupì. Chinò la testa. —
Lo so bene quanto sei indipendente. Volevo
soltanto… fare qualcosa di bello per te.
— Lo so — gli sussurrò lei. — So che ti
preoccupa il fatto che io abbia bisogno di te,
ma non voglio stare con te per necessità.
Voglio stare con te perché ti amo.
Lo sguardo di lui si illuminò, incredulo e
speranzoso. — Pensi… ecco, pensi che un
giorno potrai ancora sentirti così, con me?
— Io non ho mai smesso di amarti, Jordan —
fu la risposta di Maia. Lui la afferrò e la baciò
con tanta passione da farle quasi male. Lei gli
si avvicinò ancora di più, e le cose avrebbero
potuto proseguire come nella doccia se
qualcuno non avesse bussato alla porta.
— Praetor Kyle! — gridò una voce fuori dalla
stanza. — Sveglia! Praetor Scott ti vuole vedere
al piano di sotto, nel suo ufficio.
Jordan, ancora con le braccia avvolte attorno
a Maia, imprecò sottovoce. Lei scoppiò a ridere
e gli fece scorrere veloce una mano su per la
schiena, finendo per attorcigliargli i capelli. —
Pensi che Praetor Scott potrebbe aspettare? —
gli sussurrò.
— Penso che abbia la chiave di questa stanza
e che, volendo, potrebbe usarla.
— Hai ragione — disse lei, sfregandogli le
labbra contro l’orecchio. — Abbiamo un sacco
di tempo, vero? Tutto il tempo di cui avremo
bisogno.
Chairman
Meow,
profondamente
addormentato, era sdraiato di fronte a Simon
sul tavolo e teneva tutt’e quattro le zampe in
aria. Era già qualcosa, pensò Simon. Da
quando era diventato un vampiro, in genere
non aveva grande successo con gli animali.
Loro se potevano lo evitavano, abbaiando o
soffiando quando si avvicinava troppo. Per lui,
che li amava da sempre, era stato un brutto
colpo. Ma forse in quel caso, trattandosi del
gatto di uno stregone, c’era maggiore
tolleranza verso le creature più bizzarre.
Magnus, come si scoprì, non aveva scherzato
sulle candele. Simon si stava concedendo un
momento per riposare e bere un caffè; riuscì a
digerirlo bene, e la caffeina servì a smorzare i
primi morsi della fame. Avevano passato tutto
il pomeriggio ad aiutare Magnus coi
preparativi per l’evocazione di Azazel. Avevano
setacciato i negozi del vicinato in cerca di
candele e di ceri, poi disposti in cerchio con
cura. Isabelle e Alec erano impegnati a
cospargere il pavimento esterno al cerchio con
un misto di sale e belladonna essiccata,
seguendo le istruzioni che Magnus leggeva ad
alta voce dal volume Rituali proibiti. Manuale
di un negromante del XV secolo.
— Che cosa hai fatto al mio gatto? — chiese lo
stregone a Simon quando tornò in salotto con
una caraffa di caffè e un cerchio di tazze che gli
volavano attorno alla testa come un planetario
attorno al sole. — Hai bevuto il suo sangue,
vero? Mi avevi detto di non essere affamato!
Simon si mostrò indignato. — Non ho bevuto
il suo sangue, il gatto sta bene! — esclamò
toccando
l’animale
sulla
pancia
e
provocandogli uno sbadiglio. — E poi mi hai
chiesto se avevo fame mentre stavate
ordinando le pizze e io ho detto di no, perché
la pizza non posso mangiarla. Volevo solo
essere gentile.
— Questo non ti dà il diritto di mangiarmi il
gatto.
— Ti ho detto che sta bene! — Simon si sporse
per prendere in braccio Chairman, che però
saltò sulle quattro zampe, sdegnato, e scese dal
tavolo.
— Visto?
— Okay, okay. — Magnus si lasciò cadere
sulla sedia a capotavola; le tazzine caddero
rumorosamente al loro posto, mentre anche
Alec e Izzy, terminato il loro compito, si
rialzavano in piedi. Lo stregone batté le mani.
— Parlo con tutti! Mettetevi in cerchio, è il
momento di fare una riunione. Sto per
insegnarvi come si evoca un demone.
Praetor Scott li stava aspettando in biblioteca,
seduto sulla stessa poltrona girevole, con una
scatola color bronzo davanti a sé. Maia e
Jordan si accomodarono all’altro lato della
scrivania, e la ragazza non poté fare a meno di
chiedersi se portasse scritto in faccia quello
che aveva appena fatto con Jordan. Non che il
Praetor li stesse guardando con chissà quale
interesse.
Spinse la scatola verso Jordan. — È un
balsamo — disse. — Se applicato alla ferita di
Garroway, filtra il veleno dal sangue e lo libera
dall’acciaio demoniaco. Dovrebbe guarire in
pochi giorni.
Il cuore di Maia si riempì di gioia: finalmente
qualche bella notizia. Si allungò verso la
scatola, prima di Jordan, e la aprì. In effetti
conteneva un balsamo brunastro, di
consistenza simile a cera, con un pungente
odore di erbe che ricordava l’alloro appena
macinato.
— Io… — esordì Praetor Scott mentre gli
occhi gli saettavano su Jordan.
— Deve prenderlo lei — disse il ragazzo. —
Conosce bene Garroway e appartiene al suo
branco. Si fidano di lei.
— Stai dicendo che non si fidano del Praetor?
— Metà di loro pensano sia una leggenda —
rispose, riflettendo poi sul fatto che avrebbe
dovuto concludere la frase almeno con un
“signore”.
Praetor Scott sembrò scocciato, ma venne
interrotto dallo squillo del telefono sulla
scrivania. Sulle prime esitò, poi si portò il
ricevitore all’orecchio. — Scott, pronto — disse,
e dopo un istante: — Sì… Sì, credo. —
Riagganciò, con la bocca che gli si incurvava in
un sorriso non del tutto piacevole. — Praetor
Kyle — disse. — Sono felice che, fra tutti i
giorni, tu sia capitato da noi proprio oggi.
Fermati un minuto, la questione in un certo
senso ti interessa.
L’annuncio lasciò Maia perplessa, ma non
tanto quanto lo divenne un istante dopo,
quando un angolo della stanza cominciò a
scintillare: come se stesse osservando
un’immagine che si sviluppava all’interno di
una camera oscura, vide davanti ai propri
occhi la sagoma di un ragazzino. Aveva i
capelli castano scuro, corti e lisci, e sulla bruna
pelle del collo brillava una collana d’oro.
L’aspetto era quello esile ed etereo del giovane
membro di un coro, ma negli occhi c’era
qualcosa che lo faceva sembrare ben più
grande.
— Raphael — disse, riconoscendolo. Era
persino un po’ trasparente. Una proiezione,
dunque… Ne aveva sentito parlare, ma non ne
aveva mai vista una da vicino.
Praetor Scott la guardò stupito. — Conosci il
capoclan dei vampiri di New York?
— Ci siamo incontrati una volta, nella foresta
di Brocelind — spiegò Raphael, guardandola
senza troppo interesse. — È un’amica del
Diurno, Simon.
— Il tuo assistito — disse Praetor Scott a
Jordan, come se il ragazzo potesse
dimenticarsene.
Lui corrugò la fronte. — Gli è successo
qualcosa? — chiese. — Sta bene?
— Non si tratta di lui — rispose Raphael. — Si
tratta del vampiro fuorilegge, Maureen Brown.
— Maureen?! — esclamò Maia. — Ma se ha
solo… cosa, tredici anni?
— Un vampiro fuorilegge è un vampiro
fuorilegge — disse Raphael. — E si può dire
che Maureen si stia dando da fare, tra la zona
di TriBeCa e il Lower East Side. Svariati feriti e
almeno sei morti. Ho tentato di nascondere gli
omicidi, ma…
— Lei è assegnata a Nick — disse Praetor
Scott corrugando la fronte. — Ma finora lui
non è riuscito a rintracciarla. Forse è il caso di
inviare qualcuno con più esperienza…
— Sì, dovete farlo — lo incoraggiò Raphael. —
Se in questo momento gli Shadowhunters non
fossero alle prese con la loro… emergenza, a
quest’ora sarebbero già intervenuti. E l’ultima
cosa di cui il clan ha bisogno dopo la storia di
Camille è un richiamo ufficiale da parte degli
Shadowhunters.
— Allora presumo che anche di Camille non ci
sia più traccia, giusto? — domandò Jordan. —
Simon ci ha raccontato quello che successe la
notte della scomparsa di Jace e, a quanto pare,
Maureen esegue gli ordini di Camille.
— Camille non è diventata un vampiro da
poco tempo, quindi non ci interessa — dichiarò
Scott.
— Lo so, ma… trovate lei e potreste trovare
anche Maureen, tutto qui.
— Se fosse con Camille, non ucciderebbe alla
velocità con cui sta uccidendo — fece notare
Raphael. — Lei glielo impedirebbe. È assetata
di sangue, ma conosce il Conclave e anche la
Legge. Terrebbe nascosta ai loro occhi tanto
Maureen quanto le sue attività. No, il
comportamento
di
Maureen
ha
le
caratteristiche tipiche di un vampiro
inselvatichito.
— Stando così le cose, penso che abbiate
ragione voi — disse Jordan appoggiandosi allo
schienale. — A Nick serve aiuto per trovarla,
altrimenti…
— Altrimenti potrebbe succedergli qualcosa?
In quel caso, magari impareresti a concentrarti
di più, in futuro — ribatté Praetor Scott, —
sulla tua missione.
Jordan restò a bocca aperta. — Simon non
c’entra, con la trasformazione di Maureen —
disse. — Come ho detto…
Praetor Scott liquidò le parole del ragazzo con
un gesto della mano. — Sì, lo so. Altrimenti ti
avrebbero tolto l’incarico, Kyle. Ma il tuo
soggetto l’ha morsa, per di più mentre era
sotto la tua tutela. Ed è stato il suo legame con
il Diurno, per quanto distante, a portare alla
sua definitiva trasformazione.
— Il Diurno è pericoloso — disse Raphael con
gli occhi che gli brillavano. — Non faccio che
ripeterlo da tempo.
— Non è pericoloso! — ribatté Maia con
decisione. — È un bravo ragazzo. — In
quell’istante notò che Jordan le aveva lanciato
un’occhiatina di traverso, tanto rapida che si
chiese se non se la fosse soltanto immaginata.
— Bla bla bla — fece Raphael, scocciato. —
Voi lupi mannari non potete occuparvene. Mi
fido di te, Praetor. Il vostro dipartimento si
occupa dei nuovi Nascosti, ma lasciare
Maureen a piede libero ha delle ripercussioni
negative sul mio clan. Se non la trovate in
fretta, mi rivolgerò a tutti i vampiri a mia
disposizione. Dopotutto — disse con un sorriso
che gli scoprì i canini scintillanti — in fin dei
conti spetta a noi ucciderla.
Terminata la cena, Clary e Jace tornarono a
casa in una notte velata di foschia. Le strade
erano deserte e l’acqua splendeva come vetro.
Svoltando un angolo, si ritrovarono vicini a un
canale silenzioso, costeggiato da case con le
imposte chiuse. Le gondole oscillavano
dolcemente al moto ondoso dell’acqua, ognuna
una mezza luna nera.
Jace rise piano e avanzò, lasciando la mano di
Clary. I suoi occhi erano grandi e dorati alla
luce del lampione. Si inginocchiò sul bordo del
canale e lei colse un flash di luce bianco
argento, uno stilo, dopodiché una delle
gondole si liberò dalla catena di ancoraggio e
cominciò ad andare alla deriva verso il centro
del canale. Jace si infilò di nuovo lo stilo nella
cintura e fece un salto, atterrando dolcemente
sul sedile di legno dell’imbarcazione. Porse la
mano a Clary. — Vieni.
Lei spostò lo sguardo da lui alla barca, poi
scosse la testa. Era poco più grande di una
canoa, dipinta di vernice nera ma scheggiata.
Sembrava leggera e fragile quanto un
giocattolo.
Se la immaginò rovesciata, con lei e Jace a
mollo nel canale verde ghiaccio. — Non posso.
Si ribalterebbe!
Jace scosse la testa, impaziente. — Sì che puoi
— la incoraggiò. — Ti ho allenata io. — Fece un
passo indietro per darle una dimostrazione.
Ora si trovava in piedi sul sottile bordo della
barca, proprio accanto allo scalmo. La
guardava con la bocca inarcata in un mezzo
sorriso. Secondo tutte le leggi della fisica,
pensò Clary, la barca, priva di equilibrio,
avrebbe dovuto rovesciarsi su un fianco.
Invece Jace restava fermo senza problemi, a
schiena dritta, come se non fosse composto da
nient’altro che fumo. Dietro di lui, uno sfondo
di acqua e pietre, canali e ponti, nemmeno un
edificio moderno in vista. Con quei capelli
lucenti e quel portamento, Jace avrebbe potuto
essere un principe rinascimentale.
Le porse di nuovo la mano. — Ricorda. Sei
tanto leggera quanto vuoi esserlo.
Se lo ricordava. Ore di allenamenti su come
cadere, rimanere in equilibrio, atterrare come
Jace con la leggerezza di un granello di cenere
che si depone a terra. Trattenne il respiro e
fece un salto, sorvolando in un istante il verde
dell’acqua. Si posò a prua della barca,
dondolando sul sedile di legno, ma rimanendo
stabile.
Emise un sospiro di sollievo e sentì Jace
ridere mentre saltava sul fondo piatto della
barca. C’era una perdita: il legno era ricoperto
da un sottile strato d’acqua. Jace superava in
altezza Clary di circa venti centimetri, ma ora,
con lei seduta a prua, avevano le teste allo
stesso livello.
Le mise le mani sulla vita. — Dunque — disse.
— Adesso dove vuoi andare?
Lei si guardò attorno. Si erano allontanati
dalla banchina del canale. — Stiamo per caso
rubando una barca?
— “Rubare” è una brutta parola — osservò lui.
— E come lo definiresti, allora?
Jace la sollevò e le fece fare una giravolta
prima di rimetterla giù. — Un caso estremo di
“giro per vetrine”.
La strinse più forte e lei si irrigidì. Le
scivolarono i piedi, così che finirono entrambi
sul fondo bombato della barca, duro, umido e
impregnato di odore di acqua misto a legno
ammuffito.
Clary si ritrovò sopra Jace, con le ginocchia
accanto ai suoi fianchi. I vestiti di lui si stavano
inzuppando d’acqua, ma non sembrava
importargli. Si mise le mani dietro la nuca e le
intrecciò, facendo sollevare la camicia sulla
pancia. — Mi hai letteralmente messo al
tappeto con la forza della tua passione — disse.
— Bel lavoro, Fray.
— Sei caduto solo perché l’hai fatto apposta.
Ti conosco… — rispose lei. La luna era un faro
sopra di loro, come se fossero gli unici a
ricevere la sua luce. — Tu non scivoli mai.
Lui le toccò il viso. — Mai — ribatté. — Solo
quando cado ai tuoi piedi.
Il cuore di Clary batteva forte, tanto che
dovette deglutire prima di rispondergli con
leggerezza, come se lui stesse scherzando: —
Questa potrebbe essere la tua peggiore battuta
di sempre.
— E chi ha detto che è una battuta?
La gondola vacillò e Clary si sporse in avanti,
appoggiando le mani sul petto di Jace. Sentiva
i fianchi premere contro quelli di lui mentre
guardava i suoi occhi che si spalancavano,
passando da un oro luccicante e malizioso al
nero, con la pupilla che inghiottiva l’iride.
Dentro riusciva a vedere se stessa e il cielo
notturno.
Jace si appoggiò su un gomito e le fece
scivolare una mano attorno alla base del collo.
Lo sentì inarcarsi contro di lei, sfiorandole le
labbra, ma Clary si tirò indietro senza davvero
concedergli un bacio. Voleva Jace, lo voleva
così tanto da sentirsi vuota dentro, come se il
desiderio avesse consumato ogni cosa. Non
contava se la testa le diceva che quello non era
Jace, non il Jace di sempre: il suo corpo lo
ricordava, forma e tocco, odore della pelle e dei
capelli, e lo voleva ancora.
Sorrise contro la sua bocca come se volesse
prenderlo in giro, poi rotolò di lato
accucciandosi contro di lui sul fondo bagnato
della barca. Jace non protestò. Il suo braccio si
curvò attorno a lei, e il dondolio
dell’imbarcazione sotto di loro era dolce e
regolare. Avrebbe voluto mettergli la testa
sulla spalla, ma non lo fece.
— Stiamo andando alla deriva — disse.
— Lo so. Voglio farti vedere una cosa. — Jace
stava guardando in alto, verso il cielo. La luna
era un’onda bianca simile a una vela; il petto di
Jace saliva e scendeva regolarmente. Le teneva
le dita intrecciate fra i capelli. Clary gli stava
accanto in silenzio, mentre le stelle si
spostavano come un orologio astronomico, e si
chiese che cosa stessero aspettando.
Finalmente lo sentì, un lungo e lento
scrosciare, come di acqua che si riversava da
un argine rotto. Il cielo si rabbuiò e si contorse,
mentre delle figure lo attraversavano
impetuose. Clary riusciva a malapena a
distinguerle per via delle nuvole e della
distanza, ma le sembravano uomini coi capelli
lunghi, simili a fili di nuvole, in groppa a
cavalli i cui zoccoli splendevano del colore del
sangue. Il suono di un corno da caccia
echeggiò nella notte, le stelle tremolarono e il
cielo si piegò su se stesso, mentre gli uomini
sparivano dietro la luna.
Clary lasciò andare il respiro in una lenta
esalazione. — E quello cos’era?
— La Caccia Selvaggia — rispose Jace. Aveva
la voce distante, trasognata. — I Segugi di
Gabriel. L’Esercito Furioso. Hanno molti
nomi. Sono esseri fatati che disdegnano le
Corti terrene. Cavalcano per il cielo, nella loro
caccia eterna. Una notte all’anno, a un mortale
è concesso di unirsi a loro; ma se lo fa, non se
ne può più andare.
— E perché qualcuno dovrebbe farlo?
Jace rotolò e in un attimo fu sopra Clary,
premendola contro il fondo della barca. Lei si
accorse a stento dell’umidità: sentiva il corpo
di lui emanare ondate di calore, lo sguardo
ardente. Riusciva a starle sopra senza mai
schiacciarla, ma facendole sentire tutto il
proprio corpo contro il suo… La forma dei
fianchi, i rivetti dei jeans, i rilievi delle
cicatrici. — C’è qualcosa di affascinante all’idea
— disse — di perdere completamente il
controllo. Non credi?
Clary aprì la bocca per rispondere, ma lui la
stava già baciando. Lo aveva baciato così tante
volte: baci dolci e delicati, passionali e
disperati, rapidi strofinii di labbra per dirsi
arrivederci e altri che sembravano durare ore.
E anche quello non fu diverso. Come il ricordo
di una persona che aveva abitato una casa
perdurava anche dopo che se n’era andata, così
il corpo di Clary ricordava Jace. Ricordava il
suo sapore, l’inclinazione della sua bocca sopra
la sua, la sensazione delle cicatrici sotto le dita,
la forma del corpo sotto le mani. Abbandonò i
dubbi e lo tirò a sé.
Jace si mise di lato, stringendola, con la barca
che oscillava sotto di loro. Clary sentiva il
rumore delle onde mentre le mani di lui le
scendevano fin sopra ai fianchi, con le dita che
accarezzavano leggere la pelle sensibile sopra
le reni. Gli fece scivolare le mani fra i capelli e
chiuse gli occhi, avvolta dalla foschia, dal
suono e dall’odore dell’acqua. Trascorsero
epoche infinite: esistevano solo la bocca di
Jace sulla sua, il dolce cullare della barca, le
sue mani sulla pelle. Alla fine, dopo un tempo
che avrebbe potuto essere ore o minuti, sentì
una voce arrabbiata gridare in italiano,
levandosi nella notte e squarciandola.
Jace si tirò indietro, lo sguardo pigro e pieno
di rimpianto. — Sarà meglio andare.
Clary lo guardò, confusa. — Perché?
— Perché quello è il proprietario della barca.
— Jace si mise a sedere e si sistemò la camicia.
— E sta per chiamare la polizia.
capitolo 11
ATTRIBUITE A LUI OGNI PECCATO
Magnus aveva spiegato che, durante
l’evocazione di Azazel, non si poteva usare
elettricità, perciò il loft era illuminato soltanto
dalle luci delle candele che bruciavano in
cerchio al centro della stanza. Erano di altezze
e intensità diverse, ma tutte con la medesima
fiamma bianco-azzurra.
Lo stregone aveva tracciato dentro al cerchio
un pentagramma, utilizzando un bastone di
sorbo selvatico per dare fuoco a dei triangoli
sovrapposti sul pavimento. Fra le sezioni
formate dal pentagramma c’erano simboli che
Simon non aveva mai visto prima: non proprio
lettere ma nemmeno rune, che emanavano un
senso di fredda minaccia malgrado il calore
delle candele.
Ormai fuori dalle finestre s’era fatto buio,
quel genere di buio che accompagnava i
tramonti precoci dell’inverno incombente.
Isabelle, Alec, Simon e infine Magnus, il quale
era impegnato a leggere ad alta voce dal libro
Rituali proibiti: ognuno di loro era in piedi, in
corrispondenza di un punto cardinale attorno
al cerchio. La voce dello stregone si alzava e si
abbassava, declamando parole latine come in
una preghiera distorta e sinistra.
Le fiamme arsero più intensamente e i
simboli tracciati sul pavimento cominciarono a
bruciare annerendo. Chairman Meow, che
guardava da un angolo della stanza, soffiò e
poi scappò nell’ombra. Le fiamme biancoazzurre divampavano a tal punto che ora
Simon faticava a vedere Magnus. Nella stanza
iniziava a fare caldo; lo stregone stava
recitando il rituale con fare concitato, mentre i
capelli neri gli si arricciavano per l’umidità e il
sudore gli brillava sulle guance. — Quod
tumeraris: per Jehovam, Gehennam, et
consecratam aquam quam nunc spargo,
signumque crucis quod nunc facio, et per vota
nostra, ipse nunc surgat nobis dicatus Azazel!
Dal centro del pentagramma si levò una
fiammata, accompagnata da un’onda di fumo
nero che si dissipò lentamente per l’intera
stanza, costringendo tutti, tranne Simon, a
tossire. La nube ruotava come un vortice,
concentrandosi gradualmente al centro del
pentagramma fino a formare la sagoma di un
uomo.
Simon sgranò gli occhi. Non sapeva bene cosa
doveva aspettarsi, ma di certo non quello: un
individuo alto e coi capelli ramati, né giovane
né vecchio. Un viso senza età, freddo e
inumano. Spalle larghe, abito nero di sartoria,
scarpe lucide dello stesso colore. Attorno ai
polsi aveva dei solchi rosso scuro, segno di una
costrizione con della corda o del metallo che,
nell’arco di molti anni, gli aveva scavato la
pelle. Gli occhi erano fiamme rosse e ardenti.
Parlò. — Chi evoca Azazel? — La sua voce era
lo stridore del metallo contro il metallo.
— Io — rispose Magnus, chiudendo con
decisione il volume che teneva fra le mani. —
Magnus Bane.
Azazel girò lentamente verso di lui la testa,
che gli ruotava sul collo in maniera del tutto
innaturale, come quella di un serpente. —
Stregone — disse. — So chi sei.
Magnus sollevò un sopracciglio. — Ah sì?
— Evocatore. Costrittore. Distruttore del
demone Marbas. Figlio di…
— Non c’è bisogno di tornare su tutte quelle
cose.
— Sì, invece. — Azazel sembrava ragionevole,
forse persino divertito. — Se è l’assistenza
infernale che richiedi, perché non hai evocato
tuo padre?
Alec guardava Magnus a bocca spalancata.
Simon era dispiaciuto per lui. Sicuramente i
presenti erano convinti che lo stregone non
sapesse nulla su suo padre, a parte il fatto che
era un demone che aveva ingannato sua madre
facendole credere di esserne il marito. Era
chiaro che anche Alec non ne sapeva più degli
altri,
cosa
che,
immaginò
Simon,
probabilmente non gli faceva molto piacere.
— Io e mio padre non siamo in buoni rapporti
— disse Magnus. — Preferirei non
coinvolgerlo.
Azazel sollevò le mani. — Come volete,
Signore. Mi avete in pugno. Cosa chiedete?
Magnus aprì bocca, ma dall’espressione che
comparve sul volto di Azazel si capì che stava
comunicando telepaticamente, in silenzio. Le
fiamme guizzavano e danzavano negli occhi
del demone come bambini impazienti di
ascoltare una storia. — Furba, Lilith — disse
infine Azazel, — a risvegliare il ragazzo dalla
morte e garantirgli la sopravvivenza legando la
sua vita a qualcuno che nessuno di voi
vorrebbe mai uccidere. È stata sempre più
brava di quasi tutti noi a manipolare le
emozioni umane. Forse perché, un tempo,
anche lei era qualcosa di simile agli umani.
— C’è un modo — Magnus sembrava
impaziente — per rompere il legame fra quei
due?
Azazel scosse il capo. — Non senza ucciderli
entrambi.
— E allora c’è un modo per fare del male solo
a Sebastian senza farne a Jace? — Era Isabelle,
ansiosa. Magnus la fulminò con lo sguardo.
— Non con armi che potrei creare io o che ho
già a mia disposizione — rispose Azazel. —
Posso forgiarle solo se possiedono l’alleanza
demoniaca. Un lampo scagliato dalla mano di
un angelo, forse, potrebbe distruggere il male
dentro il figlio di Valentine, rompendo così il
legame, oppure trasformandolo in qualcosa di
positivo. Se mi permettete di darvi un
consiglio…
— Oh — fece Magnus, socchiudendo i suoi
occhi da gatto. — Per favore, daccelo.
— Avrei una semplice soluzione per separare i
ragazzi, mantenendo in vita il vostro e
neutralizzando il pericolo dell’altro. In cambio
vi chiederei ben poco.
— Tu sei il mio servitore — ribatté Magnus. —
Se vuoi andartene da questo pentagramma,
farai quello che ti dico io, senza chiedere favori
in cambio.
Azazel gli sibilò contro e dalle sue labbra
divamparono lingue di fuoco. — Se non sono
imprigionato qui, lo sono di là, quindi non c’è
molta differenza…
— Perché questo è l’Inferno, né io ne sono
fuori — disse Magnus con l’aria di riportare
una citazione antica.
Azazel sfoggiò un sorriso metallico. — Forse,
stregone, non sei orgoglioso come il vecchio
Faust, ma sei molto impaziente. Sono certo che
la mia volontà di restare in questo
pentagramma è più forte della tua voglia di
farmi la guardia…
— Oh, non saprei — ribatté Magnus. — Sono
sempre stato piuttosto audace in materia di
arredamento, e averti qui in effetti aggiunge
alla stanza un certo non so che.
— Magnus! — esclamò Alec, chiaramente
poco entusiasta all’idea di un demone
immortale che si piazzava nel loft del suo
fidanzato.
— Geloso, giovane Shadowhunter? — fece
Azazel sorridendo ad Alec. — Il tuo stregone
non è il mio tipo, e poi non vorrei proprio fare
arrabbiare suo…
— Ora basta — lo interruppe Magnus. — Dicci
qual è quel “ben poco” che vorresti in cambio
del tuo intervento.
Azazel si mise le mani sulle tempie, le mani
color sangue e unghie nere di uno che lavorava
sodo. — Un ricordo felice — disse — di ognuno
di voi. Qualcosa per divertirmi mentre sarò
legato come Prometeo alla sua roccia.
— Un ricordo? — ripeté Isabelle sbalordita. —
Vuoi dire che svanirebbe dalla nostra mente?
Che noi non potremmo più ripensarci?
Azazel la guardò, attraverso le fiamme, con
attenzione. — E tu che cosa sei, piccolina? Una
Nephilim? Sì, mi prenderei il vostro ricordo e
lo renderei mio. Dimenticherete che quella
cosa vi sia davvero successa. Però evitate di
donarmi ricordi che riguardano demoni che
avete squartato al chiaro di luna, non sono il
genere di cose che mi divertono. No, voglio che
questi ricordi siano… personali. — Sorrise, e i
denti gli luccicarono come una saracinesca di
ferro.
— Sono vecchio — disse Magnus — e ho molti
ricordi. Sono pronto a sacrificarne uno, se
necessario. Ma non posso parlare a nome di
tutti. Nessuno dovrebbe essere costretto a
rinunciare a una cosa del genere.
— Io lo faccio — disse subito Isabelle. — Per
Jace.
— Anch’io, ovvio — le fece eco Alec,
dopodiché fu il turno di Simon. Pensò subito a
Jace, che si tagliava il polso e gli donava il suo
sangue nella minuscola stanza sulla nave di
Valentine. Aveva messo a rischio la sua vita
per lui. Forse in fondo era stato per amore di
Clary, ma restava il fatto che lui gli era ancora
debitore. — Ci sto.
— Bene — disse Magnus. — Tutti voi, cercate
di pensare a dei ricordi felici, davvero felici.
Qualcosa che vi faccia piacere ricordare. —
Lanciò uno sguardo tagliente al demone, che
se ne stava dentro il pentagramma con aria
compiaciuta.
— Sono pronta — annunciò Isabelle. Era in
piedi con gli occhi chiusi e la schiena dritta,
come se fosse sul punto di incassare un colpo.
Magnus le si avvicinò e le appoggiò le dita sulla
fronte, mormorando piano.
Alec li guardò a bocca serrata, poi anche lui
chiuse gli occhi. Simon fece lo stesso, in tutta
fretta, sforzandosi di rievocare un ricordo
felice. Qualcosa che aveva a che fare con Clary?
Ma molti dei ricordi che aveva di lei erano
ormai intaccati dalla preoccupazione per la sua
salute. Qualcosa che risaliva a quando erano
molto piccoli? Un’immagine gli nuotò davanti
agli occhi della mente: un caldo giorno d’estate
a Coney Island, lui sulle spalle di suo padre,
Rebecca che correva dietro di loro trascinando
un mazzo di palloncini. Lo sguardo che si
alzava al cielo, cercando di scorgere delle
figure nelle nuvole, e il suono della risata di
sua madre. No, pensò, quello no. Non voglio
perdere quello…
Sentì una sensazione di freddo sulla fronte.
Aprì gli occhi e vide che Magnus stava
riabbassando la mano. Lo guardò, con la
mente improvvisamente sgombra. — Ma io
non stavo pensando a niente — protestò.
Lo sguardo felino di Magnus era triste. — Sì,
invece.
Simon si guardò attorno, sentendosi
leggermente stordito. Anche per gli altri
doveva essere lo stesso: avevano l’aspetto di
chi si sta svegliando da uno strano sogno.
Incrociò lo sguardo di Isabelle, lo sfarfallio
nero delle sue ciglia, e si chiese a cosa avesse
pensato lei, a quale gioia avesse rinunciato.
Un brontolio leggero dal centro del
pentagramma gli fece distogliere lo sguardo da
Izzy. Azazel era in piedi, più vicino possibile al
bordo del disegno tracciato a terra, e dalla gola
gli usciva un lento ringhio di fame. Magnus si
voltò per guardarlo, con un’aria di disgusto sul
viso. Aveva le mani strette a pugno e sembrava
che qualcosa gli brillasse fra le dita, come se
avesse una pietra runica di stregaluce. Si girò e
fece un rapido lancio obliquo verso il centro
del pentagramma. La visione da vampiro di
Simon capì di cosa si trattava: era una sfera di
luce che si espandeva in volo, trasformandosi
in un cerchio di immagini multiple. Vide uno
sprazzo di mare turchese, il lembo di un vestito
di raso che svolazzava mentre chi lo indossava
faceva una piroetta, un’istantanea del volto di
Magnus, un ragazzo con gli occhi azzurri. Poi
Azazel aprì le braccia e il cerchio di immagini
svanì dentro al suo corpo come spazzatura
vagante risucchiata nella fusoliera di un aereo.
Azazel trasalì. I suoi occhi, che prima
lanciavano saette di fiamme rosse, ora
ardevano come un incendio e, quando parlò, la
sua voce si incrinò. — Aaah… Delizioso.
Magnus si fece subito sentire. — E ora la tua
parte dello scambio.
Il demone si leccò le labbra. — La soluzione al
vostro problema è la seguente. Voi mi liberate
e mi lasciate andare nel mondo, io prendo il
figlio di Valentine e lo porto all’Inferno. Non
morirà, perciò Jace continuerà a vivere, ma,
lasciando questa dimensione, a poco a poco il
legame tra i due si dissolverà. E voi riavrete il
vostro amico.
— E a quel punto? — chiese lentamente
Magnus. — Noi ti liberiamo, ma poi tu torni e
ti lasci imprigionare di nuovo?
Azazel scoppiò a ridere. — Certo che no,
stupido stregone. Il prezzo per il mio favore è
la libertà.
— La libertà?! — Fu Alec a parlare, con voce
incredula. — Un Principe dell’Inferno lasciato
libero di vagare per il mondo? Ti abbiamo già
dato i nostri ricordi…
— Quello era il prezzo da pagare per sentire il
mio piano — osservò Azazel. — La mia libertà è
il prezzo per vederlo realizzato.
— Questo è un inganno e tu lo sai — gli disse
Magnus. — Stai chiedendo l’impossibile.
— Anche voi — ribatté Azazel. — In teoria
avete perso il vostro amico per sempre.
“Quando uno avrà fatto un voto al Signore o si
sarà obbligato con giuramento a una
astensione, non violi la sua parola”. E, secondo
i termini dell’incantesimo di Lilith, le loro
anime sono legate, ed entrambi l’hanno
accettato.
— Jace non lo avrebbe mai… — fece per dire
Alec.
— Ha pronunciato le parole — lo interruppe
Azazel — di sua spontanea volontà o mosso dal
senso di colpa, non ha importanza. Mi state
chiedendo di recidere un legame sul quale
soltanto il Paradiso ha potere. Ma il Paradiso
non vi aiuterà, e lo sapete bene quanto me. In
fondo è per questo che gli uomini evocano i
demoni e non gli angeli, giusto? Questo è il
prezzo da pagare per il mio intervento. Se non
volete, dovete imparare ad accettare ciò che
avete perso.
Il viso di Magnus era pallido e teso. — Ora
discutiamo fra noi e valutiamo se la tua
proposta è accettabile. Nel frattempo… ti
bandisco! — Sventolò la mano e Azazel svanì,
lasciando dietro di sé odore di legno
carbonizzato.
Le quattro persone nella stanza si fissarono
l’un l’altra, incredule. — Sta chiedendo
qualcosa di impossibile, vero? — disse infine
Alec.
— Teoricamente tutto è possibile — rispose
Magnus, tenendo lo sguardo fisso davanti a sé
come dentro un abisso. — Ma liberare un
Demone Superiore… Anzi, non soltanto un
Demone Superiore, un Principe dell’Inferno,
secondo solo a Lucifero… La distruzione che
potrebbe causare…
— Non è possibile — intervenne Isabelle —
che Sebastian ne provochi altrettanta?
— Come ha detto Magnus, tutto è possibile —
commentò Simon con amarezza.
— Agli occhi del Conclave non potrebbe
esserci crimine più grande — disse Magnus. —
Chiunque liberasse Azazel sulla Terra
diventerebbe un criminale ricercato.
— Ma se servisse a distruggere Sebastian… —
tentò Isabelle.
— Non abbiamo la prova che Sebastian stia
complottando alcunché — disse Magnus. —
Per quanto ne sappiamo, tutto ciò che vuole è
sistemarsi in una bella casa di campagna a
Idris.
— Con Clary e Jace? — chiese Alec, incredulo.
Magnus scrollò le spalle. — Chi lo sa cosa
vuole da loro? Forse, semplicemente, si sente
solo.
— Non ci credo che abbia rapito Jace da quel
tetto solo perché ha un disperato bisogno di
amicizia fra uomini — fece notare Isabelle. —
Quello ha in mente qualcosa…
Guardarono tutti Simon. — E Clary sta
cercando di scoprire cosa. Le serve del tempo.
E non dite che non ne abbiamo — disse, — lo
sa bene anche lei.
Alec si passò una mano fra i capelli scuri. —
Bene, però abbiamo appena sprecato un’intera
giornata. Una giornata che non avevamo.
Basta con le idee stupide! — Aveva parlato in
tono brusco, e non era da lui.
— Alec — disse Magnus, appoggiando una
mano sulla spalla del suo ragazzo. Alec era
fermo in piedi e fissava il pavimento con
rabbia. — Stai bene?
Alec lo guardò. — Te lo chiedo di nuovo: chi
sei?
Magnus sussultò. Per la prima volta da
quando Simon ricordava, lo stregone
sembrava realmente spossato. Durò solo un
istante, ma accadde. — Alexander… — disse al
fidanzato.
— Troppo presto per scherzare sul ricordo
felice, suppongo — fece Alec.
— Tu credi? — La voce di Magnus si era
alzata. Prima che potesse aggiungere altro, la
porta si spalancò. Erano Maia e Jordan.
Avevano le guance rosse per il freddo, e Simon
notò con sorpresa che lei indossava la giacca di
pelle di lui.
— Arriviamo adesso dalla stazione —
annunciò entusiasta. — Luke non si è ancora
risvegliato, ma sembra che starà bene… — Si
interruppe, guardandosi attorno e notando il
pentagramma ancora scintillante, le nuvole di
fumo nero e le chiazze di bruciato sul
pavimento. — Okay ragazzi, ora mi dite che
cosa stavate facendo?
Grazie all’aiuto di un incantesimo e alla
capacità di Jace di appendersi con un solo
braccio a un vecchio ponte arcuato, lui e Clary
riuscirono a sfuggire alla polizia italiana senza
essere arrestati. Una volta smesso di correre,
crollarono seduti a terra contro il muro di un
palazzo, ridendo uno accanto all’altra con le
mani intrecciate. Clary visse un istante di pura
gioia e dovette seppellire il viso contro la spalla
di Jace ricordando a se stessa, con una severa
voce interiore, che quello non era lui. E, a quel
punto, le risate si spensero nel silenzio.
Jace sembrò interpretare il suo repentino
cambio di atteggiamento come un segno di
stanchezza. Stringendole delicatamente la
mano, tornò verso la strada da cui erano
partiti, lo stretto canale coi ponti a entrambe le
estremità. In mezzo, Clary riconobbe la
residenza spoglia, priva di tratti distintivi, che
avevano lasciato. Si sentì percorrere da un
brivido.
— Freddo? — Jace la strinse a sé e la baciò.
Era molto più alto di lei, e le alternative erano
piegarsi o sollevarla; scelse la seconda opzione,
e lei rimase senza fiato quando lui la prese e la
fece passare… attraverso il muro della casa.
La rimise giù e tirò un calcio a una porta
comparsa all’improvviso alle loro spalle. Poi la
richiuse di colpo, ed era sul punto di togliersi
la giacca, quando sentì il suono di una risata
soffocata.
Clary si allontanò di colpo da Jace, mentre
attorno a loro si accendevano delle luci.
Sebastian era seduto sul divano, coi piedi sul
tavolino. La sua chioma platino era arruffata,
gli occhi neri e lucidi. Non era solo. Con lui
c’erano due ragazze, una per lato. La prima era
bionda, vestita in maniera abbastanza
succinta: minigonna scintillante e top di
lustrini. Teneva una mano aperta sul petto di
Sebastian. L’altra era più giovane e dall’aria
più dolce, coi capelli neri tagliati corti, una
fascia di velluto rosso attorno alla testa e un
vestito nero di pizzo.
Clary sentì i suoi nervi irrigidirsi. Vampira,
pensò. Non sapeva come avesse fatto a
riconoscerla, eppure era così… Sarà stato per
la pelle bianca e lucente come cera della
ragazza coi capelli scuri, per la profondità dei
suoi occhi, o magari solo per il fatto che aveva
ormai imparato ad accorgersi di certe cose,
proprio come ci si aspettava da uno
Shadowhunter. La ragazza, a sua volta, sapeva
che lei sapeva, Clary ne era certa. Sorrise
mostrandole i suoi piccoli canini appuntiti, poi
si piegò per farli scorrere sul collo di
Sebastian. Le palpebre di lui vennero percorse
da un fremito, ciglia bionde che si abbassavano
su occhi di carbone. Di sottecchi, guardò Clary
ignorando Jace.
— Ti è piaciuta la seratina?
Clary avrebbe voluto rispondergli male, ma si
limitò ad annuire.
— Bene, allora volete unirvi a noi? — disse
indicando se stesso e le due ragazze. — Per un
drink?
La mora scoppiò a ridere e chiese qualcosa a
Sebastian, in italiano.
— No — rispose Sebastian nella stessa lingua.
— Lei è mia sorella.
La ragazza si appoggiò all’indietro sullo
schienale, con l’espressione delusa. Clary si
sentiva la bocca asciutta. All’improvviso sentì
la mano di Jace contro la sua, il tocco ruvido
delle dita callose. — No grazie — disse. — Noi
andiamo di sopra. Ci vediamo domani mattina.
Sebastian fece svolazzare una mano, e l’anello
dei Morgenstern che aveva al dito catturò la
luce, splendendo come un fuoco di
segnalazione. — Ci vediamo! — gli disse in
italiano.
Jace condusse Clary fuori dalla stanza, su per
le scale di vetro. Soltanto quando furono in
corridoio lei ebbe la sensazione di aver ripreso
a respirare. Un conto era un Jace diverso. Un
altro Sebastian: il senso di minaccia che
emanava era come fumo attorno al fuoco. —
Che cosa ha detto? — chiese. — Le parole in
italiano, intendo.
Jace tradusse tutto, tranne quello che la
ragazza aveva chiesto a Sebastian.
— Lo fa spesso? — chiese Clary. Si erano
fermati davanti alla stanza di Jace, sulla soglia.
— Si porta spesso delle ragazze in casa?
Jace le accarezzò il viso. — Lui fa quello che
vuole e io non gli faccio domande — rispose. —
Potrebbe tornare con un coniglio rosa di un
metro e ottanta in bikini, se gli piace. Non
sono affari miei. Ma se stai chiedendo a me se
ho portato qui delle ragazze, la risposta è no.
Io voglio solo te.
Non era quello che voleva sapere, ma annuì
comunque, come se quelle parole l’avessero
rassicurata. — Non voglio tornare di sotto.
— Puoi dormire con me in camera mia,
stanotte. — Gli occhi d’ambra di Jace
splendevano al buio. — Oppure stare nella
camera padronale. Sai che non ti chiederei
mai…
— Voglio stare con te — furono le parole di
Clary, sbalordita dalla sua stessa irruenza.
Forse era soltanto perché l’idea di dormire
nella stanza dove un tempo aveva dormito
Valentine, quando lei viveva ancora con sua
madre, era troppo. O forse perché era stanca, e
aveva trascorso un’unica notte nello stesso
letto con Jace, quando avevano dormito
sfiorandosi soltanto le mani come se fra loro
giacesse una spada sguainata.
— Dammi un secondo per sistemare la stanza,
è un casino.
— Già, in effetti prima, quando ci sono
entrata, credo di aver visto un granello di
polvere sul davanzale. Farai meglio a
rimediare.
Lui le afferrò una ciocca di capelli,
pettinandogliela con le dita. — Non per andare
apposta contro i miei stessi interessi, ma… ti
serve qualcosa per dormire? Un pigiama, o…
Clary ripensò al guardaroba traboccante di
vestiti della camera padronale. Avrebbe dovuto
abituarsi all’idea, quindi tanto valeva iniziare
subito. — Vado a prendere una camicia da
notte.
Ovviamente, pensò qualche minuto dopo,
davanti all’armadio aperto, il tipo di pigiama
che gli uomini compravano per le loro donne
non coincideva necessariamente con quello
che loro avrebbero comprato per se stesse. Di
solito Clary dormiva con una canottiera e dei
pantaloncini corti, mentre lì dentro era un
trionfo di sete, pizzi, più vedo che non vedo, o
tutt’e tre le cose insieme. Alla fine scelse una
camicia da notte verde chiaro che le arrivava a
metà coscia. Ripensò alle unghie rosse della
ragazza al piano di sotto, quella con la mano
sul petto di Sebastian. Le sue erano
mangiucchiate, e sui piedi non osava mai
mettere più che smalto trasparente. Si chiese
come sarebbe stato assomigliare un po’ di più
a Isabelle, così consapevole del proprio potere
femminile da essere in grado di brandirlo
come una spada, invece di guardarlo perplessa,
con lo stesso disagio di qualcuno che ha
appena ricevuto un regalo per la casa nuova
ma non ha idea di dove metterlo.
Per scaramanzia, si toccò l’anello d’oro che
portava al dito, prima di dirigersi verso la
camera di Jace. Lui era seduto sul letto, a petto
nudo e coi pantaloni del pigiama neri,
impegnato a leggere un libro dentro il piccolo
alone giallo emanato dalla lampada del
comodino. Clary rimase in piedi a osservarlo
per qualche istante: vedeva il delicato gioco di
muscoli sotto la sua pelle mentre voltava le
pagine, ma anche il Marchio di Lilith, appena
sopra il cuore. Non assomigliava al ricamo
nero degli altri marchi. Era rosso e argento,
come mercurio sfumato di sangue. E non
sembrava roba sua.
La porta alle sue spalle si chiuse da sola con
uno scatto e a quel punto Jace alzò lo sguardo.
Clary gli vide cambiare espressione. Quella
camicia da notte non la faceva impazzire, ma
di sicuro aveva fatto colpo su di lui: vedere la
sua reazione le fece venire un brivido sulla
pelle.
— Hai freddo? — Jace tirò indietro le coperte,
e lei si infilò nel letto accanto a lui, che nel
frattempo aveva buttato il libro sul comodino.
Si rannicchiarono insieme sotto le lenzuola,
finché non furono faccia a faccia. Erano
rimasti sdraiati nella gondola, a baciarsi, per
quelle che le erano parse ore, ma adesso era
diverso. Prima erano in un luogo pubblico,
sotto lo sguardo della città e delle stelle. Quella
invece era un’intimità inattesa, soltanto loro
due sotto la coperta, i respiri e il calore dei
corpi che si fondevano. Nessuno a guardarli,
nessuno a fermarli, nessun motivo per farlo.
Quando lui allungò una mano per accarezzarle
la guancia, il sangue le palpitava nei timpani
così forte da farle temere di diventare sorda.
Avevano gli occhi così vicini che lei riusciva a
distinguere il disegno di pagliuzze dorate, più
chiare e più scure, dentro le iridi di lui, simile a
un mosaico di opale. Clary aveva avuto freddo
per molto tempo, ma ora si sentiva come se
stesse bruciando e sciogliendosi allo stesso
tempo, dissolvendosi dentro di lui; e si stavano
a malapena sfiorando. Scoprì il proprio
sguardo che esplorava i punti in cui lui era più
vulnerabile: tempie, occhi, il palpito alla base
del collo che la invitava a baciarlo proprio lì,
per sentire il suo battito cardiaco sulle labbra.
La mano destra di lui, coperta di cicatrici, le
stava scendendo dalla guancia alla spalla, per
poi accarezzarla lungo la schiena, in un unico,
lento gesto che terminò all’altezza dei fianchi.
Ora Clary capiva come mai agli uomini
piacevano tanto le camicie da notte di seta:
non c’era attrito, era come lasciar scorrere le
mani su una superficie di vetro. — Dimmi cosa
vuoi — le disse con un sussurro a malapena in
grado di celare il tono ruvido della voce.
— Voglio solo che mi stringi — rispose lei. —
Mentre dormo. Adesso non voglio altro.
Le dita di lui, che le stavano tracciando lenti
cerchi sul fianco, si fermarono. — Tutto qui?
No, non era quello che voleva. Quello che
voleva era baciarlo fino a perdere la cognizione
del tempo e dello spazio, come prima sulla
gondola; baciarlo fino a dimenticare se stessa e
il motivo per cui era lì. Voleva usarlo come una
droga.
Ma era una pessima idea.
Lui la guardò, inquieto, e lei ricordò la prima
volta che lo aveva visto. Lo aveva trovato
bellissimo e mortale al tempo stesso, come un
leone. Questa è una prova, pensò. E forse
anche pericolosa. — Tutto qui.
Il petto di lui si gonfiava e si riabbassava.
Sembrava che il Marchio di Lilith gli pulsasse
sulla pelle, appena sopra il cuore. Le strinse la
mano sul fianco. Clary avvertiva il proprio
respiro, debole come una brezza marina.
Jace la tirò a sé, facendola girare finché non
furono incastrati come due cucchiai, la schiena
di lei rivolta verso lui. Clary deglutì per non
sussultare. Sentiva la sua pelle bollente, quasi
come se avesse la febbre. Ma le braccia che la
stavano avvolgendo erano familiari. Insieme
erano complementari, come sempre: la testa di
lei sotto il mento di lui, la schiena contro i
possenti muscoli di petto e addome, le gambe
piegate. — Va bene — sussurrò Jace, e la
sensazione del suo respiro sulla nuca fece
venire a Clary la pelle d’oca su tutto il corpo. —
Allora dormiamo.
E non ci fu altro. Piano piano il corpo di Clary
si distese, il palpitare del cuore rallentò. Le
braccia di Jace le davano la stessa sensazione
di sempre: conforto. Strinse le mani attorno a
quelle di lui e chiuse gli occhi, immaginando
che il letto sul quale giacevano fosse libero da
quella strana prigione, fluttuasse nello spazio o
sulla superficie di un oceano, loro due e basta.
Dormì così, la testa incastrata sotto il mento
di Jace, la schiena aderente al suo corpo, le
gambe intrecciate. Fu la migliore dormita da
settimane.
Simon era seduto sul bordo del letto, nella
camera degli ospiti di Magnus, guardando la
borsa che aveva sulle ginocchia.
Sentiva delle voci provenire dal salotto. Lo
stregone spiegava a Maia e a Jordan quanto
era accaduto quella notte, con Izzy che di tanto
in tanto interveniva per fornire dettagli.
Jordan propose di ordinare del cibo cinese per
non morire di fame, Maia rideva, e disse che
andava bene, purché non chiamassero il Lupo
di Giada.
Morire di fame, pensò Simon. Anche lui
cominciava ad avere appetito, abbastanza da
sentirsi le vene che tiravano. Era un tipo di
fame diversa da quella umana: si sentiva
svuotato, un vuoto infinito dentro. Se
qualcuno lo avesse colpito, l’avrebbe fatto
tintinnare come un campanello.
— Simon — si aprì la porta e Isabelle entrò in
camera. Aveva i capelli sciolti, le arrivavano
quasi alla vita. — Tutto bene?
— Bene.
Gli vide la borsa sulle gambe e le spalle le si
irrigidirono. — Te ne stai andando?
— Be’, non avevo in programma di fermarmi
qui per sempre — rispose lui. — Voglio dire,
l’altra sera era… diverso. Tu mi avevi chiesto…
— Giusto — fece lei con un tono di voce
squillante e innaturale. — Almeno fatti
accompagnare da Jordan. A proposito, hai
notato lui e Maia?
— Notato cosa?
Lei abbassò la voce. — Durante la loro
gitarella è sicuramente successo qualcosa…
Adesso sono tutti moine!
— Bene, allora.
— Sei geloso?
— Geloso? — ripeté lui, perplesso.
— Be’, tu e Maia… — Fece ondeggiare una
mano, guardandolo da sotto le sue lunghe
ciglia. — Voi due…
— Ah. No. No, per niente. Sono contento per
Jordan. Ne sarà felicissimo. — Ed era sincero.
— Bene. — Isabelle rialzò lo sguardo e Simon
notò che aveva le guance rosse, non solo per
via del freddo. — Questa notte ti fermeresti
qui, Simon?
— Con te?
Lei annuì, ma senza guardarlo. — Alec sta
uscendo per andare a recuperare altri vestiti
all’Istituto. Mi ha chiesto se volevo tornare con
lui ma… io preferirei restare qui con te. —
Sollevò il mento, ora guardando Simon dritto
in faccia. — Non voglio dormire da sola. Se
rimango qui, stai con me? — Lui capì quanto le
fosse costato fare quella domanda.
— Ma certo — le disse, con la massima
naturalezza possibile, togliendosi il pensiero
della fame dalla testa, o almeno provandoci.
L’ultima volta che aveva cercato di
dimenticarsi di bere, era andata a finire con
Jordan che lo strappava dal corpo
semicosciente di Maureen.
Ma quello era stato dopo che era rimasto per
giorni senza mangiare. Adesso era diverso.
Conosceva i suoi limiti, ne era certo.
— Sì, Isabelle — ribadì. — Sarebbe fantastico.
Dal divano, Camille lanciò ad Alec un
sorrisetto ammiccante. — E Magnus, adesso,
dove crede che tu sia?
Alec, che aveva appoggiato una tavola di
legno sopra due blocchi di calcestruzzo per
formare una specie di panchina, distese le
lunghe gambe e si guardò gli stivali. —
All’Istituto a prendere dei vestiti. Stavo per
andare a Spanish Harlem, invece sono venuto
qui.
Lo sguardo di lei si assottigliò. — E come
mai?
— Perché non posso farlo. Non posso
uccidere Raphael.
Camille buttò in aria le mani. — E perché no?
Hai con lui un qualche legame personale?
— Lo conosco appena — rispose Alec. — Ma
ucciderlo
significherebbe
infrangere
deliberatamente la Legge dell’Alleanza. Non
che non mi sia mai capitato di violare le Leggi,
ma c’è differenza tra farlo per un buon motivo
o farlo solo a scopo personale.
— Ossignore. — Camille si alzò e iniziò a
camminare avanti e indietro. — Risparmiami
la storia che i Nephilim hanno una coscienza.
— Mi dispiace.
Lei lo fissò. — Ti dispiace?! Ora ti faccio
vedere io cosa… — Si interruppe. — Alexander
— proseguì in tono più composto. — Cosa mi
dici di Magnus? Se continui così, lo perderai.
Alec la guardò mentre si muoveva, felina ed
elegante, col viso sgombro di tutto tranne che
di una strana comprensione. — Dov’è nato
Magnus?
Camille rise. — Non sai nemmeno quello?
Santo cielo. Batavia, se vuoi saperlo. — Fece
una smorfia in risposta all’espressione confusa
di lui. — Indonesia, che all’epoca si chiamava
Indie Orientali Olandesi. Sua madre era del
posto, credo, e suo padre uno stupido
colonialista. Be’, non il suo vero padre,
ovviamente. — Le labbra le si incurvarono in
un sorriso.
— E chi era il suo vero padre?
— Il padre di Magnus? Ma un demone, che
domande!
— D’accordo, ma quale?
— Che importanza ha, Alexander?
— Ho come la sensazione — proseguì Alec,
ostinato — che si trattasse di un demone
piuttosto potente, di alto livello. Solo che lui
non ne vuole parlare.
Camille si ributtò sul divano con un sospiro.
— Certo che no. In una relazione bisogna
mantenere un certo mistero, Alec Lightwood.
Un libro che non si è ancora letto è sempre
molto più interessante di un altro che si
conosce a memoria.
— Vuoi dire che io gli racconto troppo di me?
— Alec voleva aggrapparsi a un brandello di
consiglio. Lì, da qualche parte, dentro
quell’involucro di donna freddo e bellissimo,
c’era qualcuno che aveva condiviso con lui
un’esperienza unica: amare ed essere riamato
da Magnus. Lei doveva sicuramente sapere
qualcosa, conoscere un segreto di qualche tipo,
avere la chiave per impedirgli di mandare tutto
a rotoli.
— Molto probabilmente, anche se sei vivo da
così poco tempo che non riesco a immaginarmi
quante cose potresti avere da dire. Sarai di
sicuro a corto di aneddoti.
— Comunque mi pare evidente che anche la
tua scelta di non dirgli niente non abbia
funzionato.
— Io non volevo tenermelo quanto lo vuoi tu.
— E se… — esordì Alec, sapendo che la sua
era una pessima idea, ma incapace di fermarsi.
— E se invece tu lo avessi voluto, cosa avresti
fatto di diverso?
Camille emise un sospiro teatrale. — Ciò che
sei troppo giovane per capire è che tutti
nascondiamo qualcosa. Lo nascondiamo a chi
amiamo perché vogliamo mostrare soltanto il
meglio di noi, ma anche perché, se si tratta di
vero amore, ci aspettiamo semplicemente di
essere capiti senza bisogno di chiederlo. In un
rapporto sincero, di quelli che durano nel
tempo, esiste una tacita comunione.
— M-ma… — balbettò Alec — io pensavo
volesse che mi confidassi. Voglio dire, ho avuto
dei problemi ad aprirmi anche con persone che
conosco da tutta la vita, come Isabelle o Jace…
Camille sbuffò. — Quella è un’altra cosa —
disse. — Quando hai trovato il vero amore, non
ti serve nessun altro nella vita. Non c’è da
stupirsi se Magnus sente di non potersi
confidare, se tu fai così tanto affidamento su
queste altre persone. Quando è vero amore,
dovresti soddisfare ogni desiderio, ogni
bisogno dell’altro… Mi stai ascoltando, giovane
Alexander? Perché i miei consigli sono
preziosi, e non li do tanto spesso…
La stanza era inondata dalla luce traslucida
dell’alba. Clary si mise seduta, guardando
Jace che dormiva. Era sul fianco, i capelli
bronzo chiaro nell’aria bluastra. Si faceva da
guanciale con una mano, come un bambino.
La cicatrice a forma di stella sulla spalla era
scoperta, così come i disegni di vecchie rune
su e giù per le braccia, dietro e sui lati.
Si chiese se altre persone avrebbero trovato
le cicatrici belle quanto le trovava lei, o se le
vedeva così soltanto perché lo amava ed
erano parte di lui. Alcune gli avevano persino
salvato la vita.
Jace mormorò nel sonno e si voltò sulla
schiena. La mano, con la runa della
Chiaroveggenza nera ed evidente sul dorso,
era aperta sugli addominali. Più in alto c’era
un’altra runa, quella che a Clary non
piaceva: il Marchio di Lilith, il vincolo che lo
legava a Sebastian.
Sembrava pulsare, in un modo che le
ricordava il ciondolo di rubino di Isabelle,
come un secondo cuore.
Con le movenze silenziose di un gatto, si
spostò e si mise sulle ginocchia. Tolse dal
muro il pugnale degli Herondale. La foto di
lei e di Jace svolazzò a terra, volteggiando
nell’aria prima di cadere a faccia in giù.
Deglutì e si girò per guardarlo. Anche
adesso era così vivo, come avesse un bagliore
interiore, un fuoco che lo accendeva. La
cicatrice sul petto pulsava al suo solito ritmo
regolare.
Sollevò il coltello.
Clary si svegliò di soprassalto, col cuore che le
martellava contro la gabbia toracica. La stanza
le ruotava attorno come una giostra: era
ancora buio, il braccio di Jace attorno a lei, il
suo respiro caldo sulla nuca. Sentiva il suo
battito cardiaco contro la schiena. Chiuse gli
occhi, deglutendo per soffocare il sapore
amaro che aveva in bocca.
Era stato un sogno. Soltanto un sogno.
Ma ormai di riaddormentarsi non se ne
parlava. Si mise piano a sedere, spostando con
cautela il braccio di Jace, poi scese dal letto.
Il pavimento era gelido e, quando ci appoggiò
sopra i piedi nudi, fece una smorfia. Nella
penombra trovò il pomello della porta e la
aprì. Restando di sasso.
Anche se il corridoio non aveva finestre, era
illuminato da lampadari a bracci. Il pavimento
era macchiato da qualcosa dall’aspetto scuro e
appiccicoso. Lungo una parete dipinta di
bianco c’era la netta impronta di una mano…
fatta col sangue. Altro sangue inzaccherava il
muro a tratti, fino alle scale, dove c’era
un’unica, lunga scia.
Clary guardò verso la stanza di Sebastian.
C’era silenzio, la porta era chiusa, nessuna luce
da sotto. Pensò alla ragazza bionda con il top
di lustrini che lo guardava. Guardò di nuovo
l’impronta della mano. Era come un
messaggio, una mano aperta per dire basta.
E poi la porta di Sebastian si aprì, e lui uscì.
Indossava una maglietta e dei jeans neri, i
capelli argentei erano scompigliati. Stava
sbadigliando, e quando vide Clary si spaventò,
con un’espressione di autentico stupore sul
viso. — Cosa ci fai alzata?
Clary trattenne il respiro. L’aria sapeva di
metallo. — Cosa ci faccio? E tu cosa ci fai?
— Scendo di sotto a prendere degli
asciugamani per pulire questo casino —
rispose in tono molto pratico. — I vampiri e i
loro giochetti…
— Non mi sembrano i resti di un gioco —
disse Clary. — La ragazza… l’umana che era
con te… Che cosa le è successo?
— Si è un po’ spaventata quando ha visto i
canini. A volte capita. — Notando l’espressione
di Clary, Sebastian scoppiò a ridere. — Ma si è
ripresa. E ne voleva ancora. Adesso è nel mio
letto che dorme, se vuoi andare a controllare
che sia ancora viva.
— No… non è necessario. — Clary abbassò di
colpo lo sguardo. Avrebbe preferito indossare
qualcos’altro, oltre a quella camicia da notte di
seta. Si sentiva svestita. — E tu?
— Mi stai chiedendo se sto bene? — Non era
così, ma Sebastian sembrava compiaciuto.
Spostò di lato il colletto della maglietta,
mostrandole due netti fori sopra la clavicola. —
Potrei usare un iratze.
Clary non disse nulla.
— Vieni al piano di sotto — le disse lui,
facendole segno di seguirlo mentre la
oltrepassava per scendere le scale di vetro. Un
istante dopo, Clary fece come le era stato
chiesto. Strada facendo, lui accese le luci, così
che, quando furono in cucina, il locale brillava
di un giallo caldo. — Vino? — le chiese aprendo
lo sportello del frigorifero.
Lei si sedette su uno degli sgabelli del
bancone, tirando giù l’orlo della camicia da
notte. — Solo acqua.
Lo guardò mentre versava due bicchieri: uno
per lei e uno per sé. I movimenti fluidi,
essenziali, erano quelli di Jocelyn, mentre
l’autocontrollo con cui agiva doveva essergli
stato instillato da Valentine. Le ricordava il
modo in cui si muoveva Jace, come un
ballerino ben allenato.
Spinse l’acqua verso di lei con una mano
mentre con l’altra si portava il suo bicchiere
alle labbra. Finito di bere, lo riappoggiò con un
tonfo sul bancone della cucina. —
Probabilmente lo saprai anche tu, ma giocare
coi vampiri ti fa sempre venire sete.
— E perché dovrei saperlo? — la domanda le
uscì più brusca del previsto.
Lui fece spallucce. — Ho pensato che, con
quel Diurno, ti sarai pure mordicchiata un
po’…
— Io e Simon non ci siamo mai mordicchiati
— disse Clary in tono glaciale. — Anzi, non
riesco a immaginare il motivo per cui qualcuno
dovrebbe aver voglia di farsi mordere da un
vampiro. Non dicevi di odiare e disprezzare i
Nascosti?
— No — rispose lui. — Non confondermi con
Valentine.
— Già — mormorò lei. — Grave errore.
— Non è colpa mia se io assomiglio come una
goccia d’acqua a lui e tu a lei. — La bocca di
Sebastian si corrugò in un’espressione di
disgusto al pensiero di Jocelyn. Clary lo guardò
con cipiglio. — Ecco, ci risiamo, mi guardi
sempre in quel modo — disse lui.
— Quale modo?
— Come se fossi uno che incendia le tane
degli animali e si accende le sigarette con gli
orfanelli. — Si versò un altro bicchiere d’acqua.
Quando voltò il viso dall’altra parte, Clary notò
che le punture dei canini stavano già
cominciando a rimarginarsi.
— Hai ucciso un bambino — sbottò, brusca,
sapendo, mentre parlava, che avrebbe fatto
meglio a tenere la bocca chiusa e a fingere che
Sebastian non fosse un mostro. Solo che Max…
Max era vivo nei suoi pensieri come la prima
volta che lo aveva visto, addormentato sul
divano dell’Istituto con un libro sulle gambe e
gli occhiali storti sul faccino. — Non è una cosa
per cui si può essere perdonati, mai.
Sebastian inspirò profondamente. — Dunque
è così — disse. — Subito carte scoperte sul
tavolo, sorellina?
— Che cosa pensavi? — La voce di Clary
risuonò debole e stanca alle sue stesse
orecchie, ma Sebastian indietreggiò come se lei
avesse tentato di morderlo.
— Mi crederesti se ti dicessi che fu un
incidente? — chiese, appoggiando il bicchiere
sul bancone. — Non volevo ucciderlo. Soltanto
metterlo fuori combattimento, così non
avrebbe detto…
Clary lo zittì con uno sguardo. Sapeva di non
poter nascondere l’odio che aveva negli occhi.
Sapeva anche che sarebbe stato meglio farlo,
ma le era impossibile.
— Davvero. Volevo colpirlo come ho fatto con
Isabelle. Ho sottovalutato la mia forza.
— E Sebastian Verlac? Quello vero? Lo hai
ucciso, no?
Sebastian si guardò le mani come se gli
fossero estranee. Al polso destro portava una
catenina d’argento con appesa una targhetta di
metallo, simile a quelle militari. Nascondeva il
punto dove Isabelle gli aveva amputato la
mano. — Non pensavo che avrebbe reagito…
Disgustata, Clary cominciò a scivolare giù
dallo sgabello, ma Sebastian le afferrò un polso
e la tirò verso di sé. Sentiva la pelle calda
contro la sua e, quel gesto le ricordò quando, a
Idris, il suo tocco l’aveva ustionata. —
Jonathan Morgenstern ha ucciso Max. Ma se
non fossi più la stessa persona? Non ti sei
accorta che non uso più lo stesso nome?
— Lasciami andare.
— Tu credi che Jace sia diverso — replicò lui
con calma. — Credi che non sia la stessa
persona, che il mio sangue lo abbia cambiato,
non è vero?
Lei annuì senza parlare.
— E allora perché ti è così difficile credere che
anche per me possa essere lo stesso? Magari il
suo sangue mi ha cambiato. Magari non sono
la stessa persona.
— Hai pugnalato Luke — disse Clary. — Una
persona a cui tengo molto. Una persona a cui
voglio bene…
— Stava per farmi a pezzi col suo fucile —
ribatté Sebastian. — Tu gli vuoi bene, io non lo
conosco. Stavo salvando la mia vita e quella di
Jace. Sul serio non riesci a capirlo?
— E magari stai dicendo quello che mi dici
soltanto per fare in modo che io mi fidi di te.
— Pensi che alla persona che ero
importerebbe se tu ti fidassi o no di me?
— Sì, se tu volessi qualcosa.
— Forse soltanto una sorella.
A quelle parole, gli occhi di lei puntarono su
quelli di lui. Involontariamente, increduli. —
Tu non sai cos’è una famiglia — gli disse. — O
cosa faresti con una sorella, se ne avessi una.
— Ne ho una. — Parlava a voce bassa. Il
colletto della maglietta era sporco di sangue
nel punto in cui gli toccava la pelle. — Ti sto
dando una possibilità. E vedere quello che io e
Jace stiamo facendo è la cosa giusta. Puoi
darmene una anche tu?
Ripensò al Sebastian che aveva conosciuto a
Idris. Lo aveva sentito divertito, gentile,
distaccato, ironico, appassionato e arrabbiato.
Ma non lo aveva mai sentito supplicante.
— Jace si fida di te — disse. — Io invece no.
Pensa che tu lo ami abbastanza da ribaltare
qualsiasi cosa a cui tu abbia mai dato valore o
in cui tu abbia mai creduto per seguirlo e stare
con lui. A ogni costo.
Clary sentì le mascelle irrigidirsi. — E come
fai a sapere che io non lo farei?
Lui rise. — Perché sei mia sorella.
— Non ci assomigliamo per niente — affermò
Clary con disprezzo. Vide il lento sorriso che si
formava sul viso di Sebastian ed evitò di
aggiungere altro, ma ormai era tardi.
— È quello che avrei detto io — ribatté
Sebastian. — Ma andiamo, Clary, sei qui, non
puoi tornare indietro. Per Jace hai messo in
gioco tutto, tanto vale che tu lo faccia col
cuore, che tu sia parte di quello che sta
succedendo. Poi potrai decidere cosa fare
con… me.
Senza guardare lui ma il pavimento di
marmo, Clary annuì, molto lentamente.
Sebastian le si avvicinò, spostandole i capelli
che le erano caduti sugli occhi. Le luci della
cucina si riflessero sul braccialetto che gli
aveva notato prima, quello con delle lettere
incise. Acheronta movebo. Con audacia, gli
mise una mano sul polso. — Che cosa vuol
dire?
Lui le guardò la mano, nel punto in cui gli
stava toccando l’argento sul polso. — Significa
“Mi muoverò contro i tiranni”. Lo porto per
ricordarmi del Conclave. Si dice che l’abbiano
gridato i congiurati nell’uccidere Giulio Cesare
prima che diventasse un despota.
— Traditori — disse Clary, lasciando la presa.
Lo sguardo scuro di Sebastian venne
attraversato da un lampo. — O uomini che
lottavano per la libertà. Sono i vincitori a
scrivere la storia, sorellina.
— E tu hai intenzione di scrivere questa
parte?
Lui le sorrise, gli occhi brillanti. — Ci puoi
scommettere.
capitolo 12
MATERIA CELESTE
Quando Alec tornò a casa di Magnus, tutte le
luci erano spente, ma il soggiorno era ancora
rischiarato dalle fiamme bianco-azzurre. Gli ci
volle un po’ per capire che provenivano dal
pentagramma.
Si tolse le scarpe sulla porta e camminò il più
silenziosamente possibile verso la camera
padronale. Era buia, con un fascio di luci
natalizie multicolori avvolte alla cornice della
finestra come unica fonte di luce. Magnus
dormiva in posizione supina, le coperte fino
alla vita, la mano aperta su una pancia senza
ombelico.
Alec si spogliò in fretta e, rimasto in boxer, si
infilò nel letto sperando di non svegliare
l’altro. Purtroppo non aveva tenuto conto di
Chairman Meow, che si era acciambellato sotto
le lenzuola: il gomito gli finì dritto sulla coda
del gatto, che lanciò un miagolio di dolore e
saettò sul pavimento facendo svegliare
Magnus. Lo stregone si mise a sedere e
strofinò gli occhi.
— Che sta succedendo?
— Niente — disse Alec, maledicendo dentro di
sé tutti i gatti. — Non riuscivo a dormire.
— E quindi sei uscito? — Magnus rotolò sul
fianco e gli toccò una spalla nuda. — Hai la
pelle fredda e l’odore della notte…
— Ho camminato qui attorno — rispose Alec,
contento che la stanza fosse abbastanza buia
da non permettere a Magnus di guardarlo in
faccia. Sapeva di non essere per niente bravo a
mentire.
— Attorno dove?
In una relazione bisogna mantenere un certo
mistero, Alec Lightwood.
— Vari luoghi — rispose Alec in tono vago. —
Sai com’è, luoghi misteriosi.
— Misteriosi?
L’altro annuì.
Magnus ricadde all’indietro sui cuscini. — Mi
sa che sei stato nel paese dei matti, altro che —
mormorò richiudendo gli occhi. — Non mi hai
portato niente?
Alec si chinò su di lui e gli diede un bacio
sulla bocca. — Solo questo — gli sussurrò
piano prima di rialzarsi. Magnus però, che
aveva cominciato a sorridere, gli afferrò le
braccia.
— Be’, visto che mi hai svegliato — gli disse —
facciamo in modo che ne sia valsa la pena —
concluse tirando Alec sopra di sé.
Considerato che avevano già trascorso una
notte nello stesso letto, Simon non si aspettava
che la seconda volta con Isabelle sarebbe stata
così imbarazzante. Però ora era sobria, e
sveglia, nonché chiaramente in attesa di
qualcosa da parte sua. Il problema era che lui
non sapeva bene cosa.
Le aveva prestato una delle sue camicie e, per
gentilezza, aveva distolto lo sguardo mentre lei
si infilava sotto le lenzuola, sul bordo del
materasso, lasciandogli un sacco di spazio.
Lui non si prese la briga di cambiarsi; si
limitò a togliere scarpe e calze e a entrare nel
letto con ancora jeans e maglietta addosso.
Rimasero sdraiati l’uno accanto all’altra per un
momento, poi Isabelle gli rotolò vicino e gli
mise un braccio attorno al fianco. Si
scontrarono con le ginocchia. Poi una delle
unghie dei piedi di Isabelle gli graffiò la
caviglia. Cercò di spostarsi in avanti, e
picchiarono la fronte.
— Ahia! — esclamò Isabelle, scandalizzata. —
Non dovresti essere un po’ più bravo in queste
cose?
Simon non capì. — E perché?
— Tutte quelle notti passate a letto con Clary,
avvolti nei vostri magnifici abbracci platonici
— disse premendogli il viso contro la spalla e
soffocando così la voce. — Pensavo che…
— Abbiamo dormito e basta — ribatté Simon.
Non voleva dirle niente su come Clary aderisse
perfettamente al suo corpo, su come stare
insieme nello stesso letto fosse naturale come
respirare, sul modo in cui il profumo dei suoi
capelli gli ricordava l’infanzia, il sole, la
semplicità e la grazia. Aveva una vaga
sensazione che tutti quei dettagli non
sarebbero stati di grande aiuto.
— Lo so. Io, però, non dormo e basta — gli
disse Isabelle in tono irritato. — Con nessuno.
Nemmeno mi fermo tutta la notte. Voglio dire,
non lo faccio mai e poi mai.
— Hai detto tu che volevi…
— Oh, stai zitto. — Lo baciò. In quello ebbe
relativamente più successo. Non era la prima
volta che baciava Isabelle: adorava la
morbidezza delle sue labbra, la sensazione che
provavano le sue mani nello sfiorarle i lunghi
capelli neri… Ma quando lei gli si strinse
contro, sentì anche il calore del suo corpo, le
lunghe gambe nude contro di sé, il pulsare del
sangue… E lo scatto dei canini che gli
spuntavano fuori.
Si ritrasse immediatamente.
— E adesso cosa c’è? Non vuoi baciarmi?
— Sì — cercò di dire lui, ma c’erano di mezzo i
canini. Isabelle sgranò gli occhi.
— Oh, hai fame — disse. — Quando è stata
l’ultima volta che hai bevuto del sangue?
— Ieri — riuscì a dire Simon, non senza
difficoltà.
Isabelle si distese sul cuscino. Aveva occhi
grandi, neri e lucidi. — Forse dovresti
mangiare. Lo sai cosa succede se non lo fai.
— Non ho sangue con me. Dovrei tornare a
casa — spiegò lui mentre i canini
cominciavano a ritrarsi.
Isabelle lo prese per un braccio. — Non c’è
bisogno che tu beva sangue animale freddo. Ci
sono qui io.
Lo shock di quelle parole fu per lui come una
scarica di energia che gli saettò dentro il corpo,
mandandogli i nervi in fiamme. — Stai
scherzando.
— Invece no. — Isabelle cominciò a
sbottonarsi la camicia, scoprendo prima il
collo fino alla base, il tracciato delle vene
visibile sotto la pelle diafana. Poi la camicia si
aprì del tutto. Il reggiseno blu copriva ben più
di quanto avrebbero potuto fare molti bikini,
ma Simon si sentì lo stesso prosciugare la
bocca. Il rubino di lei brillava come un
semaforo rosso sotto le clavicole. Isabelle.
Come se gli stesse leggendo nella mente, lei si
sollevò e si scostò i capelli, mettendoli tutti da
una parte e lasciando scoperto l’altro lato del
collo. — Non vuoi…?
Lui la prese per il polso. — Isabelle, non farlo
— la supplicò. — Non riesco a controllarmi, a
controllare tutto questo. Potrei farti male,
ucciderti.
A lei brillò lo sguardo. — Non lo farai. Sei in
grado di trattenerti. Con Jace l’hai fatto.
— Ma io non sono attratto da Jace!
— Nemmeno un po’? — gli disse Isabelle
speranzosa. — Pochino pochino? Perché
sarebbe piuttosto eccitante. D’accordo,
pazienza. Senti, attrazione o no, quando stavi
letteralmente morendo di fame l’hai morso,
eppure sei riuscito a staccarti.
— Ma con Maureen non ce l’ho fatta. È
dovuto intervenire Jordan.
— L’avresti fatto. — Alzò un dito e glielo
premette contro le labbra, poi lo fece scorrere
lungo la gola, sul petto, fino al punto in cui una
volta gli batteva il cuore. — Mi fido di te.
— Forse non dovresti.
— Sono una Shadowhunter. Saprei
difendermi, se fosse necessario.
— Jace non l’ha fatto.
— Jace è innamorato dell’idea di morire —
ribatté lei. — Io invece no! — Gli serrò i fianchi
tra le gambe, dotate di una flessuosità
straordinaria, e scivolò in avanti fino a
sfiorargli le labbra con le sue. Simon voleva
baciarla, lo voleva così tanto che tutto il corpo
gli faceva male. Aprì la bocca con fare esitante,
le toccò la lingua con la propria e avvertì un
dolore acuto. L’aveva fatta scorrere contro il
bordo tagliente del canino: sentì il sapore del
suo stesso sangue e si ritrasse di scatto,
voltando la faccia.
— Isabelle, non posso. — Chiuse gli occhi. Lei
era calda e delicata sulle sue cosce, tentatrice,
seducente. I canini gli facevano malissimo; si
sentiva come se del filo spinato gli si stesse
attorcigliando in tutte le vene del corpo. —
Non voglio che tu mi veda in queste
condizioni.
— Simon. — Con dolcezza lei gli sfiorò la
guancia, girandogli il viso verso di sé. —
Questo sei tu…
I canini si erano ritratti, lentamente, ma
facevano ancora male. Simon si nascose il viso
tra le mani e parlò attraverso le dita. — Non ci
credo che lo vuoi davvero. Non ci credo che
vuoi me. Persino mia madre mi ha buttato
fuori di casa. Ho morso Maureen… Era
soltanto una bambina. Insomma, guardami,
guarda quello che sono, dove vivo e cosa
faccio. Sono una nullità.
Isabelle gli accarezzò piano i capelli. Lui la
guardò, sempre senza spostare le mani. Da
vicino vedeva che gli occhi di lei non erano
neri, ma castano molto scuro, screziati d’oro.
Era certo di leggervi dentro della compassione.
Non sapeva cosa Isabelle si aspettasse di
sentire. Lei era una che usava i ragazzi e poi li
buttava via; era bellissima, forte, perfetta, e
non aveva bisogno di niente. Men che meno di
un vampiro che non era nemmeno bravo a fare
quello.
Sentiva il suo respiro. Un odore dolce, di
sangue, mortalità e gardenie. — Tu non sei una
nullità — gli disse. — Simon. Ti prego. Fatti
guardare in faccia.
Lui abbassò le mani, riluttante. Adesso la
vedeva meglio. Era dolce e attraente al chiaro
di luna, con la pelle pallida e vellutata, i capelli
simili a una cascata nera. — Guarda queste —
gli disse toccandosi le cicatrici bianche dei
marchi rimarginati che le spuntavano
sull’argento della pelle. Sopra il collo, le
braccia, le curve dei seni. — Orrende, non è
vero?
— Tu non hai niente di orrendo, Izzy — le
disse lui, sinceramente scioccato.
— Le ragazze non dovrebbero essere coperte
di cicatrici — osservò invece lei, realistica. —
Ma a te non danno fastidio.
— Fanno parte di te. No, certo che non mi
danno fastidio.
Gli toccò le labbra con le dita. — Ed essere un
vampiro fa parte di te. Non ti ho detto di
venire qui la scorsa notte solo perché non
avevo in mente nessun altro a cui chiederlo.
Volevo stare con te, Simon. Questa cosa mi
spaventa a morte, ma è così.
Gli occhi le luccicavano, e prima che lui
potesse chiedersi per più di un istante se
fossero lacrime, si era già chinato a baciarla. E
quella volta non ci fu imbarazzo. Lei gli si
abbandonò contro, lui la prese e la girò,
mettendola sopra di sé. I lunghi capelli neri di
Isabelle li coprivano entrambi come una tenda.
Lei gli sussurrò dolcemente qualcosa, mentre
lui le faceva scorrere le mani su per la schiena.
Sentiva, sotto la punta delle dita, i rilievi delle
cicatrici e voleva dirle che per lui erano decori,
prove di un coraggio che la rendeva soltanto
più bella. Ma per farlo avrebbe dovuto
smettere di baciarla, e non voleva. Lei gemeva
e si muoveva fra le sue braccia; gli tenne le dita
fra i capelli, mentre insieme rotolarono su un
fianco, finché lui non le fu di nuovo sopra.
Aveva le braccia colme del calore e della
dolcezza di lei, il suo sapore sulla bocca,
sentiva l’odore della sua pelle: sale, profumo
e… sangue.
Si irrigidì di nuovo, completamente, e
Isabelle se ne accorse. Gli prese le spalle, ed
era come se splendesse al buio. — Fallo — gli
sussurrò. Simon sentiva il cuore di Isabelle
battergli contro il petto. — Lo voglio.
Lui chiuse gli occhi, premette la fronte contro
quella di lei, cercò di calmarsi. I canini erano
spuntati di nuovo e premevano contro il labbro
inferiore, duri e pungenti. — No.
Le gambe lunghe e perfette di Isabelle avvolte
attorno a lui, le caviglie che lo bloccavano e lo
stringevano forte. — Voglio che tu lo faccia. —
Il seno gli si appiattì contro il petto mentre lei
inarcava il corpo verso di lui, scoprendo la
gola. L’odore del suo sangue era ovunque, lo
travolgeva, riempiva la stanza.
— Non hai paura? — le sussurrò.
— Sì. Ma voglio lo stesso.
— Isabelle… Io… non posso…
La morse.
I canini, taglienti come rasoi, si infilzarono
dentro la vena sul collo di Isabelle come
avrebbe potuto fare un coltello nella buccia di
una mela. Il sangue gli esplose in bocca. Non
aveva mai provato niente di simile prima di
allora. Con Jace era moribondo, con Maureen
il senso di colpa lo aveva assalito già mentre le
succhiava il sangue. Di sicuro non si sarebbe
mai nemmeno immaginato che, a qualcuno,
farsi mordere potesse addirittura dare piacere.
Isabelle invece ansimò, spalancando gli occhi
e inarcandosi ancora di più contro di lui.
Faceva le fusa come un gatto, gli accarezzava i
capelli, la schiena, piccoli movimenti
impazienti con cui gli diceva Non fermarti,
non fermarti. Emanava un calore che gli
entrava dentro, accendendogli il corpo; non
aveva mai provato, anzi immaginato qualcosa
di anche solo paragonabile. Riusciva a sentire
il battito forte e deciso di quel calore, che le
pulsava nelle vene e poi finiva nella sua bocca,
e in quel momento fu come tornare a vivere,
tanto che il cuore gli si contrasse di pura
ebbrezza.
Si staccò. Non seppe bene come, ma si staccò
e rotolò sulla schiena, conficcando forte le dita
nel bordo del materasso. Ancora rabbrividiva
mentre i canini gli si ritiravano. Tutta la stanza
luccicava, così come luccicava ogni cosa nei
brevi istanti dopo aver bevuto sangue umano,
vivo.
— Izzy… — le sussurrò. Aveva paura di
guardarla, paura che, senza più i suoi denti
dentro la gola, lo avrebbe guardato con terrore
e repulsione.
— Cosa?
— Non mi hai fermato — le disse, a metà fra
l’accusa e la speranza.
— Non volevo. — La guardò. Era sdraiata
sulla schiena, con il petto che le si gonfiava e
sgonfiava rapidamente, come se avesse corso.
Sui lati del collo c’erano due netti fori e due
rivoli di sangue che le colavano sul petto.
Obbedendo a un istinto che sembrava
arrivargli da dentro, Simon si chinò e le leccò il
sangue residuo, assaporando il sale,
assaporando
Isabelle.
Lei
rabbrividì,
scompigliandogli i capelli con le dita. —
Simon…
Lui si rialzò. Isabelle lo stava guardando con i
suoi grandi occhi neri, molto seri, e le guance
arrossate. — Io…
— Cosa? — Per un folle istante Simon pensò
che stesse per dirgli “ti amo”, invece lei scosse
la testa, sbadigliò e gli infilò un dito nel
passante della cintura, mentre con le altre
giocava sulla pelle nuda della vita.
Simon aveva letto da qualche parte che
sbadigliare era segno di carenza di sangue.
Andò nel panico. — Stai bene? Ho bevuto
troppo? Ti senti stanca? Stai…
Lei gli si avvicinò di scatto. — Sto be-ne. Ti sei
fermato da solo. E io sono una Shadowhunter.
Rimpiazziamo il sangue perduto tre volte più
in fretta degli esseri umani.
— Ti è… — Faticava a chiederglielo. — Ti è
piaciuto?
— Sì — rispose lei con voce profonda. — Mi è
piaciuto.
— Davvero?
Isabelle ridacchiò. — Non si capiva?
Si sollevò appoggiandosi a un gomito e
abbassò lo sguardo su Simon, coi grandi occhi
neri che le splendevano. Come facevano degli
occhi a essere così scuri e luminosi allo stesso
tempo? — Io non fingo, Simon — gli disse. —
Non mento e non faccio la commedia.
— Sei una rubacuori, Isabelle Lightwood — le
disse lui con tutta la dolcezza possibile, mentre
il suo sangue gli scorreva ancora come fuoco
dentro le vene. — Una volta Jace ha detto a
Clary che mi avresti camminato sopra con gli
stivali a tacco alto.
— Una volta, forse. Adesso sei diverso. — Lo
osservò. — Non hai paura di me.
Le toccò il viso. — E tu non hai paura di
niente.
— Non lo so. — I capelli le ricaddero in
avanti. — Magari sarai tu a spezzare il cuore a
me. — Prima che Simon potesse aggiungere
altro, lo baciò. Lui si chiese se Isabelle stesse
sentendo il sapore del proprio sangue. — E ora
zitto. Voglio dormire — gli disse lei,
rannicchiandosi contro di lui e chiudendo gli
occhi.
In qualche modo, ora, si adattavano come
prima non succedeva. Non c’era alcun
imbarazzo, non c’erano spintoni e calci contro
le gambe. La sensazione che provava Simon
non aveva a che fare con il ricordo
dell’infanzia, con il sole e la dolcezza: era
strana, calda, eccitante, potente e… diversa.
Rimase sveglio, con gli occhi puntati al soffitto
e una mano che accarezzava assente i setosi
capelli neri di lei. Si sentiva come se un
tornado lo avesse imprigionato e poi
depositato in qualche luogo sperduto, dove
niente gli era familiare. Alla fine voltò la testa e
diede a Izzy un bacio, molto leggero, sulla
fronte. Lei si stiracchiò e mormorò qualcosa,
ma non aprì gli occhi.
Quando Clary si svegliò, al mattino, Jace
dormiva ancora, rannicchiato al suo fianco e
con un braccio disteso, a sfiorarle appena la
spalla. Gli diede un bacio sulla guancia e si
alzò. Un attimo prima di andare in bagno per
farsi una doccia, venne presa dalla curiosità: si
avvicinò silenziosamente alla porta della
camera da letto e sbirciò fuori.
Il sangue in corridoio era sparito, l’intonaco
immacolato. Anzi, era talmente pulito che si
chiese se non fosse stato soltanto un sogno: il
sangue, la conversazione in cucina con
Sebastian, tutto quanto. Fece un passo fuori
dalla stanza, appoggiò una mano contro il
muro dove c’era l’impronta di sangue…
— Buongiorno.
Si voltò di scatto. Era suo fratello. Uscito
senza far rumore dalla camera, ora si trovava
in piedi a metà corridoio e la osservava con un
sorriso obliquo. Sembrava fresco di doccia;
ancora umidi, i suoi capelli chiari avevano la
tonalità dell’argento, quasi metallici.
— Hai intenzione di non togliertela più? — le
chiese adocchiando la camicia da notte.
— No, stavo solo… — Non voleva dirgli che
stava controllando se il corridoio fosse ancora
sporco di sangue. Lui si limitava a guardarla,
divertito e altezzoso. Clary indietreggiò. —
Andrò a vestirmi.
Sebastian le disse ancora qualcosa, ma lei non
si fermò per capire cosa. Tornò di scatto
dentro la camera di Jace e chiuse la porta
dietro di sé. Un istante dopo sentì delle voci in
corridoio: ancora Sebastian, e una ragazza, che
parlavano in un musicale italiano. La ragazza
della notte precedente, pensò Clary. Quella che
a detta di Sebastian era ancora nella sua
camera a dormire. Fu solo allora che si rese
conto di quanto avesse dubitato della sua
sincerità.
Invece era stato onesto. Ti sto dando una
possibilità, le aveva detto. Puoi darmene una
anche tu?
Poteva? Era di Sebastian che stavano
parlando. Ci rimuginò sopra senza sosta
mentre si faceva la doccia e si vestiva con cura.
I capi dentro il guardaroba, scelti per Jocelyn,
erano così distanti dal suo solito stile che
decidere cosa mettersi risultava difficile. Trovò
un paio di jeans, marca di lusso, a giudicare
dal cartellino ancora attaccato, e una camicia
di seta a pois, impreziosita da un fiocco al collo
con un tocco vintage che le piaceva. Ci mise
sopra la propria giacca di velluto e tornò in
camera di Jace, ma lui nel frattempo era
scomparso. In realtà non era difficile
indovinare dove: il tintinnio dei piatti, il suono
delle risate e l’odore di cibo salivano come
un’onda dal piano di sotto.
Scese i gradini di vetro due alla volta, ma si
fermò sull’ultimo, guardando verso la cucina.
Sebastian era appoggiato al frigorifero, braccia
incrociate, mentre Jace cuoceva in padella
qualcosa che prevedeva uova e cipolle come
ingredienti. Era a piedi nudi, coi capelli
scompigliati e la camicia abbottonata a caso. Il
cuore le fece una capriola. Non lo aveva mai
visto così, appena sveglio al mattino, con
ancora attorno la calda aura dorata del sonno,
e provò una tristezza pungente a pensare che
tutte quelle prime volte stavano accadendo
mentre Jace non era il suo Jace.
E questo anche se lui sembrava felice e
rideva, con lo sguardo riposato, mentre
rigirava le uova in padella e faceva scivolare
una omelette sul piatto. Sebastian gli disse
qualcosa, lui guardò verso di lei e le sorrise. —
Strapazzate o all’occhio di bue?
— Strapazzate. Non sapevo che sapessi
cucinare le uova. — Scese dal gradino e si
avvicinò al bancone della cucina. Il sole
entrava dalle finestre e i mobili splendevano di
vetro e acciaio cromato; in casa non c’erano
orologi, ma doveva essere mattino inoltrato.
— Chi è che non le sa fare? — chiese lui a voce
alta.
Clary alzò la mano, e nello stesso istante
Sebastian fece lo stesso. Lei non poté fare a
meno di rimanere stupita e si affrettò a
rimettere subito giù il braccio, non prima che
Sebastian la notasse e sorridesse.
Aveva sempre il sorriso sulle labbra. E Clary
avrebbe voluto farglielo sparire con una sberla.
Distolse lo sguardo e si mise a comporre un
piatto per la colazione con quello che c’era sul
tavolo: pane, burro, marmellata e pancetta a
fette rotonde, da masticare a lungo. C’erano
anche del succo di frutta e del tè. Doveva
ammettere che lì si mangiava parecchio bene,
anche se sapeva che, a eccezione di Simon, i
maschi adolescenti avevano perennemente
fame. Guardò verso la finestra… e rimase
senza parole. Il panorama non era più quello
di un canale, ma di una collina che si alzava
all’orizzonte, con in cima un castello.
— E adesso dove siamo? — chiese.
— A Praga — rispose Sebastian. — Io e Jace
abbiamo una commissione da sbrigare. —
Guardò anche lui fuori dalla finestra. — Anzi,
credo che dovremmo darci una mossa.
Lei gli fece un sorrisetto dolce. — Posso
venire con voi?
Sebastian scosse il capo. — No.
— E perché no? — Clary incrociò le braccia al
petto. — Cos’è, una cosa fra uomini in cui non
posso immischiarmi? Fra poco vi farete anche
lo stesso taglio di capelli?
Jace le allungò un piatto di uova fritte,
guardando Sebastian. — Forse dovrebbe venire
— gli disse. — Voglio dire, questa commissione
in particolare… Non è pericolosa.
Gli occhi di Sebastian erano come il bosco
della poesia di Robert Frost: bui e profondi.
Non lasciavano trapelare nulla. — Qualsiasi
cosa può rivelarsi pericolosa.
— Be’, la decisione spetta a te. — Jace fece
spallucce, prese una fragola, se la lanciò in
bocca e si leccò il succo dalle dita. Quella,
pensò Clary, era una chiara, totale differenza
fra quel Jace e il suo. Il Jace che conosceva lei
aveva una curiosità feroce, insaziabile, verso
ogni cosa: non avrebbe mai scrollato le spalle e
accettato passivamente il programma di un
altro. Era come un oceano che si abbatteva
incessante contro una costa rocciosa, mentre
quel Jace era… un fiume calmo che brillava al
sole.
Perché è felice?
La mano di Clary si strinse attorno alla
forchetta, tanto che le nocche le diventarono
bianche. Odiava quella vocina in testa. Come la
Regina Seelie, deponeva i semi del dubbio
dove non dovevano esserci, sollevava domande
quando non c’erano risposte.
— Vado a prendere le mie cose — annunciò
Jace rubando un’altra fragola dal piatto,
mettendosela in bocca e correndo su per le
scale. Clary alzò la testa. I gradini di vetro
trasparente sembravano invisibili, dando
l’impressione che Jace, invece di correre,
stesse volando verso l’alto.
— Non stai mangiando le uova. — Era
Sebastian. Aveva girato attorno al bancone,
ancora senza emettere il minimo rumore,
accidenti, e ora la stava guardando con le
sopracciglia sollevate. Aveva una punta di
accento straniero, un misto fra quello degli
abitanti di Idris e qualcosa di britannico. Si
chiese se fino a quel momento lo avesse
dissimulato o se fosse stata lei a non
accorgersene.
— A dire il vero le uova non mi piacciono —
confessò.
— Ma non volevi dirlo a Jace, perché
sembrava così soddisfatto di prepararti la
colazione…
Dato che aveva ragione, Clary non disse nulla.
— Divertenti, vero? — riprese Sebastian. — Le
bugie che dicono le persone buone. Ora vedrai
che ti preparerà le uova ogni giorno per il resto
della tua vita e tu dovrai mandarle giù, perché
non puoi più dirgli che non ti piacciono.
Clary ripensò alla Regina Seelie. — L’amore ci
rende tutti bugiardi?
— Esattamente. Sei una che impara in fretta,
vero? — Fece un passo verso di lei, che nel
frattempo si sentì ardere i nervi da un
pizzicore ansioso. Sebastian aveva usato la
stessa acqua di colonia di Jace. Riconobbe
l’aroma di agrumi e pepe nero, ma su di lui il
risultato era diverso; sbagliato, in un certo
senso. — È una cosa che abbiamo in comune —
disse Sebastian cominciando a sbottonarsi la
camicia.
Lei si alzò subito in piedi. — Cosa stai
facendo?
— Tranquilla, sorellina. — Fece scattare
l’ultimo bottone e la camicia si aprì del tutto.
Sul viso gli comparve un sorriso svogliato. —
Tu sei la ragazza dalla runa magica, vero?
Clary annuì lentamente.
— Voglio una runa della forza — le disse. — E
se tu sei la migliore, la voglio da te. Non
negheresti mai una runa al tuo fratellone,
giusto? — I suoi occhi scuri la scrutavano. — E
poi vuoi che ti dia una possibilità.
— E tu vuoi che te ne dia una io — rispose
Clary. — Allora ti faccio una proposta. Se mi
lasciate venire con voi, io ti do una runa della
forza.
Sebastian si tolse la camicia e la buttò sul
bancone. — Affare fatto.
— Però non ho lo stilo. — Non voleva
guardarlo, ma era difficile. Sembrava che lui
volesse invadere di proposito il suo spazio
personale. Aveva un fisico molto simile a
quello di Jace: tonico, senza un grammo di
troppo da nessuna parte, i muscoli ben
evidenti sotto la pelle. Anche lui aveva varie
cicatrici, ma era talmente pallido che
risaltavano meno che sulla pelle ambrata di
Jace; su suo fratello erano come di inchiostro
color argento su carta bianca.
Sebastian si sfilò uno stilo dalla cintura e
glielo passò. — Usa il mio.
— D’accordo — accettò lei. — Girati.
Lui obbedì. E lei dovette sforzarsi di non fare
un salto. La schiena nuda di Sebastian era
striata di cicatrici dai contorni frastagliati, una
vicina all’altra, troppo regolari per essere il
frutto di un qualche incidente.
Frustate.
— Chi è stato a farti questo?
— E chi, secondo te? Nostro padre — rispose
lui. — Usava una frusta di metallo demoniaco,
quindi qualsiasi iratze sarebbe stato inutile. I
segni mi servono da promemoria.
— Per cosa?
— Per i pericoli dell’obbedienza.
Clary toccò una delle cicatrici. La sentiva
ruvida e calda sotto la punta delle dita, come
se fosse ancora fresca, mentre la pelle tutto
attorno era morbida. — Non volevi dire
disobbedienza?
— Volevo dire quello che ho detto.
— Fanno male?
— Continuamente. — Si guardò dietro la
schiena con aria impaziente. — Cosa aspetti?
— Niente. — Clary gli appoggiò la punta dello
stilo sulla scapola, cercando di tenere la mano
ferma. Una parte della sua mente viaggiava
all’impazzata, pensando a quanto sarebbe
stato facile fargli un marchio che lo avrebbe
danneggiato, fatto ammalare, scosso fin nel
profondo delle interiora… Ma cosa sarebbe
successo a Jace? Scostandosi i capelli dal viso,
tracciò con attenzione la runa Fortis tra la
scapola e la colonna vertebrale, proprio dove,
se fosse stato un angelo, gli sarebbero spuntate
le ali.
Quando ebbe terminato, Sebastian si voltò e
le prese lo stilo, rimettendosi la camicia. Clary
non si aspettava ringraziamenti, e infatti non
ne ricevette. Mentre si rivestiva, lui fece
roteare le spalle all’indietro, sorridendo. — Sei
davvero brava — disse, ma non aggiunse altro.
Un secondo più tardi i gradini tremarono: era
Jace che stava tornando, mettendosi un
giubbotto scamosciato. Si era allacciato anche
la cintura con le armi e, alle mani, portava
guanti scuri senza dita.
Clary gli sorrise con un calore che in realtà
non provava. — Sebastian dice che posso
venire con voi.
Jace sollevò le sopracciglia. — Stesso taglio di
capelli per tutti, allora?
— Spero di no — rispose Sebastian. — I
boccoli mi stanno malissimo!
Clary si guardò. — Devo mettermi la divisa?
— Non direi. Non è il genere di missione da
cui ci si aspetta un combattimento. Però vado
a prenderti qualcosa dalla stanza delle armi —
le disse Sebastian, svanendo poi al piano di
sopra. Clary si maledì per non aver trovato da
sola quella stanza, malgrado le ricerche. Le
sarebbe servito a scovare qualche indizio per
capire cosa avevano davvero in mente quei
due…
Jace le toccò la guancia, e lei trasalì. Per poco
non si era dimenticata della sua presenza. —
Sei sicura di volerlo fare?
— Assolutamente. Restare chiusa qui dentro
mi fa impazzire. E poi sei stato tu a insegnarmi
a combattere, perciò immagino che, prima o
poi, volevi che lo facessi.
Le labbra di lui si contorsero in un sorriso
diabolico; le pettinò i capelli all’indietro e le
sussurrò all’orecchio qualcosa sul mettere in
pratica quello che le aveva insegnato. Si
allontanò quando li raggiunse Sebastian, la sua
giacca addosso e una cintura da armi in mano.
Dentro erano infilati un pugnale e una spada
angelica. Si sporse per tirare Clary verso di sé e
metterle la cintura attorno alla vita, facendo
due giri e aggiustandogliela bassa sui fianchi.
Lei era troppo sorpresa per respingerlo, e poi
lui finì prima che lei ne avesse anche solo la
possibilità. Voltandosi, Sebastian andò verso il
muro, dov’era comparsa la sagoma di una
porta, brillante come in un sogno.
Ci passarono attraverso.
Un debole colpo alla porta della biblioteca
spinse Maryse a sollevare la testa. Fuori dalle
finestre la giornata era grigia, uggiosa, e le
lampade col paralume verde creavano nella
stanza piccole pozze di luce. Non sapeva da
quanto tempo se ne stava seduta dietro quella
scrivania. La superficie davanti a sé era
disseminata di tazze da caffè vuote.
Si alzò in piedi. — Avanti.
La porta si aprì con un lieve scatto, ma
nessun rumore di passi. Un istante dopo una
figura avvolta in un mantello scivolò nella
stanza, col viso adombrato da un cappuccio. Ci
hai chiamato, Maryse Lightwood?
Maryse fece roteare le spalle all’indietro. Si
sentiva indolenzita, stanca, vecchia. — Fratello
Zaccaria. Mi aspettavo… be’, non importa.
Fratello Enoch? È un mio superiore, ma ho
pensato che magari la chiamata potesse
avere a che fare con la scomparsa di tuo figlio
adottivo. Tengo particolarmente alla sua
salute.
Lei lo guardò, incuriosita. Alla maggior parte
dei Fratelli Silenti non piaceva fare commenti,
né tantomeno parlare dei propri sentimenti
privati, sempre che ne avessero. Lisciando
all’indietro i capelli scompigliati, Maryse si
mise davanti alla scrivania. — Benissimo.
Voglio mostrarti una cosa.
Non era mai riuscita ad abituarsi davvero ai
Fratelli Silenti e al modo in cui si muovevano,
come se non toccassero terra. Fratello Zaccaria
sembrò librarsi accanto a lei quando lo
accompagnò attraverso la biblioteca per
mostrargli la cartina geografica del mondo
posta sulla parete a nord. Era una mappa degli
Shadowhunters,
con
Idris
al
centro
dell’Europa, e attorno le difese, come un
confine dorato.
Su una mensola sotto la mappa c’erano due
oggetti: una scheggia di vetro incrostata di
sangue secco e un polsino di pelle consunto e
decorato con la runa del potere angelico.
— Questi sono…
Il polsino di Jace Herondale e il sangue di
Jonathan Morgenstern. Deduco che i tentativi
di rintracciarli siano stati infruttuosi.
— Per la precisione, non si è trattato di
rintracciarli. — Maryse si raddrizzò . —
Quando appartenevo al Circolo, Valentine
usava un meccanismo per individuare la
posizione di tutti noi. A meno che non fossimo
in determinati luoghi protetti, lui sapeva
sempre dov’eravamo. Ho pensato che magari
aveva fatto lo stesso con Jace, quando era
piccolo, dato che non aveva mai problemi a
trovarlo.
A che genere di meccanismo ti riferisci?
— Un marchio. Non uno del Libro Grigio.
Tutti lo avevamo. Io me ne ero quasi
dimenticata; dopotutto, non c’era modo di
liberarsene.
Se anche Jace lo avesse, credi che non lo
saprebbe e che non cercherebbe di fare
qualcosa per impedirvi di usarlo e, quindi, di
trovarlo?
Maryse scosse la testa. — Potrebbe essere un
marchio bianco e minuscolo, praticamente
invisibile, sotto i capelli. Come il mio. In
questo caso non saprebbe di averlo. E poi
Valentine non aveva alcun interesse a dirglielo.
Fratello Zaccaria si allontanò da Maryse per
esaminare la cartina. E quale è stato il
risultato del tuo esperimento?
— Che Jace ce l’ha — dichiarò lei, senza però
sembrare né compiaciuta né trionfante per la
sua scoperta. — L’ho capito guardando la
cartina: quando compare Jace, si illumina, e
produce
una
specie
di
scintilla
in
corrispondenza della sua posizione. E
contemporaneamente si accende anche il
polsino, quindi so che si tratta di lui e non di
Jonathan Morgenstern, che invece sulla
cartina non compare mai.
E dov’è? Dov’è Jace?
— L’ho visto comparire, solo per pochi
secondi alla volta, a Londra, Roma e Shanghai.
Poco tempo fa ha dato tracce della sua
presenza a Venezia, poi è scomparso di
nuovo…
Come fa a viaggiare così in fretta da una
città all’altra?
— Tramite portale? — Maryse fece un’alzata
di spalle. — Non so. So soltanto che ogni volta
in cui la mappa si accende, io so che è vivo…
per il momento. Ed è come tornare a respirare,
almeno per qualche secondo. — Chiuse la
bocca con decisione, per paura che le
sfuggissero altre parole. Parole su quanto le
mancassero Alec e Isabelle e su quanto non
sopportasse di chiamarli all’Istituto, dove ci si
aspettava che almeno Alec assumesse la
responsabilità delle ricerche del fratello.
Parole su come pensasse ancora a Max ogni
giorno, come se qualcuno le svuotasse i
polmoni dall’aria, costringendola a tenersi il
cuore per paura di morire. Non poteva perdere
anche Jace.
Posso capirlo. Fratello Zaccaria incrociò le
braccia al petto. Le sue mani sembravano
giovani, non grinzose né ricurve, e le dita
erano affusolate. Maryse si era domandata
molte volte come invecchiassero i Fratelli e
quanto a lungo sopravvivessero, ma si trattava
di un’informazione riservata al loro ordine. Ci
sono poche cose più potenti dell’amore di una
famiglia. Ma quello che non capisco è perché
tu abbia deciso di mostrare queste cose
proprio a me.
Maryse fece un respiro tremante. — So che
dovrei parlarne con il Conclave, ma loro ormai
sanno del legame con Jonathan. Li stanno
cercando entrambi. Se trovano Jace, lo
uccidono. Eppure, tenere tutto per me è
comunque tradimento… — lasciò cascare la
testa. — Ho deciso che parlarne a voi, i Fratelli,
fosse accettabile. Poi sarà una decisione vostra
parlarne o no al Conclave. Non posso…
sopportare che sia mia.
Zaccaria rimase in silenzio per un lungo
istante. Poi la sua voce, gentile nella testa di
lei, disse: La tua mappa dice che tuo figlio è
ancora vivo. Se tu la consegnassi al Conclave,
non credo che li aiuterebbe molto;
scoprirebbero solo che Jace sta viaggiando in
fretta e che è impossibile da individuare. Ma
già lo sanno. Tienila tu. Per il momento, io
non parlerò.
Maryse lo guardò stupefatta. — Ma tu… sei un
servitore del Conclave.
Un tempo ero uno Shadowhunter come te.
Vivevo come te. E, come per te, anche per me
c’erano persone che amavo tanto da mettere
il loro bene davanti a qualsiasi altra cosa.
Qualsiasi giuramento, qualsiasi debito.
— Hai mai avuto… — Maryse esitò. — Hai mai
avuto dei figli?
No. Niente figli.
— Mi dispiace.
Non essere dispiaciuta. E cerca di non
lasciare che l’angoscia per Jace ti divori. È un
Herondale, e loro sanno come sopravvivere…
Qualcosa scattò dentro Maryse. — Lui non è
un Herondale. Lui è un Lightwood, Jace
Lightwood. Mio figlio.
Seguì una lunga pausa. Poi Fratello Zaccaria
disse: Non volevo intendere il contrario.
Divincolò le sue mani sottili e fece un passo
indietro. C’è una cosa a cui devi fare
attenzione. Se Jace compare sulla mappa per
più di pochi secondi per volta, allora dovrai
riferirlo al Conclave. È un’eventualità a cui ti
devi preparare.
— Non credo di potercela fare — disse lei. —
Gli manderanno dei cacciatori alle calcagna.
Gli tenderanno una trappola. Lui è soltanto un
ragazzo…
Non è mai stato soltanto un ragazzo, ribatté
Zaccaria, voltandosi per fluttuare fuori dalla
stanza. Maryse non rimase a guardarlo mentre
se ne andava. Era tornata a fissare la mappa.
Simon?
Il sollievo gli sbocciò nel cuore come un fiore.
La voce di Clary, esitante ma familiare, gli
riempì la testa. Guardò di lato; Isabelle stava
ancora dormendo. La luce del mezzogiorno
brillava sui bordi delle tende.
Sei sveglio?
Rotolò sulla schiena, fissando il soffitto.
Certo che sì.
È che non ne ero sicura. Voi siete… cosa, sei
o sette ore indietro rispetto a me? Qui è il
tramonto.
Sei in Europa?
Adesso siamo a Praga, bella. C’è un grande
fiume e un sacco di edifici a guglie. Da
lontano assomiglia un po’ a Idris. Però fa
freddo, più freddo che a casa.
Okay, basta con le previsioni meteo. Sei al
sicuro? Dove sono Sebastian e Jace?
Con me. Ma adesso mi sono allontanata un
po’. Ho detto che volevo godermi il paesaggio
che si vede dal ponte.
Quindi io sarei il paesaggio dal ponte?
Clary rise, o per lo meno sentì in testa
qualcosa di simile a una risata debole e
nervosa. Non posso restare molto. Anche se in
realtà sembra che loro non sospettino niente.
Jace… Jace sicuramente no. Sebastian è più
difficile da decifrare. Non credo che si fidi di
me. Ieri gli ho perquisito la stanza, ma non
c’era niente, niente che lasci pensare a cosa
potrebbero avere in mente. La scorsa notte…
La scorsa notte?
Niente. Era strano come lei gli fosse dentro la
testa e lui potesse comunque percepire che
stava nascondendo qualcosa. Sebastian tiene
in camera il cofanetto di mia madre. Con le
sue cose da piccolo. Non riesco a capire
perché.
Non perdere tempo a cercare di capire
Sebastian, le comunicò Simon. Non ne vale la
pena. Cerca piuttosto di capire quello che
vogliono fare.
Ci sto provando. Sembrò innervosita. Sei
ancora da Magnus?
Già. Siamo passati alla fase due del piano.
Ah, davvero? E la fase uno cos’era?
La fase uno era sedersi attorno al tavolo,
ordinare le pizze e discutere.
E la fase due? Sedersi attorno al tavolo, bere
caffè e discutere?
Non proprio. Simon fece un respiro
profondo. Abbiamo evocato il demone Azazel.
Azazel? La voce mentale di lei salì di qualche
ottava, tanto che Simon si coprì le orecchie.
Ecco il perché di quella stupida domanda su
Batman! Dimmi che è uno scherzo.
Invece no. È una lunga storia. La aggiornò
meglio che poteva, guardando nel frattempo
Isabelle che respirava e la luce fuori dalla
finestra che si faceva più intensa. Pensavamo
potesse aiutarci a trovare un’arma capace di
colpire Sebastian senza far male a Jace.
D’accordo, ma… evocare un demone? Clary
non sembrava convinta. E poi Azazel non è un
demone come tutti gli altri. Sono io quella con
la squadra dei Cattivi, qui. Tu sei della
squadra dei Buoni. Cerca di ricordartelo.
Lo sai che niente è così semplice, Clary.
Per Simon fu come sentirla sospirare, un fiato
d’aria che gli passava sulla pelle, sollevandogli
i peli della nuca. Lo so.
Città e fiumi, pensò Clary alzando le dita
dall’anello d’oro che aveva sulla mano destra e
distogliendo lo sguardo dal Ponte Carlo per
voltarsi di nuovo verso Jace e Sebastian. Loro
erano dall’altro lato dell’antica struttura di
pietra, intenti a indicare qualcosa che lei non
riusciva a vedere. L’acqua, sotto, era color del
metallo, e scivolava silenziosa attorno ai vecchi
piloni; il cielo era della stessa sfumatura,
butterato da nuvole nere.
Mentre camminava per raggiungere gli altri,
Clary sentiva un forte vento che le sferzava
giacca e capelli. Si rimisero in cammino tutti
insieme, coi due ragazzi che chiacchieravano
fra loro a bassa voce. Pensò che avrebbe potuto
unirsi alla conversazione, se lo avesse voluto,
ma dentro la silenziosa eleganza di quella città
con le guglie in lontananza che si innalzavano
nella foschia c’era qualcosa che la spingeva a
non parlare, a osservare e riflettere per conto
proprio.
Il ponte sfociò in una stradina acciottolata
affiancata da negozi di souvenir, alcuni dei
quali vendevano granati rosso sangue, grossi
pezzi di ambra baltica dorata, cristalli di
Boemia e giocattoli di legno. Anche a quell’ora,
i promoter se ne stavano fuori dalle discoteche
per distribuire ingressi gratuiti o tessere con
sconti sulle consumazioni; Sebastian li
allontanò, scocciato, esprimendo la propria
irritazione in lingua ceca. La calca trovò sfogo
quando la stradina si aprì su un’antica piazza
medievale: malgrado il freddo, ospitava una
folla in movimento e chioschi con in vendita
salsicce e sidro caldo e speziato. I tre si
fermarono per mangiare a un tavolino
traballante, mentre il grande orologio
astronomico del municipio rintoccava le ore.
Un marchingegno sferragliante si mise in moto
e un cerchio di personaggi di legno uscì dalle
porticine su entrambi i lati del quadrante:
erano i dodici apostoli, spiegò Sebastian
mentre le figure giravano.
— C’è una leggenda — disse poi sporgendosi
in avanti e tenendo le mani a coppa attorno a
una tazza di sidro bollente — secondo la quale
il re fece strappare gli occhi all’artigiano che
aveva costruito l’orologio così che non potesse
mai più costruire niente di altrettanto bello.
Clary rabbrividì e si avvicinò un po’ a Jace.
Lui non parlava da quando avevano lasciato il
ponte, come fosse assorto nei propri pensieri.
La gente, soprattutto le ragazze, si fermavano a
guardarlo quando avanzava con quei suoi
capelli luminosi, straordinari, a contrasto con i
cupi colori invernali dell’antica piazza. — Che
sadico — commentò.
Sebastian fece scorrere un dito sul bordo
della tazza, poi leccò i residui di sidro. — Il
passato è un paese straniero.
— Una terra straniera — lo corresse Jace.
Sebastian rispose con sguardo annoiato. —
Come, scusa?
— Il passato è una terra straniera, dove le
cose vanno diversamente — disse Jace. — È
questa la citazione completa.
Sebastian fece spallucce e spinse via la tazza.
Riportandola allo stand dove era stata presa, si
riceveva in cambio un euro, ma Clary
sospettava che a Sebastian non interessasse
fingersi un buon cittadino solo per ricevere
una misera moneta. — Andiamo.
Lei non aveva ancora finito il suo sidro, ma lo
lasciò lo stesso sul tavolo e seguì gli altri,
mentre Sebastian si allontanava dalla piazza
per entrare in un labirinto di vicoli stretti e
tortuosi. Jace aveva corretto Sebastian, pensò.
Su un dettaglio da poco, certo, ma la magia di
sangue di Lilith non doveva forse legarli in
modo che Jace approvasse ogni singola mossa
dell’altro? Poteva essere un segno, magari
anche minuscolo, che forse l’incantesimo stava
iniziando a scomparire?
Era stupido sperare. Ma a volte la speranza è
l’unica cosa che hai.
Le stradine si facevano sempre più strette e
buie.
Le
nuvole
in
cielo
avevano
completamente oscurato il sole calante; qua e
là brillavano vecchie lampade a gas,
illuminando l’oscurità velata di nebbia. Il
manto stradale era diventato acciottolato, i
marciapiedi sempre più stretti, e i tre erano
costretti a camminare in fila indiana come se
avanzassero sopra un ponte pericolante. Solo
la presenza di altri passanti, che comparivano
e svanivano in mezzo alla nebbia, davano a
Clary la sensazione di non stare attraversando
una qualche strana curvatura temporale che
l’avrebbe portata in una città di sogno frutto
della sua immaginazione.
Infine raggiunsero un arco di pietra che dava
su una piazzetta. La maggior parte dei negozi
aveva spento le luci, anche se davanti ai tre ce
n’era uno ancora aperto. L’insegna, a caratteri
dorati, riportava la scritta ANTIKVARIAT e la
vetrina era piena di vecchie bottiglie di diverse
sostanze, con etichette mezze scollate in latino.
Clary rimase sorpresa quando vide Sebastian
dirigersi proprio verso quella bottega. Che cosa
se ne sarebbero fatti di qualche vecchia
bottiglia?
Smise di chiederselo quando oltrepassarono
la soglia. Dentro, il negozio era poco
illuminato e puzzava di naftalina, ma era
stracolmo, in ogni cantuccio, di un’incredibile
varietà di ciarpame. Non solo. Splendide
mappe celesti contendevano il posto a
contenitori di sale e pepe sagomati come i
personaggi dell’orologio della Città Vecchia.
C’erano montagne di vecchie scatolette di
tabacco e di sigari, francobolli sottovetro,
obsolete macchine fotografiche russe o della
Germania Est, una meravigliosa coppa di vetro
smerigliato color verde smeraldo intenso di
fianco a una pila di calendari ammuffiti. Da
un’asta pendeva una vecchia bandiera ceca.
Sebastian si fece strada tra gli ammassi di
oggetti per dirigersi a un bancone sul retro del
negozio. A un tratto, Clary si accorse che
quello che aveva scambiato per un manichino
era in realtà un uomo anziano col viso rugoso e
raggrinzito come un lenzuolo sciupato. Se ne
stava appoggiato a braccia incrociate sopra
una vetrina contenente mucchi di gioielli
vintage e perline di vetro colorate, pochette
con fermagli di gemme e file di gemelli da
uomo.
Sebastian disse qualcosa in ceco, l’uomo
annuì e indicò Clary e Jace con un’alzata del
mento e lo sguardo diffidente. Clary notò che
aveva gli occhi color rosso scuro. Aggrottò le
sopracciglia, concentrandosi a fondo, e cercò
di vedere oltre l’incantesimo.
Non era facile, perché gli stava attaccato
come carta moschicida. Alla fine riuscì a
rimuoverlo abbastanza per vedere, a tratti, la
vera creatura che aveva davanti: alta, dalle
fattezze vagamente umane, con la pelle grigia e
gli occhi di rubino, nella bocca denti aguzzi che
puntavano in tutte le direzioni e, infine, lunghe
braccia serpeggianti che terminavano con teste
simili a quelle di un’anguilla: strette, dentate,
malefiche.
— Un demone Vetis — le sussurrò Jace
all’orecchio. — Sono come draghi. Si divertono
ad accumulare oggetti luccicanti. Ciarpame o
gioielli: per loro è lo stesso.
Sebastian, voltandosi, li guardò da sopra una
spalla. — Sono mio fratello e mia sorella —
disse dopo un istante. — Sono assolutamente
fidati, Mirek.
Clary si sentì percorrere la pelle da un brivido
leggero. Non le piaceva l’idea di passare per la
sorella di Jace, anche se solo per non
contrariare un demone.
— Non mi piace questa storia — ribatté il
demone Vetis. — Hai detto che avremmo
trattato solo con te, Morgenstern. Inoltre,
sapevo che Valentine aveva una figlia — e a
quel punto la testa si piegò verso Clary — ma
anche che aveva un solo figlio maschio.
— Adottato — spiegò Sebastian con
disinvoltura, indicando Jace.
— Adottato?
— Immagino che ti sarai reso conto di come
la moderna definizione di famiglia stia
cambiando alla velocità della luce, di questi
tempi — commentò Jace.
Il demone, Mirek, non sembrava convinto.
Affatto. — Non mi piace questa storia — ripeté.
— Ma ti piacerà questo — annunciò Sebastian
togliendosi dalla tasca una sacca chiusa in
cima. La rovesciò sul bancone facendo uscire
una fragorosa cascata di monete in bronzo, che
si scontrarono l’una contro l’altra rotolando
sul vetro. — Monetine per gli occhi dei defunti.
Un centinaio. E tu hai quanto pattuito?
Una mano dentata si fece strada strisciando
sopra il bancone e addentò con cautela una
delle monete. Intanto gli occhi rossi del
demone guizzavano sopra il mucchio di
bronzo. — Va tutto molto bene, ma non basta
per comprare ciò che cerchi.
Fece un gesto con un braccio ondulante,
sopra al quale comparve quello che a Clary
parve un grosso pezzo di cristallo, ma più
luminoso, puro, argenteo e bello. Si accorse
con stupore che era il materiale di cui erano
fatte le spade angeliche. — Adamas puro —
annunciò Mirek. — La materia del Paradiso.
Impagabile.
La rabbia si abbatté sul viso di Sebastian
come un fulmine e, per un istante, Clary vide la
malvagità che aveva dentro, il ragazzo che
aveva riso mentre Hodge giaceva morente. Poi
quello sguardo scomparve. — Ma ci siamo
accordati sul prezzo.
— E anche sul fatto che saresti venuto da solo
— ribatté Mirek. Gli occhi rossi del demone
tornarono a guardare Clary e poi Jace, il quale,
nel frattempo, non si era mosso ma aveva
l’aspetto guardingo di un felino accovacciato.
— Ora ti dico cos’altro mi puoi dare — proseguì
Mirek. — Una ciocca dei bei capelli di tua
sorella…
— Va bene — disse Clary facendosi avanti. —
Se me ne vuoi tagliare un pochino…
— No! — Jace si avventò su di lei per
fermarla. — È un cultore della magia nera,
Clary. Non hai idea di cosa potrebbe fare con
una ciocca di capelli o poche gocce di sangue!
— Mirek — disse piano Sebastian, senza
guardare Clary. In quel momento lei si chiese
cosa lo avrebbe fermato, se davvero aveva
intenzione di scambiare una ciocca di suoi
capelli con l’adamas del demone. Jace si era
opposto, ma era anche costretto a fare quello
che voleva Sebastian. Chi l’avrebbe spuntata,
al dunque? Il legame fra di loro o i sentimenti
che Jace provava per lei? — Assolutamente no.
Il demone gli lanciò uno sguardo lento, da
lucertola. — Assolutamente no?
— A mia sorella non toccherai un capello —
dichiarò Sebastian. — Né verrai meno al nostro
patto. Nessuno prende in giro il figlio di
Valentine Morgenstern. Il prezzo pattuito,
altrimenti…
— Altrimenti cosa? — ringhiò Mirek. — Me ne
pentirò? Tu non sei Valentine, ragazzino.
Quello sì che era un uomo capace di ispirare
fedeltà…
— No — lo interruppe Sebastian, sguainando
una spada angelica dalla cintura che portava in
vita. — Non sono Valentine. Non voglio
trattare con i demoni come faceva lui. Se non
posso avere la tua fedeltà, avrò la tua paura.
Sappi che sono più potente di quanto non sia
mai stato mio padre e, se non ti comporti bene
con me, ti toglierò la vita e avrò ciò per cui
sono venuto. — Sollevò la lama che aveva in
pugno. — Dumah — sussurrò. L’arma saettò in
avanti, luccicando come una colonna di fuoco.
Il demone indietreggiò, pronunciando con
rabbia diverse parole di una lingua dal suono
vischioso come fango. Jace aveva già in mano
un pugnale. Chiamò Clary, ma non abbastanza
in fretta: qualcosa la colpì forte sulla spalla
facendola cadere in avanti, lunga distesa sul
pavimento pieno di cianfrusaglie. La ragazza
rotolò sulla schiena, rapida, alzò lo sguardo…
E lanciò un grido. Sopra di lei incombeva un
grosso serpente, o qualcosa di simile: testa di
cobra, corpo ricoperto di spesse squame, ma
articolato, da insetto, con una dozzina di
zampe guizzanti che terminavano con artigli
affilati. Clary rovistò freneticamente nella
cintura delle armi, mentre la creatura
prendeva la rincorsa, col veleno giallo che le
colava dalle zanne, e colpiva.
Dopo aver “parlato” con Clary, Simon si era
riaddormentato. Quando si svegliò, le luci
erano accese e Isabelle era in ginocchio sul
bordo del letto, con indosso dei jeans e una
maglietta consunta presa probabilmente in
prestito da Alec: aveva dei buchi nelle maniche
e l’orlo si stava disfacendo. La ragazza era
impegnata ad allargare il collo per disegnare,
con la punta di uno stilo, una runa sulla pelle
del petto, appena sotto la gola.
Simon si sollevò sui gomiti. — Cosa fai?
— Un iratze — rispose lei. — Per questo. — Si
infilò i capelli dietro l’orecchio e gli mostrò le
due ferite aghiformi che lui le aveva procurato
ai lati del collo. Conclusa la runa, i segni
scomparvero,
lasciando
soltanto
due
impercettibili macchie bianche.
— Stai… stai bene? — La voce gli uscì in un
sussurro. Un dolce sussurro. Si stava
sforzando per evitare le altre domande che
voleva porle: Ti ha fatto male? Ora pensi che
io sia un mostro? Ti ho spaventata a morte?
— Sto bene. Ho dormito molto di più del
solito, ma credo che si tratti di un buon segno.
— Vedendo l’espressione di lui, Isabelle si
infilò lo stilo nella cintura, gli si avvicinò con
l’eleganza di un gatto e gli si sdraiò sopra,
avvolgendo entrambi con la sua chioma nera.
Erano così vicini che i loro nasi si sfioravano.
Lei lo guardò senza battere ciglio. — Perché sei
così pazzo? — gli disse. Simon sentiva il suo
respiro sul viso, delicato come un sussurro.
Avrebbe voluto tirarla verso di sé e baciarla,
non morderla, soltanto baciarla, ma in quello
stesso istante suonò il campanello di casa. Un
secondo dopo qualcuno stava già bussando alla
porta della camera, o meglio la stava
percuotendo, facendola tremare sui cardini.
— Simon. Isabelle. — Era Magnus. — Sentite,
non mi importa se state dormendo o vi state
facendo a vicenda cose indicibili: vestitevi e
venite in soggiorno. Adesso.
Simon e Isabelle incrociarono gli sguardi,
entrambi perplessi allo stesso modo.
— Fuori da lì — ordinò lo stregone, dopodiché
il corridoio echeggiò del suono dei suoi passi
che si allontanavano.
Isabelle rotolò giù da Simon, con suo grande
dispiacere, e fece un sospiro. — Secondo te di
cosa si tratta?
— Non ne ho idea — rispose il ragazzo. —
Riunione d’emergenza della squadra dei
Buoni, direi! — Quando Clary aveva usato la
stessa espressione, lui l’aveva trovata
divertente. Isabelle invece scosse la testa e
sospirò.
capitolo 13
IL LAMPADARIO DI OSSA
Mentre la testa del serpente si avventava su
Clary, un bagliore scintillante si scagliò contro
di essa, quasi accecando la ragazza. Una spada
angelica, la sua lama splendente che tagliava di
netto la testa del demone. Questa crollò a
terra, spruzzando veleno e icore. Clary rotolò
di lato, ma parte della sostanza tossica le
arrivò sul torso. Il demone svanì prima che il
suo corpo, ormai squartato in due pezzi,
potesse toccare il pavimento. Clary lottò contro
l’urlo di dolore che avrebbe voluto emettere e
cercò di rimettersi in piedi; all’improvviso, una
mano le offrì aiuto. Jace, pensò lei, ma quando
alzò gli occhi si rese conto di stare guardando
suo fratello.
— Su — le disse, con la mano tesa verso di lei.
— Ce ne sono altri.
Clary accettò il suo aiuto e si lasciò tirare su.
Anche lui era sporco di sangue di demone, una
sostanza verdenerastra, in grado di ustionare
la pelle, che gli aveva lasciato sui vestiti
macchie di bruciato. Sotto lo sguardo di Clary,
uno di quei cosi con la testa di serpente
(demoni Elapid, capì in ritardo, ricordando
l’illustrazione di un libro) lo stava per cogliere
alle spalle, il collo allargato come quello di un
cobra. Senza pensarci, Clary afferrò la spalla di
Sebastian e lo spinse di lato, con forza; lui
barcollò all’indietro nell’istante in cui il
demone attaccava, mentre Clary si sollevò per
colpire la bestia con il pugnale estratto dalla
cintura. Si girò di lato, affondando il colpo ed
evitando le zanne della creatura, il cui sibilo si
trasformò in un gorgoglio mentre la lama
penetrava le sue carni. Clary trascinò poi
l’arma verso il basso, sventrando il demone
come si farebbe con un pesce. Venne colpita da
un’esplosione di sangue demoniaco, copiosa al
pari di un torrente di fuoco. Gridò, ma non
mollò la presa sul pugnale, mentre l’Elapid
cessava di esistere.
Si voltò. Sebastian stava lottando contro un
altro degli Elapid sulla porta del negozio; Jace
ne stava tenendo a bada altri due, accanto a
una vetrina di ceramiche antiche. Il pavimento
era cosparso di cocci di vasellame. Clary
slanciò il braccio all’indietro e scagliò forte il
pugnale, così come le aveva insegnato Jace.
L’arma salì in alto e andò a colpire una delle
creature nel fianco, allontanandola, urlante e
in preda alle convulsioni, da Jace. Il ragazzo si
girò e, vedendo Clary, le fece l’occhiolino un
attimo prima di saltare per amputare la testa
di ciò che restava del demone. Il cadavere della
bestia svanì nell’istante in cui crollava, e Jace,
ricoperto di sangue nero, fece un sorriso.
Clary si sentì travolgere da una strana
sensazione, una sorta di euforia febbrile. Sia
Jace che Isabelle le avevano parlato
dell’esaltazione che dava la battaglia, ma
prima di quel momento lei non poteva dire di
averla mai provata. Adesso invece si sentiva
potente, le vene le pulsavano, la forza le saliva
dalla base della schiena. Era come se tutto,
attorno a lei, stesse rallentando. Rimase a
guardare l’Elapid ferito che le si avvicinava
correndole incontro sulle sue zampe da insetto
e con le labbra che già si ritraevano per
lasciare spazio alle zanne. Clary indietreggiò di
un passo, prese tra le mani l’antica bandiera e
la conficcò dentro le fauci spalancate del
mostro. L’asta perforò il cranio del demone e
uscì da dietro, e in quel momento la creatura
svanì portando con sé l’antico cimelio.
Clary scoppiò in una risata. Sebastian, che
aveva appena annientato un altro demone, si
girò per guardarla e sgranò gli occhi. — Clary!
Fermalo! — le gridò, facendole notare che
Mirek stava armeggiando con la maniglia della
porta sul retro del negozio.
La ragazza fece uno scatto e si mise a correre,
estraendo senza fermarsi la spada angelica
dalla cintura. — Nakir! — gridò balzando sopra
il bancone e usandolo come trampolino per
saltare, mentre l’arma risplendeva in un
bagliore di luce. Atterrò sopra al demone Vetis,
buttandolo a terra. Venne aggredita da un
braccio-anguilla e lo tagliò di netto con un
movimento orizzontale della lama. Altri
spruzzi di sangue nero. Il demone la stava
guardando con occhi rossi e spaventati.
— Basta — sibilò. — Posso darti tutto ciò che
desideri…
— Ma io ho tutto quello che desidero —
mormorò lei, affondando la lama nel petto del
nemico, che svanì lanciando un grido sordo.
Clary cadde in ginocchio sul tappeto.
Un istante dopo, di fianco al bancone
comparvero due teste che la fissavano: una
color biondo dorato, l’altra bianco platino.
Erano Jace e Sebastian. Il primo aveva gli
occhi sgranati, l’altro sembrava pallido. — Nel
nome dell’Angelo, Clary — sussurrò lui. —
L’adamas…
— Ah, quella cosa che volevi? Ce l’ho qui. —
Era rotolata in parte sotto il bancone. Clary la
sollevò, un blocco lucente d’argento, sporco
nei punti in cui le sue mani lo avevano toccato.
Sebastian fece un’esclamazione di sollievo e le
tolse l’adamas dalle mani, mentre Jace
oltrepassava il bancone con un unico
movimento e le atterrava vicino. Si inginocchiò
anche lui e la strinse a sé, accarezzandole la
schiena e guardandola con occhi cupi per la
preoccupazione. Clary gli prese i polsi.
— Sto bene — gli disse. Il cuore le palpitava, il
sangue ancora le urlava nelle vene. Jace aprì la
bocca per dire qualcosa, ma lei si sporse in
avanti e gli mise le mani sulle guance,
premendo con le unghie. — Mi sento bene. —
Lo guardò, arruffato, sudato e cosparso di
sangue com’era, e provò il desiderio di
baciarlo. Voleva…
— D’accordo, voi due — esordì Sebastian.
Clary si staccò da Jace e alzò lo sguardo sul
fratello. Lui li stava osservando con un sorriso,
mentre rigirava lentamente l’adamas dentro
una mano. — Domani lo useremo — annunciò,
facendo un cenno per indicare la pietra. — Ma
stasera… dopo che ci saremo dati una bella
ripulita… si festeggia.
Simon, seguito da Isabelle, camminò a piedi
nudi fino al soggiorno e lì rimase sorpreso
dalla scena che lo accolse. Il cerchio e il
pentagramma al centro del pavimento
brillavano di luce argentea simile a mercurio.
Dal centro si levava del fumo, un’alta colonna
rosso-nera con la cima bianca. L’intera stanza
puzzava di bruciato. Magnus e Alec erano in
piedi al di fuori del disegno e, con loro, Jordan
e Maia, che a giudicare dall’abbigliamento
erano appena entrati in casa.
— Cosa sta succedendo? — chiese Isabelle,
stirando le sue lunghe braccia con uno
sbadiglio. — Perché tutti guardano Canale
Pentagramma?
— Pazienta un secondo — le disse Alec in tono
lugubre. — Lo vedrai.
Isabelle scrollò le spalle e seguì con lo
sguardo quello degli altri. Mentre tutti
osservavano, il fumo bianco cominciò a
turbinare sempre più in fretta, trasformandosi
in un tornado in miniatura che sferzava il
centro del pentagramma lasciando a terra
parole bruciate:
AVETE PRESO LA VOSTRA DECISIONE?
— Ehi! — esclamò Simon. — È tutta la
mattina che fa così?
Magnus sollevò le braccia in aria. Indossava
un paio di pantaloni di pelle e una maglietta
col disegno di un fulmine a zig zag. — Anche
tutta la notte.
— E continua a ripetere la stessa domanda?
— No, dice cose diverse. A volte impreca. A
quanto pare Azazel si sta divertendo…
— Può sentirci? — Jordan inclinò la testa di
lato. — Ehi, dico a te, demone!
Le lettere di fuoco si ricomposero. CIAO,
LUPO MANNARO.
Jordan indietreggiò di un passo e guardò
Magnus. — È… è normale?
Magnus
sembrava
profondamente
scoraggiato. — Direi proprio di no. Non avevo
mai evocato un demone potente come Azazel,
ma anche così… Ho consultato la letteratura
disponibile, eppure non sono riuscito a trovare
esempi di un evento del genere. Sta andando
fuori controllo.
— Azazel deve essere ricacciato indietro —
disse Alec. — In via definitiva, intendo. —
Scosse la testa. — Forse Jocelyn aveva ragione.
Dall’evocazione dei demoni non si può ricavare
niente di buono.
— Sono abbastanza sicuro che anch’io
provengo da qualcuno che ne ha evocato uno
— disse Magnus. — Alec, l’ho fatto centinaia di
volte, non capisco perché questa dovrebbe
essere diversa.
— Azazel non può uscire, vero? — indagò
Isabelle. — Dal pentagramma, intendo.
— No — disse Magnus — ma nemmeno
dovrebbe fare tutte le cose che sta facendo.
Jordan si chinò in avanti, tenendo le mani
appoggiate sulle ginocchia. — Come si sta
all’Inferno, amico? — gli chiese. — Caldo o
freddo? Ho sentito entrambe le versioni.
Non ci fu risposta.
— Bel lavoro, Jordan — disse Maia. — Mi sa
che lo hai infastidito.
Lui toccò il bordo del pentagramma. — Sa
leggere il futuro? Senti, pentagramma, dici che
il nostro gruppo sfonderà?
— È un demone infernale, Jordan, non il
Libro delle Risposte — commentò Magnus,
nervoso. — E stai lontano da quel disegno. Se
evochi un demone e lo intrappoli dentro il
pentagramma, lui non può uscire né farti del
male. Ma se ci entri tu, allora sei nella sua
sfera d’influenza…
In quel momento, la colonna di fumo
cominciò a compattarsi. Magnus sollevò di
scatto la testa e Alec si alzò in piedi rischiando
di ribaltare la sedia, mentre davanti ai loro
occhi la foschia prendeva la forma di Azazel.
Prima comparve l’abito, un gessato grigioargento comprendente anche eleganti gemelli,
poi fu come se il demone lo riempisse a poco a
poco, con gli occhi come ultimo dettaglio. Si
guardò attorno con evidente soddisfazione. —
La banda è al completo, vedo — disse. —
Allora, avete preso una decisione?
— Sì — rispose Magnus. — Non credo che
avremo bisogno dei tuoi servigi. Grazie lo
stesso.
Silenzio.
— Adesso te ne puoi anche andare — aggiunse
Magnus facendo sfarfallare le dita in gesto di
saluto. — Adieu!
— Non credo proprio — rispose Azazel,
compiaciuto. Si tolse dalla tasca un fazzoletto
con cui iniziò a lucidarsi le unghie. — Penso
che resterò. Mi piace, qui.
Magnus fece un sospiro e disse qualcosa ad
Alec, che andò verso il tavolo e tornò con in
mano un libro da porgere allo stregone.
Magnus lo aprì e cominciò a recitare: —
Spirito dannato, vattene! Ritorna nel regno
del fumo e delle fiamme, della cenere e…
— Quello con me non funziona — rispose il
demone con voce annoiata. — Provaci pure, se
vuoi. Tanto resto qui.
Magnus lo guardò con gli occhi ardenti di
rabbia.
— Non puoi obbligarci a scendere a patti con
te.
— Però posso provarci. Dopotutto non ho di
meglio da fare per occupare…
Azazel si interruppe non appena vide una
sagoma familiare attraversare la stanza. Era
Chairman Meow, lanciato all’inseguimento di
quello che sembrava un topo. Mentre tutti
restavano a guardare, sorpresi e impauriti,
l’animale saettò oltre il contorno del
pentagramma e Simon, agendo più per
impulso che per volere razionale, lo seguì
dentro il tracciato e lo prese fra le braccia.
— Simon! — Anche senza girarsi, lui sapeva
che a gridare era stata Isabelle. Quando lo fece,
la vide che si era portata una mano alla bocca,
fissandolo con occhi spalancati. In realtà lo
stavano fissando tutti. Izzy era bianca come un
cencio e persino Magnus sembrava turbato.
Se evochi un demone e lo intrappoli dentro il
pentagramma, lui non può uscire né farti del
male. Ma se ci entri tu, allora sei nella sua
sfera d’influenza…
Simon si sentì toccare la spalla. Voltandosi,
lasciò scendere Chairman Meow, che schizzò
via dal pentagramma e andò a nascondersi
sotto un divano. Simon alzò lo sguardo: a
incombere sopra di lui c’era l’imponente viso
di Azazel. Da quella distanza così ravvicinata,
riusciva a vedergli le rughe della pelle, come
crepe nel marmo, e le fiamme in fondo agli
occhi scavati. Quando il demone sorrise,
Simon si accorse che ogni dente terminava con
un ago di ferro.
Azazel fece un sospiro, e attorno a Simon si
levò una nuvola di zolfo bollente. Il ragazzo si
rendeva a malapena conto della presenza di
Magnus, la cui voce si alzava e si abbassava in
tono cantilenante, come anche di quella di
Isabelle, che stava gridando qualcosa mentre il
demone prendeva lui per le braccia. Azazel lo
sollevò, facendogli penzolare i piedi in aria,
dopodiché… lo scagliò via.
O per lo meno ci provò. Le mani del demone
scivolarono dal corpo del ragazzo, che cadde a
terra
accovacciandosi,
mentre
Azazel
rimbalzava all’indietro come se avesse colpito
una barriera invisibile. Il rumore fu simile a
quello di una grossa pietra che andava in mille
pezzi. Azazel cadde in ginocchio, poi si
risollevò con dolore. Alzò lo sguardo
ringhiando, poi avanzò svelto verso Simon.
Lui, rendendosi conto soltanto in quel
momento di quanto era accaduto, sollevò una
mano tremante e si spostò i capelli dalla
fronte.
Azazel si fermò all’istante. Le sue mani, con le
unghie munite dello stesso ferro appuntito dei
denti, si appoggiarono sui fianchi. — Ramingo
— mormorò. — Sei tu?
Simon rimase immobile. Magnus continuava
a recitare in sottofondo, ma tutti gli altri erano
in silenzio. Aveva paura di guardarsi attorno e
cogliere lo sguardo di uno dei suoi amici. Clary
e Jace, pensò, avevano già visto il Marchio
all’opera, con la sua fiamma accecante. Ma gli
altri no, nessuno. Non c’era da stupirsi se
erano rimasti senza parole.
— No — riprese Azazel, stringendo in una
fessura il suo sguardo di fuoco. — No. Tu sei
troppo giovane, e il mondo troppo vecchio. Ma
chi oserebbe apporre il Marchio del Paradiso
su un vampiro? E perché?
Simon abbassò la mano. — Toccami ancora e
lo scoprirai — disse.
Azazel emise un suono gutturale, a metà fra
l’ironia e il disprezzo. — Preferisco di no. Se vi
siete divertiti a piegare ai vostri desideri la
volontà celeste, persino la mia libertà non vale
il rischio di unire il mio destino al vostro. — Si
guardò attorno. — Voi siete tutti dei pazzi.
Buona fortuna, bambini umani. Ne avrete
bisogno.
E così dicendo svanì in una fiamma,
lasciando dietro di sé fumo nero e puzza di
zolfo.
— Stai ferma — disse Jace prendendo il
pugnale degli Herondale e usando la punta per
tagliare la camicia di Clary dal colletto all’orlo.
Afferrò le due metà così ricavate e le gettò con
vigore oltre le spalle di lei, lasciandola seduta
sul bordo del lavandino con addosso soltanto
jeans e canotta. La maggior parte dell’icore e
del veleno aveva solo sporcato jeans e giacca,
ma la delicata camicetta di seta era rovinata.
Dopo averla buttata nel lavandino, dove
sfrigolò al contatto con l’acqua, Jace tracciò
sulla spalla di Clary il contorno leggero di una
runa di guarigione.
Lei chiuse gli occhi, avvertendo prima il
bruciore della runa, poi un’ondata di piacere
che si propagava attraverso gambe e braccia,
mentre il dolore si attenuava. Era come
novocaina, soltanto che non la intontiva.
— Meglio? — le chiese Jace.
Lei riaprì gli occhi. — Molto meglio. — Il
dolore non era scomparso del tutto, perché
l’iratze non faceva granché effetto sulle ustioni
causate dal veleno dei demoni, ma queste
tendevano a guarire in fretta sulla pelle degli
Shadowhunters.
In
realtà
pungevano
solamente, e Clary, ancora eccitata dal
combattimento, le sentiva appena. — Tocca a
te?
Lui sorrise e le offrì lo stilo. Erano nel
retrobottega del negozio di antichità. Sebastian
aveva provveduto a chiuderlo e a spegnere le
luci dell’insegna, per non attirare l’attenzione
di qualche mondano. Era eccitato all’idea di
“festeggiare” e, quando li aveva lasciati, si era
chiesto se fosse meglio tornare a casa a
cambiarsi o andare direttamente alla discoteca
del quartiere di Malá Strana.
Se c’era una parte di Clary che percepiva
quanto tutto ciò fosse sbagliato, a cominciare
dall’idea di festeggiare, essa andò perduta in
mezzo al ribollire del suo sangue. Era
sorprendente che, tra tutti i compagni di
battaglia che poteva avere, era stato proprio
Sebastian a far scattare dentro di lei
l’interruttore che accendeva i suoi istinti di
Shadowhunter. Aveva voglia di scalare palazzi
altissimi con un solo balzo, fare un centinaio di
capriole, imparare ad affilare le lame come
faceva Jace. Invece gli prese lo stilo e disse: —
Allora togliti la maglietta.
Lui la sfilò dalla testa e lei cercò di rimanere
indifferente. Aveva una lunga ferita sul fianco,
di un rosso-violaceo più intenso sui bordi,
mentre la base del collo e la spalla destra erano
rimasti ustionati dal sangue di demone.
Eppure era ancora la persona più bella che
avesse mai incontrato. Pelle d’oro chiaro,
spalle larghe, vita e fianchi stretti, una sottile
linea di peluria chiara che correva
dall’ombelico al bottone dei jeans. Distolse lo
sguardo e gli appoggiò lo stilo sulla spalla,
cominciando a incidere con cura nella pelle
quella che doveva essere la milionesima runa
di guarigione che riceveva.
— Va bene? — gli chiese una volta finito.
— Mmm-mmm — Jace si piegò verso di lei.
Sentì il suo odore: sangue e bruciato, sudore,
sapone da due soldi trovato accanto al
lavandino. — Mi è piaciuto — le disse. — A te
no? Combattere così, insieme?
— È stato… intenso. — Lui era già in piedi, fra
le gambe di lei. Le si avvicinò ancora di più,
infilandole le dita tra la vita e i jeans. Le mani
di lei salirono rapide sulle spalle di lui, e quel
movimento le fece notare lo scintillio
dell’anello d’oro che portava al dito. Servì a
farle riguadagnare un po’ di autocontrollo.
Non farti distrarre, non perdere la testa.
Questo non è Jace, non è Jace, non è Jace.
Lui le sfiorò le labbra con le sue. — Io dico
che è stato incredibile. Tu sei stata incredibile.
— Jace… — sussurrò Clary, ma poi qualcuno
bussò alla porta. Jace, sorpreso, la lasciò
andare e lei scivolò all’indietro, finendo contro
il rubinetto. Partì un getto d’acqua che li bagnò
entrambi. Clary lanciò un gridolino e Jace
scoppiò a ridere, voltandosi per aprire la porta
mentre Clary si girava per interrompere il
getto.
Era Sebastian, ovviamente. Considerato
quello che avevano passato, era notevolmente
in ordine. Aveva sostituito il giubbino di pelle
macchiato con un vecchio giaccone militare
che, portato a quel modo sopra la maglietta, gli
dava un non so che di chic e trasandato al
tempo stesso. Fra le mani aveva qualcosa,
qualcosa di nero e lucente.
Sollevò le sopracciglia.
— C’è un motivo per cui hai appena buttato
mia sorella dentro il lavandino?
— Stava cadendo ai miei piedi — rispose Jace
piegandosi per raccogliere la maglietta e
rimettersela. Come per Sebastian, anche nel
suo caso era stato l’abbigliamento esterno a
subire gran parte dei danni, ma anche la
maglietta era lacerata in corrispondenza del
punto dove uno dei demoni aveva infilzato un
artiglio.
— Ti ho portato qualcosa da mettere —
annunciò Sebastian porgendo l’oggetto nero e
lucente che aveva in mano a Clary, la quale, nel
frattempo, era uscita dal lavandino ed era in
piedi a grondare acqua e sapone sul pavimento
di piastrelle. — È un pezzo vintage. E sembra
più o meno della tua taglia.
Stupita, Clary restituì a Jace il suo stilo e
prese l’indumento offertole da Sebastian. Era
un vestito, o meglio una sottoveste color nero
inchiostro, con delle perline elaborate
incastonate sulle spalline e il bordo di pizzo. Le
spalline erano regolabili e il tessuto abbastanza
elasticizzato da farle sospettare che Sebastian
avesse ragione: probabilmente era proprio la
sua taglia. A una parte di lei non piaceva l’idea
di portare qualcosa scelto da Sebastian, però
non era davvero il caso di andare in discoteca
con indosso una camicetta a brandelli e un
paio di jeans inzuppati d’acqua. — Grazie — gli
disse infine. — Okay, voi due fuori mentre mi
cambio.
I ragazzi uscirono, chiudendosi la porta alle
spalle. Riusciva a sentirli, con le loro forti voci
maschili e, sebbene non capisse cosa dicevano,
era sicura che stessero scherzando. Erano a
loro agio. In confidenza. Era così strano, pensò
mentre si spogliava e si infilava il vestito dalla
testa. Jace, che in pratica non si apriva con
nessuno, stava ridendo in tutta allegria con
Sebastian.
Si voltò per guardarsi allo specchio. Il nero le
faceva sembrare la pelle ancora più chiara, gli
occhi più grandi e scuri, i capelli più rossi,
gambe e braccia più lunghe, magre e pallide.
Sulle palpebre, ombretto scuro sfumato. Gli
stivali, che già prima portava sotto i jeans,
davano un tocco da dura all’intero look. Non
era certa di risultare davvero carina, ma
sicuramente aveva l’aria di una a cui non
bisogna dare troppo fastidio.
Si chiese se Isabelle avrebbe approvato.
Aprì la porta del bagno e uscì nel retro poco
illuminato del negozio, dove era stata assiepata
alla rinfusa tutta la merce che non trovava
posto nel locale antistante, separato da una
tenda di velluto dietro la quale c’erano Jace e
Sebastian. Stavano parlando, ma non riusciva
a distinguere le parole. Tirò la tenda e fece un
passo in avanti.
Le luci erano accese, anche se la vetrina era
stata coperta dalla saracinesca e i passanti non
potevano vedere all’interno. Sebastian stava
passando in rassegna la merce sugli scaffali,
prendendo con le sue lunghe mani caute un
oggetto dopo l’altro, sottoponendolo a una
rapida ispezione e poi rimettendolo a posto.
Jace fu il primo a notare Clary. Lei gli vide lo
sguardo illuminarsi e ricordò la prima volta in
cui lui l’aveva vista elegante, coi vestiti di
Isabelle, per andare alla festa di Magnus.
Come quella volta, anche ora gli occhi di lui
viaggiarono lenti dagli stivali su per le gambe, i
fianchi, il petto e si posarono infine sul viso. Le
fece un sorriso languido.
— Potrei farti notare che quello non è un
vestito, ma biancheria intima — le disse. —
Però credo che andrebbe contro il mio
interesse.
— Devo ricordarti — intervenne Sebastian —
che stiamo parlando di mia sorella…
— Molti fratelli sarebbero lieti di vedere un
gentiluomo dabbene come me scortare la loro
sorellina in giro per la città — rispose Jace
togliendo da uno degli appendiabiti una giacca
militare e infilandoci dentro le braccia.
— Dabbene? — ripeté Clary. — Fra un po’
salterà fuori che sei un maliardo Casanova…
— E a quel punto ci sarà un duello all’alba —
intervenne Sebastian, avanzando verso la
tenda di velluto. — Torno subito. Mi devo
lavare il sangue dai capelli.
— Schizzinoso! — gli gridò Jace con un
sorriso, poi prese Clary e la tirò a sé. La voce
gli divenne un sussurro profondo. — Ti ricordi
quando andammo alla festa di Magnus?
Quando tu entrasti con Isabelle e per poco
Simon non si prese un colpo apoplettico?
— Forte, stavo pensando alla stesa cosa! —
Clary reclinò la testa all’indietro per guardarlo.
— Ma non ricordo che quella volta tu abbia
detto qualcosa su come stavo.
Lui le fece scivolare le dita sotto le spalline
del vestito, sfiorandole la pelle. — Pensavo di
non piacerti granché. E poi sapevo che fornire
a tutti una descrizione dettagliata delle cose
che avrei voluto farti non sarebbe certo servito
a farti cambiare idea…
— Pensavi di non piacermi?! — la voce di lei
salì di tono, incredula. — Jace, quando mai ti è
successo di non piacere a una ragazza?
Lui fece spallucce. — Senza dubbio i
manicomi di tutto il mondo sono pieni di
ragazze sfortunate che non sono riuscite a
intuire il mio fascino.
Una domanda affiorò alle labbra di Clary, una
che voleva fargli da tempo ma per la quale le
era sempre mancato il coraggio. In fondo, cosa
importava di quello che Jace aveva fatto prima
di conoscerla?
Come se lui riuscisse a leggerle l’espressione
che aveva in viso, addolcì lo sguardo ambrato.
— Non mi è mai importato quello che le
ragazze dicevano di me — disse. — Non prima
che arrivassi tu.
Prima che arrivassi tu. La voce di Clary
tremò appena. — Jace, mi stavo chiedendo…
— I vostri preliminari verbali sono noiosi e
irritanti — intervenne Sebastian, ricomparso
coi capelli d’argento bagnati e arruffati davanti
alla tenda di velluto. — Pronti ad andare?
Clary si liberò di scatto da Jace, arrossendo.
Lui invece rimase tranquillo. — Siamo noi che
stavamo aspettando te.
— E sembra che abbiate trovato il modo di
trascorrere il tempo senza annoiarvi. Adesso
però sbrighiamoci, andiamo. Vi avverto,
questo posto vi piacerà.
— Non mi restituiranno mai la cauzione —
disse Magnus, demoralizzato. Era seduto sopra
il tavolo, fra i cartoni di pizza e le tazze di caffè,
a guardare gli altri componenti della squadra
dei Buoni mentre facevano del loro meglio per
ripulire il caos lasciato dall’evocazione di
Azazel: buchi fumanti nelle pareti, liquame
nero e puzzolente di zolfo che colava dai tubi
del soffitto, cenere e altre sostanze nere e
granulose
sparpagliate
sul
pavimento.
Chairman Meow era disteso sulle gambe del
padrone e faceva le fusa. Magnus era esentato
dalle pulizie perché già aveva lasciato che
quasi gli distruggessero l’appartamento;
Simon anche, perché, dopo l’episodio del
pentagramma, nessuno sapeva bene come
trattarlo. Aveva cercato di parlare con Isabelle,
ma lei non aveva fatto altro che sventolare
minacciosa lo straccio del pavimento.
— Ho un’idea — disse Simon a Magnus. Era
seduto accanto a lui, coi gomiti sulle ginocchia.
— Ma non ti piacerà.
— E io ho la sensazione che hai ragione,
Sherwin.
— Simon. Mi chiamo Simon.
— Come vuoi — disse lo stregone sventolando
una mano. — Sentiamo questa idea.
— Io ho il Marchio di Caino. E questo
significa che niente può uccidermi, giusto?
— Ti puoi uccidere da solo — rispose l’altro
senza essergli di grande aiuto. — Per quanto ne
so, potrebbe farlo anche un oggetto inanimato,
accidentalmente. Quindi, se hai intenzione di
imparare a ballare la lambada su una pista
unta di grasso e sospesa su una fossa piena di
coltelli, be’… fossi in te lascerei perdere.
— Fine dei miei progetti per sabato.
— In effetti non c’è altro che ti possa uccidere
— proseguì lo stregone. Aveva distolto gli occhi
da Simon e ora stava guardando Alec, intento
ad armeggiare con uno strofinaccio. — Perché
lo vuoi sapere?
— Quello che è successo prima con Azazel,
dentro il pentagramma, mi ha fatto riflettere —
rispose Simon. — Hai detto che evocare gli
angeli è più pericoloso che evocare i demoni,
perché potrebbero annientare chi li ha
chiamati o ustionarlo col fuoco del Paradiso.
Ma se fossi io a farlo… — La voce gli si smorzò.
— Be’, sarei comunque al sicuro, o no?
Quella domanda riguadagnò l’attenzione di
Magnus. — Tu? Evocare un angelo?
— Potresti farmi vedere come si fa — lo
incoraggiò Simon. — So di non essere uno
stregone, ma Valentine lo ha fatto comunque.
Se ci è riuscito lui, perché non dovrei riuscirci
io? Voglio dire, ci sono persino degli esseri
umani in grado di compiere magie.
— Non posso prometterti che sopravviveresti
— rispose Magnus, ma nella sua voce c’era una
scintilla di interesse che contraddiceva
l’avvertimento. — Il Marchio è una protezione
del Paradiso, d’accordo, ma ti protegge anche
dal Paradiso stesso? Non conosco la risposta a
questa domanda.
— Lo so. Ma sei d’accordo che, fra tutti noi,
sono io quello con più possibilità di farcela?
Magnus guardò Maia, che stava schizzando
Jordan con dell’acqua e rideva mentre lui si
girava gridando. Poi la ragazza si tirò
all’indietro i riccioli, lasciando sulla fronte una
traccia nera di sporco. Sembrava una
ragazzina. — Sì — rispose Magnus a
malincuore. — Probabilmente sì.
— Chi è tuo padre? — volle sapere Simon.
Gli occhi di Magnus tornarono a posarsi su
Alec. Erano verde-oro, indecifrabili come
quelli del gatto che teneva in braccio. — Sai
che non è il mio argomento preferito, Smedley.
— Simon — lo corresse l’altro. — Se devo
morire per voi, il minimo che potresti fare è
ricordare come mi chiamo.
— Non stai morendo per me — ribatté
Magnus. — Se non fosse per Alec, io sarei…
— Saresti dove?
— Ho fatto un sogno — disse l’altro, lo
sguardo distante. — Ho visto una città tutta di
sangue, con torri fatte di ossa e liquido rosso
che scorreva come acqua per le strade. Forse
puoi salvare Jace, Diurno, ma non puoi salvare
il mondo. Le tenebre stanno per arrivare.
“Terra delle tenebre e dell’ombra di morte,
terra di caligine e di disordine, dove la luce è
come le tenebre”. Se non fosse per Alec, me ne
andrei da qui.
— E dove andresti?
— Mi nasconderei. Aspetterei che il tutto si
sfogasse. Non sono un eroe. — Magnus prese
Chairman Meow e lo depose sul pavimento.
— Ami Alec abbastanza da restare — osservò
Simon. — Questo è già un po’ da eroe.
— E tu amavi Clary abbastanza da incasinare
completamente la tua vita per lei — ribatté
Magnus con un astio nella voce che non era da
lui. — Guarda dove ti ha portato. — Alzò la
voce. — Bene, dico a tutti, venite qui. Sheldon
ha un’idea.
— E chi è Sheldon? — chiese Isabelle.
Le strade di Praga erano fredde e buie; anche
se Clary si era tenuta sulle spalle la giacca
bruciacchiata dall’icore, l’aria gelida le era
penetrata dentro al ribollio delle vene,
mettendo
a
tacere
quanto
rimaneva
dell’esaltazione scatenata dalla battaglia. Nel
tentativo di mantenere viva quella sensazione,
comprò una tazza di vino caldo, la avvolse fra
le mani e ne assaporò il calore, mentre con
Jace e Sebastian si perdeva in mezzo a un
intricato labirinto di antichi vicoli sempre più
stretti, sempre più cupi. Non c’erano cartelli
stradali, né targhe col nome delle vie, né altri
passanti; l’unica costante era la luna che si
muoveva sopra le loro teste attraverso spesse
nuvole. Finalmente una bassa scalinata di
pietra li portò giù su una piazzetta, un lato
della quale era illuminato da un’abbagliante
insegna al neon con la scritta KOSTI LUSTR.
Sotto c’era una porta aperta, un buco nero
nella parete simile a un dente mancante.
— Che cosa significa “Kosti Lustr”? — chiese
Clary.
— Significa Lampadario di Ossa. È il nome
della discoteca — le spiegò Sebastian,
avanzando baldanzoso. I suoi capelli chiari
riflettevano i colori al neon, sempre diversi,
dell’insegna: rosso intenso, azzurro ghiaccio,
oro metallico. — Venite?
Nell’istante in cui mise piede dentro al locale,
Clary venne colpita da un muro di suono e di
luce. Era una sala grande e affollatissima, che
un tempo doveva essere stata l’interno di una
chiesa. Alle pareti, c’erano ancora le alte
finestre a vetri colorati. Fasci di luce variopinta
si soffermavano sui volti estasiati di chi ballava
tra la folla in fermento, illuminandoli di fucsia,
verde fosforescente, viola acceso. Lungo una
parete c’era la consolle del DJ, e dagli
altoparlanti esplodeva musica trance; Clary
sentiva le onde sonore che le salivano
palpitando su dai piedi ed entravano nel
sangue, facendole vibrare le ossa. La stanza era
calda per via dei corpi accalcati e nell’aria
aleggiava un misto di sudore, fumo e birra.
Stava per voltarsi e chiedere a Jace se voleva
ballare, quando a un tratto si sentì una mano
sulla spalla. Era Sebastian. Clary si irrigidì, ma
non si ritrasse. — Vieni — le sussurrò
all’orecchio. — Noi non stiamo qui con la
plebaglia.
La sua mano era come ferro che le premeva
contro la schiena. Si lasciò spingere in avanti
fra le persone che ballavano e che, una volta
alzato lo sguardo su Sebastian, lo
riabbassavano facendosi da parte. Il caldo era
sempre più soffocante e, quando raggiunsero
l’estremità opposta del locale, Clary era quasi
senza fiato. C’era un arco che prima non aveva
notato. Una scalinata di pietra, coi gradini
consumati, scendeva verso il basso e curvava
nell’oscurità.
Alzò gli occhi quando Sebastian le tolse la
mano dalla schiena. All’improvviso venne
avvolta da un bagliore: Jace aveva estratto la
pietra runica di stregaluce e le stava
sorridendo, il viso tutto spigoli e ombre dentro
quel fascio luminoso potente e concentrato.
— Facilis descensus.
Clary rabbrividì. Sapeva che quella frase si
riferiva alla discesa agli inferi…
— Andiamo. — Sebastian fece un cenno con la
testa, dopodiché riprese a scendere con passo
sicuro ed elegante, neanche lontanamente
preoccupato di scivolare sulla pietra levigata
dall’usura. Clary lo seguiva un po’ più
lentamente. L’aria si faceva più fredda man
mano che scendevano e il suono pulsante della
musica si affievoliva. Sentiva il loro respiro e
vedeva le loro ombre, distorte e affusolate,
contro le pareti.
Non appena arrivarono in fondo alla scala, si
accorse che la musica era diversa. Il ritmo era
ancora più insistente di quello al piano di
sopra: le perforava le orecchie, le entrava nelle
vene e le faceva girare la testa. Aveva quasi le
vertigini, quando arrivarono sull’ultimo
gradino e misero piede in una sala enorme, che
le tolse il fiato.
Era tutto di pietra, le pareti sconnesse e
bitorzolute, il pavimento liscio sotto i loro
piedi. La gigantesca statua di un angelo con le
ali nere si stagliava contro il muro di fondo, la
testa invisibile fra le ombre del soffitto, le ali
da cui pendevano fili di granato simili a gocce
di sangue. L’intera stanza era il teatro di
esplosioni di colore che non avevano niente in
comune con le luci artificiali del piano
superiore: queste erano splendide, lucenti
come fuochi d’artificio, e ogni volta che ne
scoppiava una la folla danzante veniva
ricoperta da una pioggia scintillante. Enormi
fontane di marmo sprizzavano acqua e
bollicine; sulla superficie galleggiavano petali
di rose nere. In alto, da una lunga corda
dorata, sopra la pista affollata di gente che
ballava, pendeva un enorme lampadario fatto
di ossa.
Era tanto intricato quanto lugubre. La
struttura principale era composta da colonne
vertebrali unite fra loro: femori e tibie
pendevano come decorazioni dai bracci, che si
curvavano all’insù e terminavano con teschi
umani dai quali spuntavano grosse candele.
Cera nera colava come sangue di demone e
finiva sulla gente, che però non se ne curava.
Nessuno dei presenti, impegnati a volteggiare,
dimenarsi e battere le mani, era umano.
— Lupi mannari e vampiri — disse Sebastian
rispondendo alla domanda implicita di Clary.
— A Praga sono alleati. È qui che vengono
per… rilassarsi. — Una calda brezza spirava
per tutta la stanza, come vento del deserto;
sollevò i capelli argentei di Sebastian e glieli
soffiò sopra gli occhi, nascondendone
l’espressione.
Clary si sfilò la giacca e se la tenne premuta al
petto quasi fosse uno scudo. Si guardò attorno
con occhi sgranati. Riusciva a percepire
l’assenza della natura umana nelle persone
dentro la sala: i vampiri con il loro pallore e la
grazia languida e agile, i lupi mannari fieri e
veloci. Erano per lo più giovani, ballavano
vicini, si dimenavano su e giù contro i corpi
altrui. — Ma non gli darà fastidio la nostra
presenza? Dei Nephilim?
— Mi conoscono — rispose Sebastian. — E
sapranno che sei con me. — Allungò un braccio
per toglierle di mano la giacca. — Vado a
fartela appendere.
— Sebastian… — Ma lui era già sparito tra la
folla.
Guardò Jace, accanto a lei. Si teneva i pollici
infilati nella cintura e si guardava attorno con
aria disinvolta. — Guardaroba per vampiri? —
gli chiese.
— Perché no? — le sorrise. — Avrai notato che
non si è offerto di prendere la mia, di giacca.
La cavalleria è morta, lasciamelo dire! —
Vedendo l’espressione perplessa di lei, chinò la
testa di lato. — Non importa. Ci sarà qualcuno
con cui deve parlare.
— Ma allora non è venuto qui soltanto per
divertirsi?
— Sebastian non fa mai niente soltanto per
divertirsi. — Jace le prese le mani e la tirò
verso di sé. — Io invece sì.
Nella più totale assenza di stupore da parte di
Simon, nessuno si dimostrò entusiasta del suo
piano. Anzi, si era sollevato un coro di
disapprovazione, seguito da un clamore di voci
che cercavano di dissuaderlo o che chiedevano,
per lo più a Magnus, informazioni sul grado di
pericolosità di un’impresa del genere. Simon
appoggiò i gomiti sulle ginocchia e rimase in
attesa.
Alla fine sentì un tocco leggero sul braccio. Si
voltò e vide, con sorpresa, che si trattava di
Isabelle. Gli fece segno di seguirla.
Si misero all’ombra di una delle colonne,
mentre
la
discussione
continuava
a
imperversare alle loro spalle. Dato che
inizialmente Isabelle era stata una degli
oppositori più tenaci al progetto, Simon si
preparò all’eventualità che potesse gridargli
contro. Invece si limitava a guardarlo a bocca
serrata, nient’altro. — Okay — disse lui alla
fine, non sopportando quel silenzio. —
Immagino che in questo momento non sei
molto contenta di me.
— Immagini? Ti darei un calcio nel sedere,
vampiro, ma non voglio rovinare i miei costosi
stivali nuovi.
— Isabelle…
— Non sono la tua ragazza.
— Giusto — disse lui, anche se non poté
evitare di provare una punta di delusione. —
Lo so.
— E non ti ho mai rinfacciato il tempo che hai
trascorso con Clary. Anzi, ti ho incoraggiato.
So quanto tieni a lei e quanto lei tiene a te. Ma
ora… ora stai parlando di correre un rischio
assurdo. Ne sei sicuro?
Simon si guardò attorno: l’appartamento in
disordine di Magnus, il gruppetto poco
distante che discuteva del suo futuro. — Non si
tratta soltanto di Clary.
— Si tratta di tua madre, allora? — gli chiese
lei. — Per il fatto che ti ha dato del mostro? Tu
non hai niente da dimostrare, Simon. Quello è
un problema suo, non tuo.
— Non è quello. Jace mi ha salvato la vita,
sono in debito con lui.
Isabelle sembrava sorpresa. — Tu non lo stai
facendo solo per ricambiare Jace. Mi sbaglio?
Perché penso che adesso siete più o meno pari.
— No, non del tutto — ammise lui. — Senti, la
situazione la conosciamo tutti. Sebastian non
può andarsene in giro liberamente. È una
situazione pericolosa, e su questo il Conclave
ha ragione. Ma se lui muore, muore anche
Jace. E se Jace muore, Clary…
— Sopravviverebbe — rispose subito Isabelle,
secca. — È una ragazza forte.
— Soffrirebbe. Magari per sempre. E io non
voglio che soffra a quel modo. Come non
voglio che soffri tu.
Isabelle incrociò le braccia. — Certo che no.
Ma credi che lei non soffrirebbe, Simon, se
succedesse qualcosa a te?
Simon si morse un labbro. In effetti non ci
aveva pensato, non in quei termini. — E tu?
— E io?
— Soffriresti se mi succedesse qualcosa?
Lei continuò a guardarlo, a schiena dritta e
mento alto. Ma gli occhi le luccicavano. — Sì.
— Ma vuoi che aiuti Jace.
— Sì, voglio anche quello.
— Devi lasciarmi fare — le disse. — Non è solo
per Jace, per te o per Clary, anche se tutti
giocate un ruolo importante. È perché credo
che stiano arrivando le tenebre. Credo a
Magnus, quando lo dice. Credo che Raphael
abbia davvero paura di una guerra. Così come
credo anche che stiamo vedendo solo una
piccola parte del piano di Sebastian, e non
credo che abbia preso con sé Jace per pura
coincidenza, come non è una coincidenza il
loro legame. Sebastian sa che avremmo
bisogno di lui per vincere la guerra. Sa chi è
Jace.
Isabelle non poteva negarlo. — Tu sei
coraggioso quanto lui.
— Forse — disse Simon. — Ma non sono un
Nephilim. Non posso fare quello che fa lui. E
non conto così tanto per così tanta gente.
— Destini speciali nei vantaggi e speciali nei
tormenti — sussurrò Isabelle. — Simon, tu per
me conti molto.
Lui le si avvicinò e le appoggiò delicatamente
una mano sulla guancia. — Sei una guerriera,
Iz. È quello che fai, quello che sei. Ma se non
puoi combattere Sebastian perché far del male
a lui ne farebbe anche a Jace, non puoi
scendere in guerra. E se per vincere ti trovassi
a dover uccidere Jace, penso che a quel punto
morirebbe anche una parte della tua anima. E
io non voglio vedere una cosa del genere, non
se posso fare qualcosa per impedirlo.
Isabelle deglutì. — Non è giusto — disse —
che debba essere tu a…
— Farlo è una mia scelta. Jace invece non può
scegliere. Se muore, è per qualcosa che non
dipende da lui, non in senso stretto.
Isabelle esalò un respiro. Sciolse le braccia e
prese Simon per il gomito. — D’accordo — gli
disse. — Andiamo.
Lo guidò di nuovo verso il gruppo, che
interruppe la discussione e rimase a guardare
Isabelle che schiariva la voce, quasi che non si
fossero accorti della loro assenza fino a quel
momento.
— Basta — esordì. — Simon ha preso la sua
decisione, una decisione che spetta solo a lui.
Evocherà Raziel. E noi lo aiuteremo in ogni
modo possibile.
Ballarono. Clary cercò di lasciarsi andare al
ritmo incessante della musica e al sangue che
le affluiva alle vene, come un tempo era
riuscita a fare al Pandemonium, con Simon.
Ovviamente lui si era dimostrato un ballerino
piuttosto improponibile, mentre Jace era
bravissimo. Pensò che forse era normale. Con
tutto quell’allenamento per controllarsi
durante i combattimenti e quell’agilità ben
calibrata, c’era ben poco che non potesse
chiedere al proprio corpo. Quando lanciò la
testa all’indietro, i suoi capelli erano scuri per
il sudore, incollati alle tempie, e la curva del
collo brillava alla luce del lampadario di ossa.
Clary si accorse del modo in cui lo
guardavano le altre persone in pista: c’erano
ammirazione, curiosità, fame predatoria. Un
senso di gelosia che non riusciva a definire, né
a controllare, le salì dentro. Si avvicinò a lui,
facendo scivolare il corpo come aveva visto
fare in pista a ragazze che prima non aveva
avuto il coraggio di imitare. Era sempre stata
convinta che i capelli le sarebbero rimasti
impigliati nella fibbia della cintura di
qualcuno, ma adesso le cose erano diverse.
Tutti quei mesi di allenamento non davano i
loro frutti soltanto quando era il momento di
combattere, ma ogni volta in cui doveva usare
il proprio corpo. Si sentiva sciolta, a proprio
agio, in un modo mai provato prima. Premette
il proprio corpo contro quello di Jace.
Lui teneva gli occhi chiusi. Li riaprì proprio
nell’istante in cui un’esplosione di luce
colorata accese il buio attorno a loro. Gocce
metalliche li investirono come pioggia; alcune
rimasero intrappolate fra i capelli di Jace, altre
gli brillarono sulla pelle come mercurio. Toccò
con le dita una goccia di liquido argenteo
rimasta sul collo e la mostrò a Clary, curvando
le labbra all’insù. — Ricordi cosa ti avevo detto
quella prima volta da Taki? Sul cibo delle fate?
— Ricordo che avevi detto di aver corso lungo
Madison Avenue nudo con delle corna in testa
— disse Clary, battendo le palpebre e facendo
piovere gocce d’argento dalle ciglia.
— Non credo sia mai stato dimostrato che
quello fossi davvero io. — Soltanto Jace era
capace di parlare e allo stesso tempo ballare
senza sembrare strano. — Be’, direi che questa
roba… — disse schizzando con le dita il liquido
argenteo che gli bagnava pelle e capelli,
dipingendolo di metallo — è così, ti fa sentire…
— Sballato?
Lui la guardò con occhi cupi. — Potrebbe
essere divertente. — Sopra le loro teste scoppiò
un altro di quei particolari fiori rotanti: questa
volta il getto fu blu-argento, come acqua. Jace
ne leccò una goccia da un palmo della mano,
senza smettere di osservare Clary.
Sballare. Clary non aveva mai provato
droghe, nemmeno beveva. Forse l’unica volta
era stata con la bottiglia di liquore al caffè
trafugata dal mobile bar della madre di Simon
e bevuta con lui, quando avevano tredici anni.
Dopo erano stati male da morire; Simon aveva
addirittura vomitato dentro una siepe. Non ne
era valsa la pena, ma la sensazione di vertigini,
la voglia di ridacchiare, il sentirsi felice senza
motivo se li ricordava ancora.
Quando Jace riabbassò la mano, aveva la
bocca sporca d’argento. La stava ancora
guardando, con gli occhi dorati oscurati dalle
lunghe ciglia.
Felice senza motivo.
Ripensò a quando erano stati insieme dopo la
Guerra Mortale, prima che Lilith lo
possedesse. Allora lui era il Jace della
fotografia sulla parete: felice. Lo erano
entrambi. Quando lo guardava, non era
attanagliata dai dubbi, non provava quella
sensazione di minuscoli coltelli sotto la pelle
che aveva ora e che erodeva la reciproca
intimità.
Si avvicinò a Jace e lo baciò, lentamente e
senza esitare, sulle labbra.
La bocca le esplose di un sapore agrodolce,
un misto fra vino e caramella. Altro liquido
argenteo piovve su di loro, mentre lei si
allontanava da lui leccandosi di proposito le
labbra.
Jace respirava forte; tentò di riafferrare
Clary, ma lei fece una giravolta e scappò via
ridendo.
All’improvviso si sentì libera e selvaggia,
incredibilmente leggera. Sapeva che c’era
qualcosa di tremendamente importante che
avrebbe dovuto fare, ma non ricordava cosa o
perché le fosse importato. I volti delle persone
attorno non avevano più quell’aria selvatica,
vagamente minacciosa, ma mostravano una
bellezza oscura. Si sentiva dentro a
un’immensa caverna di echi e le ombre attorno
erano dipinte con colori più belli e luminosi di
qualsiasi tramonto. La statua dell’angelo che
incombeva dall’alto aveva l’aria benevola, mille
volte più di Raziel e della sua fredda luce
bianca, ed emetteva una nota acuta, pura,
cristallina, perfetta. Clary girò, sempre più
veloce, lasciandosi alle spalle dolore, ricordi,
perdite, finché andò a finire tra due braccia
che le serpeggiarono attorno da dietro e la
strinsero forte. Abbassò lo sguardo e si vide
due mani coperte di cicatrici attorno alla vita,
dita snelle e bellissime, la runa della
Chiaroveggenza. Jace. Si sciolse contro di lui,
chiudendo gli occhi, lasciando che la testa le
cadesse nella curva della sua spalla. Sentiva il
suo cuore battere contro la propria spina
dorsale.
Il cuore di nessun altro batteva come quello
di Jace, né avrebbe mai potuto farlo.
Gli occhi le si aprirono; si girò, con le mani
tese, per spingere via quel corpo. —
Sebastian… — sussurrò. Suo fratello le sorrise,
nero e argenteo come l’anello dei Morgenstern.
— Clarissa — disse lui. — Voglio farti vedere
una cosa.
No. La parola se ne andò come era arrivata,
zucchero che si dissolveva dentro un liquido.
Non ricordava più perché fosse tenuta a dirgli
di no. In fondo era suo fratello, avrebbe dovuto
volergli bene. L’aveva portata in un posto
stupendo. Forse aveva fatto delle brutte cose,
certo, ma era successo tanto tempo prima, e
poi non ricordava nemmeno di cosa si
trattasse.
— Sento gli angeli cantare — gli disse.
Lui ridacchiò. — Allora hai scoperto che
quella roba color argento non sono semplici
lustrini. — Le si avvicinò e le sfregò un dito
sullo zigomo; quando lo tolse, era grigio
lucido, come se avesse toccato una lacrima
colorata. — Seguimi, ragazza angelo. — Le
porse una mano.
— Ma, Jace… — ribatté lei. — L’ho perso in
mezzo alla gente.
— Ci troverà. — La mano di Sebastian si
strinse attorno alla sua, sorprendentemente
calda e confortante. Clary si lasciò condurre
verso una delle fontane al centro della stanza e
si sedette sul largo bordo di marmo. Lui le si
mise accanto, sempre tenendola per mano. —
Guarda nell’acqua — le disse. — Dimmi cosa
vedi.
Clary si sporse e guardò la superficie liscia e
scura della vasca. Vedeva il proprio viso
riflesso, gli occhi grandi e impazziti, il trucco
sbavato come un livido, i capelli arruffati. Poi
anche Sebastian si sporse, e Clary vide il suo
viso accanto al proprio. L’argento dei capelli di
lui riflesso nell’acqua le faceva pensare alla
luna su un fiume. Allungò una mano per
toccarne la lucentezza, ma l’immagine andò in
frantumi, il riflesso distorto, irriconoscibile.
— Che cos’è? — chiese Sebastian, nella sua
voce un tono basso e insistente.
Clary scosse la testa. Stava facendo davvero lo
stupido. — Ho visto te e me — gli rispose con
una vocina infantile. — Cos’altro?
Sebastian le mise una mano sotto il mento e
le girò la faccia verso di sé. Aveva gli occhi
neri, neri come la notte, con un cerchio
d’argento a separare la pupilla dall’iride. —
Non lo vedi? Siamo uguali, io e te.
— Uguali? — Clary lo guardò battendo le
ciglia. C’era qualcosa di profondamente
sbagliato in quello che stava dicendo, anche se
non sapeva dire bene cosa. — No…
— Sei mia sorella — proseguì lui. — Abbiamo
lo stesso sangue.
— Tu hai sangue di demone — ribatté Clary.
— Il sangue di Lilith. — Chissà perché, quel
dettaglio le parve divertente. Si mise a
ridacchiare. — Sei tutto buio, buio, buio.
Mentre io e Jace siamo luce.
— Dentro di te hai un cuore di tenebra, figlia
di Valentine — le disse Sebastian. — Ma non
vuoi ammetterlo. E se desideri Jace, farai
meglio ad accettarlo. Perché ora lui appartiene
a me.
— E tu a chi appartieni?
Le labbra di Sebastian si dischiusero, ma non
pronunciarono una sola parola. Per la prima
volta, pensò Clary, sembrava non avesse nulla
da dire. Era sorpresa: le parole di Sebastian
non le importavano granché, e avevano
suscitato in lei niente più di una vaga curiosità.
Prima che potesse aggiungere altro, una voce
sopra di loro disse:
— Cosa state facendo? — Era Jace. Spostò lo
sguardo da uno all’altra, il viso impassibile.
Aveva addosso altra sostanza luccicante, gocce
d’argento intrappolate fra i capelli d’oro. —
Clary. — Sembrava infastidito. Lei si staccò da
Sebastian e balzò in piedi.
— Scusa — gli disse, senza fiato. — Mi ero
persa tra la folla.
— Lo avevo notato — rispose lui. — Sto
ballando con te, un attimo dopo tu sei sparita e
io mi ritrovo un lupo mannaro particolarmente
insistente che cerca di sbottonarmi i jeans.
Sebastian rise. — Maschio o femmina?
— Non saprei. In ogni caso, avrebbe dovuto
farsi la barba. — Prese la mano di Clary e le
circondò il polso con dita leggere. — Vuoi
andare a casa? O ballare ancora un po’?
— Ballare ancora un po’. Per te va bene?
— Prego — rispose Sebastian. Si allungò
all’indietro, appoggiando le mani sul bordo
della fontana. Il suo sorriso era una lama di
rasoio. — Guardare non mi disturba.
Qualcosa splendette davanti agli occhi di
Clary: il ricordo dell’impronta insanguinata di
una mano. Se ne andò veloce come era
comparso, facendole corrugare la fronte.
Quella notte era troppo bella per pensare alle
cose spiacevoli. Rivolse un ultimo sguardo al
fratello e poi lasciò che Jace la portasse verso i
margini della folla, quasi in ombra, là dove la
pressione fra i corpi era minore. Un’altra sfera
di luce colorata esplose sopra le loro teste
mentre camminavano, spargendo argento;
Clary alzò la testa e allungò la lingua per
catturare altre gocce agrodolci.
Al centro della stanza, sotto il lampadario di
ossa, Jace si fermò e lei gli finì contro. Si
ritrovò con le braccia attorno a lui, mentre
gocce del liquido argenteo le colavano giù per
le guance come lacrime. Il tessuto della
maglietta di Jace era sottile, tanto che sotto
riusciva a sentire la sua pelle che bruciava. Le
mani le scivolarono sotto l’orlo, le unghie
graffiarono leggere le costole. Altre gocce
brillarono dalle ciglia di lui mentre abbassava
lo sguardo sul suo e si chinava per sussurrarle
all’orecchio. Le mise le mani sulle spalle, poi le
lasciò scorrere giù lungo le braccia. Nessuno
dei due stava più ballando: attorno a loro la
musica continuava, ipnotica, così come il
movimento delle altre persone in pista, ma
Clary se ne accorgeva a malapena. Una coppia
li oltrepassò ridendo e facendo un commento
dal tono sprezzante in ceco. Clary non capì, ma
sospettava che il significato fosse qualcosa tipo
“Prendetevi una stanza”.
Jace emise un gemito d’impazienza, poi tornò
in mezzo alla folla trascinandosi dietro Clary e
portandola dentro uno dei privé al buio che
profilavano le pareti.
Ce n’erano a dozzine, circolari, ognuno con
una panca di pietra e una tenda di velluto che
si poteva chiudere per ottenere un briciolo di
privacy. Jace lo fece immediatamente, e si
scontrarono l’uno contro l’altra come il mare
contro la riva. Le loro bocche prima urtarono e
poi si unirono; Jace la sollevò per stringersela
contro, mentre le dita gli si contorcevano nel
tessuto scivoloso del vestito.
Clary sentiva il calore e la morbidezza, le
mani che cercavano e trovavano, la
cedevolezza e la pressione dei corpi. Le proprie
dita sotto la maglietta di Jace, le unghie che gli
graffiavano
la
schiena,
selvaggiamente
appagate quando lo sentirono trasalire. Lui le
morse il labbro inferiore; lei avvertì in bocca il
sapore del sangue, caldo e salato. Era come se
si volessero divorare, pensò, entrare l’uno nel
corpo dell’altra e condividere lo stesso battito
cardiaco, anche a costo di morire entrambi.
Il privé era buio, così buio che Jace sembrava
soltanto una sagoma d’oro e d’ombra. Il suo
corpo premeva quello di Clary contro il muro.
Le mani gli scivolarono lungo i fianchi di lei e
raggiunsero l’orlo del vestito, sollevandolo
sulle cosce.
— Che stai facendo? — sussurrò lei. — Jace?
Lui la guardò. Le strane luci della discoteca
gli trasformavano gli occhi in un caleidoscopio
di colori. Aveva un sorriso perverso. — Puoi
dirmi di fermarmi quando vuoi — le disse. —
Ma non lo farai.
Sebastian tirò la tenda di velluto polveroso
che chiudeva uno dei privé e sorrise.
Una panca correva lungo il perimetro interno
della stanzetta circolare. Sopra sedeva un
uomo, coi gomiti appoggiati a un tavolino di
pietra. Aveva i capelli lunghi e neri legati
all’indietro, una cicatrice o una voglia a forma
di foglia su una guancia, gli occhi verdi come
l’erba. Indossava un completo bianco e dal
taschino gli spuntava una pochette con il
ricamo di una foglia verde.
— Jonathan Morgenstern — disse Meliorn.
Sebastian non lo corresse. I membri del
Popolo Fatato tenevano molto ai nomi e non lo
avrebbero mai chiamato in un modo diverso
da quello scelto per lui da suo padre. — Non
ero sicuro che saresti stato qui all’ora fissata,
Meliorn.
— Permettimi di ricordarti che il Popolo
Fatato non mente — disse il cavaliere. Si alzò
per chiudere la tenda alle spalle di Sebastian.
La musica che pulsava all’esterno venne
smorzata, ma rimase ben lontana dall’essere
impercettibile. — Entra, allora, e accomodati.
Vino?
Sebastian prese posto sulla panca. — No,
niente. — Il vino, come il liquore delle fate,
non avrebbe fatto altro che offuscargli la
mente, mentre loro sembravano sopportarlo
molto meglio. — Ammetto di essere rimasto
sorpreso quando ho ricevuto il messaggio con
cui proponevi di incontrarmi in questo posto.
— Tu più di tutti dovresti sapere che la
signora nutre un interesse speciale nei tuoi
confronti. Segue tutti i tuoi movimenti. —
Meliorn bevve un sorso di vino. — Stanotte,
qui a Praga, c’è stata un’intensa attività
demoniaca. La Regina era preoccupata.
Sebastian allargò le braccia. — Come vedi,
sono illeso.
— Un’attività demoniaca così intensa attirerà
di sicuro l’attenzione dei Nephilim. Anzi, se
non erro, diversi di loro se la spassano già
senza.
— Senza cosa? — chiese Sebastian con
innocenza.
Meliorn bevve un altro sorso e lo guardò con
occhio torvo.
— Ah, giusto, dimentico sempre lo strano
modo di esprimersi del Popolo Fatato. Intendi
dire che nella folla qui fuori ci sono degli
Shadowhunters che mi stanno cercando. Lo so,
li ho notati. La Regina non ha grande
considerazione di me se pensa che non sia in
grado di affrontare da solo una manciata di
Nephilim. — Sebastian estrasse un pugnale
dalla cintura e lo fece roteare, così che quel
minimo di luce presente nel privé andò a
riflettersi contro la lama.
— Le riporterò questo concetto — mormorò
Meliorn. — Devo ammettere che proprio non
capisco quale tipo di attrazione eserciti su di
lei. Ti ho preso le misure e le ho trovate scarse.
D’altronde non ho gli stessi gusti della mia
signora.
— Pesato con la bilancia e trovato carente? —
Divertito, Sebastian si sporse in avanti. —
Lascia che ti spieghi, cavaliere delle fate. Sono
giovane. Sono bello. E sono pronto a ridurre in
cenere il mondo intero per ottenere quello che
voglio. — Col pugnale, fece un’incisione sul
piano in pietra del tavolo. — Come a me, anche
alla Regina piacciono le partite lunghe. Ma
quello che desidero sapere è: quando arriverà
il tramonto dei Nephilim, la Corte sarà con me
o contro di me?
L’espressione di Meliorn era impassibile. —
La Signora dice di essere con te.
La bocca di Sebastian si sollevò agli angoli. —
Questa è un’ottima notizia.
Meliorn fece una smorfia. — Ho sempre
immaginato che la specie umana avrebbe
posto fine a se stessa — commentò. — Da mille
anni ormai profetizzo che sarete voi stessi la
causa della vostra morte. Eppure non mi
aspettavo che la fine sarebbe giunta in questo
modo…
Sebastian fece roteare il suo pugnale lucente
fra le dita. — Nessuno mai se lo aspetta.
— Jace — sussurrò Clary, — Jace, potrebbe
entrare qualcuno. Potrebbero vederci!
Le mani di lui non smisero di fare quello che
stavano facendo. — Non succederà.
Le tracciò un sentiero di baci giù per il collo,
con il risultato di scombussolarle la mente. Era
difficile aggrapparsi alla realtà, con le mani di
lui addosso, pensieri e ricordi persi in un
turbine, dita incastrate così saldamente nella
sua maglietta da avere la certezza che presto
l’avrebbero strappata.
Sentiva la parete di pietra fredda contro la
schiena, ma Jace le stava baciando la spalla,
facendo scivolare giù la spallina del vestito.
Provava caldo, freddo, brividi. Il mondo si era
frammentato in mille pezzi, come i tasselli di
un caleidoscopio, e stava per sbriciolarsi fra le
sue mani.
— Jace. — Si aggrappò alla sua maglietta. Era
viscida, appiccicosa. Si guardò le mani e, per
un istante, non capì cosa stesse guardando.
Liquido argenteo, misto a rosso.
Sangue.
Alzò lo sguardo. A testa in giù sopra di loro,
come una macabra pentolaccia messicana,
penzolava un corpo umano, con una corda
legata alle caviglie. Il sangue colava da un
taglio all’altezza della gola.
Clary lanciò un grido che però non fece
rumore. Diede una spinta a Jace, che barcollò
all’indietro; aveva sangue fra i capelli, sulla
maglietta, sulla pelle nuda. Lei si risollevò le
spalline del vestito e si precipitò verso la tenda
che nascondeva il privé, per aprirla.
La statua dell’angelo non era più come prima.
Le ali nere erano diventate ali di pipistrello; il
viso grazioso e benevolo si era contratto in un
ghigno. Dal soffitto, appesi a corde intrecciate,
penzolavano cadaveri di uomini, donne,
animali: tutti squartati, col sangue che colava
di sotto come pioggia. Anche le fontane
gettavano sangue a fiotti, e ora, sulla
superficie, non galleggiavano più fiori bensì
mani aperte amputate. Le stesse persone che
ballavano sulla pista contorcendosi e
dimenandosi grondavano liquido rosso. Sotto
gli occhi di Clary, una coppia passò
volteggiando: lui alto e pallido, lei rigida fra le
sue braccia e con la gola aperta, chiaramente
morta. L’uomo si leccò le labbra e si piegò per
morderla di nuovo, ma prima di farlo guardò
Clary e le sorrise. Aveva il volto striato di
sangue e d’argento.
La ragazza sentì la mano di Jace, sul braccio,
che la tirava indietro, ma lottò per liberarsene.
Aveva gli occhi inchiodati alle vasche di vetro
lungo la parete che, in un primo momento,
pensava contenessero dei pesci luccicanti.
L’acqua non era limpida, bensì vischiosa,
torbida: vi galleggiavano cadaveri umani, coi
capelli che si diramavano attorno alle teste
come filamenti di meduse luminose. Sentì un
grido salirle in gola, ma lo ricacciò indietro
quando il silenzio e le tenebre la travolsero.
capitolo 14
COME CENERE
Clary riprese coscienza lentamente, con lo
stesso senso di vertigini che aveva provato
quella prima mattina all’Istituto, quando si era
svegliata senza avere la minima idea di dove
fosse. Le faceva male tutto il corpo e si sentiva
come se le avessero sfondato la testa con un
bilanciere d’acciaio. Era sdraiata su un fianco,
la testa appoggiata sopra una superficie
ruvida, e attorno alle spalle aveva qualcosa di
pesante. Abbassando lo sguardo vide una
mano affusolata che le premeva lo sterno con
fare protettivo. Riconobbe i marchi, le leggere
cicatrici bianche, persino il disegno di vene
bluastre lungo l’avambraccio. Il peso che si
sentiva nel petto si alleggerì; si mise a sedere
con cautela, scivolando fuori dal braccio di
Jace.
Erano nella camera da letto di lui. Riconobbe
l’ordine maniacale, il letto con le coperte ben
infilate sotto gli angoli. Era rimasto così. Jace
dormiva, con la testa appoggiata alla testata
del letto e indosso ancora gli stessi vestiti della
notte precedente. Aveva persino le scarpe. Si
era chiaramente addormentato stringendola,
anche se lei non ricordava niente. Era ancora
sporco di quella strana sostanza argentea della
discoteca.
Si stiracchiò leggermente, come se si fosse
accorto che Clary si era spostata, e mise il
braccio libero attorno a se stesso. Non
sembrava ferito, pensò, soltanto esausto, con
le lunga ciglia oro scuro incurvate nell’incavo
delle occhiaie. Così addormentato, sembrava
vulnerabile, un bambino. Avrebbe potuto
essere il suo Jace.
Invece no. Ricordava la discoteca, le sue mani
al buio su di lei, i cadaveri e il sangue. Lo
stomaco le si contorse, si mise una mano sopra
la bocca e bloccò un conato di vomito.
Ripensare a quella scena le dava la nausea, ma
sotto quella nausea c’era anche una spina
insistente, la sensazione di stare dimenticando
qualcosa.
Qualcosa di importante.
— Clary.
Si girò. Jace aveva gli occhi socchiusi; la stava
guardando da sotto le ciglia, l’oro degli occhi
annebbiato dalla stanchezza. — Sei già sveglia?
— le disse. — Non è nemmeno l’alba.
Strinse le mani fra l’intrico di lenzuola. —
L’altra notte — disse con voce incerta. — I
corpi… il sangue…
— Il cosa?!
— È quello che ho visto.
— Io no. — Jace scosse la testa. — Le droghe
delle fate — aggiunse. — Lo sapevi…
— Sembrava talmente reale.
— Mi dispiace. — Gli occhi di lui si chiusero.
— Volevo divertirmi. In teoria servono a
renderti felice, farti vedere cose… Pensavo che
ci saremmo divertiti insieme.
— Io ho visto del sangue — ribadì Clary. — E
gente morta che galleggiava dentro le vasche…
Lui scosse la testa, abbassando le ciglia. —
Niente era reale…
— Nemmeno quello che è successo fra te e
me…? — Clary si interruppe, perché lui aveva
chiuso gli occhi; il petto gli saliva e scendeva a
ritmo regolare. Si era riaddormentato.
Clary si alzò in piedi senza più guardarlo ed
entrò nel bagno. In piedi, si guardò allo
specchio, mentre un senso di torpore le
pervadeva le ossa. Era coperta di residui di
liquido argenteo. La scena le ricordò la volta in
cui una penna a inchiostro metallizzato le si
era rotta dentro lo zaino, rovinando tutto. Una
delle spalline del reggiseno era saltata,
probabilmente perché Jace, la notte prima,
l’aveva tirata troppo. Gli occhi erano circondati
da strisce nere di mascara sbavato, pelle e
capelli appiccicosi per via del liquido
d’argento.
Sentendosi debole, nauseata, si tolse il
vestito-sottoveste e la biancheria intima,
buttando tutto nel cesto della biancheria
sporca. Poi si immerse nell’acqua bollente.
Si lavò i capelli più volte, cercando di ripulirli
da quella schifezza ormai secca. Era come
tentare di lavare via i colori a olio. Anche
l’odore non se ne voleva andare; simile a
quello dell’acqua di un vaso di fiori marci, era
appena
percettibile,
dolciastro,
in
decomposizione sulla sua pelle. Sembrava che
non ci fosse quantità di sapone in grado di
eliminarlo una volta per tutte.
Finalmente convinta di essere il più pulita
possibile, si asciugò e tornò nella camera
padronale per vestirsi. Fu un sollievo infilarsi
di nuovo jeans, stivali e un comodo
maglioncino di cotone. Fu soltanto allora,
quando ebbe quasi finito di vestirsi, che la
fastidiosa sensazione di stare dimenticando
qualcosa tornò a farsi viva. Restò di ghiaccio.
L’anello. L’anello d’oro che le permetteva di
comunicare con Simon.
Non c’era più.
Si mise a cercarlo freneticamente, rovistando
prima dentro al cesto della biancheria per
vedere se era rimasto impigliato nel vestito, e
poi perlustrando ogni centimetro della stanza
di Jace, mentre lui continuava a dormire
pacificamente. Cercò fra le setole del tappeto,
le coperte, dentro i cassetti dei comodini.
Alla fine si mise a sedere, con il cuore che le
batteva forte nel petto e un senso di nausea
allo stomaco.
L’anello era sparito. Perduto, da qualche
parte, in chissà quale maniera. Fece uno sforzo
per ricordare l’ultima volta che lo aveva visto;
sicuramente le brillava ancora al dito quando
aveva scagliato il pugnale contro i demoni
Elapid. Che fosse caduto a terra nel negozio di
anticaglie? Oppure in discoteca?
Infilzò le dita nel tessuto di jeans che le
ricopriva le cosce, finché il dolore non la fece
trasalire. Concentrati, si disse. Concentrati!
Forse le era scivolato dal dito da qualche
parte in casa. Forse, a un certo punto, Jace
l’aveva portata al piano di sopra. Non c’erano
molte possibilità di ritrovarlo, ma non
bisognava lasciare niente di intentato.
Si alzò ed entrò, il più silenziosamente
possibile, in corridoio. Andò verso la camera di
Sebastian e lì si fermò, esitante. Non riusciva a
immaginarsi il motivo per cui l’anello avrebbe
dovuto essere là dentro, e svegliare Sebastian
sarebbe stato solo controproducente. Fece
dietrofront e scese le scale, poggiando i piedi
senza fare rumore con gli stivali.
In testa le turbinavano mille pensieri. Senza
un modo per contattare Simon, che cosa
avrebbe fatto? Doveva raccontargli del negozio
di antiquariato, dell’adamas. Avrebbe dovuto
parlargli prima. Aveva voglia di tirare un
pugno contro il muro, ma costrinse la propria
mente a rallentare, a valutare diverse opzioni.
Sebastian e Jace stavano cominciando a fidarsi
di lei; se fosse riuscita ad allontanarsi da loro,
anche per poco, in una strada di città piena di
gente, avrebbe potuto chiamare Simon usando
un telefono pubblico. Oppure sgattaiolare
dentro un Internet café e mandargli una mail.
Conosceva la tecnologia dei mondani meglio
dei due ragazzi. Aver perso l’anello non era la
fine.
No, non si sarebbe arresa.
Aveva la mente così occupata dai progetti su
come attuare le sue prossime mosse che, in un
primo momento, non si accorse di Sebastian.
Per fortuna le stava dando le spalle. Era in
piedi in salotto, col viso rivolto al muro.
Arrivata già in fondo alle scale, Clary rimase
immobile, poi attraversò come una saetta la
stanza e si appiattì contro la mezza parete che
separava la cucina dalla stanza più grande.
Non c’era motivo di andare nel panico, si disse.
In fondo lei viveva lì. Se Sebastian l’avesse
vista, gli avrebbe potuto dire che era scesa a
prendersi un bicchiere d’acqua.
Ma la possibilità di osservarlo senza che lui se
ne accorgesse era troppo allettante. Si sporse
appena, sbirciando dal bancone della cucina.
Sebastian continuava a voltarle le spalle. Si
era cambiato, dopo la serata in discoteca.
Niente più giaccone dell’esercito: ora
indossava jeans e camicia. Quando si girò, la
camicia si sollevò, lasciando intravedere la
cintura con le armi ben allacciata in vita.
Sollevò la mano destra, e Clary notò che teneva
in mano il suo stilo. E che lo faceva in un modo
attento e riflessivo che, per un secondo
appena, le ricordò i gesti con cui sua madre
stringeva i pennelli.
Chiuse gli occhi. Era come tessuto che si
strappava su un gancio, la fitta che sentiva al
cuore quando riconosceva in Sebastian
qualcosa che le ricordava sua madre o se
stessa. Le faceva ripensare che, sebbene gran
parte del sangue di Sebastian fosse veleno, era
comunque lo stesso sangue che scorreva
dentro le sue vene.
Riaprì gli occhi, in tempo per vedere un
passaggio formarsi di fronte al ragazzo, il quale
prese una sciarpa da un appendiabiti e avanzò
nell’oscurità.
Clary ebbe una frazione di secondo per
decidere. Restare e ispezionare tutte le stanze,
oppure seguire Sebastian e vedere dove stava
andando. I piedi scelsero prima della mente.
Allontanandosi dal muro, si lanciò verso il
nero varco pochi istanti prima che le si
chiudesse alle spalle.
La stanza in cui giaceva Luke era illuminata
soltanto dal chiarore dei lampioni che, dalla
strada, filtrava attraverso le persiane. Jocelyn
sapeva che avrebbe potuto chiedere una
lampada, ma preferiva così. Il buio nascondeva
la gravità delle ferite di lui, il pallore del volto e
i semicerchi infossati sotto gli occhi.
Anzi, in quella penombra Luke le ricordava il
ragazzo che aveva conosciuto a Idris prima che
si formasse il Circolo. Se lo ricordava nel
cortile della scuola, magro, coi capelli castani,
gli occhi azzurri e le mani nervose. Era il
migliore amico di Valentine e, per quel motivo,
nessuno lo aveva mai guardato veramente.
Nemmeno lei, altrimenti non sarebbe stata
così cieca da non capire quello che provava per
lei.
Ripensò al giorno delle nozze con Valentine,
il sole alto e splendente attraverso il tetto di
cristallo della Sala degli Accordi. Lei aveva
diciannove anni, Valentine venti, e ricordava
quanto i suoi genitori fossero scontenti che lei
avesse deciso di sposarsi così giovane. Ma, per
lei, la loro disapprovazione non contava nulla:
non capivano e basta. Era assolutamente certa
che, nella sua vita, non ci sarebbe mai stato
nessun altro che Valentine.
Luke gli aveva fatto da testimone. Ricordava
il suo viso quando lei aveva camminato lungo
il corridoio… Lo aveva guardato solo per un
attimo, prima di rivolgere tutta la sua
attenzione a Valentine. Ricordò anche di aver
pensato che forse non si sentiva bene, che
aveva l’aspetto sofferente. E più tardi, nella
piazza dell’Angelo, mentre si assiepavano gli
invitati (c’era quasi tutto il Circolo, da Maryse
e Robert Lightwood, già sposati, all’allora
quindicenne Jeremy Pontmercy), lei era in
piedi accanto a Luke e Valentine, e qualcuno
aveva fatto una battuta dicendo che, se lo
sposo non si fosse presentato, la sposa avrebbe
dovuto sposare il testimone. Luke era vestito
da sera, con le rune d’oro di buon auspicio per
il matrimonio, e stava molto bene, ma, mentre
tutti gli altri ridevano, lui era sbiancato
completamente. Deve davvero detestare l’idea
di sposarmi, aveva pensato Jocelyn. Ricordò
che gli aveva toccato una spalla, ridendo.
— Non fare quella faccia — gli aveva detto. —
Ci conosciamo da una vita, ma ti prometto che
non dovrai mai sposarmi!
E poi era arrivata Amatis, portando con sé
uno Stephen in preda alle risate, e lei si era
dimenticata completamente di Luke, del modo
in cui la guardava… e dello strano modo in cui
Valentine aveva guardato lui.
Adesso, dopo avergli lanciato un’occhiata,
sobbalzò sulla sedia. Luke aveva gli occhi
aperti, per la prima volta da giorni, e la stava
fissando.
— Luke! — disse in un sussurro.
Lui sembrava confuso. — Quanto… quanto ho
dormito?
Jocelyn avrebbe voluto buttarsi su di lui, ma
lo stretto bendaggio che ancora gli avvolgeva il
petto la trattenne. Invece gli prese la mano e se
la mise sulla guancia, intrecciando le dita con
le sue. Chiuse gli occhi e, quando lo fece, sentì
le lacrime scenderle da sotto le palpebre. —
Circa tre giorni.
— Jocelyn — disse lui, ora con voce davvero
allarmata. — Perché siamo qui alla stazione?
Dov’è Clary? Io non ricordo, sul serio…
Jocelyn abbassò le mani intrecciate e, con la
voce più ferma che le riuscì, gli raccontò quello
che era successo. Sebastian e Jace, il metallo
demoniaco che gli aveva perforato la carne,
l’intervento del Praetor Lupus.
— Clary — disse lui, non appena terminato il
racconto. — Dobbiamo cercarla.
Liberando la propria mano da quella di lei,
Luke si sforzò di mettersi a sedere. Anche in
penombra, Jocelyn vide il suo pallore
peggiorare nella lotta contro il dolore.
— Non è possibile. Luke, sdraiati, ti prego.
Non pensi che, se ci fosse stato un modo per
trovarla, ci avrei già provato?
Lui mise le gambe sul lato del letto,
rimanendo seduto. Poi, con un gemito, si
appoggiò all’indietro sulle mani. Aveva un
aspetto tremendo. — Ma il pericolo…
— Credi che non ci abbia pensato? — Jocelyn
gli mise le mani sulle spalle e lo spinse con
dolcezza di nuovo contro i cuscini. — Simon mi
contatta tutte le sere. Clary sta bene, davvero.
E tu non sei nelle condizioni per intervenire.
Ucciderti non le sarà di aiuto. Ti prego, Luke,
credimi.
— Jocelyn, non posso starmene qui.
— Sì, invece — gli disse lei alzandosi in piedi.
— E lo farai, anche a costo di dovermi sedere
sopra di te. Ma cosa credi di fare, Lucian? Sei
impazzito? Sono terrorizzata per Clary e lo
sono stata anche per te. Ti prego, non farlo.
Non farmi questo. Se ti succedesse qualcosa…
Lui la guardò stupito. C’era già una macchia
rossa sulle bende bianche che gli avvolgevano
il petto, nel punto in cui i suoi movimenti
avevano riaperto la ferita. — Io…
— Cosa?!
— Non sono abituato al fatto che mi ami —
disse Luke.
In quelle parole c’era una mansuetudine che
Jocelyn non associava a lui. Lo fissò per un
istante, prima di dire: — Luke. Rimettiti giù,
per favore.
Quasi per cercare un compromesso, lui si
appoggiò un po’ di più ai cuscini. Aveva il
respiro affannoso. Jocelyn guardò il comodino,
versò un bicchiere d’acqua e lo mise in mano a
Luke. — Bevi — gli disse. — Per favore.
Luke prese il bicchiere. I suoi occhi azzurri la
seguivano, mentre lei si rimetteva sulla sedia
accanto al letto sulla quale era rimasta per così
tante ore da essere sorpresa di non essere
diventata un tutt’uno con quella. — Sai a cosa
stavo pensando? — gli chiese. — Poco prima
che ti svegliassi?
Lui bevve un sorso d’acqua. — Sembravi
molto assorta.
— Stavo pensando al giorno in cui sposai
Valentine.
Luke riabbassò il bicchiere. — Il giorno
peggiore della mia vita.
— Peggiore di quando sei stato morso? —
chiese lei, piegandosi le gambe sotto il corpo.
— Peggiore.
— Non lo sapevo — gli disse. — Non sapevo
come ti sentivi. Avrei voluto. Credo che le cose
sarebbero andate diversamente.
Lui la guardò con aria incredula. — E come?
— Non avrei sposato Valentine — rispose
Jocelyn. — Non se lo avessi saputo.
— Avresti…
— Non avrei — lo interruppe lei, decisa. —
Ero troppo stupida per capire cosa provavi, ma
ero anche troppo stupida per capire cosa
provavo io. Ti ho sempre amato, anche se non
lo sapevo. — Si sporse in avanti e gli diede un
bacio delicato, per non fargli male; poi
appoggiò la guancia contro la sua. —
Promettimi
che
non
correrai
rischi.
Promettimelo.
Lei sentì la mano libera di lui fra i capelli. —
Te lo prometto.
Jocelyn si appoggiò all’indietro, in parte
soddisfatta. — Vorrei poter tornare indietro
nel tempo. Aggiustare le cose. Sposare subito
l’uomo giusto.
— Ma così non avremmo Clary — le ricordò.
Jocelyn adorò il modo in cui lui aveva detto
“avremmo”; così naturale, come se dentro di sé
non avesse il minimo dubbio che fosse anche
figlia sua.
— Se tu fossi stato più presente mentre lei
cresceva… — Jocelyn fece un sospiro. — È che
mi sento come se avessi sbagliato tutto. Ero
così concentrata a proteggerla che credo di
avere esagerato. Ora si butta a capofitto nei
pericoli senza riflettere. Mentre crescevamo,
noi abbiamo visto degli amici morire in
battaglia. A lei non è mai successo. E non
vorrei mai che le accadesse, ma a volte ho
paura che non si renda conto di come un
giorno potrebbe essere lei a morire.
— Jocelyn — la voce di Luke era dolce. —
L’hai cresciuta per farla diventare una brava
persona. Una persona con dei valori, che
distingue il bene dal male e che si impegna a
dare il massimo. Come hai sempre fatto tu.
Non si può educare un figlio spingendolo a
credere l’opposto di quello che si fa. Non credo
che Clary non pensi di poter morire: credo solo
che, proprio come sei sempre stata tu, anche
lei è convinta che ci siano delle cose per cui
valga la pena farlo.
Clary seguì Sebastian attraverso un reticolo di
stradine
strette,
mantenendosi
vicina
all’ombra proiettata dai palazzi. Non erano più
a Praga, quello era evidente. Le strade erano
buie, il cielo di un azzurro cupo segnava un
primo accenno di alba, le insegne dei negozi
accanto a cui passava erano scritte in francese.
Così come i cartelli stradali: RUE DE LA
SEINE, RUE JACOB, RUE DE L’ABBAYE.
Mentre attraversava la città, le persone la
oltrepassavano come fantasmi. Ogni tanto si
sentiva il rombare di un’auto, i camion si
affiancavano ai negozi facendo le prime
consegne del mattino. L’aria sapeva di acqua di
fiume e di spazzatura. Era già abbastanza
sicura di dove si trovassero, poi una svolta e
una strada la portarono verso un ampio viale,
finché un cartello stradale emerse dalla scura
foschia: delle frecce puntavano in diverse
direzioni, indicando come raggiungere la
Bastiglia, Notre-Dame e il Quartiere Latino.
Parigi, pensò Clary aggirando un’auto
parcheggiata mentre Sebastian attraversava la
strada. Siamo a Parigi.
Che ironia. Aveva sempre desiderato andare a
Parigi con qualcuno che già conoscesse la città.
Aveva sempre voluto camminare per quelle
strade, vedere la Senna, ritrarre gli edifici. Non
si sarebbe mai immaginata tutto ciò. Inseguire
Sebastian attraverso il boulevard SaintGermain, oltre un bureau de poste giallo
canarino, lungo un viale dove i bar erano
chiusi ma i tombini pieni di bottiglie di birra e
mozziconi, giù per una stradina stretta
fiancheggiata da case. Sebastian si fermò
davanti a una di queste, e anche Clary si
bloccò, appiattendosi contro un muro.
Rimase a guardare suo fratello che alzava una
mano e digitava un codice su una tastiera
accanto alla porta, seguendo con gli occhi i
movimenti delle sue dita. Ci fu uno scatto: la
porta si aprì e lui sparì all’interno. Nell’istante
in cui la porta si richiuse, Clary si precipitò
davanti alla tastiera, dove digitò lo stesso
codice — X235 — e aspettò di sentire il debole
suono che indicava l’apertura. Quando
accadde, non fu sicura di sentirsi più sollevata
o più sorpresa. Non dovrebbe essere così
semplice.
Un secondo dopo si ritrovò in un cortile. Era
quadrato, circondato sui quattro lati da edifici
dall’aria molto comune. Dalle porte, aperte, si
intravedevano tre rampe di scale. Sebastian
era scomparso.
Perciò, tanto semplice non sarebbe stato.
Avanzò nel cortile, consapevole, mentre lo
faceva, che stava abbandonando la protezione
dell’ombra e si stava esponendo all’aperto,
dove poteva essere vista. Il cielo si illuminava
sempre di più a ogni istante. Sapere di poter
essere vista le fece venire la pelle d’oca sulla
nuca, perciò decise di nascondersi all’ombra
del primo pozzo delle scale che incontrò.
Era semplice, con dei gradini di legno che
salivano e scendevano e, appeso alla parete,
uno specchio da due soldi in cui vide il
proprio, pallido volto. Aleggiava distintamente
un odore di spazzatura in decomposizione. Per
un momento si chiese se fosse vicina al punto
in cui stavano i cassonetti, finché alla fine capì:
quella puzza era il segno della presenza
demoniaca.
I suoi stanchi muscoli cominciarono a
tremare, ma strinse le mani a pugno. Era
dolorosamente
consapevole
di
essere
disarmata. Prese una boccata profonda di
quell’aria maleodorante e cominciò a scendere
giù per i gradini.
L’odore si faceva più pungente e l’atmosfera
più cupa via via che scendeva; avrebbe voluto
avere uno stilo e la runa della visione notturna,
ma ormai non poteva farci niente. Continuò a
scendere, mentre la scala si curvava
ripetutamente su se stessa. All’improvviso fu
contenta di quella mancanza di luce, perché
sentì di aver messo i piedi dentro qualcosa di
appiccicoso. Afferrò il corrimano e cercò di
respirare con la bocca. L’oscurità si fece più
fitta, finché Clary si ritrovò a camminare alla
cieca, col cuore che le batteva così forte da
darle la certezza che stesse annunciando il suo
arrivo. Le strade di Parigi, il mondo normale,
sembravano lontani anni luce. C’erano solo le
tenebre e lei, che scendeva giù, sempre più
giù…
A un tratto, una luce si accese in lontananza,
un puntino minuscolo, come la capocchia di
un fiammifero che diventava fuoco. Clary si
accostò al corrimano, quasi rannicchiandosi,
mentre la luce si espandeva. Ora riusciva a
vedersi la mano e a distinguere la sagoma dei
gradini sotto di sé. Ne mancavano pochi.
Arrivò in fondo alle scale e si guardò attorno.
Qualsiasi somiglianza con una normale casa
era sparita. Da qualche parte, lungo il
percorso, i gradini di legno si erano
trasformati in pietra, e ora Clary si trovava in
una piccola stanza con le pareti anch’esse in
pietra e con una torcia che emanava
un’inquietante luce verdognola. Il pavimento
era di roccia liscia e lucida, inciso da svariati
simboli strani. Ci passò accanto, attraversando
la stanza per raggiungere l’unica altra uscita,
un arco di pietra in cima al quale stava un
teschio umano all’intersezione di due grandi
asce incrociate.
Sentiva delle voci provenire dall’altra parte.
Erano troppo distanti perché riuscisse a capire
cosa stessero dicendo, ma era comunque certa
che fossero voci. Da questa parte, sembrava
dicessero. Seguici.
Alzò lo sguardo verso il teschio, e i suoi occhi
vuoti la ricambiarono con aria di scherno. Si
chiese dove si trovava, se Parigi era ancora
sopra la sua testa o se lei era entrata in un
mondo
completamente
diverso,
come
accadeva quando si andava nella Città Silente.
Pensò a Jace, lasciato addormentato in quella
che ora sembrava un’altra vita.
Lo stava facendo per lui, ricordò a se stessa.
Per riaverlo. Attraversò l’arco per entrare nel
corridoio, appiattendosi d’istinto lungo la
parete. Vi strisciò contro, mentre le voci si
facevano sempre più forti. Il corridoio era
buio, ma non completamente. A ogni manciata
di passi compariva una torcia verdastra che
emanava odore di bruciato.
All’improvviso si aprì una porta nel muro alla
sua sinistra, e le voci diventarono ancora più
distinte.
— … non è come suo padre — diceva uno, la
voce roca come carta vetrata. — Valentine non
avrebbe mai trattato con noi. Ci avrebbe resi
schiavi. Lui invece ci darà il mondo.
Molto lentamente, Clary sbirciò dallo stipite
della porta.
La stanza era spoglia, le pareti lisce, priva di
mobili. Dentro, un gruppo di demoni.
Sembravano lucertole, con la pelle spessa,
verde-marrone, ma ognuno di loro aveva sei
tentacoli che si muovevano producendo un
suono aspro e scivoloso. Le teste erano
bulbose, aliene, con due occhi neri sfaccettati.
Clary deglutì amaro. Le tornò alla mente
Ravener, uno dei primi demoni che avesse mai
visto: un grottesco incrocio fra lucertola,
insetto e alieno che le aveva fatto rivoltare lo
stomaco. Si strinse al muro e ascoltò con
attenzione.
— È così, se vi fidate di lui. — Era difficile
capire quale di loro stesse parlando. Tutti quei
tentacoli si muovevano incastrandosi e poi
districandosi, i corpi bulbosi si alzavano e
riabbassavano. A quanto pareva non erano
muniti di bocca, ma quando parlavano
facevano vibrare degli ammassi di piccoli
tentacoli.
— La Grande Madre si fidava di lui. È suo
figlio.
Sebastian. Ma certo, stavano parlando di
Sebastian.
— Ma è anche un Nephilim. Loro sono nostri
grandi nemici.
— Sono anche nemici suoi. Ha il sangue di
Lilith.
— Ma quello che chiama compagno ha il
sangue dei nostri nemici. È uno degli angeli.
— Quell’ultima parola venne pronunciata con
tanto disgusto che a Clary arrivò come uno
schiaffo.
— Il figlio di Lilith ci ha garantito che lo
tiene in pugno. E in effetti sembra obbediente.
Seguì una risata asciutta e soffocata. — Voi
giovani vi angosciate troppo. A lungo i
Nephilim ci hanno tenuto lontani da questo
mondo, e le sue ricchezze sono grandi. Lo
prosciugheremo e non lasceremo che cenere.
Quanto all’angioletto, sarà l’ultimo della sua
razza a morire. Lo bruceremo su una pira
finché non resteranno soltanto ossa dorate.
Clary sentì montare la rabbia. Trattenne il
respiro. Il suo fu un suono debole, ma pur
sempre un suono. Il demone a lei più vicino
sollevò la testa. Per un momento Clary rimase
impietrita,
intrappolata
nello
sguardo
minaccioso dei suoi occhi neri a specchio.
Poi si voltò e scappò via. Corse indietro verso
l’ingresso, le scale e il loro percorso di tenebre.
Sentiva del trambusto alle sue spalle, le
creature che gridavano, poi lo sdrucciolio dei
loro tentacoli che si muovevano per seguirla.
Diede una rapida occhiata dietro le spalle e si
rese conto che non ce l’avrebbe fatta.
Nonostante il vantaggio, stavano quasi per
prenderla.
Sentiva il proprio respiro affannoso che
entrava e usciva dai polmoni, quando
raggiunse l’arco, si voltò e saltò per
aggrapparvisi con le mani. Si slanciò in avanti
con tutte le forze, gli stivali che si schiantavano
contro il primo dei demoni e lo buttavano
all’indietro, facendogli lanciare un grido acuto.
Ancora appesa, agguantò il manico di una
delle due asce sotto il teschio e tirò.
Era attaccata saldamente. Non si muoveva.
Chiuse gli occhi, strinse ancora di più la presa
e tirò di nuovo, con tutte le sue forze.
L’ascia si staccò dal muro con un rumore
lacerante, in una pioggia di pietre e calcinacci.
Clary
perse
l’equilibrio
e
cadde
accovacciandosi, l’ascia tesa di fronte a sé. Era
pesante, ma la sentiva appena. Stava
accadendo di nuovo, le sensazioni amplificate.
Riusciva ad avvertire ogni singolo soffio d’aria
sulla pelle, ogni irregolarità del suolo sotto ai
piedi. Si preparò, quando il primo dei demoni
fuggì via dall’ingresso, indietreggiando come
una tarantola, prendendo a zampate l’aria
sopra di lei. Sotto i tentacoli della bocca,
c’erano un paio di lunghe zanne bavose.
Era come se l’ascia che teneva in mano
roteasse in avanti di propria volontà,
andandosi a piantare a fondo nel petto della
creatura. Le venne subito in mente quando
Jace le aveva detto di non colpire il petto dei
demoni ma di decapitarli, perché non tutti
avevano il cuore. In quel caso, tuttavia, fu
fortunata. Lo aveva preso, o se non altro aveva
ferito un qualche organo vitale. La creatura si
contorse e gridò; attorno alla ferita gorgogliò
del sangue, poi tutto il suo corpo svanì. Clary
fece un passo all’indietro, con in mano l’arma
inzuppata di icore. Il sangue del demone era
nero e maleodorante come catrame.
Quando il secondo mostro si fece avanti, lei si
abbassò, compiendo un semicerchio con
l’ascia, che amputò all’avversario diversi
tentacoli. Ululando, questo cadde di lato come
una sedia rotta e subito un terzo demone
calpestò il compagno per attaccare Clary. Lei
brandì di nuovo l’ascia, che andò a piantarsi
dritta in faccia alla creatura. Saltò all’indietro
per evitare gli spruzzi di icore, premendosi
contro le scale. Se uno di loro l’avesse colta alle
spalle, sarebbe stata spacciata.
Inferocito, il demone col volto squartato andò
di nuovo all’attacco; lei lo colpì con l’ascia
tagliandogli un tentacolo, ma un altro le si
strinse attorno al polso. Un calore lancinante
le salì lungo il braccio. Gridò e cercò di
liberarsi la mano, ma la morsa del demone era
troppo potente. Era come se mille aghi
incandescenti le stessero perforando la pelle.
Continuando a urlare, prese slancio con il
braccio sinistro e tirò un pugno dritto in faccia
alla creatura, dove aveva già colpito l’ascia. Il
demone emise un sibilo e lasciò la presa per un
secondo. Clary liberò la mano non appena
l’altro si sbilanciò all’indietro e…
Dal nulla, una lama luccicante si abbatté
verso il basso, conficcandosi nel cranio del
demone. Sotto gli occhi di Clary, il demone
scomparve: era stato suo fratello, con in mano
un’abbacinante spada angelica e la camicia
bianca chiazzata di icore. Alle sue spalle la
stanza era vuota, a parte il corpo di uno dei
demoni che ancora si contorceva e che, dai
monconi di tentacoli, perdeva fluido nero
come una macchina sfasciata avrebbe potuto
perdere dell’olio.
Sebastian. Lo fissò sbalordita. Le aveva
appena salvato la vita?
— Stai lontano da me, Sebastian — sibilò.
Lui sembrò non sentirla. — Il braccio.
Clary abbassò lo sguardo sul polso destro,
ancora pulsante per il dolore. Una spessa
striscia composta di piccole ferite circolari lo
avvolgeva nel punto in cui le ventose del
demone le si erano attaccate alla pelle. Le
ferite si stavano già scurendo, diventando di
un impressionante nero-bluastro.
Rialzò lo sguardo sul fratello. I suoi capelli
bianchi le sembravano un’aura nell’oscurità. O
forse era perché stava perdendo la vista. La
luce stava formando un alone anche attorno
alla torcia sul muro, così come attorno alla
spada angelica che splendeva tra le mani di
Sebastian. Lui le stava parlando, ma le sue
parole erano confuse, indistinte, come se
arrivassero da sott’acqua.
— … veleno mortale — stava dicendo. — Cosa
diavolo avevi in mente, Clarissa? — La sua
voce si smorzò, poi si fece sentire di nuovo.
Clary si sforzava di concentrarsi. — Lottare
contro sei demoni Dahak con un’ascia
ornamentale…
— Veleno — ripeté lei, e per un momento i
contorni del volto di lui tornarono distinti, i
segni della tensione attorno a bocca e occhi
evidenti, anzi impressionanti. — Quindi direi
che, dopotutto, non mi hai salvato la vita,
giusto?
La mano di lei venne scossa da uno spasmo e
l’ascia le cadde a terra con fragore. Sentì il
maglione impigliarsi nelle sporgenze della
parete grezza mentre il suo corpo cominciava a
scivolare verso il basso, desideroso solo di
sdraiarsi sul pavimento. Ma Sebastian non
l’avrebbe lasciata cadere. Aveva già infilato le
braccia sotto le sue per sorreggerla, poi la
sollevò di peso e si mise il braccio sano di Clary
attorno al collo. Lei voleva liberarsi, ma le
energie l’avevano abbandonata. Sentì un
dolore lancinante al gomito, un bruciore… il
tocco di uno stilo. Un senso di torpore le si
propagò nelle vene. L’ultima cosa che vide
prima di chiudere gli occhi fu il teschio sopra
l’arco. E, poteva giurarci, le orbite cave che
stavano ridendo di lei.
capitolo 15
MAGDALENA
La nausea e il dolore andavano e venivano in
vortici sempre più stretti. Attorno a sé, Clary
riusciva a vedere soltanto un miscuglio
indistinto di colori. Si rendeva conto che suo
fratello la stava trasportando, perché ognuno
dei suoi passi le rimbombava dentro il cervello
come un punteruolo da ghiaccio; capiva anche
che si stava aggrappando a lui e che la forza
delle sue braccia era rassicurante, anche se era
strano pensare che Sebastian avesse una tale
virtù e che si stesse apparentemente sforzando
di camminare senza scuoterla troppo. Clary
annaspava per respirare e, molto in
lontananza, sentì suo fratello chiamarla per
nome.
Poi scese il silenzio totale. Per un momento
pensò che fosse arrivata la fine: era morta,
morta combattendo contro dei demoni, come
succedeva
alla
maggior
parte
degli
Shadowhunters. Poi però avvertì un bruciore
insistente all’interno del braccio, un’ondata di
quello che sembrava ghiaccio in propagazione
in tutte le vene. Lentamente, il mondo smise di
vorticare, mentre i turbini di nausea e di
dolore si placavano fino a diventare deboli
increspature dentro la marea del sangue.
Riusciva di nuovo a respirare.
Tirando un sospiro, riaprì gli occhi.
Cielo azzurro.
Era sdraiata sulla schiena, con lo sguardo
fisso su un cielo infinito punteggiato di nuvole
di bambagia, come quello dipinto sul soffitto
dell’infermeria dell’Istituto. Distese le braccia
doloranti. Sul destro c’era ancora il
braccialetto di ferite, ma stavano diventando
color rosa chiaro. Sul sinistro c’era un iratze,
talmente chiaro da essere quasi invisibile, e
nell’incavo del gomito un mendelin contro il
dolore.
Fece un respiro profondo. Aria autunnale,
condita dall’odore di foglie. Vedeva la cima
degli alberi, sentiva il brusio del traffico e…
Sebastian. Udì una risata soffocata e si
accorse di non essere semplicemente sdraiata,
ma di trovarsi appoggiata a suo fratello.
Sebastian, che aveva il corpo caldo e respirava,
le stava tenendo la testa avvolta nel proprio
braccio. Il resto del corpo di Clary era disteso
sopra una superficie di legno leggermente
umida.
Saltò su all’istante. Sebastian rise di nuovo;
era seduto all’estremità di una panchina dotata
di elaborati braccioli in ferro battuto. Aveva la
sciarpa piegata sulle ginocchia, dove era stata
sdraiata lei, e il braccio libero allungato sullo
schienale. Aveva sbottonato la camicia bianca
per nascondere le macchie di icore e sotto
indossava una maglietta grigia.
Sul polso gli luccicava il braccialetto
d’argento. La stava studiando coi suoi occhi
neri, divertito, mentre lei si allontanava il più
possibile sulla panchina.
— È un vantaggio essere così piccola — le
disse. — Se fossi stata più alta, trasportarti
sarebbe stato decisamente scomodo.
Lei fece uno sforzo per mantenere la voce
salda. — Dove siamo?
— Al Jardin du Luxembourg — le disse. — I
Giardini del Lussemburgo, un parco davvero
bello. Dovevo portarti in un posto in cui avresti
potuto sdraiarti, e lasciarti in mezzo alla strada
non mi sembrava una grande idea.
— Già. Ci sarebbe anche una parola per chi
lascia morire qualcuno sulla carreggiata: pirata
della strada.
— Innanzitutto sono tre parole, e poi penso
che tecnicamente valga soltanto quando sei tu
l’investitore. — Si strofinò le mani come per
scaldarle. — Comunque, perché dovrei lasciarti
morire in mezzo a una strada dopo aver
faticato tanto per salvarti la vita?
Clary deglutì e abbassò lo sguardo sul
braccio. Ora le ferite erano diventate ancora
più chiare. Se non avesse saputo che c’erano,
probabilmente non le avrebbe nemmeno
notate. — Perché l’hai fatto?
— Fatto cosa?
— Salvarmi la vita.
— Sei mia sorella.
Lei deglutì. Alla luce del mattino, il viso di lui
aveva un certo colorito. Lungo il collo c’erano
leggere scottature, i punti colpiti dall’icore di
demone. — Prima non ti importava che lo
fossi.
— No? — I suoi occhi neri la squadrarono
dall’alto al basso. Ricordò quando Jace era
andato a casa sua dopo che lei aveva lottato
contro il demone Ravener e il suo veleno la
stava uccidendo. Lui l’aveva curata proprio
come aveva fatto Sebastian, portandola via
nella stessa maniera. Forse erano più simili di
quanto avesse mai pensato, anche prima che
l’incantesimo li legasse. — Nostro padre è
morto — disse Sebastian. — Non ci sono altri
parenti. Tu e io siamo gli ultimi, siamo gli
unici Morgenstern superstiti. Tu sei la sola
persona col mio stesso sangue nelle vene. La
sola come me.
— Sapevi che ti stavo seguendo — gli disse.
— Certo.
— E mi hai lasciato fare.
— Volevo vedere cosa avresti fatto. E
ammetto che non pensavo che mi avresti
seguito fin laggiù. Sei più coraggiosa di quanto
pensassi. — Prese la sciarpa che teneva sulle
ginocchia e se la avvolse al collo. Il parco
cominciava a riempirsi di turisti con le cartine
sottobraccio, genitori coi figli per mano,
anziani che fumavano la pipa seduti, come loro
due, sulle panchine. — Non avresti mai potuto
vincere quella battaglia.
— Forse sì.
Lui sorrise, un rapido sorriso di sbieco, come
se non fosse riuscito a trattenerlo. — Forse.
Clary strisciò gli stivali sull’erba umida di
rugiada. Non aveva intenzione di ringraziare
Sebastian. Per nessun motivo. — Perché stai
trattando con dei demoni? — gli chiese. — Li
ho sentiti parlare di te. So quello che stai
facendo…
— No, non lo sai. — Il sorriso era sparito, il
tono di superiorità di nuovo presente. — Prima
di tutto, quelli non erano i demoni con cui
stavo trattando. Quelli erano soltanto le loro
guardie, ecco perché si trovavano in una stanza
a parte, dove io non c’ero. I demoni Dahak non
sono molto intelligenti, per quanto cattivi,
robusti e guardinghi. Quindi non si può dire
che fossero davvero al corrente di ciò che sta
succedendo; stavano solo ripetendo dei
pettegolezzi carpiti ai loro padroni. Demoni
Superiori. Erano loro quelli che ho incontrato.
— E questa notizia dovrebbe farmi stare
meglio?
Sebastian si chinò verso di lei sulla panchina.
— Non sto cercando di farti sentire meglio. Sto
cercando di dirti la verità.
— Ah, ecco perché sembri uno che sta per
avere una crisi allergica — gli disse, anche se
non era esattamente così. Sebastian aveva un
aspetto fastidiosamente sereno, anche se la
tensione della mascella e la tempia palpitante
tradivano il fatto che non era calmo quanto
voleva apparire. — Il Dahak ha detto che
avresti consegnato questo mondo ai demoni.
— E questa ti sembra una cosa che io sarei
capace di fare?
Lei si limitò a guardarlo.
— Pensavo proprio che mi avresti dato una
possibilità — riprese lui. — Non sono la stessa
persona che hai incontrato ad Alicante. —
Aveva lo sguardo limpido. — E non sono
nemmeno l’unico seguace di Valentine che hai
incontrato. Era mio padre. Nostro padre. Non
è facile mettere in discussione le cose in cui hai
creduto mentre crescevi.
Clary incrociò le braccia davanti al petto.
L’aria era pulita ma fredda, con già una punta
d’inverno. — Sì, questo è vero.
— Valentine si sbagliava — proseguì
Sebastian. — Era talmente ossessionato dai
torti che riteneva di aver subito dal Conclave
che per lui esisteva solo il bisogno di
dimostrare di avere ragione. Voleva evocare
l’Angelo perché dicesse che lui era Jonathan
Shadowhunter redivivo, che era il loro capo e
che le sue idee erano quelle giuste.
— Non è andata proprio così.
— Lo so come è andata. Me ne ha parlato
Lilith. — La sua fu un’affermazione disinvolta,
come se conversare con la madre di tutti gli
stregoni fosse una cosa che prima o poi
capitava a tutti.
— Non illuderti che sia successo quel che è
successo
perché
l’Angelo
ha
grande
compassione, Clary. Gli angeli sono freddi
come ghiaccioli. Raziel era in collera perché
Valentine aveva dimenticato la missione di
tutti gli Shadowhunters.
— Che sarebbe?
— Uccidere i demoni. Questo è il nostro
compito. Di certo avrai sentito dire che negli
ultimi anni sono sempre di più quelli che
riescono ad arrivare fino al nostro mondo, no?
Che non abbiamo idea di come tenerli alla
larga?
A Clary tornò alla mente un’eco di parole,
qualcosa che Jace aveva detto quella che
sembrava una vita fa, la prima volta in cui
avevano visitato la Città Silente.
Una volta in questo mondo le invasioni dei
demoni erano poche e venivano contenute
facilmente. Ma anche solo da quando sono
nato, sono sempre di più i demoni che
riescono a oltrepassare le protezioni.
— Sta per arrivare una grande guerra con i
demoni, e il Conclave è miseramente
impreparato — dichiarò Sebastian. — Su
questo mio padre aveva ragione. Sono troppo
fissati coi loro metodi per ascoltare gli
avvertimenti o cambiare. Io non mi auguro la
distruzione dei Nascosti come invece faceva
Valentine, ma mi preoccupa il fatto che la
miopia del Conclave condanni il mondo che gli
stessi Shadowhunters proteggono.
— Vuoi farmi credere che a te importa
qualcosa se questo mondo viene distrutto?
— Be’, vivo qui — rispose lui con un tono più
pacato di quanto lei si sarebbe aspettata. — E
qualche volta, a mali estremi, estremi rimedi.
Per distruggere il nemico può essere
necessario capirlo, persino averci a che fare. Se
riesco a far sì che quei Demoni Superiori si
fidino di me, allora potrei attirarli qui, dove
possono essere distrutti, e con essi i loro
seguaci. Dovrebbe servire a invertire la
tendenza. I demoni capirebbero che questo
mondo non è la preda facile che
immaginavano.
Clary scosse la testa. — E tu vorresti farlo solo
con… cioè, te stesso e Jace? Voi due siete
davvero notevoli, non fraintendermi, ma da
soli non…
Sebastian si alzò. — Proprio non riesci a
immaginare che magari ho pensato a tutto,
vero? — La guardò dall’alto, il vento autunnale
che gli scostava i capelli bianchi dal viso. —
Vieni con me. Voglio mostrarti una cosa.
Clary esitò. — Jace…
— Dorme ancora. Fidati, lo so. — Le porse
una mano. — Vieni con me, Clary. Se non
posso convincerti di avere un piano, magari
posso dimostrartelo.
Lei lo fissò. Nella mente le turbinava una
serie di immagini, come una pioggia di
coriandoli: il rigattiere di Praga, l’anello con le
foglie d’oro che spariva nell’oscurità, Jace che
la abbracciava nel privé della discoteca, le
vasche di vetro con i cadaveri. Sebastian con
una spada angelica in pugno.
Dimostrartelo.
Gli prese la mano e lasciò che la aiutasse ad
alzarsi in piedi.
Si era deciso, non senza una lunga
discussione, che per evocare Raziel la squadra
dei Buoni avrebbe dovuto trovare un luogo ben
protetto. — Non possiamo evocare un angelo
alto diciotto metri nel bel mezzo di Central
Park — osservò Magnus in tono sarcastico. —
La gente potrebbe notarlo, persino a New
York.
— Raziel è alto diciotto metri? — domandò
Isabelle. Era morbidamente adagiata su una
poltrona che aveva avvicinato al tavolo. Sotto i
suoi occhi scuri c’erano dei semicerchi
infossati; anche lei, come Alec, Magnus e
Simon, era esausta. Erano tutti svegli da ore e
ore a sfogliare volumi di Magnus così antichi
che le pagine erano sottili come buccia di
cipolla. Sia Isabelle che Alec sapevano leggere
il greco e il latino, inoltre Alec conosceva i
linguaggi demoniaci anche meglio della
sorella, ma ce n’erano alcuni che solo lo
stregone riusciva a capire. Maia e Jordan,
rendendosi conto di poter essere più utili
altrove, erano andati alla stazione di polizia a
vedere come stava Luke. Nel frattempo, Simon
aveva cercato di contribuire in altri modi:
portando cibo e caffè, copiando i simboli che
gli indicava Magnus, rifornendo di continuo di
carta e matite, persino dando da mangiare a
Chairman Meow, che lo aveva ringraziato
vomitando una palla di pelo sul pavimento
della cucina.
— A dire il vero è alto solo diciassette metri e
mezzo, ma gli piace esagerare — disse Magnus.
La stanchezza non gli stava regalando
buonumore. Aveva i capelli in piedi e, sul
dorso delle mani, dove si era sfregato gli occhi,
era sporco di brillantini.
— È un angelo, Isabelle. Non hai studiato
proprio niente?
La ragazza fece schioccare la punta della
lingua, infastidita. — Valentine ha evocato un
angelo nel suo scantinato. Non vedo perché a
voi dovrebbe servire tutto questo spazio…
— Perché Valentine è semplicemente troppo
più fico di me — ribatté Magnus, appoggiando
la penna. — Sentite…
— Non alzare la voce con mia sorella — gli
disse Alec. Lo fece senza scomporsi, ma c’era
forza, dietro le sue parole. Magnus lo guardò
sbalordito. Alec proseguì rivolgendosi a
Isabelle. — Devi sapere che l’altezza degli
angeli, quando compaiono nella dimensione
terrestre, varia in base al loro potere. L’angelo
evocato da Valentine era di rango inferiore
rispetto a Raziel. E se uno volesse evocare
qualcuno di ancora superiore, come Michele o
Gabriele…
— Non potrei fare un incantesimo per legarli,
nemmeno temporaneamente — disse Magnus
con voce sommessa. — Stiamo evocando Raziel
in parte perché speriamo che, in quanto
creatore degli Shadowhunters, potrebbe avere
una compassione particolare, o… meglio,
soltanto averla, per la vostra situazione.
Inoltre è più o meno del giusto rango. Può
darsi che un angelo meno potente non sia in
grado di aiutarci, ma che invece uno più
potente… Be’, se qualcosa andasse storto…
— Potrei non essere soltanto io quello che
muore — disse Simon.
Magnus sembrò costernato, Alec abbassò gli
occhi sui fogli sparpagliati per tutto il tavolo.
Isabelle mise la mano sopra quella di Simon.
— Non ci posso credere che stiamo davvero
parlando di evocare un angelo — disse. — È da
quando sono nata che giuriamo sul suo nome.
Sappiamo che il nostro potere deriva da loro.
Ma l’idea di vederne uno… non riesco davvero
a immaginarmelo. Quando ci provo, è una cosa
troppo grande.
Attorno al tavolo scese il silenzio. Negli occhi
di Magnus c’era un’oscurità tale da spingere
Simon a chiedersi se avesse mai visto un
angelo. Pensò se fosse il caso di rivolgergli una
domanda diretta, ma lo squillo del telefono lo
sollevò dalla decisione.
— Un secondo — mormorò, poi si alzò in
piedi. Aprì il cellulare e si appoggiò a una delle
colonne del loft. Era un messaggio, anzi diversi
messaggi, da parte di Maia.
BUONE NOTIZIE! LUKE È SVEGLIO E
PARLA. SEMBRA CHE SI RIPRENDERÀ.
Simon si sentì sommergere da un’ondata di
sollievo. Finalmente buone notizie! Chiuse il
cellulare e toccò l’anello al dito.
Clary?
Niente.
Cercò di non agitarsi. Probabilmente stava
dormendo. Quando alzò lo sguardo, vide che
tutti i presenti lo stavano fissando.
— Chi è che ti ha cercato? — chiese Isabelle.
— Maia. Ha detto che Luke si è svegliato e che
parla. Guarirà. — Seguì un brusio di voci
sollevate, ma Simon continuava a guardarsi
l’anello. — Mi ha fatto venire un’idea.
Isabelle era in piedi e stava avanzando verso
di lui, ma a quelle parole si fermò e assunse
un’espressione preoccupata. Simon non poteva
biasimarla: negli ultimi tempi le sue idee erano
state decisamente suicide. — Di cosa si tratta?
— gli chiese.
— Cosa ci serve per evocare Raziel? Quanto
spazio? — chiese Simon.
Magnus si fermò sopra un libro. — Un raggio
di quasi due chilometri, almeno. L’acqua
sarebbe una buona idea. Il lago Lyn…
— La fattoria di Luke — lo interruppe Simon.
— A nord, a poche ore da qui. Adesso dovrebbe
essere chiusa, ma io so come arrivarci. E là c’è
un lago. Non grande come il Lyn, ma…
Magnus chiuse il volume che stava leggendo.
— Non è una cattiva idea, Seamus.
— Poche ore? — intervenne Isabelle,
guardando l’orologio. — Potremmo essere là
per le…
— Ah no! — la interruppe Magnus spingendo
via il libro. — Il tuo entusiasmo è
impressionante e sconfinato, Isabelle, ma io al
momento
sono
troppo
stanco
per
l’incantesimo di evocazione. Ed è una cosa su
cui non voglio rischiare. Penso che saremo
tutti d’accordo…
— E allora quando? — chiese Alec.
— Ci serve almeno qualche ora di sonno —
disse Magnus. — Propongo di partire nel
primo pomeriggio. Sherlock… scusa, Simon,
nel frattempo chiama Jordan e chiedigli se
puoi prendere in prestito il suo furgone. E
ora…
Mise da parte i giornali. — Io vado a dormire.
Isabelle, Simon, se volete restare ancora nella
stanza degli ospiti, fate pure.
— Due camere separate sarebbero meglio —
borbottò Alec.
Isabelle guardò Simon con sguardo
interrogativo, ma lui si stava già frugando nelle
tasche in cerca del telefono. — Okay — disse. —
Torno per mezzogiorno, ma adesso c’è una
cosa importante che devo fare.
Alla luce del giorno, Parigi si rivelò una città
di stradine strette e tortuose che sfociavano su
ampi viali, edifici dai caldi colori dorati con
tetti d’ardesia, e un fiume luccicante che la
trapassava come una cicatrice di guerra.
Sebastian, sebbene avesse annunciato a Clary
che le avrebbe dimostrato di avere un piano,
non disse granché mentre insieme risalivano
una strada fiancheggiata da gallerie d’arte e
negozi di libri antichi e polverosi per
raggiungere il Quai des Grands-Augustins,
sulla riva della Senna.
Dal fiume si alzava un vento freddo che la
fece rabbrividire. Sebastian allora si tolse la
sciarpa dal collo e gliela porse. Era di tweed
bianco e nero sfumato, ancora calda per essere
stata avvolta attorno alla sua pelle.
— Non essere stupida — le disse. — Hai
freddo, mettitela.
Clary lo fece. — Grazie — rispose di riflesso,
cosa che la fece trasalire.
Aveva appena ringraziato Sebastian. Rimase
in attesa di un fulmine che esplodesse dalle
nuvole e la riducesse in cenere. Invece non
accadde nulla.
Lui le rivolse uno sguardo perplesso. — Stai
bene? Sembri una che sta per starnutire.
— Tutto a posto. — La sciarpa profumava di
colonia agli agrumi e di ragazzo. Non sapeva
dire che odore si sarebbe aspettata. Si rimisero
in marcia e questa volta Sebastian rallentò il
passo, camminandole accanto, fermandosi per
spiegare che i quartieri di Parigi erano
contrassegnati da un numero e che loro si
stavano spostando dal sesto al quinto, il
Quartiere Latino. Il ponte che si estendeva in
lontananza era il Saint-Michel. Clary notò che
in giro c’erano tanti giovani; ragazze della sua
età o più grandi, con lunghi capelli che
svolazzavano al vento della Senna. Non poche
rallentavano per lanciare a Sebastian uno
sguardo di ammirazione, che però lui
sembrava non notare.
Jace invece, pensò Clary, se ne sarebbe
accorto.
Sebastian
dava
certamente
nell’occhio, con quei capelli bianco ghiaccio e
gli occhi neri. La prima volta che lo aveva visto
lo aveva trovato bello; all’epoca si tingeva di
nero, che in realtà non gli donava molto. Così
stava meglio. I capelli chiarissimi gli
illuminavano la carnagione, attiravano gli
sguardi sul rossore lungo gli zigomi alti, sui
lineamenti aggraziati del viso. Aveva delle
ciglia
incredibilmente
lunghe,
appena
incurvate, proprio come quelle di Jocelyn. Che
ingiustizia! Perché lei non le aveva ereditate? E
perché lui non aveva nemmeno una
lentiggine?
— Dunque — gli disse all’improvviso,
interrompendolo a metà di una frase. — Cosa
siamo noi?
Lui la guardò di sbieco. — Cosa intendi dire
con cosa siamo?
— Hai detto che io e te siamo gli ultimi
Morgenstern. E Morgenstern è un nome
tedesco — rispose Clary. — Quindi cosa siamo,
tedeschi? Qual è la nostra storia? Perché ci
siamo soltanto noi?
— Non sai niente della famiglia di Valentine?
— La voce di Sebastian si accese di incredulità.
Si era fermato accanto al muretto che correva
lungo la Senna, sul marciapiede. — Tua madre
non ti ha mai raccontato niente?
— È anche la tua, di madre, e comunque no,
non lo ha fatto. Valentine non è il suo
argomento preferito.
— I nomi degli Shadowhunters sono composti
— spiegò piano Sebastian saltando sopra il
muretto. Allungò una mano verso il basso e, un
istante dopo, lei si lasciò aiutare per sedersi
accanto a lui. La Senna scorreva grigioverde
sotto di loro, piccoli battelli di turisti
passavano sbuffando a ritmo tranquillo. —
Fair-child,
Light-wood,
White-law.
Morgenstern significa “stella mattutina”. Il
nome è tedesco, ma la famiglia era svizzera.
— Era?
— Valentine era figlio unico — disse
Sebastian. — Suo padre, nostro nonno, fu
ucciso dai Nascosti, mentre il nostro prozio
morì in battaglia. Non aveva figli. Questi —
disse allungando una mano per toccare i
capelli rossi di Clary — vengono dai Fairchild,
che hanno sangue inglese. Io ho preso di più
dal lato svizzero della famiglia. Come
Valentine.
— Sai niente dei nostri nonni materni? —
volle sapere Clary, suo malgrado intrigata.
Sebastian riabbassò la mano e saltò giù dal
muro. La rialzò di nuovo per aiutarla a
scendere, e lei la prese, cercando di non
perdere l’equilibrio. Per un secondo si scontrò
con il petto di lui, duro e caldo sotto la camicia.
Una ragazza che stava passando le lanciò uno
sguardo divertito, geloso, e Clary si ritrasse
subito. Avrebbe voluto gridarle che Sebastian
era suo fratello, e che comunque lo detestava.
Non lo fece.
— No, non ne so niente — disse lui. — Come
potrei? — Aveva un sorriso sghembo. — Vieni,
voglio farti vedere il mio posto preferito.
Clary esitò. — Pensavo volessi dimostrarmi di
avere un piano.
— Ogni cosa a suo tempo. — Sebastian si
incamminò e, un istante dopo, lei lo seguì.
Scoprire il suo piano. Fare la brava finché
posso. — Il padre di Valentine gli assomigliava
molto — proseguì Sebastian. — Credeva nella
forza. “Siamo i guerrieri prescelti da Dio”, ecco
in cosa credeva. Il dolore ti rafforza. La perdita
ti regala potenza. Quando morì…
— Valentine cambiò — disse Clary. — Me lo
ha detto Luke.
— Provava per lui odio e amore. Qualcosa che
puoi capire, visto che conosci Jace. Valentine
ci ha cresciuti come suo padre aveva cresciuto
lui. Si torna sempre a quello che si sa.
— Ma a Jace — ribatté Clary — Valentine non
ha insegnato solo a combattere. Gli ha
insegnato le lingue, a suonare il pianoforte…
— Quella era l’influenza di Jocelyn. —
Sebastian pronunciò quel nome a fatica, come
se ne odiasse il suono. — Lei pensava che
Valentine dovesse parlare anche di libri, di
arte, di musica… e non solo di uccidere. Cose
che lui, poi, ha tramandato a Jace.
Alla loro sinistra comparve una sbarra di
ferro blu. Sebastian si abbassò per passarci
sotto e fece segno a Clary di seguirlo. Lei lo
fece senza bisogno di piegarsi, tenendo le mani
in tasca. — E tu? — gli chiese.
Sebastian alzò le mani. Erano senza dubbio
quelle di sua madre: agili, affusolate, fatte per
stringere una penna o un pennello. — Ho
imparato a suonare gli strumenti della guerra
— rispose. — E a dipingere con il sangue. Io
non sono come Jace.
Si trovavano in una via stretta, tra due file di
edifici costruiti con la stessa pietra dorata di
molti altri a Parigi, con i tetti che rilucevano di
verderame alla luce del sole. Sotto i loro piedi,
un pavimento stradale di ciottoli, né macchine
né moto attorno. A sinistra c’era un bar, con
un’insegna di legno appesa a un palo di ferro
battuto che era l’unico indizio della presenza di
un’attività commerciale in quella strada
tortuosa.
— Mi piace qui — annunciò Sebastian,
seguendo lo sguardo di Clary. — Perché è come
trovarsi in un altro secolo. Niente rumore di
traffico, niente luci al neon. Soltanto… pace.
Clary lo guardò attentamente. Sta mentendo,
pensò. Sebastian non ha pensieri di questo
tipo. Sebastian, che ha tentato di radere al
suolo Alicante, se ne frega della “pace”.
Ripensò a dove i due ragazzi erano cresciuti.
Lei non c’era mai stata, ma Jace gliene aveva
parlato. Una piccola casa, una villetta rustica
per la precisione, in una valle fuori da Alicante.
Lì le notti erano silenziose e il cielo colmo di
stelle. Ma mancavano a Sebastian? Era
possibile? Si possono avere certe emozioni,
quando in realtà non si è nemmeno umani?
Non ti dà fastidio? Avrebbe voluto dirgli.
Stare nel posto in cui è cresciuto e vissuto il
vero Sebastian Verlac, finché tu non hai
messo fine alla sua vita? Camminare per
queste strade, portare il suo nome, sapere
che, da qualche parte, sua zia lo sta
piangendo? E cosa intendevi quando dicesti
che non ti aspettavi che reagisse?
Gli occhi neri di lui la osservarono pensierosi.
Aveva il senso dell’umorismo, Clary lo sapeva;
in Sebastian c’era una vena di ironia caustica a
volte non diversa da quella di Jace. Lui, però,
non sorrideva.
— Vieni — le disse, interrompendo le sue
riflessioni. — Qui fanno la migliore cioccolata
calda di tutta Parigi.
Clary si chiese come potesse saperlo, visto che
era la prima volta che visitava la città, ma una
volta seduta dovette ammettere che quella
cioccolata era davvero eccellente. La
preparavano direttamente al tavolo (un piccolo
tavolo di legno circondato da sedie antiche con
lo schienale alto) dentro una teiera di ceramica
blu, mischiando panna, polvere di cacao e
zucchero.
Il risultato era un liquido talmente denso che,
se ci mettevi dentro il cucchiaino, restava in
piedi. C’erano anche dei croissant, così ne
prese uno e lo immerse nella cioccolata.
— Guarda che se poi ne vuoi un altro, te lo
portano — le disse Sebastian, accomodandosi
all’indietro sullo schienale. Clary notò che
erano di gran lunga i più giovani di tutto il
locale. — Te lo stai divorando come un lupo!
— Ho fame — rispose lei facendo spallucce. —
Senti, se mi vuoi parlare, parla. Convincimi.
Lui si sporse in avanti, appoggiando i gomiti
sul tavolo. Clary ricordò quando, la notte
prima, gli aveva guardato gli occhi, notando il
cerchio argentato attorno all’iride. — Stavo
ripensando a quello che hai detto la scorsa
notte.
— La scorsa notte avevo le allucinazioni. Non
ricordo cosa ti ho detto.
— Mi hai chiesto a chi appartengo — disse
Sebastian.
Clary rimase ferma con la tazza di cioccolata a
metà strada verso la bocca. — Ah, sì?
— Già. — Gli occhi di lui le studiavano il viso
con attenzione. — Ma io non ho una risposta.
Appoggiò la tazza, sentendosi all’improvviso
molto a disagio. — Non devi appartenere a
nessuno — gli disse. — Era solo per dire.
— Be’, lascia che ora sia io a chiederti una
cosa — ribatté Sebastian. — Pensi di potermi
perdonare? Voglio dire, pensi che il perdono
sia possibile per una persona come me?
— Non lo so. — Clary strinse forte il bordo del
tavolo. — Io… io non me ne intendo molto di
perdono in senso religioso, conosco solo il
genere standard delle persone indulgenti.
Poi fece un respiro profondo, consapevole di
stare balbettando. C’era qualcosa nella
fermezza dello sguardo scuro di Sebastian su
di lei, come se davvero lui si aspettasse di
ottenere risposte a domande cui nessuno
poteva rispondere. — So solo che bisogna fare
qualcosa, per guadagnare il perdono.
Cambiare se stessi. Confessarsi, pentirsi e…
fare ammenda.
— Fare ammenda — le fece eco lui.
— Sì, rimediare a quello che si è commesso. —
Abbassò lo sguardo sulla tazza. Non c’era
rimedio per le cose che Sebastian aveva fatto,
niente di sensato.
— Ave atque vale — disse Sebastian,
guardando a sua volta la propria tazza.
Clary riconobbe in quella frase le parole che
gli Shadowhunters pronunciavano per i loro
morti. — Perché dici così? Non sto morendo.
— È il verso di una poesia — spiegò lui. — Di
Catullo. Frater, ave, atque vale. “Salute e
addio, fratello”. Parla di cenere, dei riti funebri
e del dolore del poeta per la scomparsa del
fratello. L’ho imparata da piccolo, ma non la
sentivo veramente: né il dolore, né la perdita,
nemmeno come sarebbe morire senza avere
qualcuno che ti piange. — Alzò lo sguardo e la
fissò intensamente. — Come pensi che
sarebbero andate le cose se Valentine ti avesse
cresciuta con me? Mi avresti voluto bene?
Clary era contenta di aver appoggiato la tazza,
perché, se non l’avesse fatto, in quel momento
sarebbe caduta. Sebastian non la stava
guardando con la timidezza o quel genere di
naturale imbarazzo che accompagnano una
domanda così strana, ma piuttosto come se lei
fosse una singolare forma di vita aliena.
— Be’ — disse, — sei mio fratello. Ti avrei
voluto bene. Avrei… avrei dovuto.
Lui continuava a guardarla con lo stesso
sguardo fermo e intenso. Clary si domandò se
chiedergli o no se anche lui avrebbe voluto
bene a lei. Come a una sorella. Ma aveva la
sensazione che Sebastian non avesse
nemmeno idea di cosa volesse dire.
— Ma Valentine non mi ha cresciuta —
proseguì. — Anzi, io l’ho ucciso.
Non sapeva bene perché l’avesse detto. Forse
voleva vedere se era possibile turbare
Sebastian. Dopotutto, una volta Jace le aveva
detto che Valentine era l’unica cosa di cui gli
fosse mai importato.
L’altro invece non impallidì. — A dire il vero
— rispose — è stato l’Angelo a ucciderlo. Anche
se a causa tua. — Con le dita stava tracciando
delle linee sulla superficie consumata del
tavolo. — Sai, la prima volta che ti incontrai, a
Idris, avevo delle speranze. Pensavo che saresti
stata come me. E quando vidi che non era
affatto così, ti odiai. Poi, quando ritornai in
vita e Jace mi disse cosa avevi fatto, capii di
essermi sbagliato. Tu sei come me.
— Lo hai già detto l’altra sera — rispose Clary.
— Ma io non…
— Hai ucciso nostro padre — proseguì lui.
Parlava con voce calma. — E non ti importa.
Non ci hai mai pensato due volte, vero?
Valentine ha picchiato Jace a sangue per i
primi dieci anni della sua vita, eppure lui
ancora ne sente la mancanza. Ha sofferto per
la sua scomparsa, anche se fra loro non ci sono
legami di sangue. Lui invece era tuo padre, tu
l’hai ucciso e non ci hai mai perso una notte di
sonno.
Clary lo guardava a bocca aperta. Era così
ingiusto. Ingiusto. Valentine non si era mai
comportato da padre con lei, non le aveva
voluto bene. Era stato un mostro, che doveva
morire. Lei lo aveva ucciso perché non aveva
altra scelta.
Senza che lo volesse, alla mente le affiorò
l’immagine di Valentine che affondava la lama
nel petto di Jace e poi lo teneva mentre
moriva: Valentine aveva pianto sul figlio
assassinato da lui stesso. Lei invece non aveva
mai pianto, per suo padre. Non aveva mai
nemmeno pensato di farlo.
— Ho ragione o no? — proseguì Sebastian. —
Dimmi che ho torto. Dimmi che non sei come
me.
Clary abbassò lo sguardo sulla tazza di
cioccolata, ormai fredda. Si sentiva come se,
dentro la testa, le si fosse aperto un vortice che
stava risucchiando pensieri e parole. —
Credevo che tu pensassi di essere come Jace —
disse infine con voce strozzata. — Credevo che
fosse quello il motivo per cui lo volevi con te.
— Ho bisogno di Jace — disse Sebastian. —
Ma nel suo cuore lui non è come me. Tu invece
sì. — Si alzò in piedi. A un certo punto doveva
aver pagato il conto del bar, Clary non
ricordava. — Seguimi.
Le diede la mano. Lei si alzò senza prenderla
e si riannodò meccanicamente la sciarpa. La
cioccolata appena bevuta era come acido che le
corrodeva lo stomaco. Seguì Sebastian fuori
dal caffè e poi in strada, dove si era fermato a
guardare il cielo.
— Io non sono come Valentine — gli disse,
fermandosi accanto a lui. — Nostra madre…
— Tua madre — la corresse Sebastian — mi
odiava. Mi odia. Tu l’hai vista, ha cercato di
uccidermi. Vuoi dirmi che assomigli a lei,
bene. Jocelyn Fairchild è spietata. Lo è sempre
stata. Ha finto di amare nostro padre per mesi,
forse per anni, in modo da raccogliere
abbastanza informazioni per tradirlo. Ha
organizzato la Rivolta e guardato senza batter
ciglio tutti gli amici di suo marito che venivano
massacrati. Ti ha rubato i ricordi. L’hai
perdonata? E quando è scappata da Idris, credi
davvero che abbia mai pensato di portarmi con
sé? Per lei deve essere stato un sollievo
pensare che fossi morto…
— Non è vero! — esclamò Clary. — Aveva un
cofanetto con le tue cose da piccolo. Lo
prendeva e ci piangeva sopra. Tutti gli anni, il
giorno del tuo compleanno. So che ora lo tieni
in camera tua.
Le labbra sottili, eleganti di Sebastian si
contrassero. Le diede le spalle e si incamminò
lungo la strada. — Sebastian! — lo chiamò lei.
— Sebastian, aspetta! — Non sapeva perché
voleva che tornasse indietro. Di sicuro non
aveva idea di dove si trovava o di come tornare
a casa, ma non era solo quello. Voleva
combattere, dimostrare di non essere come lui
l’aveva dipinta. Alzò la voce, trasformandola in
un
grido:
—
Jonathan
Christopher
Morgenstern!
Lui si fermò e si girò lentamente,
guardandola da sopra le spalle.
Clary gli andò incontro e lui rimase a fissarla
con la testa inclinata di lato e gli occhi neri a
fessura. — Scommetto che non sai nemmeno il
mio secondo nome — gli disse.
— Adele. — C’era qualcosa di musicale nel
modo in cui lo pronunciò, una familiarità che
la fece sentire a disagio. — Clarissa Adele.
Gli si affiancò. — Perché Adele? Non l’ho mai
saputo.
— Nemmeno io — rispose lui. — So che a
Valentine non piaceva il nome Clarissa Adele.
Voleva che ti chiamassi Seraphina, come sua
madre, nostra nonna. — Si girò e riprese a
camminare; questa volta Clary tenne il passo.
— Dopo l’uccisione di nostro nonno, anche lei
morì. D’infarto. Valentine ha sempre detto che
era morta per il dispiacere.
Clary ripensò ad Amatis, che non si era mai
ripresa dal suo primo amore, Stephen. Al
padre di Stephen, morto di dolore.
All’Inquisitore, una vita dedicata alla vendetta.
Alla madre di Jace, che si era tagliata i polsi
quando suo marito era morto. — Prima di
conoscere i Nephilim, avrei detto che morire di
dolore era impossibile.
Sebastian fece una risatina soffocata. — Noi
non ci leghiamo come i mondani — disse. —
Be’, a volte sì, certo. Non tutti sono uguali, ma
i legami fra noi tendono a essere intensi e
indissolubili. Ecco perché andiamo così poco
d’accordo con chi non appartiene alla nostra
specie. Nascosti, mondani…
— Mia madre sta per sposare un Nascosto —
gli disse Clary, offesa. Si erano fermati davanti
a un palazzo squadrato, con le imposte
azzurre, quasi alla fine della strada.
— Una volta era un Nephilim — osservò
Sebastian. — E poi guarda nostro padre. Tua
madre lo ha tradito e lo ha lasciato, ma lui ha
passato il resto della vita a cercare di
convincerla a tornare da lui. Quell’armadio
pieno di vestiti… — Scosse la testa.
— Ma Valentine diceva a Jace che l’amore è
debolezza — ribatté Clary. — Che ti distrugge.
— Non lo penseresti anche tu, avendo passato
metà della tua vita a inseguire una donna che
ti odiava dal profondo e che non riuscivi a
dimenticare? Dovendo ricordare che la
persona che più amavi al mondo ti ha
pugnalato alle spalle e ha rigirato il coltello? —
Le si avvicinò un istante, abbastanza da
muoverle i capelli con il respiro mentre
parlava.
— Forse sei più simile a tua madre che a tuo
padre. Ma che differenza fa? Hai la crudeltà
nelle ossa e il ghiaccio nel cuore, Clarissa. Non
dirmi che non è così.
Si voltò prima che lei potesse rispondere,
salendo il primo gradino della casa con le
imposte azzurre. Una fila di citofoni correva
lungo la parete accanto alla porta, ognuno con
un nome scritto a mano su una targhetta.
Premette il bottone di fianco alla scritta
“Magdalena” e aspettò. A un tratto, una voce
roca disse dall’altoparlante:
— Qui est là?
— C’est le fils et la fille de Valentine — disse
Sebastian. — Nous avions rendez-vous?
Ci fu una pausa, poi la porta scattò. Sebastian
la spalancò e la tenne aperta, lasciando
educatamente che Clary entrasse per prima. Le
scale erano di legno, consumate e lisce come il
fianco di una barca. Le salirono in silenzio fino
all’ultimo piano, dove c’era una porta
socchiusa che dava sul pianerottolo. Sebastian
entrò per primo e Clary lo seguì.
Si ritrovò in uno spazio ampio e arioso. Le
pareti erano bianche, così come le tende. Da
una finestra vedeva la strada parallela,
fiancheggiata da ristoranti e negozi. Le
macchine passavano sibilando, ma sembrava
che il rumore non riuscisse a penetrare dentro
l’appartamento. Il pavimento era di legno
lucido, i mobili dipinti di bianco, i divani
imbottiti ricoperti di cuscini colorati. Una
parte dell’appartamento era adibita a una sorta
di studio; la luce penetrava dal lucernario e
inondava un lungo tavolo di legno. C’erano dei
cavalletti da pittore, coperti da teli che ne
nascondevano il contenuto. Su un appendiabiti
a muro pendeva un grembiule sporco di
pittura.
In piedi vicino al tavolo c’era una donna.
Clary le avrebbe dato più o meno la stessa età
di sua madre, se non ci fossero stati diversi
fattori che ostacolavano il giudizio: indossava
un grembiule nero e informe che le
nascondeva il corpo; solo le mani bianche, il
viso e il collo erano visibili; su ognuna delle
guance era incisa una spessa runa nera, che
correva dall’angolo esterno dell’occhio fino alle
labbra. Clary non aveva mai visto quelle rune,
ma ne intuiva il significato: potere, capacità,
abilità tecnica. La donna aveva dei lunghi
capelli ramati, che le ricadevano in morbide
onde fino alla vita, e gli occhi, quando li
sollevò, erano di un singolare arancione
spento, come una fiamma che si smorzava.
La donna incrociò mollemente le mani
davanti al grembiule. Con voce nervosa,
melodica, disse: — Tu dois être Jonathan
Morgenstern. Et elle, c’est ta sœur? Je pensais
que…
— Sono Jonathan Morgenstern — disse
Sebastian. — E questa è mia sorella, sì,
Clarissa. Per favore, parla in inglese quando c’è
lei. Non capisce il francese.
La donna si schiarì la voce. — Il mio inglese è
arrugginito. Sono anni che non lo parlo.
— A me sembra che vada bene. Clarissa, lei è
Sorella Magdalena, una delle Sorelle di Ferro.
A quella notizia, Clary non si trattenne. — Ma
io pensavo che le Sorelle di Ferro non
lasciassero mai la loro fortezza…
— Vero — le confermò Sebastian, — a meno
che siano cadute in disgrazia per aver preso
parte alla Rivolta scoperta. Chi credi che
avesse armato il Circolo? — Rivolse a
Magdalena un sorriso triste. — Le Sorelle di
Ferro sono artigiane, non combattenti. Ma
Magdalena scappò dalla Fortezza prima che il
suo ruolo nella Rivolta venisse scoperto.
— Non vedevo un Nephilim da cinquant’anni,
prima che tuo fratello mi contattasse — spiegò
Magdalena. Era difficile dire chi stesse
guardando, mentre parlava; era come se i suoi
occhi privi di espressione vagassero nel vuoto,
ma di sicuro non era cieca. — È vero? Hai… il
materiale?
Sebastian mise una mano dentro la sacca che
gli pendeva dalla cintura delle armi e ne
estrasse un blocco di quello che sembrava
quarzo. Lo appoggiò sul lungo tavolo e un
raggio di luce solitario, attraversando il cielo,
sembrò
illuminarlo
dall’interno.
Clary
trattenne il fiato. Era l’adamas del negozio di
antiquariato di Praga.
Magdalena trattenne il fiato.
— Adamas puro — disse Sebastian. —
Nessuna runa lo ha mai toccato.
La Sorella di Ferro oltrepassò il tavolo e
appoggiò sull’adamas le mani. Erano segnate
da svariate rune, che in quell’istante
tremarono. — Adamas pur — sussurrò. —
Sono anni che non tocco questa sacra materia.
— È tutto tuo, lavoralo — disse Sebastian. —
Quando avrai finito, ti ripagherò dandotene
dell’altro. Ovviamente solo se pensi di poter
creare quanto ti ho chiesto.
Magdalena drizzò la schiena. — Sono o non
sono una Sorella di Ferro? Non ho preso i voti?
Le mie mani non forgiano la materia del
Paradiso? Posso consegnarti quello che ti ho
promesso, figlio di Valentine. Non dubitarne.
— Buono a sapersi. — Nella voce di Sebastian
c’era una traccia di ironia. — Allora tornerò
stanotte. Sai come chiamarmi, se ne avrai
bisogno.
Magdalena scosse la testa. Tutta la sua
attenzione era tornata sulla sostanza
cristallina, l’adamas. L’accarezzò con le dita.
— Sì. Potete andare.
Sebastian annuì e fece un passo all’indietro.
Clary esitò. Voleva prendere da parte la donna,
chiederle cosa Sebastian le avesse chiesto di
fare, sapere perché mai aveva infranto la Legge
dell’Alleanza per collaborare con Valentine.
Come se percepisse la sua esitazione,
Magdalena alzò lo sguardo e le fece un sorriso
sottile.
— Voi due — esordì, e per un momento Clary
pensò che stesse per dire di non capire come
mai fossero insieme, di aver sentito che si
odiavano e che la figlia di Jocelyn era una
Shadowhunter, mentre il figlio di Valentine un
criminale. Invece la donna si limitò a scuotere
la testa. — Mon Dieu — disse. — Assomigliate
proprio ai vostri genitori.
capitolo 16
FRATELLI E SORELLE
Quando Clary e Sebastian ritornarono a casa,
il salotto era vuoto, ma dal lavandino
spuntavano dei piatti che prima non c’erano.
— Avevi detto che Jace stava dormendo, se
non mi sbaglio — disse lei, con una nota di
accusa nella voce.
Sebastian fece spallucce. — Ed era così,
quando l’ho detto. — Aveva parlato con un
leggero tono di scherno, ma senza vera
scontrosità. Erano tornati da casa di
Magdalena senza quasi parlare, ma il loro non
era stato un silenzio ostile. Clary aveva lasciato
vagare la mente, tornando di colpo alla realtà
solo nei momenti in cui si rendeva conto che
era Sebastian quello che le camminava
accanto. — Sono piuttosto sicuro di sapere
dove si trova.
— In camera sua? — Clary si incamminò
verso le scale.
— No. — Sebastian le si parò davanti. —
Vieni, ti faccio vedere.
Salì i gradini a passo veloce, entrando nella
camera padronale con Clary alle calcagna.
Mentre lei guardava, perplessa, lui bussò su un
lato dell’armadio. Questo si mosse scorrendo,
rivelando una scala. Sebastian si girò per
lanciare a Clary, che lo seguiva, un sorrisetto
da sopra una spalla. — Non ci credo — gli disse
la ragazza. — Scale segrete?
— Non dirmi che è la cosa più strana che hai
visto oggi… — Lui scendeva i gradini due alla
volta, e Clary, sebbene esausta, gli stava dietro.
La scala curvava su se stessa e dava su una
grande stanza con un pavimento di legno
lucido e il soffitto alto. Sulle pareti era appeso
ogni genere di armi, come nella palestra
dell’Istituto: kindjal e chakhram, mazze da
guerra, spade e pugnali, balestre e tirapugni di
ottone, stelle ninja, asce e spade da samurai.
Sul pavimento erano tracciati con precisione
dei cerchi da allenamento. Al centro c’era Jace,
la schiena rivolta alla porta. Era a torso e piedi
nudi, pantaloni da ginnastica neri, un coltello
in entrambe le mani. Nella testa di Clary
comparve all’improvviso un’immagine: la
schiena nuda di Sebastian, segnata dai segni
inconfondibili di una frusta. Quella di Jace
invece era liscia, pelle oro pallido sui muscoli,
segnata soltanto dalle cicatrici tipiche di uno
Shadowhunter… e dai graffi che lei stessa gli
aveva fatto la notte precedente. Si sentì
arrossire, ma aveva ancora la mente
concentrata su una domanda: perché
Valentine aveva frustato un solo ragazzo e
l’altro no?
— Jace — gli disse.
Lui si girò. Era pulito. Il liquido argenteo era
sparito, i capelli dorati erano quasi scuri come
bronzo, umidi e incollati alla testa. La pelle
luccicava di sudore e l’espressione era
guardinga. — Dove siete stati?
Sebastian si avvicinò al muro e cominciò a
esaminare le armi che offriva, passando la
mano sopra le lame. — Ho pensato che Clary
aveva voglia di vedere Parigi.
— Potevi lasciarmi un biglietto — ribatté Jace.
— Non è che la nostra situazione sia delle più
tranquille, Jonathan. Preferirei non dovermi
preoccupare per Clary…
— L’ho seguito io — intervenne lei.
Jace si voltò e la guardò. Per un istante Clary
colse nei suoi occhi lo sguardo del ragazzo di
Idris che le aveva gridato contro perché aveva
rovinato tutti gli scrupolosi piani con cui
voleva mantenerla incolume. Ma quel Jace era
diverso. Le sue mani non tremavano quando la
guardava e il battito del sangue nel collo era
rimasto regolare. — Cosa?
— Ho seguito io Sebastian — ripeté lei. — Ero
sveglia e volevo vedere dove stava andando. —
Si mise le mani nelle tasche dei jeans e lo
guardò con aria di sfida. Gli occhi di lui la
studiarono tutta, dai capelli scompigliati dal
vento fino agli stivali, e Clary sentì il sangue
che le saliva al viso. Le clavicole di lui
luccicavano di sudore, così come il profilo dei
muscoli addominali. I pantaloni da ginnastica
erano risvoltati all’altezza della vita,
mostrando in parte la V dell’inguine. Ricordò
come era stato sentire le sue braccia attorno a
sé, essere premuta contro di lui abbastanza
forte da percepire ogni dettaglio di ossa e
muscoli sul proprio corpo…
Sentì un’ondata di imbarazzo così intensa da
darle le vertigini. La cosa peggiore era che Jace
era normalissimo, come se la notte prima lei
non gli avesse fatto lo stesso effetto che lui
aveva fatto a lei. Sembrava solamente…
infastidito. Infastidito, sudato, accaldato.
— Be’ — disse, — la prossima volta che decidi
di svignartela dall’appartamento, dotato di
difese magiche, passando per una porta che in
realtà non esiste, lascia un messaggio.
Clary sollevò lo sguardo. — Mi state
prendendo in giro?
Lui lanciò in aria uno dei coltelli e poi lo
riprese. — Forse.
— Ho portato Clary da Magdalena — spiegò
Sebastian. Aveva tolto una stella ninja dalla
parete e la stava esaminando. — Le abbiamo
portato l’adamas.
Jace nel frattempo aveva lanciato anche
l’altro coltello; questa volta non lo riprese, e
l’arma andò a conficcarsi di punta nel
pavimento. — Davvero?
— Davvero — disse Sebastian. — E ho
spiegato a Clary il piano. Le ho detto che
vogliamo attirare i Demoni Superiori per
poterli distruggere.
— Ma non mi hai detto come pensi di farlo —
puntualizzò Clary.
— Ho pensato che era meglio dirtelo con Jace
presente — rispose Sebastian. Fece scattare di
colpo il polso in avanti e la stella ninja volò
verso Jace, che la bloccò con una rapida mossa
del coltello. L’arma cadde a terra. Sebastian
fece un fischio. — Svelto! — commentò.
Clary si girò di scatto verso il fratello. —
Potevi fargli male…
— Qualsiasi cosa fa male a lui, fa male anche
a me — disse l’altro. — Era per dimostrarti
quanto mi fido di lui. E ora voglio che tu ti fidi
di noi. — I suoi occhi neri la penetrarono. —
Adamas — disse. — La sostanza che ho portato
oggi alla Sorella di Ferro. Sai per cosa si usa?
— Certo. Spade angeliche. Torri demoniache
di Alicante. Stilo…
— E per la Coppa Mortale.
Clary fece di no con la testa. — Quella è d’oro.
L’ho vista.
— Adamas placcato d’oro. Lo stesso materiale
dell’impugnatura della Spada Mortale. Si dice
che sia la materia con cui vengono costruiti i
palazzi del Paradiso. E non è facile entrarne in
possesso. Soltanto le Sorelle di Ferro sono
capaci di lavorarla; e inoltre sono le uniche che
dovrebbero essere in grado di venirne in
possesso.
— E perché hai dato l’adamas a Magdalena?
— Per farle forgiare una seconda Coppa —
spiegò Jace.
— Un’altra Coppa Mortale? — Clary spostò lo
sguardo dall’uno all’altro, incredula. — Ma non
potete. Non si può decidere così di fare
un’altra Coppa Mortale. Se fosse possibile, il
Conclave non sarebbe impazzito così tanto
quando l’originale andò perduto. Valentine
non ne avrebbe avuto un bisogno così
disperato quando…
— È solo una coppa — disse Jace. —
Comunque la si crei, resterà sempre e soltanto
una coppa se l’Angelo non ci verserà
volontariamente del sangue. Ecco cosa la
rende ciò che è.
— E voi pensate di poter convincere Raziel a
versare volontariamente il suo sangue nella
nuova coppa, per voi? — Clary non riuscì a
nascondere un evidente scetticismo. — Be’,
buona fortuna.
— È un trucco, Clary — disse Sebastian. —
Hai presente che tutto è basato su un’alleanza,
serafica o demoniaca? I demoni pensano che
noi vogliamo l’equivalente demoniaco di
Raziel, ossia un demone di enorme potenza
che mischierà il suo sangue al nostro e creerà
una nuova razza di Shadowhunters svincolati
dalla Legge, dall’Alleanza e dalle regole del
Conclave.
— Avete detto che volete creare degli…
Shadowhunters al contrario?
— Qualcosa del genere. — Sebastian rise,
pettinandosi i capelli con le dita. — Jace, mi
vuoi aiutare con la spiegazione?
— Valentine era un fanatico — intervenne
l’altro. — Si sbagliava su molte cose. Sul fatto
di voler uccidere gli Shadowhunters e sui
Nascosti. Ma non si sbagliava sul Conclave o
sul Concilio: tutti gli Inquisitori che abbiamo
avuto erano corrotti. Le Leggi tramandate
dall’Angelo sono arbitrarie e senza senso, le
punizioni anche peggio. “La legge è dura, ma è
pur sempre legge”. Quante volte l’hai sentito?
Quanto volte abbiamo dovuto nasconderci ed
evitare il Conclave con le sue leggi, anche
quando stavamo cercando di salvarle? Chi mi
ha messo in prigione? L’Inquisitore. Chi ha
messo Simon in prigione? Il Conclave. Chi lo
avrebbe lasciato bruciare?
Il cuore di Clary aveva cominciato a battere
forte. La voce di Jace, così familiare, che
diceva quelle parole, le faceva sentire le ossa
deboli. Aveva ragione e torto allo stesso tempo.
Come Valentine. Ma lei voleva credere in lui
nello stesso modo in cui non aveva voluto
credere a Valentine.
— Bene — disse infine. — Capisco che il
Conclave è corrotto. Ma non capisco cosa
c’entra col fatto di trattare con i demoni.
— La nostra missione è quella di distruggerli
— disse Sebastian. — Ma il Conclave ha
dedicato tutte le proprie energie ad altre
attività. Le protezioni si stanno indebolendo e
sempre più demoni raggiungono la Terra, ma
il Conclave finge di non vedere. Abbiamo
aperto un varco molto a nord, sull’isola di
Wrangel, e lo useremo per attirare i demoni
con la promessa di questa coppa. Solo che,
quando ci verseranno dentro il sangue,
verranno distrutti. Ho stretto accordi come
questo con diversi Demoni Superiori. Quando
io e Jace li avremo uccisi, il Conclave vedrà che
siamo una potenza con cui deve fare i conti. E
a quel punto saranno costretti ad ascoltarci.
Clary li fissava. — Uccidere dei Demoni
Superiori non è così semplice.
— Oggi l’ho fatto — disse Sebastian. — E poi,
guarda caso, è il motivo per cui nessuno di noi
finirà nei guai dopo aver ucciso tutti quei
demoni guardiani: ho ucciso il loro capo.
Clary spostò lo sguardo da Jace a Sebastian,
poi viceversa. Lo sguardo di Jace era calmo,
interessato; quello di Sebastian più intenso.
Era come se stesse cercando di leggerle nel
pensiero. — Insomma — fece lei, lentamente,
— sono tante le informazioni da assimilare. E
non mi piace l’idea che voi due vi mettiate in
questo genere di pericoli. Ma sono contenta
che vi siete fidati abbastanza da dirmi tutto.
— Te l’avevo detto — intervenne Jace. — Te
l’avevo detto che avrebbe capito.
— Non ho mai detto il contrario. — Sebastian
parlò senza staccare gli occhi da Clary.
Lei deglutì forte. — L’altra notte non ho
dormito molto — disse. — Ho bisogno di
riposare.
— Peccato — fece Sebastian. — Volevo
chiederti se ti andava di salire sulla Torre
Eiffel. — Aveva lo sguardo cupo, indecifrabile.
Clary non capiva se stesse scherzando o no.
Prima che potesse rispondere, sentì la mano di
Jace che scivolava dentro la sua.
— Vengo con te — le disse. — Anch’io non ho
dormito bene. — Fece un cenno a Sebastian. —
Ci vediamo per cena.
L’altro sulle prime non reagì. Quando furono
quasi ai gradini, la chiamò. — Clary.
Lei si girò, togliendo la mano da quella di
Jace. — Cosa?
— La mia sciarpa. — Tese la mano per
riaverla.
— Ah, giusto. — Facendo qualche passo verso
di lui, tirò con dita nervose la striscia di
tessuto che teneva ancora annodata al collo.
Dopo essere rimasto a guardarla un momento,
Sebastian sbuffò d’impazienza e attraversò la
stanza a grandi passi per raggiungerla, le
lunghe gambe che coprivano in fretta tutta la
distanza fra loro. Clary si irrigidì quando lui le
mise una mano al collo e, con pochi abili gesti,
le sciolse il nodo della sciarpa. Per un secondo
pensò che, prima di scioglierla, avesse esitato,
sfiorandole la gola con le dita…
Ricordò quando l’aveva baciata sulla collina,
accanto alle rovine bruciate della tenuta dei
Fairchild, e di come lei si era sentita in caduta
libera verso un luogo cupo e abbandonato,
perduta e terrorizzata. Si voltò bruscamente e
la sciarpa le cadde dal collo. — Grazie per
avermela prestata — gli disse, prima di correre
su per le scale, dietro a Jace, senza voltarsi per
vedere il fratello che la osservava con la
sciarpa in mano e un’espressione interrogativa
sul viso.
Simon era in piedi tra le foglie morte, lo
sguardo rivolto in avanti sul sentiero; ancora
una volta lo colse l’istinto tutto umano di fare
un respiro profondo. Era a Central Park, vicino
allo Shakespeare Garden. Gli alberi avevano
perso quel che restava della lucentezza
autunnale, con l’oro, il verde e il rosso che
volgevano al marrone e al nero. Quasi tutti i
rami erano spogli.
Toccò di nuovo l’anello al dito. Clary?
Ancora nessuna risposta. Si sentiva i muscoli
tesi come corde di violino. Era passato troppo
tempo da quando era riuscito a contattarla con
l’anello. Si era più volte ripetuto che forse lei
stava dormendo, ma niente poteva sciogliere
quel tremendo nodo di angoscia che sentiva
dentro lo stomaco. L’anello era l’unico legame
che aveva con Clary, ma in quel momento non
gli sembrò nient’altro che un pezzo di metallo
inerte.
Lasciò cadere le mani lungo i fianchi e avanzò
sul sentiero, oltrepassando le statue e le
panchine con incisi i versi delle opere
shakespeariane. Dovette curvare a destra e,
all’improvviso, la vide, seduta su una
panchina. Guardava dall’altra parte, i capelli
scuri raccolti in una lunga treccia che le
scendeva sulla schiena. Era completamente
immobile, aspettava. Aspettava lui.
Simon raddrizzò le spalle e le andò incontro,
anche se ogni passo sembrava carico di
piombo.
Lei lo sentì avvicinarsi e si girò, il volto
pallido che sbiancava ancora di più mentre lui
le si sedeva accanto. — Simon — gli disse in un
soffio. — Non ero sicura che saresti venuto.
— Ciao, Rebecca.
Lei gli porse una mano e lui la prese,
compiaciuto con se stesso per essersi messo i
guanti, quella mattina, così, toccandola, non le
avrebbe fatto sentire il gelo della sua pelle.
Non era passato molto dall’ultima volta che
l’aveva vista, forse quattro mesi, ma sembrava
già la fotografia di una persona conosciuta
molto tempo prima, benché tutto, in lei, fosse
familiare: capelli scuri e occhi castani, stessa
forma e colore dei suoi. Sul naso, una
spruzzata di lentiggini. Indossava jeans, una
giacca a vento giallo canarino, una sciarpa
verde con dei grandi fiori di cotone. Clary
definiva lo stile di Becky hippie-chic: circa la
metà dei suoi vestiti proveniva da negozi
vintage, l’altra metà se li cuciva da sola.
Quando le strinse la mano, gli occhi scuri di
lei si riempirono di lacrime. — Sì — gli disse,
prendendolo fra le braccia e stringendolo. Lui
la lasciò fare, dandole delle pacche sulle
braccia e sulla schiena, goffamente. Quando lei
si ritrasse, asciugandosi gli occhi, aveva la
fronte corrugata. — Dio, hai la faccia gelida —
gli disse. — Dovresti metterti una sciarpa. —
Lo guardò con fare accusatorio. — Insomma,
dove sei stato fino adesso?
— Te l’ho detto — fece lui. — Stavo da un
amico.
Lei gli rispose con una secca risata. — Okay,
Simon, chi vuoi prendere in giro? Mi dici cosa
cavolo sta succedendo?
— Becky…
— Ho chiamato la mamma, prima del Giorno
del Ringraziamento — disse Rebecca,
guardando davanti a sé, verso gli alberi. — Sai,
per chiederle che treno avrei dovuto prendere
eccetera. E vuoi sapere cosa mi ha risposto lei?
Di non tornare a casa, perché non ci sarebbe
stato nessun Giorno del Ringraziamento. E
così ho chiamato te. E tu non hai risposto. Ho
richiamato la mamma per chiederle dov’eri e
lei… ha riattaccato. Mi ha riattaccato, così.
Sono tornata a casa, dove ho visto tutte quelle
assurdità religiose sulla porta. Ho dato di
matto con la mamma e lei mi ha detto che eri
morto. Morto, mio fratello! Ha detto che eri
morto e che un mostro aveva preso il tuo
posto.
— E tu che cosa hai fatto?
— Me la sono data a gambe — rispose
Rebecca. Simon capiva che stava cercando di
fare la dura, ma che nella sua voce c’era
qualcosa di fragile, spaventato. — Era piuttosto
chiaro che la mamma era uscita di testa.
— Ah… — fece Simon. Rebecca e sua madre
avevano da sempre un rapporto travagliato. A
sua sorella piaceva riferirsi alla madre come
alla “svitata” o alla “signora matta”. Ma quella
era la prima volta in cui sentiva che stava
parlando sul serio.
— Puoi ben dirlo, ah! — gli fece eco Rebecca.
— Ho perso la testa. Ti mandavo un sms ogni
cinque minuti. Alla fine ricevo quel cavolo di
messaggio in cui mi dici che stai da un amico.
E poi mi vuoi incontrare qui. Ma dico, Simon?
Da quanto va avanti questa storia?
— Da quanto va avanti quale storia?
— Cosa credi? La mamma che è diventata
completamente pazza! — Le piccole dita di
Rebecca toccarono la sciarpa. — Dobbiamo
fare qualcosa. Parlare con qualcuno, dei
medici. Farle prendere qualche pastiglia o cose
del genere. Io non sapevo cosa fare, non senza
di te. Sei mio fratello.
— Non posso — disse Simon. — Cioè, non
posso aiutarti.
La voce di lei si ammorbidì. — Lo so che è un
casino e che tu sei solo alle superiori, ma,
Simon, sono decisioni che dobbiamo prendere
insieme.
— Volevo dire che non posso aiutarti a farle
prendere delle pastiglie — spiegò lui. — O a
portarla da un dottore. Perché lei ha ragione.
Io sono un mostro.
La bocca di Rebecca si spalancò. — Ti ha fatto
il lavaggio del cervello?
— No…
La voce le tremava. — Sai, ho anche pensato
che magari ti aveva fatto del male… Dal modo
in cui parlava. Ma poi mi sono detta, no, non lo
farebbe mai, figuriamoci. Se però mi dici che è
successo… Se ha mosso anche solo un dito
contro di te, Simon, aiutami a…
Simon non ce la fece più. Si sfilò un guanto e
porse la mano alla sorella. Lei, che gliela
teneva sulla spiaggia dell’oceano quando era
troppo piccolo per camminare da solo. Lei, che
gli aveva tamponato il sangue dopo un
allenamento di calcio e asciugato le lacrime
dopo che papà era morto e la mamma se ne
stava sdraiata in camera a fissare il soffitto
come uno zombie. Lei, che gli aveva letto le
favole quando lui dormiva in un letto a forma
di auto da corsa e portava ancora il pigiama a
tutina. Sono Lorax e parlo per gli alberi. Lei,
che una volta, per sbaglio, cercando di fare la
brava donnina di casa, gli aveva ristretto tutti i
vestiti rendendoli adatti soltanto a una
bambola. Lei, che gli preparava il pranzo
quando la loro mamma non aveva tempo.
Rebecca, pensò. L’ultimo legame che doveva
tagliare.
— Prendimi la mano — le disse.
Sua sorella lo fece e rabbrividì. — Sei
freddissimo! Non stai bene?
— No, diciamo di no. — Simon la guardò,
sperando di farle capire che in lui c’era
qualcosa che non andava, che non andava per
niente. Lei invece si limitava a guardarlo con
quei suoi fiduciosi occhi castani. Respinse un
moto d’impazienza. In fondo non era colpa di
Rebecca. Lei non sapeva. — Sentimi il polso —
le disse.
— Non sono capace, Simon. Studio storia
dell’arte.
Lui allora le si avvicinò, le prese le dita e se le
mise sul polso. — Premi qui. Senti niente?
Per un momento lei rimase ferma, con la
frangia che le oscillava sulla fronte. — No.
Dovrei?
— Becky… — Ritrasse il polso, frustrato. Non
c’erano altre soluzioni. Soltanto una. —
Guardami — le disse, e quando gli occhi di lei
furono sul suo viso, lasciò scendere i canini.
Lei gridò.
Gridò e cadde dalla panchina sopra uno
strato compatto di foglie e terriccio. Diversi
passanti li guardarono incuriositi, ma erano a
New York, perciò non si fermarono né li
fissarono, continuando semplicemente per la
loro strada.
Simon era disperato. Lo aveva voluto lui, ma
tutto era diverso, ora che la vedeva acquattata
a terra, così pallida che le lentiggini sul suo
viso spiccavano come chiazze d’inchiostro, e
con una mano sopra la bocca. Proprio la stessa
cosa successa con sua madre. Ricordò di aver
detto a Clary che non c’era sensazione peggiore
di non fidarsi delle persone a cui volevi bene.
Si era sbagliato. Far paura alle persone a cui
volevi bene, quello era ancora peggio. —
Rebecca — le disse, e la voce gli si ruppe. —
Becks…
Lei scosse la testa, la mano ancora sopra la
bocca. Era seduta in mezzo alla sporcizia, la
sciarpa che strisciava in mezzo alle foglie. In
altre circostanze, avrebbe potuto essere una
scena divertente.
Simon scese dalla panchina e le si inginocchiò
accanto. I canini erano spariti, ma lei lo
guardava come se ci fossero ancora. Con molta
esitazione, allungò una mano e la toccò sulla
spalla. — Becks — le disse. — Non ti farei mai
del male. E nemmeno alla mamma. Volevo
solo vederti un’ultima volta per dirti che vado
via e che non dovrai rivedermi. Vi lascerò in
pace, tutte e due. Potrete festeggiare il
Ringraziamento, non mi farò vedere. Non
cercherò di mantenere i contatti. Non…
— Simon. — Lei gli prese il braccio, poi lo tirò
verso di sé, come un pesce all’amo. Lui per
poco non le cadde addosso, e lei lo abbracciò
stringendolo forte. L’ultima volta che lo aveva
stretto in quel modo era stato il giorno del
funerale di loro padre, quando aveva pianto
come si piange con la sensazione di non poter
smettere mai. — Io non voglio non rivederti
mai più.
— Ah — fece Simon. Si sedette per terra,
talmente sorpreso che la mente gli si era
azzerata. Rebecca gli mise di nuovo le braccia
attorno al corpo e lui le si appoggiò contro,
sebbene lei fosse più esile. Lo aveva sorretto
quando erano bambini, riusciva a farlo ancora.
— Pensavo di sì.
— Perché?
— Sono un vampiro — disse Simon. Era
strano sentirlo. Così, ad alta voce.
— Quindi i vampiri esistono?
— E i lupi mannari. E altre creature ancora
più strane. Questa cosa… è successa. Voglio
dire, sono stato attaccato. Non l’ho scelta, ma
non conta. Ora io sono così.
— Ma tu… — Rebecca esitò, e Simon sentiva
che stava per arrivare la domanda da un
milione di dollari, quella che contava
veramente. — Mordi le persone?
Simon ripensò a Isabelle, ma si affrettò a
cancellare subito quell’immagine dalla testa. E
ho morso una tredicenne. E un tizio. Non è
strano come sembra. No. C’erano cose che non
erano affari di sua sorella. — Bevo sangue in
bottiglia. Sangue animale. Non faccio male alle
persone.
— Okay. — Rebecca fece un respiro profondo.
— Okay.
— Davvero? Davvero per te è okay?
— Sì. Io ti voglio bene — gli rispose. Gli sfregò
la schiena, un po’ impacciata. Lui si sentì
qualcosa di umido sulla mano e abbassò lo
sguardo. Rebecca stava piangendo, e una delle
sue lacrime era andata a infrangersi sulle sue
dita. Ne seguì un’altra, e lui la racchiuse nella
mano. Stava tremando, ma non dal freddo; lei
si tolse comunque la sciarpa e la usò per
circondare entrambi. — Ci penseremo — disse.
— Tu sei il mio fratellino, stupido idiota. Ti
voglio bene, senza condizioni.
Rimasero seduti insieme, spalla a spalla, con
lo sguardo perso nelle zone d’ombra fra gli
alberi.
La camera di Jace era luminosa, coi raggi del
sole di mezzogiorno che si riversavano dalle
finestre aperte. Nell’istante in cui Clary entrò,
facendo scricchiolare il pavimento di legno coi
tacchi degli stivali, lui si chiuse la porta a
chiave dietro le spalle. Ci fu uno sferragliare
metallico quando appoggiò i coltelli sul
comodino. Lei fece per girarsi e chiedergli se
stava bene, quando lui la prese per la vita e la
tirò a sé.
Gli stivali le facevano guadagnare qualche
centimetro, ma lui doveva comunque piegarsi
per baciarla. Le sue mani, sulla vita, la
sollevarono e la premettero contro di lui. Un
secondo dopo, Jace aveva la bocca sopra la
sua, facendole dimenticare qualsiasi problema
di statura o imbarazzo. Sapeva di sale e di
fuoco. Cercò di escludere tutto tranne i sensi:
l’odore familiare della sua pelle e del sudore, il
freddo dei capelli umidi sulla guancia, la forma
delle spalle e della schiena sotto le sue mani, il
modo in cui il proprio corpo aderiva al suo.
Jace le tolse il maglione da sopra la testa.
Aveva una maglietta a maniche corte, e sulla
pelle sentì il calore che il suo corpo emanava.
Le dischiuse le labbra con le proprie, e si sentì
morire quando la mano di lui le scivolò sul
primo bottone dei jeans.
Ci volle tutto l’autocontrollo che aveva per
prendergli il polso con una mano e trattenerlo.
— Jace — gli disse. — No.
Lui si ritrasse, abbastanza perché lei potesse
vederlo in faccia. Aveva lo sguardo vitreo,
perso. Il cuore gli batteva contro il suo. —
Perché?
Lei chiuse forte gli occhi. — La scorsa notte,
se non fossimo… se non fossi svenuta, non so
cosa sarebbe successo. Ed eravamo in una sala
piena di gente. Pensi davvero che vorrei che la
mia prima volta con te, o qualsiasi volta con te,
potesse essere davanti a un gruppo di
sconosciuti?
— Non è stata colpa nostra — disse lui,
spingendole dolcemente le dita fra i capelli. Il
palmo ruvido della mano le graffiò
leggermente la guancia. — Quella roba
argentata era droga di fate, te l’ho detto.
Eravamo completamente fuori. Adesso però io
sono lucido, tu sei lucida…
— E Sebastian è al piano di sotto, e io sono
stanchissima, e… — E sarebbe un’idea
pessima, pessima, di cui ci pentiremmo
entrambi.
— Non ti va? — C’era scetticismo nella sua
voce.
— Mi dispiace che nessuna te lo abbia mai
detto prima, Jace, ma la risposta è no. Non mi
va. — Guardò fissa la mano di lui, ancora
ferma sul bottone dei jeans. — E adesso mi va
ancora di meno.
Lui sollevò entrambe le sopracciglia, ma
invece di parlare si limitò a lasciare la presa.
— Jace…
— Andrò a farmi una doccia fredda — le disse
allontanandosi.
Aveva
un’espressione
distaccata, impenetrabile. Quando la porta del
bagno si richiuse sbattendo alle sue spalle,
Clary si avvicinò al letto, rifatto alla perfezione
e senza residui d’argento sulle coperte, e ci
affondò dentro, prendendosi la testa fra le
mani. Non era la prima volta che lei e Jace
litigavano; aveva sempre pensato che lo
facessero come tutte le coppie normali, in
genere con le migliori intenzioni, e non erano
mai rimasti arrabbiati l’uno con l’altra in
maniera significativa. Ma adesso c’era
qualcosa nella freddezza negli occhi di Jace
che la faceva tremare, qualcosa di distante e
irraggiungibile che rendeva difficile come non
mai rimuovere la domanda sempre presente
nei suoi pensieri: C’è ancora qualcosa del vero
Jace? È rimasto qualcosa da salvare?
Ora questa è la legge della giungla
antica e vera come il cielo.
Il lupo che la osserverà avrà vita prospera,
ma quello che la infrangerà dovrà morire
come la liana cinge il tronco dell’albero
la legge corre avanti e indietro.
Perché la forza del branco è il lupo
e la forza del lupo è il branco.
Jordan fissava, senza guardarla, la poesia
incollata al muro di camera sua. Era una
stampa antica trovata in un negozio di libri
usati, con le parole circondate da un’elaborata
cornice di foglie.
Era di Rudyard Kipling e le sue parole
riassumevano così bene le regole secondo le
quali vivevano i lupi mannari, la “legge” che
vincolava le loro azioni, da spingerlo a
chiedersi se non fosse stato lui stesso un
Nascosto, o quantomeno al corrente degli
Accordi. Jordan aveva sentito l’impulso di
comprare la stampa e appenderla al muro,
anche se non era mai stato un grande
appassionato di poesia.
Camminava avanti e indietro per casa da
un’ora, a volte guardando il cellulare per
vedere se Maia gli aveva scritto, intervallando
il tutto con regolari aperture del frigorifero per
controllare se fosse comparso qualcosa degno
di essere mangiato. Non fu così, ma non voleva
uscire a fare la spesa, perché magari lei
sarebbe tornata proprio mentre lui era fuori.
Fece anche una doccia, pulì la cucina, cercò di
guardare un po’ di televisione senza riuscirci e
cominciò a riordinare tutti i DVD in base al
colore.
Non trovava pace. Proprio come gli capitava,
a volte, davanti alla luna piena, consapevole
che la trasformazione stava per arrivare,
sentendo la forza della corrente del sangue. Ma
ora la luna era calante, non crescente. E non
era la trasformazione a farlo sentire come se
fosse sul punto di sgusciare fuori dalla propria
pelle. Era Maia. Era il fatto di stare senza di
lei, dopo quasi due giorni interi passati
insieme mai più distanti di pochi passi.
Era andata alla centrale di polizia senza di lui,
dicendo che non era il momento di turbare il
branco con un non membro, anche se Luke si
stava riprendendo. Aveva detto che la sua
presenza non era necessaria, dato che lei non
doveva far altro che chiedere a Luke se il
giorno dopo Simon e Magnus potevano andare
alla sua fattoria; poi avrebbe telefonato là e
chiesto ai membri del branco eventualmente
presenti di andarsene al più presto. Jordan
sapeva che aveva ragione. Non c’era motivo
che lui la seguisse, eppure, nel momento in cui
se n’era andata, si era fatto prendere
dall’inquietudine. Lo faceva perché si era
stancata di stare con lui? Ci aveva ripensato e
aveva deciso di tornare alla sua vecchia
opinione? E cosa stava succedendo tra loro?
Erano due che si frequentavano? Forse avresti
dovuto chiederglielo prima di dormire con lei,
genio, si disse rendendosi conto di essere per
l’ennesima volta in piedi davanti al frigorifero.
Il contenuto non era cambiato: bottiglie di
sangue, mezzo chilo di carne macinata che
scongelava, una mela morsicata.
La chiave girò nella toppa della porta
d’ingresso, spingendo Jordan a saltare via dal
frigorifero e a voltarsi di colpo. Si guardò: era a
piedi nudi, con i jeans e una vecchia maglietta.
Perché, mentre lei era via, non ne aveva
approfittato per farsi la barba, darsi una
sistemata, mettersi un po’ di colonia o fare
qualsiasi altra cosa? Si passò in fretta le mani
fra i capelli mentre Maia entrava in salotto,
appoggiando la sua copia del mazzo di chiavi
sul tavolino. Aveva le guance rosa per il freddo,
le labbra rosse e gli occhi luminosi. Il desiderio
di baciarla era così forte da fargli male.
Invece deglutì.
— Allora? Come è andata?
— Bene. Magnus può usare la fattoria. Gli ho
già mandato un messaggio. — Si avvicinò a
Jordan e appoggiò i gomiti sul bancone della
cucina. — Ho anche riferito a Luke quello che
ha detto Raphael su Maureen. Spero non ci
siano problemi.
Jordan rimase perplesso. — Perché hai
pensato che doveva saperlo?
Fu come se lei si sgonfiasse. — Oddio. Non mi
dire che doveva rimanere un segreto.
— No, è che mi chiedevo…
— Be’, se c’è davvero un vampiro fuorilegge
che si aggira per Lower Manhattan, il branco
deve esserne al corrente. È il loro territorio. E
poi volevo il suo consiglio per sapere se dirlo a
Simon oppure no.
— E il mio, di consiglio? — Jordan stava
facendo finta di fare l’offeso, ma una piccola
parte di lui parlava sul serio. Avevano già
discusso in precedenza l’opportunità che
Jordan informasse Simon dei guai causati da
Maureen, temendo che sarebbe stato troppo,
considerato quello che già stava passando. Alla
fine Jordan aveva deciso che era meglio tacere,
anche perché Simon non avrebbe potuto farci
niente, mentre Maia era rimasta nel dubbio.
La ragazza saltò sul bancone e si girò per
guardare Jordan in faccia. Seduta in quella
posizione, adesso era più alta di lui e i suoi
occhi castani luccicavano dentro ai suoi. —
Volevo il consiglio di un adulto.
Lui le afferrò le gambe che oscillavano e fece
scorrere le mani su per la cucitura dei jeans. —
Ho diciotto anni… Non sono abbastanza adulto
per te?
Lei gli mise le mani sulle spalle e le piegò
all’indietro,
come
per
verificarne
la
muscolatura. — Be’, di certo sei cresciuto…
Jordan la tirò giù dal bancone, prendendola
per la vita e baciandola. Dentro gli si accese un
fuoco che si propagò in tutte le vene quando lei
rispose al suo bacio, abbandonando il proprio
corpo contro il suo. Le fece scivolare le mani
fra i riccioli, togliendole il cappello e liberando
la chioma selvaggia. Le baciò il collo mentre lei
gli toglieva la maglietta dalla testa e gli faceva
scorrere le mani su tutto il corpo, spalle,
schiena e braccia, facendo le fusa come un
gatto. Jordan si sentiva come un pallone di
elio: in ascesa verso l’alto grazie ai baci di lei e
leggero per il sollievo. Allora, in fondo, Maia
non si era già stancata di lui.
— Jordy — gli disse. — Aspetta.
Non lo chiamava quasi mai così, se non c’era
di mezzo qualcosa di serio. Il battito cardiaco,
già impazzito, gli accelerò ancora di più. —
Cosa c’è?
— È solo che… Se ogni volta che ci vediamo,
finiamo a letto… Lo so che ho iniziato io, non ti
sto accusando né niente… Ma è solo che forse
dovremmo anche parlare.
Lui la guardò, guardò i suoi grandi occhi
scuri, il sangue che le pulsava nel collo, il
rossore sulle guance. Fece uno sforzo per
parlare in tono composto. — Okay. Di cosa
vuoi parlare?
Lei lo guardò e basta. Dopo un istante scosse
la testa e disse: — Di niente. — Gli intrecciò le
mani dietro la testa e se lo tirò vicino,
baciandolo appassionatamente, aderendo con
tutto il corpo contro il suo. — Proprio di
niente.
Clary non seppe quanto tempo ci volle prima
che Jace uscisse dal bagno asciugandosi i
capelli con una salvietta. Lo guardò da dove si
trovava, seduta sul bordo del letto. Lui si stava
infilando una maglietta azzurra sulla pelle
morbida e dorata, segnata da cicatrici bianche.
Clary distolse subito lo sguardo mentre lui
attraversava la stanza e le si sedeva accanto,
emanando odore di sapone.
— Scusami — le disse.
A quel punto lei lo guardò, sorpresa. Si era
chiesta se fosse capace di chiedere scusa, nello
stato in cui era. Aveva l’espressione seria, forse
un po’ curiosa, ma non disonesta.
— Wow — fece lei. — Quella doccia fredda
deve essere stata brutale.
Le labbra di lui salirono agli angoli, ma
l’espressione
tornò
seria
quasi
immediatamente. Le mise una mano sotto il
mento. — Non avrei dovuto forzarti. È solo
che… dieci settimane fa, anche solo stringersi
sarebbe stato impensabile.
— Lo so.
Le prese il viso fra le mani, le sue lunghe dita
fredde contro le guance, e glielo sollevò. La
stava guardando e tutto, in lui, le era familiare:
le iridi oro chiaro degli occhi, la cicatrice sulla
guancia, il labbro inferiore carnoso, la leggera
scheggiatura del dente grazie alla quale i suoi
lineamenti non erano così perfetti da risultare
noiosi… Eppure, in un certo senso, era come
tornare in una casa dove aveva vissuto da
bambina e sapere che, anche se l’esterno era lo
stesso, dentro ora ci viveva un’altra famiglia. —
Non mi importava — disse. — Ti volevo lo
stesso. Ti ho sempre voluto. Per me eri l’unica
cosa che contava. Sempre.
Clary deglutì. Lo stomaco le si contorse, non
per le solite farfalle che sentiva quando c’era
Jace attorno, ma per un autentico senso di
disagio.
— Ma Jace, non è vero. Ti importava anche
della tua famiglia. E… ho sempre pensato che
tu fossi orgoglioso di essere un Nephilim. Uno
degli angeli.
— Orgoglioso? — ripeté lui. — Di essere
mezzo angelo e mezzo umano… Si è sempre
consapevoli della propria inadeguatezza. Non
sono un angelo. Non sono un prediletto del
Paradiso. A Raziel non importa di noi, non
possiamo nemmeno pregarlo. Non preghiamo
niente. Preghiamo per niente. Ricordi quando
ti ho detto che forse avevo sangue di demone,
perché questo avrebbe spiegato come mai, con
te, mi sentivo così? Per certi versi, crederlo è
stato un sollievo. Non sono mai stato un
angelo, non ci sono mai andato nemmeno
vicino. Be’… — fece una pausa — magari uno di
quelli caduti.
— Gli angeli caduti sono demoni.
— Non voglio essere un Nephilim — le disse.
— Voglio essere qualcos’altro. Più forte, più
veloce, migliore di un umano. Ma diverso. Non
servire le Leggi di un angelo a cui, di noi, non
importa un accidente. Voglio essere libero. —
Le passò una mano dentro un ricciolo. —
Adesso sono felice, Clary. Non fa la differenza?
— Pensavo che fossimo felici insieme — disse
lei.
— Con te sono sempre stato felice — rispose
Jace. — Ma non ho mai pensato di
meritarmelo.
— E adesso invece sì?
— E adesso quella sensazione è sparita. Io so
soltanto che ti amo. E, per la prima volta, mi
basta.
Clary chiuse gli occhi. Un secondo dopo lui la
stava baciando ancora, stavolta molto
dolcemente, con la bocca che tracciava il
contorno della sua. Sentì se stessa cedere sotto
le mani di lui. Se ne accorse quando il respiro
di Jace accelerò e le sue stesse pulsazioni
fecero un balzo. Le mani di Jace le stavano
accarezzando i capelli, la schiena, la vita. Il suo
tocco era una consolazione, il suo battito
cardiaco contro il proprio una musica
familiare, e se anche la tonalità era
leggermente diversa, con gli occhi chiusi non
poteva esserne davvero sicura. Sotto la pelle
avevano lo stesso sangue, pensò, come aveva
detto la Regina Seelie; il suo cuore correva
quando lo faceva quello di lui, ed era stato sul
punto di imitarlo anche la volta in cui si era
fermato. Se avesse dovuto rifare tutto da capo,
sotto lo sguardo spietato di Raziel, si sarebbe
comportata allo stesso modo.
Questa volta fu lui a ritrarsi, lasciando che le
dita indugiassero ancora sulla guancia e sulle
labbra di lei. — Voglio quello che vuoi tu — le
disse. — E quando lo vuoi tu.
Clary sentì un brivido percorrerle la schiena.
Le parole erano semplici, ma l’intonazione
nascondeva un invito pericoloso e seducente.
Qualsiasi cosa vuoi, quando lo vuoi. Le mani
le lisciarono i capelli, la schiena, indugiarono
sulla vita. Clary deglutì. Quasi non ce la faceva
più.
—
Leggimi
qualcosa
—
gli
disse
all’improvviso.
Lui la guardò perplesso. — Eh?
Clary rivolse lo sguardo oltre Jace, verso i
libri sul comodino. — Non è facile. Le parole di
Sebastian, quello che è successo l’altra notte,
tutto. Ho bisogno di dormire, ma sono troppo
agitata. Quando ero piccola e non riuscivo a
prendere sonno, mia madre mi leggeva sempre
qualcosa per farmi rilassare.
— E adesso ti ricordo tua madre? Mi dovrò
cercare un’acqua di colonia più maschile…
— No, è solo che… pensavo che poteva essere
una cosa carina!
Jace si appoggiò ai cuscini, allungando un
braccio verso i libri sul comodino. — Qualcosa
in particolare che ti va di sentire? — Con un
gesto teatrale sollevò il primo libro della pila.
Aveva un aspetto antico, con la copertina di
pelle, le lettere del titolo stampate a caratteri
d’oro. Le due città. — Dickens promette
sempre bene…
— Già letto. A scuola — ricordò Clary. Si
appoggiò anche lei ai cuscini, accanto a Jace.
— Ma non me lo ricordo per niente, quindi non
mi dispiacerebbe risentire la storia.
— Perfetto. Mi hanno detto che ho una
notevole voce da lettura melodica. — Aprì il
libro alla prima pagina, dove il titolo era in
caratteri corsivi. Sotto c’era una lunga dedica,
con l’inchiostro ormai sbiadito e appena
leggibile, ma la firma era chiara: Finalmente
con speranza, William Herondale.
— Qualche tuo antenato — disse Clary,
accarezzando la pagina con le dita.
— Sì. Lo aveva quel pazzo di Valentine. Deve
averglielo dato mio padre. — Jace aprì una
pagina a caso e cominciò a leggere:
Dopo un po’ si tolse la mano dagli occhi, e
parlò con fermezza.
“Non abbiate timore di udirmi. Non vi
ritraete da quello che vi dico. Io sono come
uno che è morto giovane. Tutta la mia vita
potrebbe essere già stata.”
“No, signor Carton. Io sono certa che la
parte migliore della vostra vita potrebbe
ancora essere; sono certa che voi potreste
esser molto, molto più degno di voi.”
— Ah, ora ricordo la storia! — fece Clary. —
Un triangolo amoroso. Lei sceglie quello
noioso.
Jace ridacchiò piano. — Noioso per te. Chi lo
sa che cosa scaldava le signore vittoriane sotto
le sottane.
— È vero, sai.
— Cosa, delle sottane?
— No. Che hai una voce da lettura notevole.
— Clary si nascose il viso contro la spalla di lui.
Erano quelli, più che quando la baciava, i
momenti che le facevano più male. I momenti
in cui lui avrebbe potuto essere il suo Jace.
Purché continuasse a tenere gli occhi chiusi.
— Quello, oltre ad addominali d’acciaio —
puntualizzò lui voltando un’altra pagina. —
Che vuoi di più?
capitolo 17
COMMIATO
Mentre passeggiavo lungo la banchina
E ormai lontana era la mattina
Ho sentito una bella fanciulla parlare:
“Ahimè, non mi riesco a svagare.”
Un menestrello udì la sua voce
E in suo aiuto corse veloce…
— Dobbiamo continuare ad ascoltare questa
lagna? — chiese Isabelle, con un piede infilato
nello stivale che tamburellava sul cruscotto del
furgone di Jordan.
— Per tua informazione, ragazza mia, a me
questa lagna piace. E dato che sono io a
guidare, sono anche io a scegliere — replicò
Magnus, altezzoso. In effetti stava guidando.
Simon era rimasto sorpreso che ne fosse
capace, anche se non sapeva bene perché. In
fondo viveva da secoli: di certo aveva trovato il
tempo per inserire qualche settimana di lezioni
di guida. In ogni caso, non poté fare a meno di
chiedersi che data c’era scritta sulla sua
patente.
Isabelle fece roteare gli occhi, probabilmente
perché nell’abitacolo del furgone non c’era
abbastanza spazio per fare altro, con loro
quattro schiacciati l’uno contro l’altro sul
sedile. A dire il vero, Simon non si aspettava di
vederla con loro. Anzi, non si aspettava la
presenza di nessuno fuorché di Magnus.
Invece Alec aveva subito insistito per
accompagnarli (con grande disappunto di
Magnus, che considerava l’intera faccenda
“troppo pericolosa”), poi, proprio mentre lo
stregone stava avviando il motore del furgone,
Isabelle era scesa di corsa dalle scale del
palazzo e si era precipitata fuori dal portone
ansimando. — Vengo anch’io! — aveva
annunciato.
E così era stato. Nessuno aveva potuto
opporsi o dissuaderla. Durante le sue
insistenze, Isabelle non aveva guardato Simon,
né spiegato il motivo per cui voleva seguirli,
ma alla fine l’aveva spuntata, e adesso eccola lì.
Indossava un paio di jeans e una giacca di
velluto
viola,
probabilmente
rubata
dall’armadio di Magnus. Attorno ai fianchi
stretti, la cintura con le armi. Era premuta
contro Simon, a sua volta premuto contro la
portiera del furgone. Una ciocca di capelli le
volava libera, solleticandole il viso.
— Che cos’è, comunque? — chiese Alec
guardando perplesso il lettore CD, che
funzionava pur non contenendo nessun disco.
Magnus si era limitato a toccare l’impianto con
un dito che aveva lanciato un lampo azzurro,
facendolo funzionare. — Una band di fate?
Magnus non rispose, ma il livello del volume
aumentò.
Subito allo specchio andò
E i suoi capelli d’ebano acconciò
Per il vestito molti soldi sborsò
Un bel fusto sperava di incontrare
E all’alba i gracili piedi le facevano male
Ma tutti i ragazzi, ahi lei, erano gay.
Isabelle sbuffò. — Tutti i ragazzi sono gay. Su
questo furgone, almeno. Ah, non tu, Simon.
— Te ne sei accorta — fece lui.
— Io mi considero un bisessuale disinvolto —
puntualizzò Magnus.
— Ti prego, non usare mai questa definizione
davanti ai miei genitori — gli disse Alec. —
Specialmente a mio padre.
— Pensavo che i tuoi genitori non avessero
problemi con… sì, con il tuo coming out —
intervenne Simon, sporgendosi oltre Isabelle
per guardare Alec che, come spesso succedeva,
aveva le sopracciglia aggrottate e si stava
togliendo il ciuffo di capelli neri dagli occhi. A
parte qualche battuta qua e là, Simon non gli
aveva mai parlato molto. Non era una persona
facile da conoscere. Doveva però ammettere
che, dopo l’allontanamento da sua madre, ora
era più curioso di sentire la risposta di Alec.
— Mia madre sembra averlo accettato — disse
l’altro. — Ma mio padre… no, in realtà no. Una
volta mi ha chiesto cos’era stato, secondo me, a
farmi diventare gay.
Simon sentì Isabelle irrigidirsi accanto a sé.
— A farti diventare gay?! — era incredula. —
Alec, non me lo avevi mai detto.
— Spero gli avrai risposto che è stato un
ragno gay — disse Simon.
Magnus sbuffò, Isabelle aveva l’aria
perplessa. — Ho letto la raccolta di fumetti di
Magnus — disse Alec. — Quindi so di cosa stai
parlando. — Un sorriso gli fece capolino sulle
labbra. — Dici che mi dà la gaytudine
proporzionale di un ragno?
— Solo se fosse un ragno davvero gay — disse
Magnus, lanciando uno strillo quando Alec gli
diede un pugno sul braccio. — Okay, okay,
come non detto.
— Be’, in ogni caso — intervenne Isabelle,
chiaramente irritata per non aver capito la
battuta, — non tornerà comunque da Idris.
Alec fece un sospiro. — Mi dispiace di aver
distrutto la tua immagine di famiglia felice. So
che ti piacerebbe pensare che nostro padre
non abbia problemi con la mia omosessualità,
ma non è così.
— Ma, se quando la gente ti dice o fa certe
cose che ti feriscono, tu non me lo vieni a dire,
io come faccio ad aiutarti?
Simon sentiva l’agitazione di Isabelle vibrarle
per tutto il corpo. — Come posso…
— Iz — disse Alec, stancamente. — Non è un
unico episodio macroscopico. Sono tante
piccole cose invisibili. Mentre io e Magnus
eravamo in viaggio e io telefonavo, papà non
ha mai chiesto come stava lui. Quando mi alzo
per parlare nelle riunioni del Conclave,
nessuno mi ascolta, e non so se è perché sono
giovane o per qualche altro motivo. Ho visto la
mamma che parlava con un’amica dei suoi
nipoti e, nell’esatto istante in cui sono arrivato
io, hanno smesso. Irina Cartwright mi ha detto
che è un peccato se nessuno erediterà mai i
miei occhi azzurri. — Fece un’alzata di spalle e
guardò Magnus, che per un attimo tolse una
mano dal volante per metterla su quella di
Alec. — Non è come una ferita di pugnale da
cui potresti proteggermi. Sono milioni di
piccoli graffi che ti fai con la carta, tutti i
giorni.
— Alec… — fece per dire Isabelle. Ma prima
che potesse aggiungere altro, all’orizzonte
comparve un cartello di legno a forma di
freccia con la scritta FATTORIA TRE FRECCE.
Simon ricordò Luke, inginocchiato sul
pavimento della fattoria, che dipingeva con
cura le lettere, mentre Clary aggiungeva i fiori
lungo il bordo inferiore, ormai scoloriti e quasi
invisibili.
— Gira a sinistra — disse, allungando un
braccio e rischiando di colpire Alec. —
Magnus, siamo arrivati.
C’erano voluti diversi capitoli di Dickens
prima che Clary cedesse finalmente alla
stanchezza e si addormentasse sulla spalla di
Jace. A metà fra il sogno e la realtà, ricordava
che a un certo punto lui l’aveva portata in
braccio giù per le scale, mettendola nella
stanza dove si era svegliata il primo giorno, in
quella casa. Aveva tirato le tende e chiuso la
porta dietro di sé, lasciando la stanza al buio, e
lei si era addormentata al suono della sua voce
che nel corridoio chiamava Sebastian.
Sognò di nuovo il lago ghiacciato, Simon che
gridava il suo nome e una città come Alicante,
solo che le torri demoniache erano fatte di ossa
umane e nei canali scorreva sangue. Si alzò in
un intrico di lenzuola, i capelli un ammasso
disordinato e la luce fuori dalla finestra debole
come il chiarore del crepuscolo. All’inizio
pensò che le voci che si sentivano in corridoio
facessero parte del sogno, ma quando
divennero più forti alzò la testa per ascoltare,
ancora intontita e mezza intrappolata nella
rete del sonno.
— Ehi, fratellino. — Era la voce di Sebastian,
che dal salotto si infiltrava sotto la porta di
camera sua. — Finito?
Seguì un lungo silenzio. Poi la voce di Jace,
stranamente neutra, priva di espressione. — Sì.
Sentì Sebastian trattenere il fiato. — E la
vecchia signora… ha fatto quello che le
avevamo chiesto? Ha creato la coppa?
— Sì.
— Fammela vedere.
Un fruscio. Poi silenzio. Jace che diceva: —
Guarda, prendila, se vuoi.
— No. — Il tono di Sebastian era stranamente
pensieroso. — Tienila pure un attimo.
Dopotutto sei stato tu a recuperarla, giusto?
— Ma il piano è stato tuo. — Nella voce di
Jace c’era qualcosa, qualcosa che spinse Clary
a sporgersi in avanti e a premere l’orecchio
contro la parete, improvvisamente desiderosa
di sapere di più. — E io l’ho eseguito, proprio
come volevi tu. Ora, se non ti dispiace…
— Mi dispiace. — Si sentì un fruscio. Clary
immaginò Sebastian che si alzava, abbassando
lo sguardo su Jace di quel paio di centimetri
che li separavano in altezza. — C’è qualcosa
che non va. Lo sento. Riesco a leggerti, sai?
— Sono stanco. E c’è stato molto sangue.
Senti, devo darmi una ripulita e poi andare a
dormire. E… — la voce di Jace si smorzò.
— E vedere mia sorella.
— Mi piacerebbe vederla, sì.
— Dorme. Da ore.
— Devo chiederti il permesso? — La domanda
aveva un che di tagliente, una nota che ricordò
a Clary il modo in cui un tempo aveva parlato a
Valentine. Qualcosa che non gli sentiva usare
con Sebastian da molto, molto tempo.
— No. — Sebastian sembrava sorpreso, quasi
preso in contropiede. — Se vuoi entrare in
camera e restare a fissarla trasognato, fai pure.
Non capirò mai perché…
— No — lo interruppe Jace. — Non capirai
mai.
Scese il silenzio. Clary riusciva a immaginarsi
talmente bene Sebastian mentre guardava Jace
andarsene, l’espressione stupita, che le ci volle
un momento prima di rendersi conto che
probabilmente lui stava per entrare in camera.
Fece appena in tempo a sdraiarsi sul letto e a
chiudere gli occhi prima che la porta si aprisse,
lasciando entrare uno spicchio di luce
giallastra che per un istante la accecò. Fece
quella che sperava fosse la smorfia realistica di
chi si sveglia e rotolò di lato, coprendosi il viso
con una mano. — Cosa…?
La porta si chiuse. La stanza era di nuovo al
buio. Vedeva Jace soltanto come un’ombra che
si avvicinava lentamente al letto, finché non fu
in piedi davanti a lei. Non poté fare a meno di
ricordare un’altra notte in cui lui era entrato in
camera sua mentre lei dormiva.
Era accanto al letto, e indossava ancora gli
abiti da lutto. E non c’era niente di leggero,
sarcastico o distaccato nel modo in cui la
guardava. Ho girato per tutta la notte, non
riuscivo a dormire e… continuavo a
ritrovarmi qui. Da te.
Adesso Jace era soltanto una sagoma, una
sagoma con i capelli lucenti che brillavano al
debole chiarore che filtrava da sotto la porta.
— Clary — sussurrò. Si sentì un tonfo, e Clary
capì che lui doveva essere caduto in ginocchio
accanto al letto. — Clary, sono io. Io!
Spalancò le palpebre e i loro occhi si
incontrarono. Lo fissò. Inginocchiato accanto
al letto, Jace aveva lo sguardo alla stessa
altezza del suo. Indossava un lungo cappotto di
lana scura, abbottonato fino al collo, dove
spuntavano marchi neri – Silenzio, Agilità,
Accuratezza – che gli formavano una specie di
collana sulla pelle. Aveva gli occhi di colore oro
intenso e molto grandi. Come se riuscisse a
penetrarli, Clary vide Jace. Il suo Jace. Quel
Jace che l’aveva presa fra le braccia quando lei
stava quasi per morire per il veleno del
demone Ravener; quel Jace che l’aveva
guardata mentre sosteneva Simon contro la
luce dell’alba, sull’East River; quel Jace che le
aveva raccontato del ragazzino e del falco che
suo padre aveva ucciso. Quel Jace che lei
amava.
Fu come se il cuore le si fermasse di colpo.
Non riusciva nemmeno a far uscire l’aria dai
polmoni.
Lo sguardo di lui era colmo di impazienza e
dolore. — Ti prego — mormorò. — Ti prego,
credimi.
Lei gli credeva. Avevano lo stesso sangue,
amavano allo stesso modo: quello era il suo
Jace, così come le sue mani erano le sue mani
e il suo cuore il suo cuore. Ma… — Come?
— Clary, ssst…
Lei fece per mettersi a sedere, ma lui la prese
per le spalle e la spinse di nuovo contro il letto.
— Adesso non possiamo parlare. Devo andare.
Clary gli prese la manica, lo sentì trasalire. —
Non mi lasciare.
Jace abbassò la testa solo per un istante.
Quando rialzò lo sguardo, i suoi occhi erano
asciutti, ma con un’espressione che la spinse a
tacere. — Aspetta qualche minuto dopo che me
ne sarò andato — le sussurrò. — Poi corri fuori
e sali in camera mia. Sebastian non deve
sapere che siamo insieme. Non stanotte. — Si
rimise in piedi, gli occhi supplicanti. — Non
farti sentire.
Clary si sedette. — Il tuo stilo. Lasciami il tuo
stilo.
Il dubbio passò negli occhi di Jace; lei
sostenne il suo sguardo con decisione, poi
distese una mano. Un istante dopo lui estrasse
dalla tasca lo strumento dal bagliore offuscato.
Glielo mise sul palmo della mano. Per un
secondo si sfiorarono, pelle contro pelle, e
Clary rabbrividì. Anche il tocco più leggero di
quel Jace era quasi potente quanto tutti i baci
e gli abbracci passionali della notte in
discoteca. Sapeva che anche lui provava lo
stesso, perché lo vide ritrarre la mano di scatto
e indietreggiare verso la porta. Sentiva il suo
respiro, rapido e irregolare. Lui armeggiò con
la maniglia senza voltarsi e uscì, tenendo gli
occhi sul viso di Clary fino all’ultimo istante,
quando la porta si chiuse fra di loro con uno
scatto deciso.
Rimase seduta al buio, sconvolta. Aveva la
sensazione che il sangue le si fosse raggrumato
nelle vene e che il cuore dovesse faticare il
doppio per continuare a battere. Jace. Il mio
Jace.
La mano le si strinse attorno allo stilo. Fu
come se qualcosa, la sua fredda durezza, la
facesse concentrare, dando lucidità ai suoi
pensieri. Si guardò. Indossava maglietta e
pantaloncini del pigiama; sulle braccia aveva la
pelle d’oca, ma non per colpa del freddo. Si
appoggiò la punta dello stilo nella parte
interna del braccio e la fece scorrere
lentamente sulla pelle, guardandosi mentre
una runa del Silenzio le avvolgeva a spirale
l’incarnato bianco e segnato da vene bluastre.
Aprì soltanto uno spiraglio di porta.
Sebastian
se
n’era
andato,
molto
probabilmente
a
dormire.
Le
casse
dell’impianto audio mandavano una musica
sommessa; qualcosa di classico, il genere di
composizioni per pianoforte che piacevano a
Jace. Si chiese se anche Sebastian avesse i suoi
stessi gusti, o anche solo se gli piacesse la
musica. Le sembrava una capacità così
umana…
Malgrado la preoccupazione per dove fosse
andato Jace, i piedi la portarono verso il
corridoio che dava in cucina; poi si trovò ad
attraversare il salotto e a correre su per i
gradini di vetro, con i piedi che non fecero
rumore quando raggiunsero la cima delle scale
e la slanciarono rapida lungo il corridoio, verso
la stanza di Jace. Aprì la porta e vi scivolò
dentro, chiudendola di scatto alle proprie
spalle.
Le finestre erano aperte; si vedevano i tetti
delle case e uno spicchio ricurvo di luna, una
perfetta notte parigina.
La pietra runica di stregaluce di Jace era
appoggiata sul comodino accanto al letto.
Emanava una debole energia che contribuiva a
rischiarare ulteriormente la stanza. C’era
abbastanza luce perché Clary riuscisse a vedere
Jace, in piedi fra due lunghe finestre. Si era
tolto il cappotto nero, che ora giaceva ai suoi
piedi in un ammasso raggomitolato. Capì
all’istante perché non se lo era tolto appena
entrato in casa, perché l’aveva tenuto
abbottonato fino al collo: sotto indossava solo
una camicia grigia e dei jeans, appiccicosi e
completamente intrisi di sangue. Parte della
camicia era ridotta a brandelli, come se fosse
stata martoriata da una lama molto affilata. La
manica sinistra era arrotolata fino in alto,
scoprendo una fasciatura sull’avambraccio che
probabilmente lui si era appena fatto ma i cui
bordi stavano già diventando scuri per il
sangue. Era a piedi nudi, le scarpe in un
angolo, e il pavimento sotto di lui era chiazzato
di sangue, come lacrime scarlatte. Clary mise
lo stilo sul comodino, producendo un rumore
sordo.
— Jace — disse piano.
A un tratto sembrò assurdo che fra di loro ci
fosse tutto quello spazio, che lei si trovasse in
piedi dall’altra parte della stanza rispetto a lui
e che non si stessero toccando. Si mosse per
raggiungerlo, ma lui alzò una mano per farle
segno di stare lontana.
— No. — La voce di Jace si incrinò. Poi le dita
gli scivolarono sui bottoni della camicia,
aprendoli uno dopo l’altro. Si scrollò dalle
spalle l’indumento sporco di sangue e lo lasciò
cadere a terra.
Clary lo guardò. La runa di Lilith era ancora
al suo posto, sopra il cuore, ma invece di essere
color rosso e argento luccicante sembrava
essere stata carbonizzata dalla punta di un
attizzatoio ardente. Di riflesso lei si portò le
dita al petto, allargandole sopra il cuore.
Sentiva le pulsazioni, forti e veloci. — Oh…
— Già. Oh — ripeté Jace in tono neutrale. —
Non durerà, Clary. Intendo io che sono di
nuovo me stesso. Soltanto finché questa non
sarà guarita.
— Ho… ho pensato — balbettò Clary. —
Prima… mentre dormivi… Ho pensato di
sfregiare la runa come avevo fatto quando
abbiamo lottato contro Lilith. Ma poi ho avuto
paura che Sebastian lo avrebbe sentito.
— Sì, sarebbe andata così. — Gli occhi dorati
di Jace erano spenti come la sua voce. — Lui
non ha sentito questo perché è stato fatto con
un aegis, un pugnale immerso nel sangue di
angelo. Sono rarissimi, non ne avevo mai visto
uno in tutta la mia vita. — Si passò le dita fra i
capelli. — La lama si è trasformata in cenere
bollente dopo avermi toccato, ma ha fatto il
danno che doveva fare.
— Ti sei battuto. Era un demone? Perché
Sebastian non è venuto con…
— Clary. — La voce di Jace non era che un
sussurro. — A questo… servirà più tempo di
una ferita normale per guarire, ma prima o poi
succederà. E allora io sarò di nuovo lui.
— Quanto tempo? Quanto, prima che tu torni
come prima?
— Non lo so. Proprio non lo so. Però volevo…
Avevo bisogno di stare con te, così, come me
stesso, il più a lungo possibile. — Le porse una
mano rigida, come incerto della sua
accoglienza. — Pensi che potresti…
Lei stava già attraversando di corsa la stanza
per raggiungerlo. Gli buttò le braccia al collo.
Lui la prese e la sollevò, sprofondandole la
faccia nell’incavo del collo. Lo respirò come
aria. Sapeva di sangue, sudore, cenere e
marchi.
— Sei tu — gli sussurrò. — Sei davvero tu.
Jace si ritrasse per guardarla, e con la mano
libera le accarezzò delicatamente lo zigomo. Le
era mancata, quella dolcezza. Era una delle
prime cose che l’avevano fatta innamorare di
Jace: il fatto di capire che quel ragazzo
sarcastico, coperto di cicatrici, in realtà era
dolce con le cose che amava.
— Mi sei mancato — gli disse. — Mi sei
mancato tanto.
Jace chiuse gli occhi come se quelle parole gli
facessero male. Clary allora gli mise una mano
sulla guancia; lui appoggiò l’intero viso contro
il suo palmo, solleticandole le nocche con i
capelli e lei si accorse che anche il viso era
umido.
Il bambino non pianse mai più.
— Non è colpa tua — disse Clary. Gli baciò la
guancia con la stessa tenerezza dimostrata da
lui. Sentì il sapore del sale. Sangue e lacrime.
Lui non aveva ancora parlato, ma lei sentiva il
suo cuore batterle all’impazzata nel petto. La
stringeva fra le braccia rigide, come se non la
volesse più lasciare. Gli baciò uno zigomo, il
mento e infine la bocca, una leggera pressione
di labbra contro labbra.
Non c’era più la frenesia della discoteca.
Quello era un bacio per dare sollievo, per dire
tutto ciò che non c’era tempo di dire. Lui le
baciò la schiena, dapprima esitando, poi con
intensità crescente; entrò con una mano
furtiva tra i suoi capelli, avvolgendosi i riccioli
sulle dita. I loro baci diventarono più profondi,
lentamente, dolcemente, la passione che saliva
come sempre, un lampo che scaturiva da un
solo fiammifero e divampava in un fuoco
incontrollato.
Era consapevole della sua forza, ma rimase
comunque sbalordita quando lui la sollevò per
portarla sul letto e adagiarla dolcemente fra i
cuscini sparpagliati, facendo scivolare il
proprio corpo sopra il suo, un gesto fluido che
le ricordò a cosa servivano tutti quei marchi
che aveva sul corpo. Forza. Grazia. Tocco
leggero. Respirò il suo respiro mentre si
baciavano, ogni bacio ora prolungato,
morbido, esploratore. Salì con le mani sulle
sue spalle, sui muscoli delle braccia, sulla
schiena. La pelle nuda le sembrava seta calda
sotto i palmi.
Quando le mani di lui trovarono l’orlo della
maglietta, lei allungò le braccia, inarcando la
schiena, desiderando che ogni barriera fra loro
sparisse. Nell’istante in cui la maglietta
scomparve, Clary lo tirò a sé e i loro baci si
fecero più passionali, come se fossero in cerca
di qualche luogo nascosto dentro l’altro. Non
pensava che si potesse stare più vicini di così:
invece, in qualche modo, si avvilupparono
ancora di più, in un groviglio di corpi, senza
smettere di darsi baci che diventavano sempre
più famelici e profondi dei precedenti.
Le loro mani si muovevano prima veloci sul
corpo dell’altro, poi più lente, indagando senza
fretta. Lei gli affondò le dita nelle spalle
quando lui le baciò il collo, le clavicole, il segno
a forma di stella sulla spalla. Gli graffiò anche
la cicatrice, con le nocche, e baciò il Marchio
ferito che Lilith gli aveva fatto sul petto. Lo
sentì fremere di desiderio. Sapeva di essere al
limite estremo del punto di non ritorno, ma
non le importava. Ora aveva capito che cosa
voleva dire perdere Jace. Aveva conosciuto i
giorni vuoti e neri che seguivano a un simile
evento. E sapeva anche che, se lo avesse perso
di nuovo, avrebbe voluto quel ricordo. Un
ricordo a cui aggrapparsi. Voleva la
consapevolezza che, per una volta, gli era stata
quanto più vicino si potesse stare a una
persona. Gli cinse la parte bassa della schiena
con le caviglie e lo sentì gemere contro la
propria bocca, un suono lieve, profondo,
inerme. Lui le affondò le dita nei fianchi.
— Clary. — Jace si ritrasse. Stava tremando.
— Se non ci fermiamo ora, non ci fermiamo
più.
— Non vuoi? — Lei gli rivolse uno sguardo
sorpreso. Era accaldato, arruffato, i capelli
biondi di un oro più scuro nei punti in cui il
sudore li aveva incollati a fronte e tempie. Lei
riusciva a sentire che il cuore gli stava
martellando dentro al petto.
— Sì, è solo che non ho mai…
— No? — Clary era sorpresa. — Mai fatto?
Lui fece un respiro profondo. — Sì, l’ho fatto.
— I suoi occhi le stavano scrutando il viso,
come in cerca di giudizio, disapprovazione,
persino disgusto. Lo sguardo di Clary invece
era tranquillo. Dopotutto, era quello che aveva
sempre pensato. — Ma non contava. — Le
toccò la guancia con le dita, leggere come
piume. — Non so neppure come…
Clary fece una risata sommessa. — Credo che
abbiamo appena stabilito che invece lo sai.
— Non volevo dire quello. — Le prese la mano
e se la mise sul viso. — Io ti voglio — le disse —
più di quanto abbia mai voluto qualcosa nella
mia vita. Però… — deglutì, — per l’Angelo, so
che dopo mi prenderò a calci da solo.
— Non dirmi che stai cercando di
proteggermi — gli disse lei con fierezza. —
Perché io…
— Non è quello — ribatté Jace. — Non mi sto
sacrificando. Sono soltanto… geloso.
— Sei… geloso? E di chi?
— Di me stesso. — Il viso gli si contrasse. —
Odiavo l’idea che stesse con te. Lui, l’altro me.
Quello controllato da Sebastian.
Clary sentì le guance scottarle. — In
discoteca… l’altra notte…
Jace le appoggiò la testa su una spalla. Un po’
sbalordita, lei gli accarezzò la schiena,
sentendo i graffi lasciati dalle sue stesse
unghie dentro quel privé. Ripensare a quel
dettaglio la faceva arrossire ancora di più.
Come anche riflettere sul fatto che, in fondo,
lui avrebbe potuto liberarsi di quei segni con
un iratze, se solo lo avesse voluto. Invece non
lo aveva fatto. — Ricordo tutto dell’altra notte
— le disse. — E questa cosa mi fa impazzire,
perché ero io ma non ero io. Quando siamo
insieme, voglio che tu sia tu. E io il vero io.
— Non è quello che siamo ora?
— Sì. — Sollevò la testa, la baciò sulla bocca.
— Ma per quanto? Potrei tornare a essere lui
da un minuto all’altro. Non voglio farti questo.
Non a te e non a noi. — Parlava in tono
amareggiato. — Non so nemmeno come fai a
sopportare di stare attorno a questa cosa che
non sono io…
— Anche se tu tornassi così fra cinque minuti
— gli disse Clary — ne sarebbe valsa la pena,
anche solo per il fatto di essere stati insieme,
così. Senza che tutto fosse finito su quel tetto.
Perché questo sei tu. E anche l’altro te…
conserva delle parti del tuo vero essere. È
come guardarti attraverso un vetro appannato,
solo che non sei davvero tu. E almeno ora lo
so.
— In che senso? — Le mani di lui le si
irrigidirono sulle spalle. — Cosa vuol dire che
almeno ora lo sai?
Clary fece un respiro profondo. — Jace,
quando ci siamo messi insieme, e intendo dire
davvero insieme, per quel primo mese sei stato
così felice… Tutto quello che facevamo era
spensierato, divertente, favoloso. E poi è stato
come se tu avessi cominciato a svuotarti di
tutta quella felicità. Non volevi stare con me,
guardarmi…
— Avevo paura di farti del male. Ho pensato
che stavo perdendo la testa.
— Non sorridevi, non ridevi, non scherzavi. E
non te ne sto facendo una colpa. Lilith si stava
insinuando nella tua mente, per controllarti.
Cambiarti. Ma ti devi ricordare, e lo so che
suona stupido, che non avevo mai avuto un
ragazzo. Pensavo che forse era normale, che
magari ti stavi solo stancando di me.
— Io non potrei…
— Non ti sto chiedendo rassicurazioni — gli
disse. — Ascoltami. Quando sei… come sei,
sembri felice. Sono venuta qui perché volevo
salvarti. — La voce le si smorzò di colpo. — Ma
poi ho cominciato a chiedermi da cosa ti stessi
salvando. Davvero dovevo riportarti a una vita
di cui sembravi così scontento?
— Scontento? — Scosse la testa. — Ero
fortunato. Davvero fortunato. E non riuscivo a
vederlo. — Gli occhi di lui incontrarono i suoi.
— Ti amo — le disse. — E tu mi rendi più felice
di quanto non avrei mai pensato di diventare.
Ora che so com’è essere qualcun altro… Ora
che so cosa significa aver perso me stesso,
rivoglio la mia vita. La mia famiglia. Te. Tutto.
— Lo sguardo gli si incupì. — Lo rivoglio.
La bocca di Jace scese su quella di Clary con
una pressione quasi da far male, le labbra
dischiuse, calde e vogliose, le mani che
l’afferravano prima sulla vita e poi stringevano
le lenzuola, quasi strappandole. Si ritrasse
ansimando. — Non possiamo…
— Allora smettila di baciarmi! — esclamò lei.
— Anzi… — Sgusciò fuori da sotto la sua presa
e recuperò la maglietta. — Torno subito.
Lo spinse via e si precipitò in bagno,
chiudendo la porta a chiave. Accese la luce e si
guardò allo specchio. Aveva uno sguardo folle,
i capelli scompigliati, le labbra gonfie per i
baci. Arrossì e si rimise la maglietta,
buttandosi dell’acqua fresca in viso, legandosi i
capelli. Quando si fu convinta di non avere più
l’aria della fanciulla sedotta degna della
copertina di un romanzo rosa, andò verso gli
asciugamani, niente di romantico in tutto ciò,
ne afferrò uno e lo inzuppò d’acqua,
sfregandolo poi con del sapone.
Tornò in camera. Jace era seduto sul bordo
del letto, con i jeans e una camicia pulita
sbottonata, i capelli scompigliati incorniciati
dalla luce della luna. Sembrava la statua di un
angelo, se non fosse stato per il fatto che, in
genere, gli angeli non erano striati di sangue.
Gli si mise di fronte. — Bene — disse. —
Togliti la camicia.
Jace sollevò le sopracciglia.
— Non ho intenzione di aggredirti — gli disse
Clary, impaziente. — Giuro che posso
sopportare la vista del tuo petto nudo anche
senza svenire.
— Sei sicura? — le chiese, facendo scivolare
obbediente la camicia giù dalle spalle. —
Perché vedere il mio petto nudo ha fatto sì che
molte donne, nella ressa per raggiungermi, si
ferissero gravemente.
— Oh, capisco. Be’, qui non vedo nessun’altra,
a parte me. E poi ti volevo soltanto pulire il
sangue. — Lui si appoggiò docilmente
all’indietro sulle mani. Parte del sangue era
penetrato attraverso la camicia pulita,
striandogli il petto e il ventre muscoloso, ma
quando Clary gli passò con delicatezza le dita
sulla pelle, sentì che la maggior parte delle
ferite era superficiale. L’iratze che lui stesso si
era fatto poco prima le stava già facendo
scomparire.
Jace alzò il viso su di lei, a occhi chiusi, che
gli passava l’asciugamano bagnato sul corpo,
mentre il cotone bianco si tingeva di rosa. Gli
sfregò le strisce di sangue essiccato sul collo,
strizzò il tessuto e lo immerse nella bacinella
d’acqua sul comodino, ricominciando poi con
il petto. Lui se ne stava seduto con la testa
inclinata di lato, guardandola mentre
l’asciugamano gli scivolava sui muscoli delle
spalle, la linea morbida di braccia, avambracci,
petto scolpito segnato dalle linee bianche delle
cicatrici e da quelle nere dei marchi.
— Clary — le disse.
— Sì?
L’ironia era sparita dalla voce di Jace. — Non
me ne ricorderò — le disse. — Quando sarò
tornato come prima, sotto il suo controllo, non
ricorderò di essere stato me stesso. Non
ricorderò di essere stato con te o di averti
parlato in questo modo. Perciò dimmi, stanno
tutti bene? La mia famiglia? Lo sanno che…?
— Se sanno cosa ti è successo? Qualcosa. E
no, non stanno tutti bene. — Lui chiuse gli
occhi. — Potrei mentirti — proseguì Clary —
ma devi saperlo. Ti vogliono tanto bene, e
vogliono che torni da loro.
— Non così — fece lui.
Gli toccò la spalla. — Vuoi dirmi che cosa è
successo? Come ti sei procurato queste ferite?
Jace fece un respiro profondo, gesto che gli
mise in evidenza il Marchio sul petto, scuro e
livido. — Ho ucciso una persona.
Sentì lo shock delle sue parole che le
attraversava il corpo come il rinculo di un
fucile.
Fece
cadere
l’asciugamano
insanguinato, poi si chinò per riprenderlo.
Quando alzò lo sguardo, vide che lui la stava
fissando. Alla luce della luna, i contorni del
viso di Jace erano sottili, netti, tristi. — Chi? —
gli chiese.
— L’hai conosciuta — disse Jace, ogni parola
un macigno. — La donna da cui sei andata con
Sebastian. La Sorella di Ferro, Magdalena. —
Si allontanò di scatto da Clary e si sporse per
recuperare qualcosa rimasto avvolto fra le
lenzuola. I muscoli di braccia e schiena gli
guizzarono sotto la pelle mentre prendeva
l’oggetto e lo porgeva, luccicante sulla mano, a
Clary.
Era un calice trasparente, simile a vetro: una
replica esatta della Coppa Mortale, eccetto il
fatto che, invece di essere d’oro, era stata
ricavata da un blocco di adamas biancoargenteo.
— Stanotte Sebastian mi ha mandato da lei, o
meglio ha mandato lui, a prenderlo, dandomi
anche l’ordine di ucciderla. Lei non se lo
aspettava. Non si aspettava violenza di nessun
tipo, solo un pagamento e uno scambio.
Pensava stessimo dalla stessa parte. Mi sono
fatto consegnare la Coppa, poi ho preso il
pugnale e… — Inspirò con forza, come se il
ricordo gli facesse male, — l’ho pugnalata.
Volevo colpirla al cuore, ma si è girata, e l’ho
mancato per pochi centimetri. Ha barcollato
all’indietro, appoggiandosi al tavolo da lavoro.
Sopra c’era della polvere di adamas e lei me
l’ha lanciata. Credo volesse accecarmi. Ho
girato la testa, e quando ho guardato di nuovo
lei aveva in mano un aegis. La sua luce mi ha
bruciato gli occhi e io ho gridato, mentre lei lo
lanciava contro il mio petto. Ho sentito un
dolore lancinante dentro il Marchio, poi la
lama si è frantumata. — Abbassò lo sguardo e
fece una risata triste. — Il bello è che, se avessi
indossato la divisa, non sarebbe successo. Non
me l’ero messa perché non pensavo che
servisse. Non pensavo che lei avrebbe potuto
farmi del male. Invece l’aegis ha bruciato il
Marchio, il Marchio di Lilith, e all’improvviso
sono tornato in me, in piedi sopra questa
donna morta, con un pugnale insanguinato in
una mano e la Coppa nell’altra.
— Non capisco. Perché Sebastian ti ha chiesto
di ucciderla? Lei voleva consegnare la Coppa a
te. A Sebastian. Aveva detto…
Jace emise un respiro irregolare. — Ricordi
quello che disse Sebastian a proposito
dell’orologio della Piazza della Città Vecchia, a
Praga?
— Che il re aveva fatto cavare gli occhi
all’artigiano che lo aveva creato, per impedirgli
di costruire qualcosa di altrettanto bello? —
disse Clary. — Ma non capisco…
— Sebastian voleva la morte di Magdalena
per impedirle di creare un’altra Coppa. Inoltre,
in questo modo, non avrebbe più potuto dirlo a
nessuno — spiegò Jace.
— Dire cosa? — Clary alzò la mano, prese il
mento di Jace e lo abbassò in modo da farsi
guardare in faccia. — Jace, cos’è che ha
davvero in mente di fare Sebastian? La storia
che ha raccontato nella stanza per gli
allenamenti, l’idea di evocare dei demoni per
poterli distruggere…
— Certo che vuole evocare dei demoni. — La
voce di Jace era tetra. — Uno in particolare.
Lilith.
— Ma Lilith è morta. Simon l’ha distrutta.
— I Demoni Superiori non muoiono, non
veramente. I Demoni Superiori abitano gli
spazi tra i mondi, il nulla, il grande Vuoto.
Quello che ha fatto Simon è stato infrangere il
suo potere, rispedirla a brandelli in quel nulla
da cui proviene. Ma lentamente si riformerà.
Rinascerà. Ci vorrebbero secoli, ma non se
Sebastian l’aiuterà.
Clary si sentì crescere dentro lo stomaco un
senso di gelo. — Se l’aiuterà come?
— Evocandola di nuovo in questo mondo. Lui
vuole mischiare il suo sangue a quello di lei
dentro una coppa per creare un esercito di
Nephilim
oscuri.
Vuole
essere
la
reincarnazione di Jonathan Shadowhunter, ma
dalla parte dei demoni, non degli angeli.
— Un esercito di Nephilim oscuri? Voi due
siete forti, ma non esattamente un esercito…
— Ci sono circa quaranta o cinquanta
Nephilim che un tempo erano fedeli a
Valentine o che non sopportano la direzione
presa dal Conclave. Sono pronti a sentire ciò
che Sebastian ha da dire. Si è messo in
contatto con loro e saranno presenti, quando
evocherà Lilith. — Jace fece un respiro
profondo. — E poi? Con il potere di Lilith dalla
sua parte? Chi lo sa chi potrebbe unirsi alla sua
causa? Lui vuole una guerra. È convinto che la
vincerà, e io non sono sicuro che si sbagli. Ogni
Nephilim oscuro da lui generato non farà che
aumentare il suo potere. Aggiungi quello ai
demoni con cui ha già stretto delle alleanze e io
non so se il Conclave sarà pronto a resistergli.
Clary abbassò la mano. — Sebastian non è
mai cambiato. Il tuo sangue non lo ha mai
cambiato. È esattamente quello che è sempre
stato. — Gli occhi le saettarono su quelli di
Jace. — Ma tu. Anche tu mi hai mentito.
— Lui ti ha mentito.
Dentro la testa aveva un caos di pensieri. —
Lo so. So che quel Jace non sei tu…
— Lui pensa che è per il tuo bene e che alla
fine saresti più felice, ma in effetti ti ha
mentito. E io non lo farei mai.
— L’aegis — disse Clary, — se ti può ferire
senza che Sebastian se ne accorga, allora
potrebbe uccidere lui senza uccidere te?
Jace scosse la testa. — Credo di no. Se avessi
un aegis, sarei disposto a provare, ma… no. Le
nostre forze vitali sono legate fra loro. Un
conto è una ferita, ma se lui dovesse morire…
— Il tono di voce gli si inasprì. — Tu conosci il
modo più semplice per mettere fine a tutto
quanto: ficcarmi un pugnale nel cuore. Anzi, è
strano che tu non lo abbia già fatto mentre
dormivo…
— Tu ci riusciresti? Se fossi io? — Le tremò la
voce. — Pensavo ci fosse un modo per
aggiustare le cose. Anzi, lo penso ancora.
Dammi il tuo stilo, voglio aprire un portale.
— Non puoi aprire un portale da qua — le
disse Jace. — Non funzionerebbe. L’unico
modo per entrare e uscire da questa casa è
passando per il muro al piano di sotto, vicino
alla cucina. Ed è anche l’unico posto da cui
puoi spostare l’appartamento.
— Ci puoi portare nella Città Silente? Se
torniamo indietro, i Fratelli Silenti potrebbero
pensare a un modo per separarti da Sebastian.
Racconteremo il suo piano al Conclave, così si
prepareranno…
— Potrei spostarci davanti a una delle entrate
— propose Jace. — E lo farò. Ci andrò.
Andremo insieme. Però, Clary, giusto per
evitare che tra noi rimangano cose non dette…
devi sapere che mi uccideranno. Quando avrò
raccontato quello che so, mi uccideranno.
— Ucciderti? No, non lo farebbero…
— Clary — Jace parlava con voce gentile. —
Da buon Shadowhunter, sarei tenuto a offrirmi
di morire pur di fermare il piano di Sebastian.
E da buon Shadowhunter, lo farei.
— Ma tu non c’entri niente! — Aveva alzato il
tono di voce, e si sforzò di riabbassarlo per
evitare che Sebastian, al piano di sotto, li
sentisse. — Non hai colpa per quello che ti
hanno fatto. Sei una vittima. Non si tratta di
te, Jace, ma di qualcun altro, qualcuno che
porta la tua faccia. Non dovresti essere
punito…
— Non è questione di punizioni, è una
questione pratica. Uccidi me e Sebastian
muore. Non è diverso dal sacrificarmi in
battaglia. Certo, non l’ho scelto io, è successo e
basta. E quello che sono ora, me stesso, presto
sparirà di nuovo. Clary, lo so che non ha senso,
ma io mi ricordo, mi ricordo tutto: la
passeggiata con te a Venezia, la serata in
discoteca, la notte insieme in questo letto. Non
lo capisci? L’ho voluto. È tutto quello che ho
sempre voluto, vivere così con te, stare così
con te. Cosa dovrei pensare, quando la cosa
peggiore che mi è mai capitata mi ha dato
esattamente quello che voglio? Forse Jace
Lightwood riesce a capire i motivi per cui tutto
questo è sbagliato, distorto, ma Jace Wayland,
il figlio di Valentine… a lui questa vita piace. —
I suoi occhi erano grandi e dorati mentre la
guardava; le fece venire in mente Raziel, quel
suo sguardo in cui sembrava racchiusa tutta la
saggezza e la tristezza del mondo. — Ed è per
questo che devo andare — disse. — Prima che
svanisca. Prima che io torni a essere lui.
— Andare dove?
— Nella Città Silente. Devo costituirmi. E
consegnare la Coppa.
parte terza
TUTTO
È CAMBIATO
Tutto è cambiato, cambiato totalmente:
Una tremenda bellezza è nata.
(WILLIAM BUTLER YEATS, Pasqua 1916)
capitolo 18
RAZIEL
Clary?
Simon era seduto sui gradini del porticato sul
retro della fattoria, con lo sguardo puntato sul
sentiero che attraversava il frutteto di mele e
portava fino al lago. Isabelle e Magnus ci
stavano camminando sopra, lui con gli occhi
prima rivolti verso il lago e poi in alto, sulle
basse montagne che circondavano la zona.
Stava prendendo appunti su un libriccino,
utilizzando una penna la cui estremità
splendeva di un verde azzurro sfavillante. Alec
si trovava a qualche passo di distanza, e aveva
lo sguardo alzato in direzione degli alberi, sul
bordo del crinale di colline che separavano la
fattoria dalla strada. Sembrava si tenesse il più
lontano possibile da Magnus, rimanendo però
a portata d’orecchio. Simon, pur essendo il
primo ad ammettere di non essere un grande
osservatore quando si trattava di certe cose,
aveva la sensazione che, nonostante le battute
di prima sul furgone, negli ultimi tempi tra
Magnus e Alec si fosse creata una certa
distanza. Una distanza di cui non conosceva le
ragioni, ma che riusciva a intuire.
Aveva la mano destra appoggiata sul palmo
della sinistra, con le dita che rigiravano l’anello
d’oro sul dito.
Clary, ti prego.
Da quando aveva ricevuto il messaggio di
Maia su Luke, aveva provato a contattarla ogni
ora. Ma non c’era stata risposta. Niente,
neanche un accenno.
Clary, sono alla fattoria. Ricordo quando eri
qui, con me.
Era una giornata calda, per la stagione; un
debole vento scuoteva le ultime foglie tra i
rami degli alberi. Dopo aver passato troppo
tempo a chiedersi come ci si doveva vestire per
incontrare gli angeli (l’abito intero gli
sembrava eccessivo, anche se aveva ancora
quello della festa di fidanzamento di Jocelyn e
Luke), ora era in jeans e maglietta, le braccia
nude al sole. Aveva così tanti ricordi inondati
di luce legati a quel posto, a quella casa! Lui e
Clary erano andati lì con Jocelyn quasi tutte le
estati, praticamente da sempre. Nuotavano nel
lago. Lui si abbronzava fino a diventare
marrone, mentre la pelle chiara di lei non
faceva che scottarsi e riempirsi di un milione
di lentiggini su spalle e braccia. Giocavano a
baseball con le mele, nel frutteto, che si
trasformava in un allegro caos, poi a Scarabeo
e a poker nella fattoria, anche se vinceva
sempre Luke.
Clary, sto per fare una cosa stupida,
pericolosa e magari suicida. È così grave se
voglio parlarti un’ultima volta? Lo sto
facendo per proteggerti, ma non so nemmeno
se sei viva e se ti posso aiutare. Se fossi morta
però lo saprei, no? Lo sentirei.
— Bene, andiamo — annunciò Magnus,
comparendo davanti ai gradini. Lanciò uno
sguardo sull’anello di Simon, ma non fece
commenti.
Simon si alzò e si ripulì i jeans, poi fece strada
agli altri lungo il sentiero che attraversava il
frutteto. Il lago, di fronte a loro, luccicava
come
una
moneta
azzurro
ghiaccio.
Avvicinandosi, Simon vide il vecchio pontile
che sporgeva sull’acqua, dove una volta
avevano legato i kayak prima che una parte
della struttura si staccasse e andasse alla
deriva. Pensò quasi di sentire il pigro ronzio
delle api e il peso dell’estate sulle spalle.
Raggiunta la riva del lago, si voltò a guardare
la fattoria: assi di legno dipinte di bianco,
imposte verdi e un vecchio porticato che
ospitava dei consunti mobili bianchi di vimini.
— Ti piaceva parecchio qui, vero? — gli disse
Isabelle. I suoi capelli neri svolazzavano come
uno stendardo contro la brezza che soffiava dal
lago.
— Da cosa lo capisci?
— Dalla tua espressione — gli disse. — Si vede
che stai ricordando qualcosa di bello.
— Lo era — ammise Simon. Fece il gesto di
aggiustarsi gli occhiali sul naso, si ricordò che
non li portava più e riabbassò la mano. — Ero
fortunato.
Isabelle guardò verso il lago. Portava dei
piccoli orecchini d’oro a cerchio; uno le era
rimasto impigliato in una ciocca di capelli.
Simon avrebbe voluto liberarlo, allungare una
mano e toccarle il lato della guancia con le
dita. — E adesso no?
Scrollò le spalle. Stava guardando Magnus,
che nel frattempo aveva in mano una specie di
lungo bastone flessibile, col quale stava
tracciando dei segni nella sabbia umida in riva
al lago. Teneva aperto il libro degli incantesimi
e, mentre disegnava, recitava ad alta voce. Alec
lo guardava con l’espressione di chi osserva
uno sconosciuto.
— Hai paura? — gli chiese Isabelle
avvicinandosi leggermente. Simon riusciva a
sentire il calore del suo braccio contro il
proprio.
— Non so. Gran parte della sensazione di
paura è data dagli effetti fisici: cuore che
accelera, sudorazione, palpitazioni. Non ho
nulla di tutto ciò.
— Un vero peccato — mormorò Isabelle
guardando l’acqua. — I ragazzi sudati sono
sexy.
Le lanciò un mezzo sorriso; fu più difficile di
quanto avrebbe pensato. Forse aveva davvero
paura. — Basta con queste risposte da donna
vissuta, signorina Isabelle.
Il labbro di lei tremò come se la ragazza
stesse per sorridere. Invece sospirò. — Sai cosa
non avrei mai pensato di desiderare? — disse.
— Un ragazzo che sapesse farmi ridere.
Simon si girò verso di lei per prenderle la
mano, ignorando il fatto che suo fratello era lì
con loro. — Izzy…
— Bene — gridò Magnus. — Io ho finito.
Simon, vieni qui.
Si girarono: Magnus era in piedi dentro il
cerchio, che brillava di una debole luce bianca.
In realtà erano due cerchi concentrici, uno
poco più piccolo dell’altro, e nell’area
intermedia erano state tracciate dozzine di
simboli. Anche quelli brillavano di una luce
bianco-azzurra, come i riflessi del lago.
Simon sentì il debole respiro con cui Isabelle
prendeva fiato, e si allontanò da lei prima di
poterla guardare. Farlo avrebbe reso tutto più
difficile. Avanzò oltre il bordo del cerchio e
andò accanto a Magnus. Guardare fuori dal
centro del tracciato era come guardare
sott’acqua: il resto del mondo ondeggiava
indistintamente.
— Tieni. — Magnus gli mise il suo libro fra le
mani. Le pagine erano sottili, coperte di rune
scarabocchiate, ma lo stregone aveva incollato
sopra l’incantesimo una copia con le parole e
la relativa pronuncia. — Tu recita queste — gli
mormorò. — Dovrebbe funzionare.
Tenendosi il libro contro il petto, Simon si
tolse l’anello d’oro che lo teneva in contatto
con Clary e lo passò a Magnus. — Se non sarà
così — disse chiedendosi da dove gli arrivasse
tutta quella strana calma — qualcuno dovrebbe
prendersi questo. È il nostro unico legame con
Clary e con quello che sa.
Magnus annuì e si fece scivolare l’anello sul
dito. — Pronto, Simon?
— Ehi — fece lui, — ti sei ricordato il mio
nome.
Magnus gli lanciò uno sguardo impenetrabile
dai suoi occhi verde-oro, dopodiché uscì dal
cerchio. Subito divenne anche lui una sagoma
confusa, indistinta. Alec gli si affiancò da una
parte, Isabelle dall’altra. Lei si stava tenendo i
gomiti e, anche attraverso l’aria tremolante,
Simon vedeva bene quanto era preoccupata.
Si schiarì la voce. — Mi sa che è meglio se voi
andate, ragazzi.
Loro però non si mossero. Sembravano in
attesa di sentire dell’altro.
— Grazie per essere venuti qui con me —
disse infine Simon dopo essersi frugato la
mente in cerca di qualcosa di significativo da
dire. Non era il tipo da grandi discorsi di addio
o di solenni arrivederci. Prima guardò Alec. —
Mmm, Alec. Mi sei sempre piaciuto più di
Jace. — Poi si rivolse a Magnus: — Magnus,
vorrei avere il coraggio di mettermi i pantaloni
che metti tu.
E infine Izzy. Riusciva a vedere che lo stava
guardando, attraverso la foschia, gli occhi neri
come ossidiana.
— Isabelle — disse. La osservò. Nel suo
sguardo, un punto interrogativo. Ma non c’era
nulla che gli venne da dirle davanti ad Alec e
Magnus, niente capace di riassumere quello
che provava. Fece un passo indietro, verso il
centro del cerchio, piegando la testa verso il
basso. — Arrivederci, credo.
Ebbe la sensazione che gli altri gli stessero
dicendo ancora qualcosa, ma la foschia
ondeggiante che li separava confuse le loro
parole. Rimase a guardarli mentre si voltavano
e tornavano sul sentiero che attraversava il
frutteto, verso casa, finché non divennero dei
puntini neri. Finché non fu più in grado di
vederli.
Non riusciva a capacitarsi di non poter
parlare un’ultima volta con Clary prima di
morire. Nemmeno ricordava le ultime parole
che si erano detti. Eppure, se chiudeva gli
occhi, sentiva la sua risata volare sopra il
frutteto; ricordava com’era, prima che
diventassero grandi e tutto cambiasse. Se fosse
morto in quel posto, forse sarebbe stato
appropriato. Dopotutto, alcuni dei suoi ricordi
più belli erano nati lì. Se l’Angelo lo avesse
fulminato, le sue ceneri avrebbero potuto
volteggiare fra gli alberi di mele e sopra l’acqua
del lago. C’era qualcosa, in quell’immagine,
che trovò rasserenante.
Pensò a Isabelle. Poi alla sua famiglia: sua
madre, suo padre, Becky. Clary, si disse infine.
Ovunque tu sia, sei la mia migliore amica. Lo
sarai per sempre.
— No! — Clary si alzò, facendo cadere
l’asciugamano bagnato. — Jace, non puoi. Ti
uccideranno.
Lui prese una camicia pulita, se la mise e
l’abbottonò, evitando lo sguardo di Clary. —
Prima cercheranno di separarmi da Sebastian
— rispose, non troppo convinto. — E solo se
non dovesse funzionare mi ucciderebbero.
— Non mi basta. — Fece per toccarlo, ma lui
si voltò dall’altra parte, infilando i piedi negli
stivali. Quando si girò di nuovo, sul viso aveva
un’espressione triste.
— Non ho scelta, Clary. È la cosa giusta da
fare.
— È una follia. Qui sei al sicuro. Non puoi
buttare via la tua vita…
— Salvare me stesso equivale a un
tradimento. È come mettere un’arma nelle
mani del nemico.
— A chi importa del tradimento? O della
Legge? — disse. — A me importa di te. Insieme
troveremo una soluzione…
— Non possiamo trovare una soluzione
insieme. — Jace si mise in tasca lo stilo che
c’era sul comodino, poi prese la Coppa
Mortale. — Perché io resterò me stesso ancora
per poco. Ti amo, Clary. — Le prese il viso fra
le mani e la baciò, lentamente. — Fallo per me
— le sussurrò.
— Assolutamente no! — ribatté lei. — Non ti
aiuterò a ucciderti.
Ma lui stava già andando verso la porta. La
tirò con sé e attraversarono insieme il
corridoio, parlando a bisbigli.
— Ma è una pazzia — sibilò Clary. — Metterti
in pericolo…
Lui sbuffò, esasperato. — Come se tu non lo
facessi.
— Esatto, infatti questa cosa ti fa infuriare —
mormorò lei mentre lo seguiva giù per le scale.
— Ricordati quello che mi hai detto ad
Alicante.
Erano arrivati in cucina. Jace appoggiò la
Coppa sul bancone, prendendo lo stilo. — Non
avevo il diritto di dirlo — le rispose. — Clary, è
questo che siamo: Shadowhunters. E questo è
quello che facciamo. Ci sono rischi che
corriamo e che non sono i semplici rischi delle
battaglie.
Clary scosse la testa, afferrandogli entrambi i
polsi. — Non ti lascerò.
Uno sguardo addolorato attraversò il viso di
Jace. — Clarissa…
Lei fece un passo indietro, a malapena in
grado di credere a quello che stava per fare.
Ma nella sua mente c’era l’immagine
dell’obitorio nella Città Silente, dei cadaveri
degli Shadowhunters distesi sulle lastre di
marmo, e non poteva permettere che Jace
diventasse uno di loro. Tutto quello che aveva
fatto, andare fin lì, sopportare tutto quel che
aveva sopportato, lo aveva fatto per salvare la
vita di Jace, non soltanto per se stessa. Pensò
ad Alec e a Isabelle, che l’avevano aiutata, e a
Maryse, che voleva bene a Jace, e quasi senza
rendersi conto, alzò la voce e urlò:
—
Jonathan!
Jonathan
Christopher
Morgenstern!
Jace spalancò gli occhi. — Clary… — fece per
dire, ma ormai era troppo tardi. Lei gli aveva
dato le spalle e se ne stava andando. Forse
Sebastian stava già arrivando: non c’era modo
di spiegare a Jace che lei non si fidava di lui,
ma che era anche l’unica arma a sua
disposizione per tentare di farlo restare.
Ci fu un movimento repentino, ed ecco
Sebastian. Non si era preso la briga di
scendere per le scale, preferendo lanciarsi giù
e atterrare in mezzo a loro due. Aveva i capelli
scompigliati dal sonno; indossava una
maglietta scura e dei pantaloni neri, cosa che
portò Clary a chiedersi per un attimo se di
solito dormisse vestito. Sebastian li guardò
entrambi, gli occhi neri che studiavano la
situazione. — Battibecchi tra innamorati? —
domandò. Qualcosa gli luccicò nella mano. Un
coltello?
A Clary tremò la voce. — La sua runa si è
danneggiata. Guarda. — Si mise una mano
sopra il cuore. — Vuole tornare, consegnarsi al
Conclave…
La mano di Sebastian si slanciò per strappare
la Coppa dalle mani di Jace. La picchiò con
forza sul bancone della cucina. Jace, ancora
pallido per lo shock, rimase a guardarlo; non
mosse un dito mentre Sebastian gli si
avvicinava e lo prendeva per la camicia. I primi
bottoni saltarono, scoprendogli il collo, sul
quale Sebastian passò con violenza la punta
del suo stilo per tracciare un iratze. Jace si
morse il labbro, gli occhi colmi di odio mentre
l’altro lo lasciava andare e faceva un passo
indietro con lo stilo in mano.
— Sul serio, Jace — gli disse. — Mi sconvolge
il solo pensare che credevi di passarla liscia
con una cosa del genere, proprio.
Le mani di Jace si strinsero a pugno mentre
l’iratze, nero come carbone, iniziava a
penetrargli la pelle. — La prossima volta… che
vuoi essere sconvolto… sarò felice di
accontentarti. Magari con un mattone in testa.
— Tsé — fece Sebastian, — più tardi mi
ringrazierai. Persino tu devi ammettere che
questo desiderio di morte è un tantino
estremo.
Clary si aspettava che Jace controbattesse
ancora, invece non fu così. Con lo sguardo
stava esaminando lentamente il viso di
Sebastian. In quell’istante, nella stanza c’erano
solo loro due; quando Jace parlò, lo fece con
parole chiare e fredde. — Più tardi io non
ricorderò niente — disse. — Ma tu sì. La
persona che si comporta come un tuo amico…
— fece un passo in avanti, annullando lo spazio
che lo divideva da Sebastian, — la persona che
si comporta come se tu le piacessi: quella
persona non è reale. Io sono questo. E ti odio.
Ti odierò sempre. E non c’è magia o
incantesimo in questo o in qualsiasi altro
mondo che mi farà mai cambiare idea.
Per un secondo, il sorriso sulle labbra di
Sebastian vacillò. Jace invece restò calmo, poi
spostò lo sguardo da Sebastian e lo rivolse a
Clary. — Devi sapere — le disse — che non ti ho
detto tutta la verità.
— La verità è pericolosa — intervenne
Sebastian, impugnando lo stilo davanti a sé
come fosse un’arma. — Attento a quello che
dici.
Jace trasalì. Il petto gli si gonfiava e sgonfiava
rapidamente; era chiaro che la runa in via di
guarigione sul petto gli stava procurando
dolore fisico. — Il piano — disse. — Evocare
Lilith, realizzare una nuova Coppa, creare un
esercito oscuro… non era di Sebastian. Era
mio.
Clary rimase impietrita. — Che cosa?!
— Sebastian sapeva quello che voleva —
riprese Jace. — Ma sono stato io a pensare a
come avrebbe potuto farcela. Una nuova
Coppa Mortale… Sono stato io a dargli l’idea.
— Si contorse dal dolore. Clary riusciva a
immaginare cosa stava succedendo sotto il
tessuto della sua camicia: la pelle che si
rimarginava e guariva, la runa di Lilith che
tornava integra e splendente. — Oppure,
dovrei forse dire, è stato lui. Quella cosa che
sembra me ma non lo è. Distruggerà il mondo
intero, se Sebastian glielo chiede, e lo farà con
il sorriso sulle labbra. Ecco che cosa stai
salvando, Clary. Questo. Non capisci?
Preferirei essere morto…
La sua voce si soffocò mentre si piegava su se
stesso. I muscoli delle spalle gli si irrigidirono
mentre onde di dolore gli attraversavano il
corpo. Clary ricordò quando lo aveva stretto,
nella Città Silente, mentre i Fratelli gli avevano
frugato nella mente in cerca di risposte. Ora
aveva alzato lo sguardo, con un’espressione
sconvolta.
I suoi occhi si posarono prima su Sebastian,
non su di lei, che sentì un tuffo al cuore, pur
sapendo che era stata lei stessa a scatenare
tutto.
— Che sta succedendo? — disse a un tratto
Jace.
Sebastian gli sorrise. — Bentornato.
Jace batté le palpebre, momentaneamente
confuso. Poi fu come se lo sguardo gli
scivolasse all’indietro, come faceva ogni volta
in cui Clary cercava di parlargli di qualcosa che
lui non riusciva ad affrontare: l’omicidio di
Max, la guerra di Alicante, il dolore che stava
causando alla sua famiglia.
— È ora? — gli chiese.
Sebastian si guardò l’orologio da polso con
fare teatrale. — Quasi. Perché non vai avanti tu
e noi ti seguiamo? Puoi iniziare i preparativi.
Jace si guardò attorno. — La Coppa… Dov’è?
Sebastian la prese dal bancone della cucina.
— Proprio qui. Per caso ti senti un po’ confuso?
Jace sollevò la bocca agli angoli, poi afferrò
l’oggetto. In tutta tranquillità. Non c’era più
traccia del ragazzo che fino a pochi istanti
prima era di fronte a Sebastian e gli diceva che
lo odiava. — Perfetto. Noi due ci vediamo là,
allora. — Si girò verso Clary, ancora paralizzata
dallo shock, e le baciò la guancia. — E anche
noi.
Fece un passo indietro e le strizzò l’occhio.
C’era affetto nel suo sguardo, ma non contava.
Quello non era il suo Jace, era chiaro. Rimase
a guardarlo stordita mentre lui attraversava la
stanza. Lo stilo che aveva con sé emanò un
flash, e nella parete si aprì una porta. Intravide
uno sprazzo di cielo e una pianura rocciosa,
poi Jace entrò dentro e sparì.
Clary si conficcò le unghie nei palmi.
Quella cosa che sembra me ma non lo è.
Distruggerà il mondo intero, se Sebastian
glielo chiede, e lo farà con il sorriso sulle
labbra. Ecco che cosa stai salvando, Clary.
Questo. Non capisci? Preferirei essere
morto…
Sentì le lacrime bruciarle in fondo agli occhi,
e le trattenne a stento, mentre suo fratello si
girava verso di lei con uno sguardo lucente. —
Mi hai chiamato — le disse.
— Voleva consegnarsi al Conclave — sussurrò
Clary, non sapendo con chi si stesse
giustificando. Aveva fatto quello che doveva
fare, utilizzato l’unica arma a sua disposizione,
sebbene la disprezzasse. — Lo avrebbero
ucciso.
— Hai chiamato me — ripeté lui,
avvicinandosi a lei di un passo. Allungò una
mano e le tolse una lunga ciocca di capelli dal
viso, mettendogliela dietro l’orecchio. — Te lo
ha detto, allora? Del piano? Tutto?
Clary lottò per scacciare un brivido di
repulsione. — Non tutto. Ancora non so cosa
succederà stanotte. Cosa intendeva dire Jace
con “è ora”?
Sebastian si chinò su di lei e le diede un bacio
sulla fronte, bacio che sentì bruciare come un
marchio a fuoco tra gli occhi. — Lo scoprirai —
le disse. — Ti sei guadagnata il diritto di
esserci, Clarissa. Potrai guardare tutto dal tuo
posto accanto a me, stanotte, al Settimo Sito
Sacro. Entrambi i figli di Valentine, insieme…
finalmente.
Simon tenne gli occhi fissi sulle pagine,
recitando le parole che Magnus gli aveva
scritto. Avevano un ritmo musicale, leggero,
nitido, raffinato. Gli tornò in mente quando da
bambino, durante il rituale ebraico del bar
mitzvah, aveva dovuto leggere ad alta voce un
brano della Haftarah; solo che allora
conosceva il significato delle parole, ora invece
no.
Via via che recitava la formula, si sentì
sempre più preda di una morsa, come se l’aria
attorno si stesse facendo più densa e pesante;
gli premeva sul petto e le spalle, diventando
più
calda.
Se
fosse
stato
umano,
probabilmente non avrebbe sopportato un
simile calore. Invece così sentiva un bruciore
sulla pelle, che gli scottava le ciglia e la
maglietta. Tenne gli occhi fissi sul libro aperto
davanti a sé, mentre una perla di sangue gli
cadeva dall’attaccatura dei capelli e andava a
macchiare la pagina.
Era arrivato alla fine. L’ultima parola,
“Raziel”, era stata pronunciata. Alzò la testa e
vide che la foschia si era dileguata; davanti ai
suoi occhi si estendeva il lago, azzurro e
luccicante, immobile come una lastra di vetro.
Poi, l’esplosione.
Il centro del lago divenne prima color oro, poi
nero. La marea si distribuì verso l’esterno,
rovesciandosi in direzione della riva, salendo
nell’aria, finché, al centro, Simon non vide un
anello d’acqua simile a un cerchio di luccicanti
cascate ininterrotte che salivano e scendevano,
producendo un effetto tanto strano quanto
affascinante. Schizzi d’acqua lo colpirono
facendolo rabbrividire e raffreddandogli la
pelle bollente. Reclinò la testa all’indietro
nell’istante in cui il cielo si tinse di nero: tutto
l’azzurro era sparito, divorato in un improvviso
assalto di tenebre e burrascose nuvole grigie. Il
muro d’acqua tornò ad abbattersi sul lago: al
centro, nel punto dove il colore argento era più
intenso, sorse una figura interamente d’oro.
A Simon si prosciugò la bocca. Aveva visto
infiniti ritratti di angeli, credeva alla loro
esistenza, aveva sentito l’avvertimento di
Magnus. Eppure si sentì come trafitto da una
lama, quando, davanti ai suoi occhi, si
dischiusero due ali. Sembravano abbracciare
l’intero cielo. Erano enormi, bianche, dorate e
argentee, ricoperte di piume munite di occhi
dorati che lo guardavano con disprezzo. A un
tratto le ali si alzarono, disperdendo le nuvole
davanti a loro, e si piegarono all’indietro. Un
uomo imponente, o forse la sua forma, alta
svariati piani, si schiuse e si alzò.
I denti di Simon avevano cominciato a
battere. Non sapeva bene perché, ma era come
se dall’Angelo, che si ergeva in tutta la sua
statura, emanassero onde di potenza. O
qualcosa di più, onde della forza elementare
dell’universo. Il primo e piuttosto bizzarro
pensiero di Simon fu di avere davanti una
versione di Jace grande come un enorme
cartellone pubblicitario. Solo che in realtà non
gli assomigliava per niente. Era tutto dorato,
dalle ali, alla pelle, agli occhi, che erano
un’unica membrana lucente senza traccia di
bianco. Dorati erano anche i capelli, e
sembravano formati da pezzi di metallo che si
arricciavano come ferro battuto. Era alieno e
terrificante.
Troppo
di
tutto
poteva
distruggerti, pensò Simon. Troppe tenebre
potevano uccidere, ma anche troppa luce
poteva accecare.
Chi osa evocarmi? L’Angelo parlò dentro la
testa di Simon, con una voce simile al suono di
gigantesche campane.
Domanda trabocchetto, pensò Simon. Se
fosse stato Jace, avrebbe potuto dire “Uno dei
Nephilim”, e se fosse stato Magnus, uno dei
figli di Lilith nonché un Alto Stregone. Clary e
l’Angelo si erano già incontrati, perciò
immaginava che avessero già fatto amicizia.
Invece lui era Simon, senza titoli prima del
nome o grandi gesta compiute in passato. —
Simon Lewis — disse infine, appoggiando il
libro degli incantesimi e raddrizzando la
schiena. — Figlio della Notte e… tuo servitore.
Mio servitore? La voce di Raziel era gelida
per la disapprovazione. Mi evochi come un
cane e osi definirti mio servitore? Dovresti
essere spazzato via da questo mondo, così che
il tuo destino possa servire da monito agli
altri perché non facciano lo stesso. È proibito
al mio stesso Nephilim evocarmi. Perché con
te dovrebbe essere diverso, Diurno?
Simon pensò che non doveva stupirsi se
l’Angelo sapeva chi fosse, eppure rimase lo
stesso sconcertato, come sconcertanti erano le
dimensioni di quella creatura. Per certi versi si
era immaginato un Raziel più umano. — Io…
Pensi che perché possiedi il sangue di uno dei
miei discendenti, allora io ti debba
dimostrare misericordia? Se è così, hai
rischiato e hai perso. La misericordia del
Paradiso è per chi se la merita. Non per chi
infrange le nostre Leggi dell’Alleanza.
L’Angelo sollevò una mano, puntando un dito
dritto contro Simon. Il ragazzo si preparò al
peggio. Questa volta non pronunciò nemmeno
le parole, le pensò soltanto: Ascolta, Israele, il
Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno…
Che Marchio è quello? La voce di Raziel era
turbata. Sulla tua fronte, ragazzino. — È il
Marchio… — esitò Simon. — Il primo Marchio.
Il Marchio di Caino.
L’immenso braccio di Raziel si abbassò
lentamente. Ti ucciderei, ma il Marchio me lo
impedisce. È la mano del Paradiso che
avrebbe dovuto apporlo fra le tue
sopracciglia, ma so che non è stato così. Come
può essere?
L’evidente perplessità dell’Angelo diede
coraggio a Simon. — Uno dei tuoi figli, i
Nephilim — disse, — uno con un talento
speciale, lo ha messo qui per proteggermi. — Si
avvicinò di un passo al bordo del cerchio. —
Raziel, sono venuto a chiederti un favore, nel
nome di quei Nephilim. Stanno affrontando un
grave pericolo. Uno dei loro è… è stato
trasformato in tenebra e ora minaccia tutti gli
altri. Hanno bisogno del tuo aiuto.
Io non intervengo.
— Ma lo hai fatto — osservò Simon. —
Quando Jace era morto, lo hai riportato in vita.
Non che non ne siamo tutti contenti, ma, se tu
non lo avessi fatto, ora non starebbe
succedendo tutto questo. Quindi, in un certo
senso, spetta a te rimediare.
Forse non posso ucciderti, rifletté Raziel. Ma
non c’è motivo per cui ti debba dare ciò che
vuoi.
— Non ho ancora detto quello che voglio —
disse Simon.
Tu vuoi un’arma. Qualcosa che possa
dividere Jonathan Morgenstern da Jonathan
Herondale. Uccideresti uno e salveresti
l’altro.
Più
facile,
ovvio,
uccidere
semplicemente entrambi. Il vostro Jonathan
era morto e forse la morte lo cerca ancora, e
lui cerca lei. Non ti è mai passato per la
mente?
— No — rispose Simon. — So che, in
confronto a te, noi non siamo granché, però
non uccidiamo i nostri amici. Cerchiamo di
salvarli. Se il Paradiso non volesse questo, non
avremmo ricevuto la capacità di amare. —
Scostò dalla fronte i capelli corvini, scoprendo
ancor di più il Marchio. — No, non devi per
forza aiutarmi. Ma se non lo farai, non c’è
niente che mi impedisca di evocarti in
continuazione, ora che so che non mi puoi
uccidere.
Immaginami
appoggiato
al
campanello della tua porta del Paradiso… per
sempre.
Raziel, incredibilmente, sembrò ridere a
quella battuta. Sei testardo, gli disse. Un
autentico guerriero della tua gente, come
colui di cui porti il nome, Simone Maccabeo. E
poiché lui diede tutto per suo fratello Gionata,
voi darete tutto per il vostro Jonathan. O non
siete disposti?
— Non è soltanto per lui — disse Simon, un
po’ perplesso. — Però sì, tutto ciò che vuoi. Te
lo daremo.
Se io ti do ciò che vuoi, prometti che non mi
disturberai mai più?
— Credo che questo non sarà un problema —
fece Simon.
Molto bene, disse allora l’Angelo. Ti dirò
cos’è che desidero. Desidero quel Marchio
blasfemo che hai sulla fronte. Voglio toglierti
il Marchio di Caino, perché non sei mai stato
nelle condizioni di portarlo.
— Io… Ma se prendi il Marchio, poi potrai
uccidermi — replicò Simon. — Non è forse
l’unica cosa che si frappone fra me e la tua ira
celeste?
L’Angelo rifletté un istante. Giurerò di non
farti del male, che tu abbia il Marchio oppure
no.
Simon esitò. L’espressione dell’Angelo si fece
minacciosa. Il giuramento di un Angelo del
Paradiso è quanto di più sacro esista. Osi
dubitare di me, Nascosto?
— Io… — Simon tacque per un momento
straziante. Aveva lo sguardo pieno del ricordo
di Clary, in piedi sulle punte, che gli premeva
lo stilo contro la fronte; la prima volta che
aveva visto il Marchio all’opera, quando si era
sentito come il conduttore di un lampo,
energia pura che lo attraversava con potenza
mortale.
Era
una
maledizione,
una
maledizione che lo aveva terrorizzato e che lo
rendeva un oggetto di desiderio e di paura. Lo
aveva odiato. Eppure ora, di fronte alla
possibilità di perderlo, di perdere quella cosa
che lo rendeva speciale…
Deglutì forte. — Va bene. Sì, accetto.
L’Angelo sorrise. E fu qualcosa di terribile,
come guardare direttamente il sole. Allora
giuro di non farti del male, Simone
Maccabeo.
— Lewis — disse Simon. — Di cognome faccio
Lewis.
Ma sei del sangue e del credo dei Maccabei.
Alcuni dicono che erano marchiati dalla
mano di Dio. In ogni caso, sei un guerriero
del Paradiso, Diurno, che ti piaccia o no.
L’Angelo si mosse. Gli occhi di Simon si
inumidirono, perché fu come se Raziel
trascinasse il cielo con sé come un panno, in
un vortice di nero, di argento e del bianco delle
nuvole. L’aria attorno a lui tremò. Qualcosa
lampeggiò in alto come il riflesso della luce sul
metallo e un oggetto colpì sabbia e rocce
accanto a Simon, producendo un clangore
metallico.
Era una spada. All’apparenza niente di
speciale, una vecchia spada di ferro dall’aria
malconcia e con l’elsa annerita. I bordi erano
irregolari, come corrosi dall’acido, ma la punta
era acuminata. Sembrava il reperto di uno
scavo archeologico ancora non ben ripulito.
L’Angelo parlò. Mentre Giosuè era presso
Gerico, alzò gli occhi, ed ecco, vide un uomo in
piedi davanti a sé che aveva in mano una
spada sguainata. Giosuè si diresse verso di lui
e gli chiese: — Tu sei per noi o per i nostri
avversari?. Quello rispose: — No, io sono il
capo dell’esercito del Signore. Giungo proprio
ora.
Simon abbassò gli occhi sull’oggetto poco
attraente ai suoi piedi. — E quella è la sua
spada?
È la spada dell’Arcangelo Michele,
comandante degli eserciti del Paradiso. Essa
possiede il potere del fuoco del Paradiso.
Usala per colpire il tuo nemico, e brucerà la
sua cattiveria. Se è più cattivo che buono, più
dell’Inferno che del Paradiso, brucerà anche
la sua vita. Senza dubbio spezzerà il legame
con il vostro amico. E può ferire soltanto uno
alla volta dei due.
Simon si chinò per raccogliere la spada. Farlo
gli provocò una scossa alla mano, che risalì
lungo il braccio e giunse dentro al cuore inerte.
La sollevò d’istinto e, per un istante, fu come
se le nuvole si allontanassero e un raggio di
luce piovesse verso il basso per colpire il
metallo opaco dell’arma e farlo risuonare.
L’Angelo abbassò il suo freddo sguardo su
Simon. Il nome della spada non può essere
pronunciato dalla tua misera lingua umana.
Potresti chiamarla Gloriosa.
— Io… — fece per dire Simon. — Grazie.
Non ringraziarmi. Ti avrei ucciso, Diurno,
ma il tuo Marchio e ora il mio giuramento lo
impediscono. Il Marchio di Caino doveva
arrivarti da Dio, ma non è stato così. Che
venga cancellato dalla tua fronte e rimossa la
sua protezione. E se ti rivolgerai ancora a me,
io non ti aiuterò.
All’istante, il raggio di luce che splendeva
dalle nuvole si intensificò, investendo la spada
come una frusta di fuoco, richiudendo Simon
dentro una gabbia di luce brillante e di calore.
La spada divampò; Simon gridò e cadde a
terra, il dolore che gli perforava la testa. Era
come se qualcuno gli stesse infilzando un ago
rovente fra gli occhi. Si coprì il viso,
affondando la testa fra le braccia, lasciando
che il dolore gli scivolasse addosso. Era
l’agonia peggiore che avesse provato dalla
notte in cui era morto.
Il dolore svanì lentamente, rifluendo come la
marea. Rotolò sulla schiena, alzando gli occhi,
la testa ancora sofferente. Le nuvole nere
stavano cominciando a correre via, dando
spazio a una striscia azzurra sempre più
ampia. L’Angelo era scomparso, e il lago si
sollevò sotto la luce che aumentava d’intensità,
come se l’acqua stesse bollendo.
Simon si rimise in piedi con calma, gli occhi
dolorosamente socchiusi contro il sole.
Intravedeva qualcuno che correva lungo il
sentiero, dalla fattoria verso il lago. Qualcuno
con dei lunghi capelli neri e una giacca viola
che svolazzava come due ali. Isabelle arrivò
alla fine della stradina e saltò sulla riva del
lago, con gli stivali che sollevavano sbuffi di
sabbia. Lo raggiunse e lo buttò a terra,
abbracciandolo. — Simon — sussurrò.
Sentiva il battito forte e regolare del suo
cuore.
— Pensavo fossi morto — gli disse. — Ti ho
visto cadere e… ho pensato fossi morto.
Simon si lasciò stringere, appoggiandosi sulle
mani. Si accorse che stava oscillando come una
nave con una falla nella fiancata e cercò di non
muoversi. Temeva che, se lo avesse fatto,
sarebbe caduto. — Io sono già morto.
— Lo so — ribatté Izzy. — Intendevo, più
morto del solito.
— Iz… — Sollevò il viso davanti a quello di lei,
che gli stava inginocchiata sopra, a cavalcioni,
tenendogli le braccia attorno al collo. Non
sembrava una posizione comoda. Simon si
lasciò cadere all’indietro, trascinando giù
anche lei. Picchiò la schiena contro la sabbia
fredda, con Isabelle addosso, e guardò dentro i
suoi grandi occhi neri. Era come se
abbracciassero il cielo intero.
Isabelle gli toccò la fronte, meravigliata. — Il
Marchio è sparito.
— Se lo è preso Raziel. In cambio della spada.
— Fece un gesto per indicare l’arma. In
lontananza, davanti al porticato della fattoria,
vide due macchioline nere. Alec e Magnus. — È
la spada dell’Arcangelo Michele. Si chiama
Gloriosa.
— Simon… — gli baciò la guancia. — Lo hai
fatto. Hai parlato con l’Angelo, hai ottenuto la
spada!
Nel frattempo, Magnus e Alec si stavano
incamminando verso il lago. Simon chiuse gli
occhi, esausto. Isabelle era china sopra di lui, i
suoi capelli gli solleticavano i lati del viso. —
Non cercare di parlare. — Sapeva di lacrime. —
Non sei più dannato — gli sussurrò. — Non lo
sei più.
Simon intrecciò le dita con le sue. Si sentiva
come se stesse fluttuando sopra un fiume
cupo, le ombre che gli si richiudevano attorno.
Solo la mano di Isabelle lo ancorava a terra. —
Lo so.
capitolo 19
AMORE E SANGUE
Metodicamente, con precisione, Clary stava
rivoltando la stanza di Jace. Era ancora in
canottiera, ma si era messa un paio di jeans.
Aveva i capelli raccolti in uno chignon
disordinato, le unghie nere di polvere. Aveva
frugato sotto il letto, in tutti i cassetti e gli
armadi, si era infilata nel guardaroba e sotto la
scrivania, aveva perquisito le tasche di tutti i
vestiti in cerca di un altro stilo, ma non era
riuscita a trovare niente.
Aveva detto a Sebastian che era molto stanca
e sentiva il bisogno di andare di sopra a
riposarsi un po’. Lui le era sembrato distratto e
le aveva fatto cenno di andare. Ogni volta che
chiudeva gli occhi, le comparivano come in un
flash immagini del viso di Jace: il modo in cui
l’aveva guardata, tradita, come se non la
conoscesse più.
Ma non c’era motivo di rimuginarci troppo
sopra. Avrebbe potuto sedersi sul bordo del
letto e piangere con la testa fra le mani,
ripensando a quello che aveva fatto, ma non
sarebbe servito a nessuno. Non arrendersi: lo
doveva a Jace, a se stessa. Continuare a
cercare. Se solo fosse riuscita a trovare uno
stilo…
Stava sollevando il materasso dal letto, per
cercare anche fra le molle, quando qualcuno
bussò alla porta.
Lasciò cadere il materasso, non senza aver
capito che anche lì non c’era niente. Strinse le
mani a pugno, fece un respiro profondo, si
avvicinò a passo deciso alla porta e la spalancò.
Sulla soglia, Sebastian. Per la prima volta
indossava qualcosa che non era bianco o nero.
Certo, i pantaloni e gli stivali neri erano quelli
di sempre, ma sopra portava una casacca di
pelle rossa finemente intarsiata da rune d’oro e
d’argento, abbottonata sul davanti tramite una
fila di alamari metallici. Portava, su entrambi i
polsi, dei braccialetti di argento martellato e, al
dito, l’anello dei Morgenstern.
Clary lo guardò stupita. — Rosso?
— Cerimoniale — rispose. — Per gli
Shadowhunters i colori hanno significati
diversi che per gli umani. — Pronunciò la
parola “umani” con disprezzo. — Conosci la
vecchia filastrocca dei Nephilim, giusto?
Il Nero per cacciare quando il sole muore
Bianco è il colore per il lutto e il dolore
Oro per l’abito che la sposa ha indosso
E, per invocare l’incantesimo, il rosso.
— Gli Shadowhunters si sposano in oro? —
chiese Clary. Non che le interessasse
particolarmente, ma stava cercando di
mettersi tra la porta aperta e il muro per
impedire a Sebastian di guardarle alle spalle e
vedere il disastro che aveva combinato nella
camera, altrimenti ordinatissima, di Jace.
— Mi dispiace di avere infranto il tuo sogno di
un matrimonio in bianco. — Le sorrise. — A
proposito, ti ho portato una cosa da mettere.
Tolse la mano da dietro la schiena e le porse
un abito ripiegato. Clary lo prese e lo spiegò:
era una lunga, morbida striscia di tessuto
scarlatto, illuminata da un particolare riflesso
dorato, come il lembo di una fiamma. Anche le
spalline erano dorate.
— Nostra madre lo indossava nelle cerimonie
del Circolo, prima di tradire nostro padre — le
disse. — Mettitelo. Voglio che stasera lo
indossi tu.
— Stasera?
— Be’, direi che non puoi andare alla
cerimonia come sei vestita adesso. — La scrutò
partendo dai piedi nudi, risalendo lungo i
jeans impolverati, fino alla canottiera incollata
al corpo per il sudore.
— L’aspetto che avrai stasera, l’impressione
che farai ai nostri nuovi accoliti, è importante.
Mettitelo.
Clary era confusa. La cerimonia di stasera. I
nostri nuovi accoliti. — Quanto tempo ho? Per
preparami, intendo. — chiese.
— Forse un’ora — le disse. — Dobbiamo
essere al Sito Sacro entro mezzanotte. Gli altri
saranno già là. Non starebbe bene arrivare in
ritardo.
Un’ora. Col cuore che batteva all’impazzata,
Clary buttò l’abito sul letto, dove luccicò come
fosse di maglia metallica. Quando si voltò,
Sebastian era ancora sulla porta, con un mezzo
sorriso in faccia, intenzionato ad aspettarla lì
mentre lei si cambiava.
Clary fece per chiudere la porta, ma lui la
prese per il polso. — Stasera — le disse — mi
chiamerai Jonathan. Jonathan Morgenstern,
tuo fratello.
Un brivido le percorse tutto il corpo. Abbassò
lo sguardo, sperando che lui non ci vedesse
dentro tutto l’odio che provava. — Quello che
vuoi.
L’istante in cui se ne andò, Clary prese uno
dei giubbotti di pelle di Jace. Se lo mise, felice
di sentire il suo profumo e di scaldarsi. Fece
scivolare i piedi dentro le scarpe e uscì in
corridoio senza fare rumore, alla ricerca di uno
stilo per tracciare una nuova runa del Silenzio.
Al piano di sotto sentiva dell’acqua scorrere e
Sebastian che fischiettava stonato, ma ogni
passo le rimbombava nelle orecchie come un
colpo di cannone. Avanzò furtiva, tenendosi
vicina alla parete, finché non raggiunse la
porta di Sebastian e vi si infilò dentro.
Era buia, rischiarata appena dalle luci della
città che entravano dalle finestre con le tende
aperte. L’ambiente era un disastro, proprio
come la prima volta che l’aveva vista.
Cominciò dall’armadio, pieno zeppo di vestiti
costosi: camicie di seta, giacche di pelle,
completi di Armani, scarpe Bruno Magli. Sul
fondo, c’era una camicia bianca, raggomitolata
e macchiata di sangue abbastanza vecchio da
essere diventato marrone.
Clary la guardò per un lungo istante e poi
richiuse l’armadio.
A quel punto si dedicò alla scrivania, aprendo
i cassetti, cercando tra i fogli. Avrebbe
preferito qualcosa di più semplice, magari un
bel quadernetto con sopra la scritta IL MIO
PIANO MALEFICO, ma non fu così fortunata.
C’erano dozzine di fogli pieni di simboli
numerici e alchemici, e persino un biglietto
che iniziava con “Mia bellissima”, scritto nella
calligrafia contorta di Sebastian. Clary si chiese
per un istante chi potesse essere la “bellissima”
in questione: non aveva mai pensato a lui
come a qualcuno in grado di provare
sentimenti romantici.
Poi fu la volta del comodino. Aprì il cassetto,
dentro il quale trovò una mazzetta di
banconote. In cima, qualcosa brillò. Qualcosa
di rotondo e metallico.
L’anello delle fate.
Mentre tornavano con il furgone a Brooklyn,
Isabelle era seduta con un braccio attorno a
Simon. Lui era esausto: la testa gli pulsava e
sentiva fitte in tutto il corpo. Anche se, al lago,
Magnus gli aveva restituito l’anello, non era
più riuscito a comunicare con Clary. Peggio
ancora, aveva fame. Gli piaceva che Isabelle
fosse seduta così vicina, con la mano
appoggiata appena sopra l’incavo del gomito,
intenta a fargli il solletico e a lasciar scorrere di
tanto in tanto le dita fino al polso. Ma quel suo
odore, sangue misto a profumo, gli faceva
brontolare lo stomaco.
Fuori cominciava a fare buio, il sole tardo
autunnale in rapido declino che regalava
sempre meno luce all’interno dell’abitacolo. Le
voci di Alec e di Magnus erano mormorii
nell’ombra. Simon lasciò che le palpebre gli
calassero, vedendoci davanti la figura
dell’Angelo in tutta la sua luce accecante.
Simon! La voce di Clary gli esplose nella
testa. Ci sei?
Un sussulto improvviso gli sfuggì dalle
labbra. Clary? Ero così preoccupato…
Sebastian mi aveva preso l’anello. Simon,
potremmo non avere molto tempo. Te lo devo
dire. Hanno un’altra Coppa Mortale, vogliono
evocare Lilith e creare un esercito di
Shadowhunters oscuri, con lo stesso potere
dei Nephilim ma alleati del mondo dei
demoni.
— Stai scherzando — disse Simon. Gli ci volle
un istante prima di rendersi conto che lo aveva
detto ad alta voce. Isabelle si mosse, Magnus si
girò per guardarlo.
— Tutto bene lì dietro, vampiro?
— È Clary — annunciò Simon. Tutti lo
guardarono con la stessa espressione
sbalordita. — Sta cercando di parlarmi. — Si
premette le mani contro le orecchie,
scivolando all’ingiù sul sedile per cercare di
concentrarsi sulle parole che sentiva. Quando
lo faranno?
Stasera. Fra poco. E non so esattamente
dove siamo… Ma qui sono circa le dieci.
Allora sei circa cinque ore avanti rispetto a
noi. Ti trovi in Europa?
Non ne ho idea. Sebastian ha parlato di un
certo Settimo Sito Sacro. Non so cosa sia, ma
ho trovato dei suoi appunti e a quanto pare è
un’antica tomba. Sembra una specie di porta,
dalla quale si possono evocare i demoni.
Clary, io non ho mai sentito niente del
genere…
Ma forse Magnus e gli altri sì. Ti prego,
Simon. Dillo a tutti, prima che puoi.
Sebastian sta per resuscitare Lilith. Vuole la
guerra, una guerra totale con gli
Shadowhunters. Ci sono circa quaranta,
cinquanta Nephilim pronti a seguirlo. E
saranno presenti. Vuole ridurre in cenere il
mondo intero. Simon, dobbiamo fare
qualsiasi cosa per fermarlo!
Se le cose sono così pericolose, Clary, te ne
devi andare da lì!
Sembrava stanca. Ci sto provando. Ma
potrebbe essere troppo tardi.
Simon era tristemente consapevole che tutti
gli altri passeggeri lo stavano fissando
preoccupati. Non gli importava. La voce di
Clary dentro la testa era come una corda
lanciata da un burrone: se fosse riuscito ad
afferrarne un capo, forse avrebbe potuto issare
lei verso la salvezza, o almeno impedirle di
precipitare.
Clary, ascoltami. Non sto a dirti come, è una
storia troppo lunga, ma adesso abbiamo
un’arma. La si può usare con Jace o con
Sebastian senza fare male all’altro, e
secondo… secondo la persona che ce l’ha data,
potrebbe riuscire a dividerli.
Dividerli? E come?
Ha detto che brucerebbe via tutto il male di
quello con cui la usiamo. Quindi suppongo
che, se la usassimo per Sebastian,
annullerebbe il legame, perché il legame è
malvagio. Simon si sentiva pulsare la testa e
sperava di apparire più deciso di quanto non
fosse. Non ne sono sicuro. Però è un’arma
molto potente, si chiama Gloriosa.
E la useresti con Sebastian? Li dividerebbe
senza ucciderli?
L’idea sarebbe quella, sì. Voglio dire, c’è la
possibilità che distrugga Sebastian. Dipende
se in lui è rimasto o no qualcosa di buono. Se
non ricordo male, l’Angelo ha detto qualcosa
come “più dell’Inferno che del Paradiso”…
L’Angelo? L’apprensione di Clary si fece
palpabile. Simon, che cos’hai…
La voce di lei si spezzò e, a un tratto, Simon
venne investito da un uragano di emozioni:
stupore, rabbia, terrore. Dolore. Gridò,
mettendosi dritto a sedere.
Clary?
Ma ormai, nella testa, gli risuonava soltanto
silenzio.
— Che è successo? — fece Isabelle. — Sta
bene? Cosa sta facendo?
— Penso che abbiamo molto meno tempo di
quanto pensassimo — concluse Simon con una
voce ben più calma di come si sentiva dentro.
— Magnus, accosta il furgone. Dobbiamo
parlare.
— Insomma — disse Sebastian, riempiendo la
porta con tutta la sua figura e guardando fisso
Clary. — Sarebbe un déjà vu se ti chiedessi
cosa stai facendo nella mia stanza, sorellina?
Clary deglutì con la gola improvvisamente
arida. La luce del corridoio splendeva intensa
alle spalle di Sebastian, trasformandolo in una
sagoma controluce. — Stavo cercando te? —
azzardò.
— Sei seduta sul mio letto — disse lui. —
Pensavi che fossi sotto?
— Io…
Sebastian entrò nella stanza. Ostentava
sicurezza, come se sapesse qualcosa di cui lei
era all’oscuro. Qualcosa che nessuno sapeva. —
E allora perché mi stavi cercando? E perché
non ti sei cambiata per la cerimonia?
— Il vestito… non mi sta.
— Ma certo che sì — ribatté Sebastian
sedendosi sul letto accanto a Clary. Si girò per
guardarla, la schiena rivolta verso i cuscini. —
Tutti gli altri vestiti in quella camera ti
andavano bene. Quindi dovrebbe essere così
anche per questo.
— È di seta e chiffon. Non si allarga.
— Sei uno scricciolo. Non c’è bisogno che si
allarghi! — Le prese il polso destro e lei chiuse
la mano, tentando disperatamente di
nascondere l’anello. — Guarda come ti stringo
il polso con una mano.
Lei sentiva la sua pelle calda sopra la propria;
era come se le pizzicasse i nervi. Ricordò come
il suo tocco, a Idris, l’avesse bruciata come
acido. — Il Settimo Sito Sacro — gli disse senza
guardarlo. — È lì che è andato Jace?
— Sì, l’ho mandato avanti. Sta già
predisponendo tutto per il nostro arrivo. Ci
incontreremo là.
Il cuore le si spezzò nel petto. — Non torna?
— Non prima della cerimonia. — Clary colse
l’angolo rivolto all’insù del sorriso di
Sebastian. — E va bene così, perché
rimarrebbe molto deluso se gli dicessi di
questo… — Fece scivolare rapido la mano su
quella di Clary, aprendole le dita. L’anello
d’oro splendeva come un fuoco. — Pensi che
non sappia riconoscere l’opera delle fate?
Pensi che la Regina sia così stupida da
mandarti a recuperare i suoi anelli senza
sapere che li avresti tenuti per te? Lei voleva
che tu lo portassi qui, dove io lo avrei trovato.
— Le strappò via l’anello con un sorrisetto
beffardo.
— Eri in contatto con la Regina? — domandò
Clary. — E come?
— Proprio tramite questo anello — mormorò
lui, compiaciuto. Clary si ricordò di quando la
Regina le aveva detto, con la sua voce dolce e
acuta: Jonathan Morgenstern potrebbe essere
un potente alleato. Quello delle fate è un
popolo antico. Non prendiamo decisioni
affrettate. Prima aspettiamo di vedere in
quale direzione soffia il vento. — Credi
davvero che ti avrebbe lasciato mettere le mani
su qualcosa capace di comunicare coi tuoi
amichetti senza che lei potesse sentirvi? Da
quando te l’ho preso, ho parlato con lei e lei
con me. Sei stata una stupida a fidarti,
sorellina. Alla Regina Seelie piace stare dalla
parte di chi vince. E quella parte sarà la nostra,
Clary. La nostra. — Parlava con voce bassa e
suadente. — Dimenticali, i tuoi amici
Shadowhunters. Il tuo posto è con noi. Con
me. Il tuo sangue rivendica potere, come il
mio. Qualsiasi cosa abbia fatto tua madre per
plagiarti la coscienza, tu sai ancora chi sei.
Jocelyn ha preso soltanto decisioni sbagliate;
si è alleata con il Conclave e contro la sua
famiglia. Questa è la tua chance per rimediare
al suo errore.
Clary cercò di liberare il braccio. — Lasciami
andare, Sebastian. Dico sul serio.
Le mani di lui scivolarono dal polso verso
l’alto, circondandole l’avambraccio. — Sei
proprio uno scricciolo. Chi avrebbe mai detto
che eri anche così aggressiva? Specialmente a
letto…
Clary saltò in piedi, allontanandosi da lui di
scatto. — Cos’è che hai detto?!
Anche lui si alzò, gli angoli delle labbra rivolti
all’insù. Era molto più alto di lei, circa quanto
lo era Jace. Le si avvicinò, parlando con voce
ruvida e profonda. — Tutto ciò che marchia
Jace, marchia anche me — le disse. — Anche le
tue unghie. — Stava ridendo. — Otto graffi
paralleli sulla schiena, sorellina. Stai dicendo
che non sei stata tu a farli?
Clary si sentì in testa un’esplosione
silenziosa, un fuoco d’artificio di rabbia.
Guardò la faccia divertita di Sebastian e
ripensò a Jace e a Simon, alle parole appena
scambiate con lui. Se la Regina era davvero in
grado di ascoltare le loro conversazioni, forse
sapeva già della Gloriosa. Ma Sebastian no.
Non ancora.
Gli rubò l’anello di mano e lo buttò per terra.
Sentì Sebastian lanciare un grido, ma lei ci
aveva già messo un piede sopra. Lo sentiva
cedere, l’oro che finiva in pezzi.
Lui la guardò, incredulo, mentre spostava di
nuovo il piede. — Tu…
Clary portò all’indietro la mano destra, la più
forte, e tirò a Sebastian un pugno nello
stomaco.
Lui era più alto, più robusto e più forte di lei,
ma Clary aveva sfruttato il fattore sorpresa.
Sebastian si piegò su se stesso, tossendo, e
Clary gli sfilò lo stilo dalla cintura delle armi. E
poi corse via.
Magnus sterzò così bruscamente che fece
stridere i pneumatici. Isabelle lanciò uno
strillo. Si misero sulla corsia d’emergenza,
all’ombra di un boschetto di alberi in parte
senza foglie.
Un secondo dopo, tutti erano scesi dal
furgone. Il sole stava tramontando e i fari del
veicolo erano accesi, investendo tutti con un
bagliore inquietante.
— D’accordo, vampiro — disse Magnus
scuotendo la testa abbastanza da spargere
glitter. — Cosa diavolo sta succedendo?
Alec si appoggiò al furgone mentre Simon
riportava la conversazione avuta con Clary il
più accuratamente possibile, prima di
dimenticarsi qualcosa.
— Non ha detto niente su di lei e Jace, laggiù?
— gli chiese Isabelle a racconto terminato. Il
bagliore giallastro dei fari le sbiancava il viso.
— No — rispose Simon. — Ah, Iz… Non credo
che Jace se ne voglia andare. Vuole rimanere
dov’è.
Isabelle incrociò le braccia e abbassò lo
sguardo sugli stivali, i capelli neri che le
svolazzavano davanti al viso.
— Cos’è questa storia del Settimo Sito Sacro?
— intervenne Alec. — Conosco le sette
meraviglie del mondo, ma non i sette siti sacri.
— Riguardano più gli stregoni che i Nephilim
— spiegò Magnus. — Sono dei posti in cui
convergono delle linee temporanee che
formano una matrice: una specie di rete dentro
la quale gli incantesimi magici si amplificano.
Il settimo è un dolmen irlandese, a Poll na
mBrón; il nome significa “caverna dei dolori”.
Si trova in una zona molto brulla, disabitata,
chiamata Burren. Ottimo posto per evocare un
demone, se è grande. — Si tirò uno spunzone
di capelli. — Pessima notizia. Davvero
pessima.
— Pensi che si possa fare? Creare… degli
Shadowhunters oscuri? — gli chiese Simon.
— Tutto si basa su un’alleanza, Simon.
L’alleanza dei Nephilim è angelica, ma se fosse
demoniaca, sarebbero comunque forti e
potenti come lo sono adesso, ma si
dedicherebbero all’eliminazione del genere
umano, anziché alla sua salvezza.
— Dobbiamo andare là — dichiarò Isabelle. —
Dobbiamo fermarli.
— Fermarlo, vuoi dire — la corresse Alec. —
Dobbiamo fermare lui, Sebastian.
— Jace ora è suo alleato, devi accettarlo, Alec
— gli disse Magnus. Aveva cominciato a
scendere una pioggerella sottile, le cui gocce
brillavano come oro al bagliore dei fari. —
L’Irlanda è cinque ore avanti. La cerimonia
sarà a mezzanotte. Qui sono le cinque,
abbiamo un’ora e mezzo, due al massimo, per
fermarli.
— E allora non stiamocene qui impalati.
Andiamo! — esclamò Isabelle, con una punta
di panico nella voce. — Se vogliamo fermarlo…
— Iz, siamo soltanto in quattro — le ricordò
Alec. — Non sappiamo nemmeno con quanti
nemici dovremo confrontarci…
Simon guardò Magnus, che a sua volta
guardava Alec e Isabelle litigare, con una
singolare espressione di distacco sul viso. —
Magnus — lo chiamò. — Perché non andiamo
alla fattoria e apriamo un portale? Avevi
trasportato mezza Idris nella pianura di
Brocelind.
— Volevo darvi abbastanza tempo per
cambiare idea — rispose lo stregone, senza
staccare gli occhi dal suo ragazzo.
— Ma possiamo aprire un portale da là. Cioè,
tu potresti aiutarci a farlo — insisté Simon.
— Già — fece l’altro. — Ma, come dice Alec,
non sappiamo cosa ci aspetta. Io sono uno
stregone abbastanza potente, ma Jonathan
Morgenstern non è uno Shadowhunter
qualsiasi, e nemmeno Jace lo è, se è per quello.
E se riuscissero a evocare Lilith… Sarebbe
molto più debole di prima, ma pur sempre
Lilith.
— Ma lei è morta — intervenne Isabelle. —
Simon l’ha uccisa.
— I Demoni Superiori non muoiono — disse
Magnus. — Simon… l’ha spedita, a brandelli,
nello spazio fra i mondi. Ci vorrà molto tempo
prima che si riformi, resterà debole per anni. A
meno che Sebastian non la evochi di nuovo…
— Si passò una mano fra le punte umide dei
capelli.
— Abbiamo la spada — ribatté Isabelle. —
Possiamo sconfiggere Sebastian. Abbiamo
Magnus, Simon…
— Non sappiamo nemmeno se la spada
funzionerà — puntualizzò Alec. — E non ci
servirà a molto, se non riusciamo a
raggiungere Sebastian. E poi Simon non è più
Mister Indistruttibile. Può essere ucciso, come
noi.
Tutti gli occhi puntarono su Simon. —
Dobbiamo provare — disse lui. — Sentite, è
vero, non sappiamo in quanti saranno. E
abbiamo poco tempo. Poco ma abbastanza, se
usiamo un portale, per trovare dei rinforzi.
— Rinforzi dove, scusa? — chiese Isabelle.
— Io torno a casa, da Maia e Jordan — disse
Simon, con la mente che passava in rassegna
tutte le possibilità. — Vediamo se Jordan
riesce a ottenere qualche tipo di sostegno da
parte del Praetor Lupus. Magnus, tu vai alla
stazione di polizia e cerca di reclutare tutti i
membri del branco disponibili. Isabelle e
Alec…
— Ci stai dividendo? — volle sapere Isabelle,
alzando il tono di voce. — Cosa ne dici dei
messaggi di fuoco, o…
— Nessuno crederebbe a un messaggio di
fuoco per una cosa del genere — replicò
Magnus. — E poi quelli sono per gli
Shadowhunters. Vuoi davvero comunicare
questa informazione al Conclave via messaggio
di fuoco, invece di andare all’Istituto di
persona?
— D’accordo. — Isabelle si portò sul fianco
del furgone. Aprì la portiera con forza, ma non
salì: mise dentro una mano ed estrasse la
Gloriosa. L’arma brillò alla debole luce come
un fulmine nero, le parole incise sulla lama che
tremolavano davanti ai fari dell’auto: Quis ut
Deus?
La pioggia iniziava a incollare la chioma
corvina di Isabelle al suo collo; mentre tornava
verso il gruppo, la ragazza aveva un’aria
davvero temibile. — Allora dobbiamo lasciare
qui il furgone. Ci dividiamo, ma ci ritroviamo
all’Istituto fra un’ora. E a quel punto si parte,
chi c’è, c’è. — Incrociò lo sguardo di ognuno
dei suoi compagni, uno dopo l’altro, sfidandoli
a contraddirla. — Simon, prendi questa.
Gli porse la Gloriosa dalla parte dell’elsa.
— Io? — Simon era perplesso. — Ma io non…
non ho mai usato una spada prima d’ora!
— L’hai chiesta tu — gli fece notare Isabelle, i
grandi occhi scuri lucidi sotto la pioggia. —
L’Angelo l’ha data a te, Simon, e sarai tu a
tenerla.
Clary si precipitò in fondo al corridoio e
calpestò rumorosamente i gradini, scendendo
di corsa al piano di sotto, verso il punto della
parete in cui, come le aveva detto Jace, c’era
l’unico
modo
di
entrare
e
uscire
dall’appartamento.
Non si era illusa di poter fuggire, ma le
servivano pochi istanti per fare quello che
doveva essere fatto. Sentì gli stivali di
Sebastian battere forte sulla scala di vetro
dietro di lei e accelerò ulteriormente,
rischiando di schiantarsi contro il muro. Prima
ci piantò contro lo stilo, disegnando
freneticamente uno schema semplice come
una croce e nuovo al mondo come…
Il pugno di Sebastian si chiuse dietro alla sua
giacca, tirandola all’indietro e facendole volare
di mano lo stilo. Trasalì quando lui la sollevò
di peso e la lanciò contro il muro, lasciandola
senza fiato. Sebastian guardò il marchio che
Clary aveva appena tracciato sulla parete e le
labbra gli si contorsero in un ghigno crudele.
— La runa di Apertura? — disse. Le si
avvicinò e le sibilò all’orecchio: — E non l’hai
nemmeno finita. Non che conti qualcosa. Pensi
davvero che esista un posto sulla Terra dove
potresti andare senza che io riesca a trovarti?
Clary gli rispose con un insulto che, se detto
alla St. Xavier, l’avrebbe fatta buttare fuori di
classe. Quando lui cominciò a ridere, lei
sollevò una mano e gli diede una sberla in
faccia così forte da sentirsi pungere le dita.
Colto alla sprovvista, Sebastian mollò la presa
su di lei, che ne approfittò per scappare via e
scavalcare il tavolo per raggiungere la camera
da letto del piano inferiore, che aveva la porta
con la serratura…
Ma lui le stava già di fronte: la prese per il
bavero della giacca e la fece girare. Clary non
toccava più terra e sarebbe caduta se lui non
l’avesse tenuta ferma contro il muro con tutto
il corpo, le braccia lungo i fianchi, creandole
attorno una gabbia.
Aveva un sorriso diabolico. Il ragazzo
elegante che l’aveva portata a passeggio lungo
la Senna, che si era fermato per bere una
cioccolata calda e aveva parlato dei loro legami
di sangue, era sparito. Sebastian aveva gli
occhi completamente neri, senza pupille,
profondi come tunnel. — Cos’è che non va,
sorellina? Sembri turbata.
Lei riusciva a stento a respirare. — Mi sono
scheggiata… lo… smalto, schiaffeggiando la
tua… faccia schifosa. Vedi? — Gli mostrò un
dito, uno soltanto.
— Carino — disse lui con una smorfia. — Sai
perché sapevo che ci avresti traditi? Che non
avresti resistito? Perché tu mi assomigli
troppo.
Le premette più forte la schiena contro il
muro. Clary sentiva il petto di lui salire e
scendere contro il suo. Il corpo di Sebastian
era come una prigione attorno al suo, la teneva
immobile. Davanti agli occhi aveva la linea
netta e diritta delle sue clavicole. — Io con te
non c’entro per niente. Lasciami andare…
— Tu con me c’entri per tutto — le ringhiò
nell’orecchio. — Sei un’infiltrata. Hai finto
amicizia, hai finto affetto.
— Non ho mai avuto bisogno di fingere affetto
per Jace.
A quelle parole, Clary vide qualcosa brillare
nello sguardo di Sebastian, una gelosia oscura,
e non sapeva nemmeno di cosa potesse essere
geloso. Lui le mise le labbra sulla guancia,
abbastanza vicine da fargliele sentire mentre le
muoveva quando parlava. — Tu ci hai fottuto
— le mormorò. Le stringeva una mano attorno
al braccio sinistro come una morsa; poi
cominciò a farla scivolare lentamente verso il
basso. — Anzi, con Jace l’hai fatto
letteralmente…
Clary non poté far altro che cercare di
allontanarsi. Lo sentì inspirare di colpo. —
Allora è vero — le disse. — Sei andata a letto
con Jace. — Era come se si sentisse tradito.
— Non sono affari tuoi.
Sebastian allora le prese il viso, girandolo
verso di sé, piantandole le dita nel mento. —
Non puoi scopare qualcuno per farlo diventare
buono. Bella mossa senza cuore, comunque. —
La sua bocca delicata si tese in un freddo
sorriso. — Sai che non si ricorda niente, vero?
Ti ha fatto divertire, almeno? Perché io l’avrei
fatto.
Clary si sentì salire la bile in gola. — Tu sei
mio fratello.
— Parole che, almeno in questo caso, non
significano niente. Noi non siamo umani. Le
loro regole non ci riguardano. Stupide regole
su come può mischiarsi il DNA! Che ipocrisia,
davvero, se ci pensi. I sovrani dell’antico Egitto
si sposavano tra fratelli, sai? Anche Cleopatra
lo fece. Rafforza la linea di discendenza.
Clary lo guardò disgustata. — Già lo sapevo
che eri pazzo — gli disse, — ma non avevo
capito che eri totalmente, assurdamente uscito
fuori da quella cavolo di testa.
— Oh, non c’è niente di assurdo. Con chi
dovremmo stare, se non l’uno con l’altra?
— Jace — rispose lei. — Il mio posto è con
Jace.
Sebastian sbuffò. — Te lo puoi anche tenere.
— Pensavo che avessi bisogno di lui.
— Sì. Ma non per il tuo stesso motivo. — Le
afferrò di colpo la vita con le mani. —
Possiamo dividercelo. Non mi importa quello
che fate. Purché tu sappia che appartieni a me.
Clary sollevò le mani con l’intento di
spingerlo via. — Io non ti appartengo. Io
appartengo a me stessa.
Lo sguardo negli occhi di lui la impietrì. —
Potresti fare di meglio — le disse premendo la
bocca sulla sua, con forza.
Per un istante era tornata a Idris, di fronte
alla tenuta dei Fairchild, quando Sebastian
l’aveva baciata e l’aveva fatta sentire come se
stesse precipitando nelle tenebre, in un tunnel
senza fine. Ai tempi aveva pensato di avere
qualcosa che non andava. Di non poter baciare
nessuno che non fosse Jace. Di essere lei
quella strana.
Ora invece aveva capito. La bocca di
Sebastian si muoveva sopra la sua, dura e
fredda come lo squarcio di un rasoio nelle
tenebre. Si mise in punta di piedi e, con
violenza, gli morse il labbro.
Lui gridò e si allontanò di scatto, portandosi
una mano alla bocca. Sentiva il sapore del
sangue, rame amaro: gli colò giù per il mento
mentre la fissava con occhi increduli. — Tu…
Clary si girò e gli diede un calcione nello
stomaco, sperando gli facesse ancora male per
il pugno di prima. Quando Sebastian si piegò
su se stesso, gli passò di fianco a tutta velocità,
correndo verso le scale. Era quasi arrivata
quando sentì che lui la afferrava per il colletto.
La fece roteare come fosse una mazza da
baseball e la scagliò contro la parete. Lo
scontro fu così violento che la fece cadere sulle
ginocchia, completamente senza fiato.
Sebastian andò di nuovo all’assalto, le mani
piegate lungo i fianchi e gli occhi neri che
rilucevano come quelli di uno squalo. Aveva un
aspetto terrificante: Clary sapeva che sarebbe
stato normale avere paura, ma sentì dentro di
sé un freddo distacco. Era come se il tempo si
fosse fermato. Ricordò il combattimento dal
rigattiere di Praga, come era sparita nel suo
mondo dove ogni movimento era preciso come
quello di un orologio. Sebastian si chinò per
afferrarla, e lei saltò verso l’alto, staccandosi
da terra, distendendo le gambe di lato e
colpendolo così forte alle gambe da fargli
perdere l’equilibrio.
Lui cadde in avanti e lei rotolò via,
rimettendosi in piedi con un balzo. Questa
volta non si prese nemmeno la briga di
correre. Preferì afferrare il vaso di porcellana
che c’era sul tavolo e, appena Sebastian fu in
piedi, glielo tirò in testa. Il soprammobile andò
in frantumi, spruzzando acqua mista a foglie, e
Sebastian barcollò all’indietro, col sangue che
gli sbocciava tra i capelli bianco-argento.
Ringhiò e le saltò addosso. Fu come essere
colpiti da una palla da demolizione. Clary volò
all’indietro, sfondando il tavolo di vetro, e
atterrò sul pavimento in un’esplosione di
schegge e dolore. Lanciò un urlo, mentre
Sebastian le cadeva sopra, premendole il corpo
contro i vetri rotti, le labbra ritratte come una
belva. Prese lo slancio, abbassò un braccio e le
colpì il viso. Il sangue la accecò; il suo sapore
in bocca la soffocò, mentre il sale le pungeva
gli occhi. Sollevò di scatto un ginocchio,
colpendo Sebastian allo stomaco, ma era come
prendere a calci un muro. Lui le afferrò le
mani, costringendola a portarle lungo i fianchi.
— Clary, Clary, Clary — le disse. Ansimava.
Almeno era riuscita a fargli venire il fiatone…
Il sangue gli colava in un lento rivolo da una
ferita al lato della testa, tingendogli i capelli di
rosso. — Non male. A Idris non eri una grande
combattente…
— Togliti…
Le avvicinò il viso e fece saettare la lingua in
fuori. Lei cercò di divincolarsi, ma non riuscì a
muoversi abbastanza in fretta: lui le stava già
leccando il sangue dalla guancia, sorridendo.
Ma sorridere gli lacerò un labbro, e sul mento
colò ancora più sangue. — Mi hai chiesto a chi
appartengo — le sussurrò. — Io appartengo a
te. Il tuo sangue è il mio sangue, le tue ossa
sono le mie ossa. La prima volta che mi hai
visto, avevo un’aria familiare, vero? Come tu
l’avevi per me…
Clary rimase a bocca aperta. — Tu sei pazzo.
— Sta scritto nella Bibbia — le disse. — Tu mi
hai rapito il cuore, o mia sorella, sposa mia; tu
mi hai rapito il cuore con un solo sguardo dei
tuoi occhi, con uno solo dei monili del tuo
collo. — Le sfiorò la gola con le dita,
infilandole poi nella catenina che reggeva
l’anello dei Morgenstern. Clary si chiese se le
avrebbe sfondato la trachea. — Io dormo, ma il
mio cuore veglia: è il mio diletto che bussa.
“Aprimi, sorella mia, mia amica, mia colomba,
mia perfetta”. — Il sangue di lui le stava
colando sulla faccia. Si mantenne immobile, il
corpo che le tremava per lo sforzo, mentre la
mano di Sebastian le scivolava dalla gola,
lungo il collo, giù fino alla vita. Le infilò le dita
dentro il bordo dei jeans. Aveva la pelle calda,
bollente: sentiva che la voleva.
— Tu non mi ami — gli disse Clary. Aveva
parlato con un filo di voce; lui le stava
schiacciando fuori tutta l’aria dai polmoni.
Ricordò quello che aveva detto sua madre, cioè
che ogni emozione mostrata da Sebastian era
finzione. Tutto sommato, lei riusciva ancora a
pensare con la massima lucidità: in silenzio,
ringraziò l’eccitazione da battaglia per aver
fatto quello che doveva fare e per averla
aiutata a mantenere la concentrazione, mentre
Sebastian la nauseava con il suo tocco.
— E a te non importa il fatto che io sono tuo
fratello — le rispose lui. — So quello che
provavi per Jace, anche quando pensavi che
fosse tuo fratello. Tu non puoi mentirmi.
— Jace è molto meglio di te.
— Nessuno è meglio di me. — Sorrise, tutto
sangue e denti bianchi. — Giardino chiuso tu
sei, sorella mia, sposa, giardino chiuso,
fontana sigillata. Ma non più, vero? A quello ci
ha pensato Jace. — Mentre lui armeggiava con
il bottone dei suoi jeans, Clary ne approfittò
per raccogliere da terra una scheggia di vetro
triangolare. La strinse e conficcò il bordo
frastagliato nella spalla di Sebastian.
Il vetro le scivolò sulle dita, lacerandole. Lui
urlò e si allontanò, ma più per la sorpresa che
per il dolore; la divisa lo proteggeva. Clary
tornò a colpire con il vetro, questa volta nella
coscia, e, quando lui arretrò, gli piantò il
gomito dell’altro braccio nella gola. Sebastian
cadde di lato, tossendo, e Clary rotolò,
bloccandolo sotto di sé, mentre gli estraeva la
scheggia di vetro dalla gamba. La abbassò
verso la vena pulsante del collo… e si fermò.
Sebastian stava ridendo. Era sotto di lei e
rideva, una risata che le vibrava in tutto il
corpo. Aveva la pelle coperta di sangue: quello
di Clary che gli colava addosso, il proprio nei
punti dove lei lo aveva ferito, i capelli color
platino
completamente
impiastricciati.
Sebastian lasciò cadere le braccia ai lati,
allargate come ali. Ali di un angelo infranto,
caduto dal cielo.
Disse: — Uccidimi, sorellina. Uccidimi, e
ucciderai anche Jace.
Lei lasciò cadere la scheggia di vetro.
capitolo 20
UNA PORTA NEL BUIO
Clary urlò in preda alla più totale frustrazione
mentre la scheggia di vetro si andava a
piantare nel pavimento di legno, a pochi
centimetri dalla gola di Sebastian.
Lo sentì ridere sotto di sé. — Non puoi farlo
— le disse. — Non puoi uccidermi.
— Tu puoi andare all’Inferno — gli ringhiò
contro. — È Jace che non posso uccidere.
— Stessa cosa — ribatté lui e, mettendosi a
sedere così in fretta che a malapena Clary lo
vide muoversi, la colpì in faccia con una forza
tale da farla slittare sul pavimento cosparso di
schegge. La scivolata si interruppe contro il
muro, dove Clary si sentì soffocare e tossì
sangue.
Si
nascose
la
testa
dietro
l’avambraccio, il sapore e l’odore del proprio
sangue ovunque, metallico e nauseante. Un
secondo dopo, la mano di Sebastian aveva già
impugnato la sua giacca e la stava tirando in
piedi.
Non si oppose. Che senso aveva? Perché
lottare contro una persona che cercava di
ucciderti e sapeva che tu non volevi fare lo
stesso con lei, nemmeno ferirla seriamente?
Avrebbe vinto comunque. Rimase immobile,
mentre lui la esaminava. — Poteva andare
peggio — le disse. — Sembra che la giacca ti
abbia protetto da danni veri.
Danni veri? Si sentiva come se il proprio
corpo fosse stato fatto a pezzi da tanti
coltellini. Lo guardò minacciosa, mentre lui la
sollevava e la prendeva fra le braccia. Era come
a Parigi, quando l’aveva sottratta all’attacco dei
demoni Dahak, ma allora si era sentita, se non
proprio riconoscente, per lo meno confusa.
Adesso invece scoppiava di odio, odio
profondo. Mantenne il corpo in tensione
mentre lui la portava su per le scale, gli stivali
che risuonavano sui gradini. Stava cercando di
dimenticare che la stava toccando, che le stava
tenendo un braccio sotto le cosce e le mani
possessive sulla schiena.
Lo ucciderò, pensava. Troverò un modo e lo
ucciderò. Sebastian entrò in camera di Jace e
la scaricò sul pavimento. Lei indietreggiò
barcollando, ma lui la prese e le strappò la
giacca di dosso. Sotto Clary indossava soltanto
una maglietta, ridotta a un colabrodo come se
l’avesse strofinata con una grattugia,
macchiata dappertutto di sangue.
Sebastian fece un fischio.
— Sei messa male, sorellina — le disse. —
Forse è meglio se vai in bagno a lavarti via un
po’ di quel sangue.
— No — si oppose lei. — Lascia che mi vedano
così. Lascia che vedano cosa hai dovuto fare
per costringermi a venire con te.
Sebastian fece scattare la mano e le prese il
mento, sollevandole il viso. Si guardavano a
pochi centimetri di distanza. Clary avrebbe
voluto chiudere gli occhi, ma si rifiutò di dargli
quella soddisfazione. Lo fissò, i cerchi
d’argento dentro agli occhi neri, il sangue sul
labbro dove lo aveva morso. — Tu appartieni a
me — disse lui, di nuovo. — E ti avrò al mio
fianco, anche se dovrò obbligarti a esserci.
— Perché? — gli chiese Clary, la rabbia amara
sulla lingua quanto il sapore del sangue. —
Cosa ti importa? So che non puoi uccidere
Jace, ma potresti uccidere me. Perché non lo
fai e basta?
Solo per un istante, gli occhi di Sebastian si
fecero distanti, vitrei, come se stesse vedendo
qualcosa di invisibile a lei. — Questo mondo
verrà consumato dalle fiamme dell’Inferno —
disse. — Ma io porterò te e Jace al sicuro
attraverso di esse, se solo farete quello che
voglio. È una grazia che non estendo a nessun
altro. Non capisci quanto sei stupida a
rifiutarla?
— Jonathan — gli disse. — Non capisci che è
impossibile chiedermi ti combattere al tuo
fianco se tu vuoi ridurre il mondo in cenere?
Gli occhi di lui le fissarono intensamente il
viso. — Ma perché? — Il suo tono era quasi
lamentoso. — Perché questo mondo è così
prezioso, per te? Lo sai che ce ne sono altri. —
Il suo sangue sulla pelle diafana spiccava di un
rosso intenso. — Dimmi che mi ami. Dimmi
che mi ami e che combatterai con me.
— Io non ti amerò mai. Ti sbagliavi quando
dicevi che abbiamo lo stesso sangue. Il tuo è
veleno, veleno di demone. — Pronunciò le
ultime parole con disprezzo.
Lui si limitò a sorridere, mentre gli occhi gli
brillavano di un bagliore cupo. Clary sentì
qualcosa bruciarle sulla parte superiore del
braccio e fece un salto prima di accorgersi che
era uno stilo. Lui le stava tracciando un iratze
sulla pelle. Anche se il dolore si attenuava, lei
continuava a odiarlo. Sentiva il braccialetto di
Sebastian risuonargli contro il polso mentre lui
muoveva la mano con perizia per completare
la runa.
— Sapevo che mentivi — gli disse Clary
all’improvviso.
— Io mento spesso, piccola — fu la sua
risposta. — A cosa ti riferisci, in particolare?
— Il braccialetto. Acheronta movebo. Non
significa “Mi muoverò contro i tiranni”. Questa
è una citazione di Virgilio. Flectere si nequeo
superos, Acheronta movebo. “Se non posso
muovere i celesti, muoverò gli inferi”.
— Il tuo latino è meglio di quanto pensassi.
— Imparo in fretta.
— Non abbastanza. — Le lasciò il mento. —
Ora vai in bagno e datti una ripulita — le
ordinò dandole una spinta. Poi prese dal letto
il vestito da cerimonia di sua madre e glielo
buttò fra le braccia. — Il tempo stringe e la mia
pazienza si sta esaurendo. Se non sei qui fra
dieci minuti, vengo a prenderti. E, credimi,
non ti piacerà.
— Sto morendo di fame — disse Maia. — Mi
sento come se non mangiassi da giorni! — Aprì
la porta del frigorifero e ci sbirciò dentro. —
Oh, no…
Jordan la tirò indietro, avvolgendola fra le
sue braccia e strofinandole il naso sulla nuca.
— Possiamo ordinare qualcosa. Pizza, cucina
thailandese, messicana, tutto quello che vuoi.
Purché non costi più di venticinque dollari.
Lei si girò fra le sue braccia, ridendo.
Indossava una delle sue camicie; era un po’
grande persino per lui, e a lei arrivava quasi
alle ginocchia. Si era raccolta i capelli in una
crocchia dietro al collo. — Spendaccione — gli
disse.
— Per te questo e altro. — La sollevò per la
vita e la mise su uno degli sgabelli della cucina.
— Potresti mangiare un taco. — La baciò. Le
labbra di lui erano dolci, con un leggero sapore
di menta, per il dentifricio. Maia sentì la scossa
che le provocava il contatto con la pelle di lui:
cominciava alla base della spina dorsale e si
diffondeva in tutti i nervi.
Ridacchiò contro la sua bocca, mettendogli le
braccia al collo. A un tratto, uno squillo acuto
interruppe il mormorio del suo sangue e
Jordan si mise a rovistare dietro di sé alla
ricerca del telefono. Quando lo trovò, aveva
smesso di suonare, ma lo prese comunque,
corrugando la fronte. — È il Praetor.
Il Praetor non chiamava mai, o almeno lo
faceva di rado. Solo quando c’era qualcosa di
importanza capitale. Maia fece un sospiro e si
appoggiò all’indietro sul bancone. —
Richiamali.
Lui annuì, mentre già si stava portando il
telefono all’orecchio. La voce di Jordan era un
mormorio sommesso che le risuonava nel
profondo della mente mentre saltava giù dallo
sgabello e andava davanti al frigo, dove erano
attaccati i menu del cibo d’asporto. Li
scartabellò finché non trovò quello del
ristorante thailandese che le piaceva. Si girò
tenendolo in mano.
Jordan ora era in piedi al centro del salotto, il
volto bianchissimo, il telefono dimenticato
nella mano. Maia sentì all’altro capo una voce
metallica, distante, che pronunciava il nome di
Jordan.
Maia lasciò cadere il menu e corse da Jordan.
Gli tolse il telefono di mano, interruppe la
comunicazione e lo appoggiò sul bancone. —
Jordan? Che cosa è successo?
— Il mio compagno di stanza… Nick… Ti
ricordi? — disse con sguardo incredulo. — Non
l’hai mai incontrato, ma…
— Ho visto le sue foto — disse Maia. — È
successo qualcosa?
— È morto.
— Come?
— Sgozzato, completamente dissanguato.
Pensano che abbia individuato il soggetto a lui
assegnato e che questo lo abbia ucciso.
— Maureen? — Maia era scioccata. — Ma era
soltanto una ragazzina…
— Adesso è un vampiro — Jordan fece un
respiro profondo. — Maia… — Lei lo stava
guardando. Gli occhi di Jordan erano vitrei, i
capelli arruffati. Dentro le sorse all’improvviso
il panico. Baciarsi, toccarsi e persino fare sesso
erano una cosa; consolare una persona colpita
da un lutto, un’altra. Richiedeva impegno.
Affetto. Desiderio di alleviare il suo dolore e,
allo stesso tempo, gratitudine verso Dio perché
quella cosa brutta non era successa a lei.
— Jordan — disse piano, mettendosi sulle
punte dei piedi e abbracciandolo. — Mi
dispiace.
Il cuore di Jordan batteva forte contro il suo.
— Nick aveva solo diciassette anni.
— Era uno dei Praetor, come te — gli
sussurrò. — Sapeva che era pericoloso. E tu ne
hai solo diciotto. — Jordan strinse la presa su
di lei ma non disse nulla. — Jordan. Io ti amo.
Ti amo e mi dispiace.
Lo sentì irrigidirsi. Era la prima volta che gli
diceva quelle parole da poche settimane prima
di essere stata morsa. Jordan trattenne il
respiro,
poi
lo
rilasciò,
espirando
sonoramente.
— Maia — sospirò. E poi, inaspettatamente,
prima di poter aggiungere altro, il telefono di
lei squillò.
— Non importa — disse. — Non rispondo.
Jordan la lasciò andare, il viso tenero,
attonito per il dolore e lo stupore. — No —
disse, — potrebbe essere importante. Fai pure.
Maia fece un sospiro e andò verso il bancone.
Il telefono smise di suonare quando lo
raggiunse, ma sullo schermo comparve un
messaggio. Sentì i muscoli dello stomaco
contrarsi.
— Cosa c’è? — chiese Jordan, come se avesse
percepito la sua tensione improvvisa. Forse lo
aveva fatto davvero.
— 911, emergenza. — Lei lo guardò, col
telefono in mano. — Chiamata alle armi.
Arrivata a ogni membro del branco. Da parte
di Luke… e di Magnus. Dobbiamo andare
immediatamente.
Clary era seduta sul pavimento del bagno di
Jace, la schiena contro le piastrelle della vasca,
le gambe allungate davanti a sé. Si era ripulita
il viso e il corpo dal sangue, per poi sciacquarsi
i capelli insanguinati nel lavandino. Indossava
l’abito da cerimonia di sua madre, sollevato
fino all’altezza delle cosce, e il pavimento era
freddo contro i piedi e i polpacci nudi.
Si guardò le mani. Avrebbero dovuto essere
diverse, pensò. Ma erano le stesse che aveva
sempre avuto: dita sottili, unghie squadrate
(non le tieni lunghe, se sei un’artista) e
lentiggini sulle nocche. Anche il viso era il
solito. Tutto, in lei, era come sempre. Soltanto
lei stessa non lo era più. Quegli ultimi giorni
l’avevano cambiata in un modo che ancora non
riusciva a comprendere appieno.
Si alzò in piedi e si guardò allo specchio. Era
pallida, tra i colori del fuoco dei capelli e del
vestito. I lividi le decoravano spalle e collo.
— Ti stai rimirando? — Non aveva sentito
Sebastian aprire la porta, ma eccolo lì, con
quel ghigno insopportabile di sempre,
appoggiato allo stipite della porta. Indossava
un tipo di divisa che non aveva mai visto: il
consueto materiale robusto, ma di un colore
scarlatto come sangue fresco. Aveva inoltre
aggiunto un accessorio: una balestra. La
teneva con noncuranza in una sola mano,
anche se doveva essere davvero pesante. —
Stai benissimo, sorella. La compagna giusta
per me.
Lei si mangiò le parole col sapore del sangue
che ancora le indugiava in bocca e camminò
verso di lui. Mentre cercava di oltrepassarlo,
premendosi contro la cornice della porta,
Sebastian la prese per un braccio. La mano le
scivolò sopra la spalla nuda. — Bene — le disse.
— Vedo che qui non sei marchiata. Odio
quando le donne si rovinano la pelle con le
cicatrici. Lascia i marchi a gambe e braccia.
— Preferirei che non mi toccassi.
Lui sbuffò e alzò la balestra con un gesto
veloce. Sopra c’era una freccia, pronta a
colpire. — Cammina — le disse. — Io ti sto
dietro.
Le ci volle fino all’ultimo briciolo di forza che
aveva per non scappare. Si girò e camminò
verso la porta, avvertendo un bruciore fra le
scapole, dove si immaginava fosse puntata la
freccia della balestra. Proseguirono così anche
giù per le scale e attraverso cucina e salotto.
Sebastian fece una smorfia alla vista della runa
che Clary aveva tracciato sulla parete; mise
una mano davanti a lei e fece comparire una
porta. Si aprì da sola, dando su un quadrato di
tenebra.
La balestra pungolò Clary con forza nella
schiena. — Muoviti.
Lei fece un respiro profondo, e avanzò nel
buio.
Alec premette l’intera mano sul bottone del
piccolo ascensore a gabbia e si abbandonò con
le spalle al muro. — Quanto tempo abbiamo?
Isabelle controllò lo schermo luminoso del
suo cellulare. — Circa quaranta minuti.
Mentre l’ascensore cigolava verso l’alto, la
ragazza lanciò un’occhiata furtiva al fratello.
Lui aveva l’aria stanca, con semicerchi bluastri
sotto gli occhi. Malgrado forza e altezza, Alec,
coi suoi occhi azzurri e i suoi soffici capelli neri
che gli arrivavano fin quasi al collo, sembrava
più fragile di quanto non fosse. — Sto bene —
le disse, rispondendo alla tacita domanda di
Isabelle. — Sei l’unica che avrà dei problemi
per essere rimasta via da casa. Io ho compiuto
diciotto anni, posso fare quello che mi pare.
— Ho mandato un messaggio alla mamma
tutte le sere, dicendole che ero con te e con
Magnus — rispose lei quando l’ascensore si
fermò. — Non è che non sapesse dove fossi.
Quanto a Magnus…
Alec allungò un braccio davanti alla sorella e
aprì la porta interna dell’ascensore. — Cosa?
— Tutto bene, fra voi? Cioè, andate d’accordo
e tutto quanto?
Alec le lanciò uno sguardo incredulo mentre
lei usciva sul pianerottolo. — Sta per andare
tutto quanto a ramengo e tu vuoi sapere come
va la mia storia con Magnus?
— Mi sono sempre chiesta cosa volesse dire
quell’espressione…
—
disse
Isabelle,
pensierosa, seguendo a passi rapidi il fratello
lungo il corridoio. Alec aveva gambe lunghe,
molto lunghe e, benché pure lei fosse veloce,
certe volte era difficile stargli dietro. — Perché
a ramengo? Che vuol dire? E, se è un posto,
cosa ci sarà?
Alec, che era stato parabatai di Jace
abbastanza a lungo da aver imparato a
ignorare le conversazioni che rischiavano di
partire per la tangente, disse: — Io e Magnus
andiamo bene, credo.
— Oh-oh — fece Isabelle. — Bene, credo? Lo
so che cosa intendi, quando dici così. Che cosa
è successo? Avete litigato?
Mentre
camminavano
veloci,
Alec
tamburellava le dita contro la parete, segnale
inconfondibile di nervosismo. — Smettila di
intrometterti nella mia vita privata, Iz. E tu,
invece? Perché tu e Simon non state insieme?
È ovvio che lui ti piace.
Isabelle fece un verso di sorpresa. — Io non
sono ovvia!
— E invece sì — ribatté Alec, come se la cosa,
ora che ci pensava, sorprendesse anche lui. —
Lo guardi con certi occhioni trasognati… E poi,
come sei impazzita, al lago, quando è
comparso l’Angelo…
— Pensavo che Simon fosse morto!
— Più morto, vuoi dire? — ribatté Alec
bruscamente. Vedendo l’espressione sul viso di
sua sorella, scrollò le spalle. — Ascolta, se ti
piace, bene. Solo che non capisco perché non
vi frequentate ufficialmente.
— Perché io non piaccio a lui.
— Certo che sì, invece. Non esiste un ragazzo
a cui tu non piaci.
— Scusami, eh, ma credo che il tuo sia un
giudizio un po’ di parte…
— Isabelle — disse lui, e ora nella sua voce
c’era gentilezza, il tono che Isabelle
normalmente attribuiva a suo fratello: affetto
misto a esasperazione. — Tu lo sai di essere
stupenda. I ragazzi ti danno la caccia da… da
sempre. Perché Simon dovrebbe essere
diverso?
Lei fece spallucce. — Non lo so. Però è così.
Penso che il coltello dalla parte del manico
l’abbia lui. Sa cosa provo. Ma non credo che
abbia fretta di fare qualcosa, in proposito...
— Però non ha altre storie in giro.
— Lo so, ma… è sempre stato così. Clary…
— Credi che sia ancora innamorato di lei?
Isabelle si mordicchiò un labbro. — Io credo…
no, non proprio. Lei è l’unica cosa che gli resta
della sua vita umana, non può perderla. E
finché sarà così, non so se c’è spazio per me.
Erano quasi arrivati in biblioteca. Alec lanciò
a Isabelle uno sguardo in tralice, da sotto le
lunghe ciglia. — Ma sono soltanto amici…
— Alec — Isabelle alzò una mano, facendo
segno al fratello di tacere. Dalla biblioteca
provenivano delle voci, la prima stridula e
immediatamente identificabile con quella della
loro madre:
— Cosa vuol dire scomparsa?
— Nessuno la vede da due giorni — disse
un’altra voce femminile, pacata, in un leggero
tono di scuse. — Vive sola, perciò non si sa con
certezza, ma abbiamo pensato, dato che
conosci suo fratello…
Senza aspettare oltre, Alec aprì a braccio teso
la porta della libreria. Isabelle gli passò
davanti e vide sua madre seduta dietro
l’imponente scrivania di mogano al centro
della stanza. Davanti a lei, in piedi, due figure
familiari: Aline Penhallow, con indosso la
divisa, e accanto a lei Helen Blackthorn, coi
capelli ricci scompigliati. Si voltarono
entrambe, sorprese, sentendo la porta aprirsi.
Helen era pallida sotto le lentiggini; la divisa
che anche lei indossava, poi, la faceva
sembrare ancora più esangue.
— Isabelle! — esclamò Maryse alzandosi in
piedi. — Alexander. Che cosa è successo?
Aline prese la mano di Helen. Due anelli
d’argento luccicarono sulle loro dita: quello dei
Penhallow, col caratteristico disegno di
montagne, su quelle di Helen; le spine
intrecciate della famiglia Blackthorn su quelle
di Aline. Isabelle sentì che le sue sopracciglia si
stavano sollevando. Scambiarsi gli anelli di
famiglia era una cosa seria. — Se siamo di
troppo, possiamo andarcene… — fece Aline.
— No, restate — chiese Izzy, andando verso di
loro. — Potremmo avere bisogno di voi.
Maryse si sistemò sulla sedia. — E dunque i
miei figli mi degnano della loro presenza. Dove
siete stati? — chiese.
— Te l’ho detto — rispose Isabelle. —
Eravamo da Magnus.
— E come mai? — incalzò Maryse. — Non lo
sto chiedendo a te, Alexander. Lo sto
chiedendo a mia figlia.
— Perché il Conclave ha smesso di cercare
Jace — rispose Isabelle. — Ma noi no.
— E Magnus voleva aiutarci — aggiunse Alec.
— Tutte queste notti non ha dormito per
consultare i suoi libri di magia, cercando di
capire dove potesse trovarsi Jace. Ha persino
evocato…
— No — lo interruppe Maryse alzando una
mano. — Non dirmelo. Non voglio saperlo. —
Il telefono nero sulla scrivania cominciò a
squillare e tutti ci posarono sopra lo sguardo.
Una telefonata da quell’apparecchio era una
telefonata da Idris. Nessuno si mosse per
rispondere e, un istante dopo, era tornato il
silenzio. — Perché siete qui? — chiese Maryse,
rivolgendo di nuovo l’attenzione ai suoi figli.
— Stiamo cercando Jace — ripeté Isabelle.
— Quello è un compito che spetta al Conclave
— scattò Maryse. Isabelle notò che sua madre
aveva l’aria stanca, la pelle tirata e sottile sotto
gli occhi. Le rughe agli angoli della bocca
conferivano alla linea delle sue labbra
un’espressione triste. Era così magra che, dai
polsi, sembravano sbucare le ossa. — Non
vostro.
Alec picchiò la mano sul tavolo abbastanza
forte da far tremare i cassetti. — Ma vuoi starci
a sentire? Il Conclave non ha trovato Jace, noi
invece sì. E con lui Sebastian. Sappiamo anche
cos’hanno in mente, e abbiamo… — si
interruppe per controllare l’orologio alla
parete — pochissimo tempo per fermarli. Ci
vuoi aiutare o no?
Il telefono nero suonò di nuovo. E di nuovo
Maryse non fece nemmeno l’accenno di voler
rispondere. Stava fissando Alec, bianca in
volto per lo shock. — Avete fatto cosa?!
— Sappiamo dov’è Jace, mamma —
intervenne Isabelle. — O per lo meno dove
sarà. E anche cosa farà. Siamo al corrente del
piano di Sebastian e dobbiamo fermarlo. Ah,
abbiamo anche scoperto come possiamo
ucciderlo senza far male a Jace…
— Basta — Maryse scosse la testa. —
Alexander, spiegati. Conciso e senza isterismi,
grazie.
Alec iniziò il suo racconto, tralasciando,
secondo Isabelle, tutte le parti migliori, cosa
che gli permise di riassumere il tutto in
maniera efficace. Nonostante la brevità,
quando ebbe terminato, sia Aline che Helen
erano a bocca aperta. Maryse rimase in
silenzio, immobile. A un tratto, disse con un
filo di voce:
— Perché avete fatto queste cose?
Alec sembrò preso alla sprovvista.
— Per Jace — rispose Isabelle. — Per farlo
tornare.
— Vi rendete conto che, mettendomi in
questa situazione, non mi date altra scelta se
non di avvertire il Conclave? — ribatté Maryse,
con la mano ferma sul telefono nero. — Avrei
preferito che non foste venuti.
Isabelle si sentì la bocca asciutta. — Sei
davvero arrabbiata con noi perché ti abbiamo
finalmente raccontato tutto quello che sta
succedendo?
— Se avverto il Conclave, loro manderanno
rinforzi. Jia non potrà fare altro che ordinare
di sparare a vista su Jace. Avete un’idea di
quanti Shadowhunters appoggiano il figlio di
Valentine?
Alec scosse la testa. — Forse una quarantina,
sembrerebbe.
— Supponiamo di presentarci con il doppio
delle forze. Saremmo abbastanza sicuri di
sconfiggerlo, ma cosa succederebbe a Jace?
Praticamente non ci sono possibilità che ne
esca vivo. Lo ucciderebbero anche solo per
sicurezza.
— E allora non possiamo avvisarli. Andremo
da soli. Lo faremo senza il Conclave — dichiarò
Isabelle.
Maryse, senza smettere di guardare la figlia,
stava scuotendo la testa. — La Legge dice che
dobbiamo informarli.
— Non mi importa della Legge — esordì lei
con rabbia. Poi notò che Aline la stava
guardando, così chiuse la bocca.
— Non ti preoccupare — disse la ragazza, —
non dirò niente a mia madre. Io sono in debito
con voi. Specialmente con te, Isabelle. — Aline
irrigidì il mento; Isabelle si ricordò le tenebre
sotto un ponte, a Idris, e la sua frusta che si
abbatteva su un demone che aveva già gli
artigli sopra la ragazza. — E poi Sebastian ha
ucciso mio cugino. Il vero Sebastian Verlac.
Perciò anch’io ho i miei buoni motivi per
odiarlo.
— Non importa — fece Maryse. — Se non lo
diciamo, andiamo contro la Legge. Potrebbero
sanzionarci, o peggio.
— Peggio? — chiese Alec. — Di cosa stiamo
parlando? Esilio?
— Non lo so, Alexander — rispose sua madre.
— La decisione spetterebbe a Jia Penhallow e a
chiunque si aggiudicherà il ruolo di
Inquisitore.
— Magari sarà papà — mormorò Izzy. — E
magari non sarà troppo severo.
— Se non li avvertiamo di questa situazione,
Isabelle, non ci sono possibilità che tuo padre
diventi Inquisitore, neanche una — osservò
Maryse.
Izzy fece un respiro profondo. — Potremmo
rischiare di farci togliere i marchi?
Potremmo… perdere l’Istituto?
— Isabelle — disse sua madre. — Potremmo
perdere tutto.
Clary batté le palpebre per adattare gli occhi
all’oscurità. Era in piedi su una spianata
rocciosa, sferzata dal vento, senza niente che
potesse frenarne l’impeto. Zolle d’erba
spuntavano qua e là tra lastre di roccia grigia.
In lontananza sorgevano delle colline carsiche
brulle, coperte di detriti, nere e ferrose contro
il cielo notturno. Davanti a sé, delle luci. Clary
riconobbe il bagliore accecante e intermittente
della
stregaluce,
mentre
la
porta
dell’appartamento si chiudeva di colpo alle
loro spalle.
Ci fu il suono di un’esplosione smorzata.
Clary si voltò di scatto e vide che la porta era
svanita; al suo posto era rimasta una chiazza di
bruciato ed erba ancora fumante. Sebastian la
fissava in preda al più totale stupore. — Che
cosa…
Clary rise. Una tetra gioia le salì dal profondo
quando scorse l’espressione sul viso di
Sebastian. Non lo aveva mai visto così
scioccato, l’arroganza sparita, il viso che non
poteva nascondere lo sgomento.
Tornò ad alzare la balestra contro di lei, a
pochi centimetri dal petto. Se l’avesse colpita
da quella distanza, la freccia le avrebbe
trapassato il cuore, uccidendola all’istante. —
Che cosa hai fatto?
Clary lo guardò trionfante. — Quella runa,
quella che pensavi essere una runa di Apertura
incompleta. Ti sbagliavi. Era soltanto una cosa
che non avevi mai visto prima. Una runa
creata da me.
— Una runa per cosa?
Clary ricordò il momento in cui aveva
appoggiato la punta dello stilo sul muro, la
forma della runa a cui aveva pensato la sera in
cui Jace l’aveva raggiunta da Luke. — Per
distruggere la casa nell’istante in cui qualcuno
avrebbe aperto la porta. Ora è sparita, non
puoi più usarla. Nessuno può farlo.
— Sparita? — La balestra vibrò. Le labbra di
Sebastian si contrassero, lo sguardo gli si
accese di rabbia. — Stronza. Sei una piccola…
— Uccidimi — lo provocò lei. — Fatti avanti. E
poi vallo a spiegare a Jace. Ti sfido.
Sebastian la guardò, il petto ansante, le dita
che gli tremavano sul grilletto. Lentamente,
spostò la mano. Aveva gli occhi piccoli e
furiosi. — Ci sono cose peggiori della morte —
le disse. — E io te le farò passare tutte,
sorellina, dopo aver bevuto dalla Coppa. E,
vedrai… ti piaceranno.
Clary gli sputò addosso. Lui le premette con
forza la punta della freccia contro il petto,
facendole male. — Girati — ringhiò. Lei lo fece,
stordita da un misto di terrore e trionfo,
mentre lui la spingeva giù per una discesa
rocciosa. Indossava ancora delle pantofole
leggere e, sotto i piedi, sentiva ogni singolo
sasso o crepa del suolo. Avvicinandosi alla
stregaluce, vide finalmente la scena che si
presentava davanti ai loro occhi.
Il terreno si inerpicava trasformandosi in una
bassa collina in cima alla quale, rivolto verso
nord, sorgeva un enorme dolmen. Le ricordava
un po’ Stonehenge: due pietre verticali ne
reggevano una terza orizzontale, così che
l’intera struttura ricordava una porta. Davanti
c’era una lastra orizzontale, simile a un palco
disteso sopra l’erba e lo scisto. Davanti a quella
pietra, vide un semicerchio di circa quaranta
Nephilim vestiti di rosso e con in mano torce
di
stregaluce.
All’interno
di
quello
schieramento, sul suolo scuro, brillava un
pentagramma bianco-azzurro.
In piedi, sulla lastra orizzontale, c’era Jace.
Indossava una divisa scarlatta, come quella di
Sebastian; non erano mai stati così simili.
Clary riconobbe lo splendore dei suoi capelli
persino da quella distanza. Lui stava
camminando
sul
bordo
della
lastra;
avvicinandosi, con Sebastian che la pungolava
da dietro, Clary riuscì a sentire cosa stava
dicendo.
— … gratitudine per la vostra lealtà, anche
dopo questi ultimi, difficili anni, e gratitudine
per aver creduto in nostro padre e, ora, nei
suoi figli. E in sua figlia.
Un mormorio si diffuse tra i presenti.
Sebastian spinse Clary in avanti; camminarono
fra le ombre e poi salirono sulla pietra
mettendosi dietro a Jace. Quando lui li vide,
prima di dare le spalle ai presenti, chinò il
capo. Stava sorridendo. — Voi siete coloro che
verranno salvati — annunciò. — Mille anni fa,
l’Angelo ci diede il suo sangue per renderci
speciali, per renderci dei guerrieri. Ma non è
stato abbastanza. Mille anni sono trascorsi, e
ancora dobbiamo nasconderci nell’ombra.
Proteggiamo mondani che non amiamo da
forze di cui loro restano all’oscuro, mentre una
Legge antica, fossilizzata, ci impedisce di
manifestarci come loro salvatori. Moriamo a
centinaia, senza un grazie e senza una lacrima,
se non da parte dei nostri simili, e senza
ricorrere all’Angelo nostro creatore. — Si
avvicinò al bordo della piattaforma di roccia,
davanti agli Shadowhunters disposti a
semicerchio. I capelli di Jace sembravano un
fuoco lucente. — Sì. Oso dirlo. L’Angelo che ci
ha creati non ci aiuterà: noi siamo soli. Persino
più soli dei mondani, perché, come disse una
volta uno dei loro grandi scienziati, sono come
bambini che giocano con i sassi sulla spiaggia,
mentre tutto attorno il grande oceano della
verità giace sconosciuto. Ma noi la verità la
conosciamo. Siamo i salvatori di questa Terra,
e dovremo governarla.
Jace era un ottimo oratore, pensò Clary
avvertendo una fitta al cuore, così come lo era
stato Valentine. Ora lei e Sebastian erano alle
sue spalle, con lo sguardo rivolto verso la
distesa e la folla dei presenti. Riusciva a sentire
gli occhi degli Shadowhunters puntati su
entrambi.
— Sì, governarla. — Jace sorrise. Era un
sorriso adorabile e spontaneo, pieno di
fascino, ma intriso di oscurità. — Raziel è
crudele e indifferente nei confronti delle
nostre sofferenze. È tempo di voltargli le spalle
e di rivolgersi a Lilith, la Grande Madre, che ci
darà forza senza punizioni, supremazia senza
Legge. Il nostro diritto di nascita è il potere. Ed
è giunto il momento di rivendicarlo.
Guardò di lato con un sorriso, mentre
Sebastian si faceva avanti. — E ora lascerò che
sia Jonathan, mente di questo sogno, a
raccontarvi il resto — annunciò con
disinvoltura mentre retrocedeva per lasciare il
posto a Sebastian. Con un altro passo indietro
si trovò accanto a Clary, e abbassò una mano
per intrecciarla con la sua.
— Bel discorso — gli mormorò lei. Sebastian
stava parlando, ma Clary lo ignorava e si
concentrava soltanto su Jace. — Molto
convincente.
— Credi? Stavo per esordire con “Amici,
Romani, malfattori…”, ma non credo che
avrebbero capito la battuta.
— Pensi che siano davvero dei malfattori?
Lui scrollò le spalle. — Per il Conclave, sì. —
Distolse lo sguardo da Sebastian e lo posò su di
lei. — Sei bellissima — le disse, ma lo fece con
un tono di voce stranamente freddo. — Che
cosa è successo?
Clary fu colta alla sprovvista. — In che senso?
Lui aprì la giacca. Sotto portava una camicia
bianca, macchiata di rosso sul fianco e sulla
manica. Clary notò che fece attenzione a
nascondersi dalla folla, mentre le mostrava il
sangue. — Sento quello che sente lui — le
ricordò. — Te ne eri scordata? Mi sono dovuto
fare un iratze senza farmi vedere. È stato come
se qualcuno mi stesse tagliando la pelle con
una lama di rasoio…
Clary incontrò il suo sguardo. Non aveva
senso mentire, no? Tanto non c’era ritorno, né
letteralmente né in senso figurato. — Io e
Sebastian abbiamo litigato.
Lui le scrutò il viso. — Be’ — disse lasciando
che la giacca si chiudesse, — spero che abbiate
risolto, qualunque cosa fosse.
— Jace… — fece per dire lei, ma il ragazzo
aveva già rivolto tutta l’attenzione a Sebastian.
Il suo profilo era nitido e freddo al chiarore
della luna, come una sagoma ritagliata nella
carta nera. Di fronte a loro Sebastian, che
aveva appoggiato la balestra e alzato le braccia.
— Siete con me? — gridò.
Un mormorio si diffuse tra la folla. Clary si
irrigidì. Uno del gruppo dei Nephilim, un
uomo piuttosto anziano, buttò all’indietro il
cappuccio e fece un’espressione corrucciata. —
Tuo padre ci aveva fatto tante promesse,
nessuna mantenuta. Perché ora dovremmo
credere a te?
— Perché io manterrò le mie promesse.
Questa notte stessa — dichiarò Sebastian. Da
sotto la casacca estrasse la copia della Coppa
Mortale, che alla luce della luna emanava un
debole chiarore.
A quel punto i mormorii si fecero più intensi.
Jace disse a Clary: — Spero vada tutto liscio.
Mi sento come se la scorsa notte non avessi
chiuso occhio.
Jace era rivolto verso la folla e il
pentagramma, con un’espressione di acceso
interesse sul viso. Al chiarore della stregaluce,
i suoi lineamenti erano delicatamente
squadrati. Clary osservò la cicatrice sulla
guancia, le infossature delle tempie, la forma
adorabile della bocca. Non me ne ricorderò, le
aveva detto. Quando sarò tornato come
prima, sotto il suo controllo, non ricorderò di
essere stato me stesso. Ed era vero. Aveva
dimenticato ogni dettaglio. Anche se Clary se
lo aspettava, anche se lo aveva visto
dimenticare, il dolore della realtà pungeva
forte dentro di lei.
Sebastian scese dalla roccia e si avvicinò al
pentagramma, al bordo del quale iniziò a
recitare: — Abyssum invoco. Lilith invoco.
Mater mea, invoco.
Estrasse dalla cintura un pugnale sottile.
Infilandosi la Coppa sottobraccio, usò la lama
per incidersi il palmo della mano. Il sangue
sgorgò, nero al chiarore della luna. A quel
punto, si rimise il coltello nella cintura e tenne
la mano grondante sopra la Coppa, senza
smettere di recitare formule latine.
Ora o mai più, pensò Clary. — Jace —
sussurrò. — So che questo non sei davvero tu.
So che c’è una parte di te che non è d’accordo
con quello che sta succedendo. Cerca di
ricordare chi sei, Jace Lightwood.
Lui girò di scatto la testa e la guardò stupito.
— Ma cosa stai dicendo?
— Ti prego, cerca di ricordare, Jace. Io ti amo.
Tu ami me…
— Certo che ti amo, Clary — le disse con una
punta di irritazione nella voce. — Ma mi avevi
detto che capivi. E ora eccoci qui. Il culmine di
tutto quello per cui abbiamo lavorato.
Sebastian gettò il contenuto della Coppa al
centro del pentagramma. — Hic est enim calix
sanguinis mei.
— Abbiamo? Non io — ribatté Clary. — Io non
faccio parte di questa cosa. E nemmeno tu…
Jace inspirò bruscamente. Per un istante,
Clary pensò che fosse per le parole che gli
aveva appena detto, magari capaci, chissà
come, di oltrepassare il muro, ma poi,
seguendo il suo sguardo, vide che al centro del
pentagramma era comparsa una sfera di fuoco
rotante. Era grande all’incirca come una palla
da baseball, ma cresceva sotto i suoi occhi
allungandosi e modellandosi, finché non
assunse la sagoma di una donna, una donna
interamente composta di fiamme.
— Lilith — disse Sebastian con voce
squillante. — Come tu mi avevi evocato, ora io
evoco te. Come tu mi avevi dato la vita, ora io
la do a te.
A poco a poco le fiamme si scurirono. Davanti
a tutti i presenti ora c’era Lilith, alta la metà di
un normale essere umano, completamente
nuda ma coi capelli neri che le ricadevano a
cascata fino alle caviglie. Aveva il corpo grigio
come cenere, percorso da linee nere simili a
lava vulcanica. Rivolse gli occhi a Sebastian, ed
erano serpenti color carbone che si
contorcevano.
— Figlio mio — sussurrò.
Fu come se lui si illuminasse, quasi fosse una
stregaluce umana: carnagione pallida, capelli
chiari, vestiti che sotto la luna sembravano
neri. — Madre, ti ho evocata come mi hai
chiesto. Questa notte non sarai soltanto madre
mia, bensì madre di una nuova razza. — Indicò
gli Shadowhunters in attesa, i quali,
probabilmente
per
lo
shock,
erano
completamente immobili. Un conto era sapere
che si stava per evocare un Demone Superiore,
un altro vederne uno per davvero. — La Coppa
— disse Sebastian, porgendola, col bordo
bianco macchiato del proprio sangue, alla
madre.
Lilith fece una risata soffocata, il suono di due
enormi blocchi di roccia in attrito l’uno contro
l’altro. Prese la Coppa e, con la disinvoltura
con cui si potrebbe togliere un insetto da una
foglia, si morse il polso color cenere. Molto
lentamente cominciò a sgorgare del sangue
nero e melmoso che andò a schizzare l’interno
della Coppa, la quale sembrò trasformarsi:
sotto la mano di Lilith, divenne più scura e
perse
la
sua
trasparenza
cristallina,
assumendo la torbidezza del fango. — Come la
Coppa Mortale è stata per gli Shadowhunters
un
talismano
e
uno
strumento
di
trasformazione, così sia, per te, questa Coppa
Infernale — pronunciò con la sua voce roca,
sferzata dal vento. Si inginocchiò, porgendo
l’oggetto a Sebastian. — Prendi il mio sangue e
bevilo.
Sebastian le prese la Coppa dalle mani. Ormai
era diventata nera, un nero luccicante come
ematite.
— Come cresce il tuo esercito, così farà anche
la mia potenza — sibilò Lilith. — Presto sarò
abbastanza forte da ritornare per davvero. E a
quel punto divideremo il fuoco del potere,
figlio mio.
Sebastian chinò la testa. — Proclamiamo la
tua morte, madre mia, e professiamo la tua
resurrezione.
Lilith scoppiò in una risata, sollevando le
braccia. Il fuoco le lambì il corpo e lei si
proiettò in aria, esplodendo in particelle di
luce che si smorzarono come i tizzoni di un
focolare quasi spento. Quando furono
completamente scomparsi, Sebastian diede un
calcio al pentagramma, spezzandone il
contorno, e sollevò la testa. Sulla bocca aveva
un sorriso tremendo.
— Cartwright — disse. — Portami il primo.
La folla si aprì e un uomo con indosso una
tunica si fece avanti con una donna che gli
arrancava accanto. La teneva legata al suo
braccio per mezzo di una catena; lunghi capelli
arruffati le nascondevano il viso. Clary si
irrigidì completamente. — Jace, cosa significa?
Che cosa sta succedendo?
— Niente — le disse lui, guardando in avanti
con occhi assenti. — Nessuno si farà male.
Cambierà soltanto. Stai a vedere.
Cartwright, il cui nome Clary ricordava
vagamente dai tempi di Idris, mise una mano
sulla testa della prigioniera e la costrinse a
inginocchiarsi. Poi si chinò a sua volta e le
afferrò i capelli, strattonandole la testa verso
l’alto. La donna guardò Sebastian, con terrore
misto a sfida, il viso perfettamente illuminato
dalla luna.
Clary rimase senza fiato. — Amatis!
capitolo 21
SCATENARE L’INFERNO
La sorella di Luke alzò lo sguardo e puntò i
suoi occhi azzurri, così simili a quelli del
fratello, su Clary. Appariva frastornata,
scioccata, l’espressione leggermente distante,
come se l’avessero drogata. Cercava di
rimettersi in piedi, ma ogni volta Cartwright la
ributtava giù. Sebastian andò verso di loro con
in mano la Coppa.
Clary fece per raggiungerli, ma Jace la prese
per un braccio e la trattenne. Lei allora gli tirò
un calcio, ma lui l’aveva già presa in braccio
mettendole una mano sulla bocca. Sebastian
stava parlando ad Amatis con voce profonda,
ipnotica. La donna scuoteva la testa con
violenza, ma Cartwright la prese per i lunghi
capelli e la strattonò all’indietro. Clary la sentì
urlare, un suono flebile sopra quello del vento.
Ripensò alla notte in cui era rimasta alzata a
guardare il petto di Jace che si alzava e si
abbassava, riflettendo su come avrebbe potuto
mettere fine a tutto con un unico colpo di
lama. Ma “tutto” non aveva un viso, una voce,
un piano. Ora che il volto era quello della
sorella di Luke, ora che Clary sapeva dello
scopo finale, era troppo tardi.
Sebastian teneva una mano stretta a pugno
sui capelli di Amatis, dietro la nuca, e con
l’altra le spingeva la Coppa contro la bocca.
Mentre la forzava a deglutire, lei aveva conati
di vomito e tossiva, il liquido nero che le colava
lungo il mento.
Sebastian ritrasse la Coppa, ma solo perché
aveva raggiunto il suo scopo. Amatis emise un
suono stridulo, tremendo, mentre il corpo le si
contorceva. Gli occhi le uscirono dalle orbite,
diventando neri come quelli di Sebastian. Si
picchiò le mani contro il viso, si lasciò sfuggire
un lamento, dopodiché Clary vide con stupore
che la runa della Chiaroveggenza le stava
scomparendo dalla mano. Divenne sempre più
chiara, finché a un certo punto non ne rimase
più traccia.
Amatis riabbassò le mani. L’espressione del
viso era tornata distesa, e gli occhi, di nuovo
azzurri, puntarono su Sebastian.
— Liberala — ordinò a Cartwright, lo sguardo
fisso su Amatis. — Lascia che venga da me.
Cartwright aprì la catena che lo legava ad
Amatis e fece un passo indietro, con un curioso
misto di apprensione e interesse sul viso.
Amatis rimase ferma un istante, le mani a
penzoloni lungo i fianchi. Poi si alzò in piedi e
camminò verso Sebastian. Gli si inginocchiò
davanti, i capelli che toccavano terra. —
Padrone — disse. — Come posso servirti?
— Alzati — le disse Sebastian, e Amatis
obbedì con grazia. Era come se, tutt’a un
tratto, si muovesse in maniera diversa. Tutti
gli Shadowhunters erano particolarmente agili,
ma lei ora disponeva di una silenziosa
leggiadria che Clary trovava stranamente
inquietante. Era in piedi, di fronte a Sebastian.
Per la prima volta, Clary vide che quello che
aveva scambiato per un lungo abito bianco era
in realtà una camicia da notte, come se la
donna fosse stata svegliata e rapita dal suo
letto. Che incubo, ritrovarsi lì, fra quelle figure
incappucciate, circondata da un paesaggio
aspro e desolato. — Vieni da me — le fece
cenno Sebastian. Lei avanzò. Era più bassa di
lui di almeno una testa, e dovette allungare il
collo per sentire quello che le stava
sussurrando. Un freddo sorriso le si dipinse in
volto.
Sebastian sollevò una mano. — Vuoi
combattere contro Cartwright?
Lui lasciò cadere la catena e portò la mano
sulla cintura delle armi sotto il mantello. Era
giovane, coi capelli biondicci e la mascella
squadrata. — Ma io…
— Non c’è niente di male ad avere una
dimostrazione del suo potere — disse
Sebastian. — Su, Cartwright. È una donna, e
anche più vecchia di te. Non avrai mica paura?
L’altro sembrava perplesso, ma estrasse
comunque un lungo pugnale dalla cintura. —
Jonathan…
Lo sguardo di Sebastian si accese come un
lampo. — Attaccalo, Amatis.
Le labbra di lei si incurvarono. — Con piacere
— disse, poi scattò. Aveva una velocità
eccezionale. Saltò in aria e slanciò un piede in
avanti, facendo cadere a terra il pugnale di
Cartwright. Clary rimase a osservarla
sbalordita mentre si scagliava verso l’alto e
infilava
un
ginocchio
nello
stomaco
dell’avversario, che barcollò all’indietro. Gli
tirò una testata, girandogli attorno per
strattonarlo forte da dietro e mandarlo al
tappeto. Cartwright atterrò ai suoi piedi con un
tonfo spaventoso e gemette di dolore.
— Questo per avermi tirata fuori dal letto in
piena notte — disse Amatis passandosi il dorso
della mano sul labbro, che sanguinava
leggermente. La folla fu percorsa dal debole
suono di una risata forzata.
— Lo avete visto — annunciò Sebastian. —
Anche uno Shadowhunter senza particolari
capacità – e non me ne volere, Amatis – può
diventare più forte e veloce di una sua
controparte alleata con gli angeli. — Picchiò
con forza un pugno nel palmo dell’altra mano.
— Potere. Vero potere. Chi è pronto a
riceverlo?
Seguì un attimo di esitazione, poi Cartwright
si alzò in piedi a fatica tenendosi una mano
sopra lo stomaco. — Io — annunciò, lanciando
ad Amatis uno sguardo velenoso e ricevendo in
cambio un semplice sorriso.
Sebastian innalzò la Coppa Infernale. — E
allora vieni avanti.
L’altro obbedì e, mentre avanzava, gli altri
Shadowhunters ruppero le righe accalcandosi
disordinatamente davanti a Sebastian. Amatis
se ne stava serenamente in piedi lì accanto,
con le mani congiunte. Clary la fissava,
sperando di essere ricambiata. Era la sorella di
Luke. Se le cose fossero andate come previsto,
a quel punto sarebbe stata sua zia acquisita.
Amatis. Clary ripensò alla sua casetta di Idris
che dava sul canale, al suo modo di essere così
gentile, a tutto l’amore che provava per il
padre di Jace. Ti prego, guardami, pensò.
Dimostrami che sei ancora te stessa. Come se
Amatis avesse sentito la sua preghiera
interiore, sollevò la testa e la guardò negli
occhi.
Sorrise. Non un sorriso gentile o rassicurante.
Il suo era un sorriso freddo, oscuro,
silenziosamente divertito. Quello di qualcuno,
pensò Clary, che avrebbe potuto guardarti
affogare senza muovere un dito per aiutarti.
Non era l’espressione di Amatis. Anzi, quella
non era affatto Amatis: lei non c’era più.
Jace le aveva tolto la mano dalla bocca, ma
Clary non voleva gridare. Nessuno, lì, l’avrebbe
aiutata, e la persona che la stava tenendo fra le
braccia, intrappolandola con il corpo, non era
il vero Jace. Il modo in cui un vestito
manteneva la forma del suo proprietario anche
se non veniva più indossato per molto tempo,
o il modo in cui, su un cuscino, restava
impresso il contorno della testa di chi ci aveva
dormito, anche a distanza di anni dalla sua
morte: ecco cosa era rimasto di Jace. Un
contenitore vuoto che lei aveva riempito con i
suoi desideri, il suo amore, i suoi sogni.
E mentre lo faceva, aveva commesso un grave
torto nei confronti del vero Jace. Durante la
sua missione per salvarlo, quasi si era
dimenticata chi voleva salvare. Invece
ricordava bene quello che lui le aveva detto in
quei pochi minuti durante i quali era tornato
se stesso: Odiavo l’idea che stesse con te. Lui.
L’altro me. Jace sapeva che erano due
individui diversi, e che, privato dell’anima, non
era più se stesso.
Aveva cercato di consegnarsi al Conclave, ma
lei glielo aveva impedito. Non aveva ascoltato i
suoi desideri. Aveva scelto per lui. In un
momento di fuga e di panico, certo, ma aveva
scelto lei, senza rendersi conto che il suo Jace
avrebbe preferito morire piuttosto che essere
così, e che lei non gli stava tanto salvando la
vita, quanto lo stava condannando a
un’esistenza che avrebbe disprezzato.
Si piegò contro il suo corpo. Jace interpretò
quel gesto improvviso come la fine della
volontà di opporsi, perciò allentò la presa.
Ormai l’ultimo degli Shadowhunters era di
fronte a Sebastian, smanioso di ricevere la
Coppa Infernale che lui gli stava porgendo. —
Clary… — fece Jace.
Non scoprì mai quello che lui avrebbe voluto
dirle. Ci fu un grido. Lo Shadowhunter che
stava per bere dalla Coppa barcollò
all’indietro, con una freccia nel collo.
Incredula, Clary girò di scatto la testa e vide
che, in cima al dolmen, c’era Alec in divisa e
con in mano l’arco. Sorrideva soddisfatto
portando il braccio dietro la schiena per
munirsi subito di un’altra freccia.
E poi, dalle sue spalle, il resto di loro si
riversò sulla pianura. Un branco di lupi
correva rasente al suolo, con la pelliccia che
brillava alla luce screziata. Tra loro dovevano
esserci anche Maia e Jordan, pensò Clary.
Dietro
ai
lupi
camminavano
degli
Shadowhunters, a lei ben noti, formando un
fronte compatto: Isabelle e Maryse Lightwood,
Helen Blackthorn e Aline Penhallow, ma anche
Jocelyn, i suoi capelli rossi visibili già da
lontano. Con loro c’erano Simon, l’elsa di una
spada d’argento che gli spuntava da sopra la
curva della spalla, e Magnus, con un fuoco
azzurro che gli scoppiettava fra le mani
Il cuore le fece un salto dentro al petto. —
Sono qui! — gridò. — Sono qui!!
— La vedi? — chiese Jocelyn.
Simon cercò di concentrarsi sulle dense
tenebre che gli si estendevano di fronte, i sensi
da vampiro che si acuivano in presenza di un
deciso odore di sangue.
O meglio, diversi generi di sangue, mescolati
fra loro: di Shadowhunter, di demone, quello
amaro di Sebastian. — La vedo! — annunciò. —
Jace la sta trattenendo. E ora la porta laggiù,
dietro quella fila di Shadowhunters.
— Se sono fedeli a Jonathan come lo era il
Circolo con Valentine, formeranno un muro
umano per proteggere sia lui sia Clary e Jace.
— Jocelyn era pura furia materna, con le
fiamme dentro gli occhi verdi. — Dovremo fare
irruzione per prenderli.
— Quello che dobbiamo prendere è Sebastian
— disse Isabelle. — Simon, noi ti apriamo la
strada. Tu raggiungi Sebastian e lo trapassi
con la Gloriosa. Quando lui cade…
— Gli altri probabilmente si sparpaglieranno
— intervenne Magnus. — Oppure, a seconda di
quanto sono legati a Sebastian, potrebbero
morire o soccombere insieme a lui. Almeno
possiamo sperarlo. — Buttò la testa
all’indietro. — A proposito di speranza, avete
visto che colpo ha scoccato Alec con il suo
arco? Quello è il mio ragazzo! — Sorrise e
sfarfallò le dita, da cui partirono scintille
azzurre. Brillava dalla testa ai piedi. Soltanto
Magnus, pensò Simon con fare rassegnato,
poteva permettersi un’armatura da battaglia di
paillette.
Isabelle svolse la frusta che teneva attorno al
polso. L’arma scattò in tutta la sua lunghezza
come una lingua di fuoco dorato. — Bene,
Simon — fece. — Sei pronto?
Lui sentì le spalle che gli si irrigidivano.
Erano ancora a una certa distanza dal fronte
dell’esercito nemico, che non sapeva come
altro definire, fermo in posizione coi suoi
membri in rosso traboccanti di armi. Alcuni di
loro inveivano ad alta voce, confusi. Non riuscì
a trattenere un sorriso.
— Per l’Angelo, Simon — disse Izzy. — Che
cosa c’è da ridere?!
— Le loro spade angeliche non funzionano
più — osservò Simon. — E stanno cercando di
capire perché. Sebastian ha appena gridato di
usare altre armi. — Un urlo si levò dal fronte,
mentre un’altra freccia piombava giù dal
dolmen e si andava a conficcare nella schiena
rivestita di rosso di un corpulento
Shadowhunter, che cadde in avanti. Lo
schieramento sussultò e si aprì appena, come
una crepa in un muro. Simon, cogliendo
l’occasione, si slanciò in avanti e gli altri con
lui.
Fu come tuffarsi di notte in un oceano nero,
un oceano pieno di squali e perfide creature
marine dai denti aguzzi che si scontravano
l’una con l’altra. Non era la prima battaglia a
cui Simon partecipava, ma durante la Guerra
Mortale aveva appena ricevuto il Marchio di
Caino. Ancora non funzionava del tutto, ma
molti demoni si erano fatti indietro alla sua
sola vista. Non aveva mai pensato che gli
sarebbe potuto mancare, ma ora era così,
mentre cercava di farsi avanti in mezzo allo
schieramento compatto di Shadowhunters che
menavano pericolosi fendenti. Da un lato
aveva Isabelle e dall’altro Magnus che lo
proteggevano. E con lui proteggevano la
Gloriosa. La frusta di Isabelle scoccava forte e
decisa; le mani dello stregone sputavano fuoco
rosso, verde e azzurro. Lampi colorati
colpivano i Nephilim oscuri, bruciandoli sul
posto; altri Shadowhunters gridavano mentre i
lupi di Luke balzavano agili tra loro, graffiando
e mordendo, saltando alla gola degli avversari.
Un pugnale volò con una rapidità incredibile
e sfregiò il fianco di Simon. Lui gridò ma
continuò ad avanzare, consapevole che la ferita
si sarebbe rimarginata in pochi secondi. Si fece
strada e…
Rimase impietrito. Davanti a sé, una voce
familiare: la sorella di Luke, Amatis. Quando
la donna pose gli occhi su di lui, Simon capì
che lo aveva riconosciuto. Che cosa ci faceva lì?
Era venuta per aiutarli a combattere? Ma…
Amatis si scagliò contro di lui con un pugnale
che le luccicava minacciosamente in una
mano. Era veloce, ma non tanto da impedire ai
suoi riflessi da vampiro di salvarlo, se non
fosse stato troppo scioccato per muoversi:
Amatis era la sorella di Luke, lui la conosceva,
e quell’istante di incredulità avrebbe potuto
essere fatale se Magnus non gli fosse saltato di
fronte, spingendolo indietro. Dalla mano dello
stregone divampò del fuoco, ma Amatis fu
ancora più rapida. Si riparò dalla fiammata
voltandosi e si infilò sotto il braccio di
Magnus; Simon colse il riflesso della luna sulla
lama del suo pugnale.
Gli occhi dello stregone si sgranarono per lo
stupore quando quell’arma accesa dalla luna
gli venne incontro, penetrandogli l’armatura.
Nel momento in cui Amatis la ritrasse, la lama
era viscida di sangue lucente; Isabelle lanciò
un urlo, Magnus cadde in ginocchio. Simon
cercò di girarsi verso di lui, ma la pressione
della folla in armi lo trascinò via. Gridò il
nome di Magnus, mentre Amatis si chinava
sopra lo stregone caduto e sollevava il pugnale
una seconda volta, puntando al cuore.
— Lasciami andare! — sbraitò Clary,
contorcendosi e tirando calci per tentare di
sfuggire alla presa di Jace. Non riusciva a
vedere quasi niente al di là della folla
impetuosa di Shadowhunters vestiti di rosso
che stavano di fronte a lei, a Jace e a Sebastian,
bloccando la strada alla sua famiglia e ai suoi
amici. Loro tre si trovavano a pochi passi di
distanza dalla linea di battaglia; Jace la
stringeva forte mentre lei tentava di
divincolarsi, e Sebastian, accanto a loro,
osservava gli eventi con un’espressione
furibonda e minacciosa sul viso. Stava
muovendo le labbra. Clary non sapeva dire se
stesse imprecando, pregando o recitando una
formula magica. — Lasciami andare, brutto…
Sebastian si voltò. Faceva paura: sulle labbra,
qualcosa a metà strada fra un sorriso e un
ringhio. — Falla stare zitta, Jace.
— Ma noi dobbiamo stare qui dietro a farci
proteggere da loro? — chiese Jace senza
mollare la presa su Clary e indicando con un
cenno lo schieramento.
— Sì — rispose Sebastian. — Siamo troppo
importanti per rischiare di farci male, io e te.
Jace scosse la testa. — Non mi piace.
Dall’altra parte sono in troppi. — Sporse il
collo per guardare oltre la folla. — E Lilith?
Non puoi evocarla ancora, chiederle di
aiutarci?
— Cosa? Qui? — C’era disprezzo nel tono di
Sebastian. — No. E poi è ancora troppo debole
per essere davvero di aiuto. Una volta sarebbe
stata capace di sgominare da sola un esercito
intero, ma quel Nascosto maledetto, con il suo
Marchio di Caino, ha disseminato il suo essere
negli spazi vuoti fra i mondi. Comparire e
donarci il suo sangue era tutto quello che
poteva fare.
— Codardo — gli sputò contro Clary. — Hai
trasformato tutte queste persone in tuoi
schiavi e tu nemmeno combatti per
proteggerli…
Sebastian sollevò un braccio come per
colpirla in faccia con un manrovescio. Clary ci
sperava, sperava che Jace fosse testimone di
un gesto simile, invece sul viso di Sebastian si
accese un sorrisetto. Riabbassò il braccio. — E
se Jace ti lasciasse andare, immagino che tu
combatteresti, giusto?
— Certo che…
— Da che parte? — la interruppe lui. Le si
avvicinò, sollevando la Coppa Mortale. Anche
se ci avevano bevuto in molti, il sangue era
rimasto allo stesso livello. — Sollevale la testa,
Jace.
— No! — Clary raddoppiò gli sforzi per
liberarsi. La mano di Jace le scivolò sotto il
mento, ma ebbe l’impressione di sentire, in
quel gesto, una punta di esitazione.
— Sebastian — disse. — Non…
— Adesso! — esclamò l’altro. — Non c’è
bisogno che restiamo qui. Siamo noi quelli
importanti, non questa carne da macello.
Abbiamo dimostrato che la Coppa Mortale
funziona. Ed è quello che conta. — Agguantò il
davanti del vestito di Clary. — Ma scappare
sarebbe molto più semplice — disse — se
questa qui non scalciasse, gridasse e tirasse
pugni ogni due passi.
— Possiamo farla bere più tardi…
— No! — ringhiò Sebastian. — Tienila ferma.
— Sollevò la Coppa e la spinse contro le labbra
di Clary, cercando di aprirle la bocca. Lei si
ribellò, digrignando i denti. — Bevi — le disse
lui con un perfido sussurro, così basso che
dubitava che Jace lo avesse sentito. — Te
l’avevo detto che alla fine di questa serata
avresti fatto tutto quello che volevo. Bevi! —
Gli occhi scuri di Sebastian si fecero ancor più
tenebrosi. Spinse con forza la Coppa,
tagliandole il labbro inferiore.
Clary sentì il sapore del proprio sangue
mentre si allungava all’indietro, afferrando le
spalle di Jace, usando il suo corpo come leva
per slanciare le gambe in avanti. Sentì la
cucitura del vestito aprirsi lungo i fianchi
mentre spingeva con forza i piedi contro la
gabbia toracica di Sebastian. Lui, rimasto
senza fiato, vacillò nell’esatto momento in cui
Clary sentì il sonoro cozzo del proprio cranio
contro il viso di Jace, che gridò e allentò la
presa abbastanza perché lei riuscisse a
liberarsi. Corse via da lui e si buttò nella
battaglia senza guardarsi alle spalle.
Maia correva sul terreno roccioso, mentre la
luce delle stelle faceva passare le proprie
fredde dita attraverso la sua pelliccia e i forti
odori di battaglia le assalivano il naso
sensibile: sangue, sudore, il puzzo di plastica
bruciata della magia nera.
Il branco si era ampiamente sparpagliato su
tutta la zona, saltando e uccidendo con denti e
artigli mortali. Maia si teneva vicina a Jordan,
non perché avesse bisogno della sua
protezione, ma perché aveva scoperto che
l’uno accanto all’altra combattevano meglio e
con maggiore efficacia. Prima di allora aveva
partecipato a una sola battaglia, sulla Pianura
di Brocelind, e quella era stato un vortice
caotico di demoni e Nascosti. Lì nel Burren
c’erano molti meno combattenti, ma gli
Shadowhunters oscuri erano formidabili;
agitavano le loro spade e i loro pugnali con una
forza spaventosa, fulminea. Maia aveva visto
un uomo snello che, con un pugnale a lama
corta, staccava la testa di un lupo a mezz’aria:
a cadere a terra era stato un corpo umano
decapitato, sanguinante e irriconoscibile.
Mentre rifletteva, uno dei Nephilim in rosso
comparve di fronte a lei e Jordan, stringendo
in pugno una spada a doppia lama. Sotto la
luce della luna, si vedeva che l’arma era
macchiata di rosso e di nero. Sentì Jordan
ringhiare al suo fianco, ma fu lei a scagliarsi
contro l’avversario. Quest’ultimo si scansò,
brandendo la spada. Maia avvertì una fitta
acuta alla spalla e ricadde a terra sulle quattro
zampe, il corpo pervaso dal dolore. Ci fu un
fragore metallico, e capì di essere riuscita a
togliere di mano la spada all’uomo. Ringhiò di
soddisfazione e si girò, ma Jordan stava già
saltando alla gola del nemico…
Che però lo prese per il collo, a mezz’aria,
come se stesse agguantando un cucciolo
ribelle. — Feccia di Nascosti — imprecò. Anche
se non era la prima volta che Maia sentiva
insulti del genere, c’era qualcosa nell’odio
gelido di quel tono di voce che la fece
rabbrividire. — Dovreste essere delle pellicce.
E io dovrei indossarvi.
Maia gli affondò i denti nella gamba. Si sentì
esplodere in bocca il sapore del rame; lui gridò
di dolore e arretrò, cercando di scalciarla via e
perdendo la presa su Jordan. Maia lo tenne
fermo mentre Jordan tornava all’attacco, e
questa
volta
l’urlo
di rabbia
dello
Shadowhunter venne presto interrotto dagli
artigli del lupo che gli aprivano la gola.
Amatis stava puntando il coltello al cuore di
Magnus, ma proprio in quell’istante una
freccia sibilò nell’aria e le si conficcò nella
spalla, facendola cadere con una forza tale da
ribaltarla a faccia in giù contro il suolo
roccioso. Urlò, un suono presto soffocato dallo
scontro delle armi tutto attorno. Isabelle si
inginocchiò al fianco di Magnus; Simon,
sollevato lo sguardo, vide Alec fermo sopra il
dolmen, con l’arco fra le mani. Probabilmente
era troppo lontano per vedere bene Magnus;
Isabelle aveva le mani sul petto dello stregone,
ma lui, di solito sempre in movimento, sempre
pieno di energia, subiva le manovre di lei nella
più totale immobilità. Isabelle alzò gli occhi e
vide che Simon li stava fissando. Aveva le mani
rosse di sangue, ma scosse la testa con
violenza.
— Non fermarti! — gli gridò. — Trova
Sebastian!
Simon si girò di scatto e si ributtò nella
mischia. Il fronte compatto di Shadowhunters
oscuri aveva iniziato a scomporsi: per
disperdere gli avversari, i lupi saettavano da
una parte all’altra. Jocelyn era spada contro
spada con un uomo che urlava e perdeva
sangue da un braccio. Mentre si faceva avanti,
insinuandosi negli stretti corridoi fra una
schermaglia e l’altra, Simon notò qualcosa di
bizzarro: nessuno dei Nephilim vestiti di rosso
era marchiato. La loro pelle era priva di
disegni.
Dovette inoltre constatare, guardando con la
coda dell’occhio uno degli Shadowhunters
oscuri che si avventava su Aline con una mazza
ferrata, che erano molto più forti di qualunque
Nephilim avesse mai visto, fatta eccezione per
Jace e Sebastian. Si muovevano con l’agilità
dei vampiri, pensò mentre uno di loro colpiva
un lupo intento a saltare e gli squartava la
pancia. Quando la creatura cadde a terra
morta, era il cadavere di un uomo robusto coi
capelli biondi e ricci. Né Maia né Jordan.
Simon si sentì sollevato, poi fu preso dal senso
di colpa; continuò ad avanzare, l’odore del
sangue tutto attorno, e ancora una volta sentì
la mancanza del Marchio di Caino. Se lo avesse
avuto, avrebbe potuto distruggere sul posto
tutti quei Nephilim nemici…
Uno di loro gli si parò di fronte brandendo
una spada larga, con una sola lama. Simon si
abbassò, ma non ce n’era bisogno: l’uomo era
quasi a metà slancio quando una freccia lo
colpì al collo e lo buttò a terra facendogli uscire
il sangue in un gorgoglio. La testa di Simon
scattò verso l’alto: era stato Alec, ancora in
cima al dolmen, il volto una maschera di
pietra. Stava scagliando frecce con la
precisione di una macchina, la mano che si
allungava automaticamente all’indietro per
prenderne una dopo l’altra, inserirla nell’arco e
scoccarla. Tutte colpivano un obiettivo, ma era
come se Alec non se ne accorgesse. Mentre una
volava, lui già se ne stava procurando un’altra.
Simon sentì un’altra freccia fischiargli accanto
e infilzarsi nel corpo di qualcuno, mentre lui
saettava in avanti, cercando di raggiungere
una zona sgombra del campo di battaglia.
Poi rimase di sasso. Eccola lì. Clary, una
figura minuscola che si faceva largo tra la folla
a mani nude, scalciando e spingendo per
passare. Addosso aveva un vestito strappato e i
capelli erano un ammasso informe e, quando
lo vide, si accese in viso di un’espressione
incredula. Con le labbra sillabò il suo nome.
Subito dietro di lei c’era Jace. Aveva il viso
insanguinato. La folla si divise quando lui vi si
buttò in mezzo, lasciandolo passare. Alle sue
spalle, nel corridoio che si era formato, Simon
intravide un bagliore rosso e argento. Una
figura familiare, con la stessa chioma bianca di
Valentine.
Sebastian. Ancora nascosto dietro l’ultima
linea difensiva di Shadowhunters oscuri. Senza
staccargli gli occhi di dosso, Simon si mise una
mano dietro la spalla e tolse la Gloriosa dal
fodero. Un istante dopo, un’ondata di folla
spinse Clary verso di lui. Aveva gli occhi quasi
completamente neri per l’adrenalina, ma la
gioia per averlo rivisto era più che evidente.
Simon si sentì rincuorato, ma si chiese anche
se lei fosse ancora la stessa o se avesse invece
subito una trasformazione, come Amatis.
— Dammi la spada! — gli gridò, la voce quasi
soffocata dal clangore del metallo contro altro
metallo. Clary slanciò il braccio verso di lui, e
in quel momento non era più soltanto Clary, la
sua amica d’infanzia, bensì una Shadowhunter,
un angelo vendicatore. E il posto di quella
spada era nella sua mano.
Gliela porse, dalla parte dell’elsa.
La battaglia era come un vortice, pensò
Jocelyn mentre si faceva largo attraverso la
folla abbattendo il kindjal di Luke su ogni
frammento di rosso che vedeva. Tutto
piombava incontro così in fretta, andandosene
poi tanto rapidamente, che l’unica cosa che si
percepiva davvero era un senso di pericolo
incontrollabile, la fatica di rimanere vivi e non
soccombere.
Gli occhi le guizzavano fra i combattenti, in
cerca di sua figlia, di uno stralcio di capelli
rossi. O anche solo di Jace, perché lui sarebbe
stato senz’altro dove c’era lei. Sulla pianura
erano disseminati qua e là grossi massi simili
ad iceberg dentro un mare immobile. Si issò
sulla parete ruvida di uno di essi, cercando di
guadagnare una visuale migliore del campo di
battaglia, ma tutto ciò che vedeva erano corpi
accalcati, armi luccicanti, ombre scure di lupi
che si insinuavano fra i combattenti.
Si girò per scendere…
Ma vide che, a terra, qualcuno la stava
aspettando. Jocelyn si fermò a guardare.
Indossava un abito scarlatto e su una guancia
aveva una cicatrice livida, vestigia di una
battaglia a lei sconosciuta. Aveva il viso
scavato e non più giovane, ma non si poteva
non riconoscerlo. — Jeremy — gli disse piano,
la voce a malapena udibile sopra il clamore
della battaglia. — Jeremy Pontmercy.
L’uomo che un tempo era stato il più giovane
di tutto il Circolo la guardava con occhi
iniettati di sangue. — Jocelyn Morgenstern. Sei
venuta per unirti a noi?
— Unirmi a voi? Jeremy, no…
— Una volta eri nel Circolo — le disse lui
avvicinandosi. Dalla mano destra gli pendeva
un lungo pugnale con la lama affilata come un
rasoio. — Eri una di noi. E ora seguiamo tuo
figlio.
— Ho rotto con voi quando seguivate mio
marito — rispose Jocelyn. — Cosa vi fa pensare
che vi seguirei adesso che è mio figlio a
guidarvi?
— O sei con noi o contro di noi, Jocelyn. — Il
viso di Jeremy si indurì. — Non puoi metterti
contro il tuo stesso figlio.
— Jonathan — gli disse lei, piano, — è la cosa
più malvagia che Valentine abbia mai
prodotto. Non potrei mai stare dalla sua parte.
Alla fine, non sono mai stata neanche con
Valentine. Quindi che speranza hai di
convincermi ora?
Lui scosse la testa. — Tu mi fraintendi — fece.
— Intendo dire che non puoi stare contro di
lui. Contro di noi. Il Conclave stesso non può.
Non sono pronti, non per quello che possiamo
fare. Che vogliamo fare. Il sangue scorrerà per
le strade di ogni città. Il mondo brucerà. Tutto
quello che conosci verrà distrutto. E noi
risorgeremo dalle ceneri della vostra sconfitta,
come una fenice trionfante. Questa è la tua
unica possibilità: dubito che tuo figlio te ne
conceda un’altra.
— Jeremy — disse Jocelyn. — Eri così giovane
quando Valentine ti ha arruolato. Potresti
tornare, persino dal Conclave. Sarebbero
indulgenti…
— Non potrei mai tornare da loro — dichiarò
l’altro con solenne soddisfazione. — Non
capisci? Chi di noi sta dalla parte di tuo figlio,
non è più un Nephilim.
Non è più un Nephilim… Jocelyn fece per
rispondere, ma prima che aprisse bocca il
sangue sgorgò da quella del suo interlocutore,
che si accasciò. Allora Jocelyn vide che dietro
di lui, con uno spadone in mano, c’era Maryse.
Le due donne si guardarono per un istante al
di sopra del corpo di Jeremy. Poi Maryse si
voltò e tornò verso la battaglia.
Nell’istante in cui le dita di Clary si chiusero
attorno all’elsa, la spada esplose di luce dorata.
Il fuoco divampò lungo tutta l’arma a partire
dalla punta, illuminando la scritta Quis ut
Deus? minacciosamente incisa sul fianco e
facendo brillare l’impugnatura come se
imprigionasse la luce del sole. Per poco Clary
non la lasciò cadere, pensando che stesse
bruciando, ma la fiamma sembrava racchiusa
all’interno della spada e il metallo era freddo
sotto i suoi palmi.
Tutto ciò che seguì sembrò accadere con
estrema lentezza. Clary si voltò, la spada che le
ardeva in mano. Con lo sguardo scrutò
disperatamente la folla in cerca di Sebastian.
Non lo vedeva, ma sapeva che era dietro
l’assembramento compatto di Shadowhunters
oscuri attraverso cui si era dovuta fare largo a
pugni. Stringendo la spada, si avvicinò al
gruppo, ma trovò la strada sbarrata.
Da Jace.
— Clary — le disse. Le sembrava impossibile
riuscire a sentirlo, perché i rumori che la
circondavano erano assordanti: c’era chi
urlava, chi ringhiava, il metallo che si
schiantava contro altro metallo. Ma era come
se la massa di figure in combattimento si fosse
aperta in due come il Mar Rosso per lasciare
spazio attorno a loro.
La spada divampava, scivolosa nella presa di
Clary. — Jace. Togliti di mezzo.
Sentì Simon, dietro di lei, che le gridava
qualcosa; Jace stava facendo di no con la testa.
I suoi occhi d’oro erano inespressivi,
impenetrabili. Aveva il volto insanguinato; lei
gli aveva tirato una testata sullo zigomo, dove
ora la pelle era scura e rigonfia. — Dammi
quella spada, Clary.
— No. — Scosse la testa, indietreggiando di
un passo. La Gloriosa illuminò lo spazio che
stavano occupando, l’erba calpestata e sporca
di sangue attorno a Clary, Jace che si muoveva
verso di lei. — Jace. Posso separarti da
Sebastian. Posso ucciderlo senza fare del male
a te…
Il viso di lui si contrasse. I suoi occhi avevano
lo stesso colore del fuoco nella spada, o lo
stavano riflettendo, Clary non sapeva quale
delle due. Stava vedendo Jace e un non-Jace
allo stesso tempo: i ricordi che aveva di lui, il
bellissimo ragazzo incontrato all’inizio,
sconsiderato con se stesso e con gli altri, ma
che poi aveva imparato ad avere cura di
entrambi. Ripensò alla notte trascorsa a Idris,
stringendosi le mani su quel letto stretto, e al
ragazzo coperto di sangue che a Parigi l’aveva
guardata con occhi spiritati confessandole di
essere un assassino. — Ucciderlo? — diceva ora
il non-Jace. — Sei impazzita?
A Clary tornò in mente quella notte al lago
Lyn, quando Valentine lo aveva colpito con la
spada e lei aveva avuto la sensazione che la sua
stessa vita scivolasse via con il sangue di lui.
Lo aveva guardato morire, là sulla spiaggia di
Idris. Poi, dopo averlo riportato in vita, lui si
era trascinato da lei e l’aveva guardata con
quegli occhi che ardevano come la Spada,
come il sangue incandescente di un angelo.
Ero nel buio, aveva detto. Non c’erano che
ombre, io stesso ero un’ombra, e sapevo che
ero morto e tutto era finito, tutto quanto. Poi
ho sentito la tua voce.
Ma quella voce svaniva dentro un’altra, più
recente: Jace di fronte a Sebastian, nel salotto
della casa di Valentine. Quella voce diceva che
avrebbe preferito morire piuttosto che vivere
in quel modo. Ora Clary lo sentiva parlare,
mentre le diceva di consegnargli la spada e
che, se lei non l’avesse fatto, se la sarebbe
presa da solo. Aveva il tono brusco e
impaziente di qualcuno che sgrida un
bambino. E in quell’istante capì che, come lui
non era Jace, così lei non era la Clary che lui
amava. Era solo un ricordo, confuso e distorto:
l’immagine di una persona docile, ubbidiente,
incapace di comprendere che l’amore dato
senza libero arbitrio o sincerità non era affatto
amore.
— Dammi la spada. — Aveva la mano tesa, il
mento sollevato, e parlava con fare imperioso.
— Dammela, Clary.
— La vuoi?
Sollevò la Gloriosa, così come le aveva
insegnato a fare lui, mantenendola in
equilibrio con una mano per quanto fosse
pesante. All’interno, la fiamma si fece più
brillante, finché fu come se salisse verso l’alto e
toccasse le stelle. Tra lei e Jace c’era solo la
distanza coperta dalla spada. Gli occhi di lui
erano increduli. Nemmeno in quel momento
riusciva a cpensare che lei avrebbe potuto
fargli del male, davvero male. Nemmeno
allora.
Clary fece un respiro profondo. — Prendila.
Vide gli occhi di Jace accendersi come era
successo al lago, poi lo trafisse con la spada,
proprio come aveva fatto Valentine. Ora capiva
che era così che doveva andare. Era morto in
quel modo, lei lo aveva strappato alla morte. E
ora la morte era tornata.
Non puoi ingannare la morte. Alla fine si
prenderà la rivincita.
La Gloriosa gli affondò nel petto e Clary sentì
la propria mano insanguinata scivolare
sull’elsa mentre la lama si scontrava con le
ossa della gabbia toracica di Jace, penetrando
finché il pugno non le arrivò contro il petto. A
quel punto si fermò, immobile. Lui non si era
mosso e ora lei gli si premeva contro
stringendo la Gloriosa, col sangue che
cominciava a sgorgare dalla ferita sul petto.
Ci fu un grido, un suono di rabbia, dolore e
spavento, il suono di qualcuno che veniva
squarciato brutalmente. Sebastian, pensò
Clary. Sebastian, che gridava perché il suo
legame con Jace era stato spezzato.
Ma lui, Jace, non emise un solo suono.
Nonostante tutto, aveva il viso calmo e sereno,
il viso di una statua. Abbassò lo sguardo su
Clary e gli occhi gli brillarono, come se si
stessero riempiendo di luce.
Poi cominciò a bruciare.
Alec non si rese conto di correre giù dalla
cima della collina, né di farsi largo sulla
spianata rocciosa in mezzo a una distesa di
caduti: Shadowhunters oscuri, lupi mannari
morti o feriti. I suoi occhi cercavano una sola
persona. Inciampò e per poco non cadde;
quando rialzò lo sguardo, scrutando il campo
di battaglia, riconobbe Isabelle inginocchiata
sul terreno accanto a Magnus.
Si sentì come se nei polmoni non avesse più
aria. Non aveva mai visto Magnus così pallido,
così immobile. Sull’armatura di pelle c’era del
sangue, come tutto attorno al suo corpo. Ma
era impossibile, Magnus era vivo da così tanti
anni... lui era immortale. Un punto fermo.
L’immaginazione di Alec non avrebbe mai e
poi mai potuto pensare a un mondo in cui
Magnus moriva prima di lui.
— Alec. — Era la voce di Izzy, che giungeva a
lui come attraverso un muro d’acqua. — Alec,
respira.
Lui emise un sospiro tremante, poi porse una
mano alla sorella. — Pugnale.
Isabelle ubbidì in silenzio: a lezione di pronto
soccorso non era mai stata attenta quanto lui,
pensando che le rune bastavano per tutto. Alec
tagliò in due l’armatura di Magnus e poi la
maglietta sottostante. Lo fece a denti stretti:
forse erano le uniche cose a tenere insieme il
suo corpo.
Ripiegò all’indietro i lembi con cautela,
sorpreso dalla fermezza delle sue stesse mani.
C’era molto sangue, e una ferita profonda sotto
la parte destra del petto. Tuttavia, dal ritmo
del respiro di Magnus, si capiva che i polmoni
non erano stati trafitti. Alec si strappò la
giacca, la raggomitolò e la premette contro la
ferita ancora sanguinante.
Magnus batté le palpebre. — Ahia — disse con
un filo di voce. — Piantala di appoggiarti.
— Raziel — mormorò Alec, con gratitudine. —
Allora stai bene. — Infilò la mano libera sotto
la testa di Magnus, usando il pollice per
accarezzargli la guancia insanguinata. —
Pensavo…
Alzò lo sguardo per guardare la sorella prima
di dire qualcosa di imbarazzante, ma lei era già
sgattaiolata via in silenzio.
— Ti ho visto cadere — mormorò Alec. Si
chinò su Magnus e lo baciò sulla bocca con
delicatezza, per non fargli male. — Pensavo
fossi morto.
Magnus fece un sorriso sghembo. — Per cosa,
quel graffio? — Così dicendo, abbassò lo
sguardo sulla giacca sempre più rossa nella
mano di Alec. — Okay, un graffio profondo.
Diciamo il graffio di un gatto bello grosso.
— Stai delirando? — fece Alec.
— No. — Le sopracciglia di Magnus si
avvicinarono. — Amatis ha mirato al cuore, ma
non ha preso organi vitali. Il problema è che
l’emorragia mi sta sfiancando, rallenta la mia
capacità di guarire. — Fece un respiro
profondo che terminò con un colpo di tosse. —
Su, dammi la mano. — Porse la propria ad Alec
e lui intrecciò le dita alle sue, premendo forte il
palmo. — Ti ricordi, la notte della battaglia
sulla nave di Valentine, quando mi servì un po’
della tua forza?
— Adesso ti serve ancora? — gli chiese Alec.
— Prendila.
— A me la tua forza serve sempre, Alec —
rispose Magnus chiudendo gli occhi mentre le
loro dita intrecciate cominciavano a brillare,
come se racchiudessero la luce di una stella.
Il fuoco esplose dall’elsa della spada
dell’angelo e corse lungo la lama. La fiamma
colpì il braccio di Clary come una scossa
elettrica, buttandola a terra. Un lampo le
bruciò su e giù per le vene: si contorse dal
dolore, stringendosi forte, come per impedire
al corpo di esplodere in mille pezzi.
Jace cadde in ginocchio. Aveva ancora la
spada conficcata nel petto, ma ora stava
bruciando di una fiamma bianco-dorata e il
fuoco gli riempiva tutto il corpo come acqua
colorata che si riversava in una caraffa di
vetro. Era attraversato da vampate d’oro che
gli rendevano la pelle traslucida. Aveva i
capelli color bronzo; le ossa erano un’esca
infiammabile dura e lucente, visibile
all’esterno. La stessa Gloriosa si stava
dissolvendo in gocce liquide, come oro dentro
un crogiolo. Jace aveva la testa buttata
all’indietro, la schiena piegata ad arco mentre
la conflagrazione gli sconquassava il corpo.
Clary cercò di avvicinarsi, sul terreno roccioso,
ma il calore che lui emanava era troppo. Si
teneva le mani serrate sul petto, finché un
fiume di sangue dorato cominciò a colargli fra
le dita. La pietra sulla quale era inginocchiato
si annerì, si incrinò e si trasformò in cenere.
Infine, la Gloriosa si consumò come un falò in
estinzione, lanciando una cascata di scintille;
Jace crollò in avanti, sulle pietre.
Clary cercò di rimanere in piedi, ma le gambe
le cedevano. Si sentiva ancora come se nelle
vene avesse del fuoco, mentre il dolore le
pungolava la superficie della pelle come un
attizzatoio rovente. Si costrinse ad avanzare,
facendo sanguinare le dita e sentendo che il
vestito le si stava strappando, finché non
raggiunse Jace.
Lui era sdraiato sul fianco con la testa
appoggiata su un braccio, mentre l’altro era
disteso. Clary gli si rannicchiò accanto. Jace
irradiava calore dal corpo come un letto di
carboni ardenti, ma non le importava. Riusciva
a vedere lo strappo nella parte posteriore della
divisa, quello provocato dalla Gloriosa. La
cenere delle rocce bruciate si mischiava all’oro
dei suoi capelli insieme al sangue.
Muovendosi lentamente, ogni gesto faticoso
come se fosse diventata vecchia all’improvviso,
come se avesse sulle spalle un anno in più per
ogni secondo in cui Jace era bruciato, lo tirò
verso di sé, per girarlo a pancia in su sulla
pietra annerita e insanguinata. Gli guardò il
viso, non più dorato ma immobile, e
comunque bellissimo.
Gli mise una mano sul petto, dove il rosso del
sangue risaltava sopra quello più scuro della
divisa. Aveva sentito i bordi della lama stridere
contro le sue costole. Aveva visto il sangue
sgorgargli dalle dita, così abbondante da
tingere di nero le rocce sotto di lui e da
impiastrargli le punte dei capelli.
Eppure. Non se è più del Paradiso che
dell’Inferno.
— Jace — sussurrò. Tutto attorno a loro, piedi
che correvano. I superstiti malconci del piccolo
esercito di Sebastian stavano scappando sul
Burren, abbandonando le armi strada facendo.
Li stavano ignorando. — Jace!
Lui non si mosse. Aveva il viso immobile,
sereno sotto la luce della luna. Le ciglia gli
proiettavano ombre scure, a raggiera, sugli
zigomi.
— Ti prego — gli disse, con una voce che
sembrò graffiarle la gola. Quando respirò, si
sentì i polmoni in fiamme. — Guardami.
Clary chiuse gli occhi. Quando li riaprì, sua
madre le stava inginocchiata accanto,
tenendole una mano sulla spalla.
Dalle guance di Jocelyn scendevano delle
lacrime. Ma non poteva essere… Sua mamma
stava piangendo?
— Clary — le sussurrò. — Lascialo andare. È
morto.
In lontananza, Clary vide Alec inginocchiato
vicino a Magnus.
— No — disse. — La spada… La spada brucia
tutto il male. Potrebbe essere ancora vivo.
Sua madre le accarezzò la schiena, infilando
le dita fra i riccioli sporchi della figlia. — Clary,
no…
Jace, pensò lei con fierezza mentre gli
stringeva le braccia. Tu sei più forte di tutto
questo. Se sei tu, se sei davvero tu, allora
aprirai gli occhi e mi guarderai.
A un tratto arrivò anche Simon, e si
inginocchiò accanto a Jace, il viso macchiato di
sangue e fuliggine. Fece per toccarla, ma lei
alzò di scatto la testa lanciando un’occhiata di
fuoco a lui e a sua madre. In quell’istante vide
che li stava raggiungendo anche Isabelle, gli
occhi spalancati che si muovevano lentamente.
Aveva la divisa sporca di sangue.
Incapace di affrontare il suo sguardo, Clary si
girò e fissò l’oro dei capelli di Jace.
— Sebastian — disse, o per lo meno cercò di
dire, con una voce roca. — Qualcuno dovrebbe
prenderlo e… — E lasciarmi sola.
— Lo stanno cercando. — Sua madre le si
avvicinò, ansiosa, lo sguardo sbarrato. — Clary,
lascialo andare. Clary, piccola…
— Lasciala in pace. — Clary sentì dire a
Isabelle in tono brusco. Avvertì le proteste di
sua madre, ma tutto quello che stava
succedendo le sembrava lontano, come se
guardasse uno spettacolo teatrale dall’ultima
fila. Non contava altro che Jace. Jace, che
bruciava. Le lacrime le scottavano in fondo agli
occhi. — Jace, maledizione — disse con voce
spezzata. — Tu non sei morto.
— Clary — la chiamò Simon con dolcezza, —
poteva succedere …
Vieni via da lui. Era questo che le stava
chiedendo Simon, ma lei non poteva. Non
voleva. — Jace — sussurrò. Era come un
mantra, come la volta in cui lui l’aveva tenuta a
Renwick ripentendo continuamente il suo
nome. — Jace Lightwood…
Si paralizzò. Eccolo. Un movimento così
impercettibile da poter essere a malapena
considerato tale. Il fremito di un ciglio. Si
chinò in avanti, perdendo quasi l’equilibrio, e
premette la mano contro il tessuto scarlatto
sopra il petto di lui, come se potesse guarire la
ferita che lei stessa aveva causato. Invece
quello che sentì sotto le dita, così meraviglioso
che per un istante le sembrò assurdo, era il
battito del suo cuore.
EPILOGO
All’inizio, Jace non si rese conto di niente. Poi
ci fu il buio e, dentro di esso, un dolore
bruciante. Era come aver ingoiato il fuoco, che
lo soffocava e gli ustionava la gola. Annaspò
disperatamente per prendere aria, per un
respiro capace di raffreddare quel fuoco, e i
suoi occhi si aprirono.
Vide tenebre e ombre, una stanza poco
illuminata, conosciuta e sconosciuta al tempo
stesso, con file di letti e una finestra che
lasciava filtrare una cupa luce azzurra; era
sdraiato su uno di quei letti, coperte e lenzuola
avvolte attorno al suo corpo come corde. Il
petto gli faceva male, come se sopra avesse un
peso morto. Alzò una mano per capire di cosa
si trattava, incontrando soltanto uno spesso
bendaggio che gli copriva la pelle nuda. Prese
un altro respiro. Ancora sollievo.
— Jace. — Quella voce gli risultò familiare
come fosse la propria. Una mano strinse la sua
mano, dita intrecciate ad altre dita. Con un
riflesso nato da anni di affetto e vicinanza,
ricambiò la stretta.
— Alec — disse, quasi scioccato al suono delle
sue stesse parole. Non era cambiato. Aveva
l’impressione di essere stato bruciato, fuso e
poi riplasmato come oro in un crogiolo, per poi
diventare… Che cosa? Avrebbe potuto tornare
a essere se stesso? Alzò lo sguardo verso gli
occhi azzurri, carichi di angoscia, di Alec, e
capì dove si trovava. L’infermeria dell’Istituto.
Casa. — Mi dispiace…
Una mano callosa e affusolata gli accarezzò la
guancia, e un’altra voce gli disse: — Non
scusarti. Non hai niente di cui scusarti.
Socchiuse gli occhi. Il peso sul petto era
ancora lì: metà ferita e metà senso di colpa. —
Izzy.
Lei trattenne il fiato. — Sei davvero tu,
giusto?
— Isabelle — disse Alec come per avvertire la
sorella di non stancarlo troppo, ma Jace le
toccò la mano. Riusciva a vedere gli occhi scuri
di Izzy che brillavano alla luce dell’alba, il suo
viso pieno di attesa e speranza. Quella era la
ragazza che solo la sua famiglia conosceva,
un’Isabelle affettuosa e apprensiva.
— Sono io — le disse, poi si schiarì la gola. —
Se non mi credi, ti capisco, ma te lo giuro
sull’Angelo, Iz. Sono io.
Alec non parlò, ma strinse più forte la mano
di Jace.
— Non c’è bisogno che giuri — gli disse infine,
toccandogli la runa parabatai vicino alla
clavicola. — Lo so. Lo sento. Non è più come se
mi mancasse una parte di me.
— Anche per me era così — rispose Jace
respirando a fatica. — Mi mancava qualcosa.
Lo sentivo, anche con Sebastian, ma non
sapevo cos’era. Invece eri tu. Il mio parabatai.
— Guardò Izzy. — E tu. Mia sorella. E… —
All’improvviso le palpebre gli bruciarono di
una luce cocente: la ferita sul petto cominciò a
palpitare, finché vide il viso di lei, illuminato
dalla fiamma della spada. Uno strano calore,
un fuoco bianco, gli percorse le vene. — Clary.
Vi prego, ditemi che…
— Sta bene — si affrettò a dire Isabelle. C’era
dell’altro, nella sua voce. Stupore, disagio.
— Me lo giuri? Non lo dici soltanto per
tenermi tranquillo…
— È stata lei a trafiggerti — affermò lei.
Jace fece una risata soffocata. Provava dolore.
— Clary mi ha salvato.
— È vero — gli confermò Alec.
— Quando posso vederla? — chiese Jace,
cercando di non sembrare troppo impaziente.
— Allora sei proprio tu — commentò Isabelle
in tono divertito.
— I Fratelli Silenti sono entrati e usciti per
controllarti — spiegò Alec. — Per controllare
questo — aggiunse toccandogli il bendaggio sul
petto — e per vedere se eri già sveglio. Quando
scopriranno che è così, è probabile che
vorranno parlarti, prima di lasciarti vedere
Clary.
— Quanto tempo sono rimasto senza sensi?
— Circa due giorni — rispose Alec. — Da
quando ti abbiamo portato via dal Burren,
praticamente convinti che saresti morto. A
quanto pare non è così semplice guarire la
ferita inferta dalla lama di un arcangelo.
— Quindi mi stai dicendo che resterà la
cicatrice.
— Grande e brutta, attraverso il petto.
— Cavolo — fece Jace. — E io che contavo sui
soldi di quell’ingaggio come modello di
biancheria intima, avevo fatto un casting…
Scherzava, ma dentro di sé pensò che in
fondo fosse giusto avere una cicatrice: doveva
portare il segno di quello che gli era successo,
sia fisicamente che psicologicamente. Aveva
rischiato di perdere l’anima, e la cicatrice
sarebbe servita a ricordargli la debolezza della
volontà e la difficoltà di essere buoni.
Ma anche cose più cupe. Quello che lo
aspettava e quello che non poteva permettere
che accadesse. Stava riprendendo le forze; lo
sentiva, e le avrebbe dirette tutte contro
Sebastian. Quella consapevolezza lo fece subito
sentire più leggero, il peso sul petto diventava
meno opprimente. Girò la testa per poter
guardare Alec negli occhi.
— Non avrei mai pensato di combattere dal
fronte della battaglia opposto al tuo — gli disse
con voce fioca. — Mai.
— E non lo farai mai più — disse Alec, la
mandibola serrata.
— Jace — lo chiamò Isabelle. — Cerca di stare
calmo, okay? È che…
— Che cosa? C’è qualcos’altro che non va?
— Ecco… È che stai brillando un po’ — gli
disse Isabelle. — Cioè, solo un pochino.
— Brillando?!
Alec sollevò la mano stretta a quella di Jace,
per mostrare all’altro, nella penombra, il
debole luccichio nell’avambraccio che gli
percorreva le vene facendolo sembrare una
cartina geografica. — Pensiamo che sia un
effetto lasciato dalla spada dell’arcangelo.
Probabilmente svanirà presto, ma i Fratelli
Silenti ne sono incuriositi, ovviamente.
Jace sospirò e abbandonò la testa sul cuscino.
Era troppo esausto per apprezzare più di tanto
quel suo nuovo stato di “illuminazione”. —
Allora ve ne andate? Dovete far venire i
Fratelli? — domandò.
— Ci hanno chiesto di chiamarli al tuo
risveglio — rispose Alec, ma scuoteva la testa
già mentre parlava. — Ma se non vuoi…
— Mi sento stanco — confessò Jace. — Se
potessi dormire ancora qualche ora…
— Certo. Certo che puoi. — Le dita di Isabelle
gli spinsero i capelli all’indietro, via dagli
occhi. Il suo tono di voce era fermo, fiero come
quello di una mamma orso che protegge i suoi
piccoli.
Gli occhi di Jace iniziarono a chiudersi. — E
non mi lascerete?
— No — disse Alec. — Non ti lasceremo mai.
E lo sai.
— Mai. — Isabelle gli prese la mano, quella
che non stava già tenendo Alec, e la strinse con
forza. — I Lightwood, tutti insieme —
mormorò. La mano di Jace diventò
improvvisamente umida nel punto in cui lei
gliela stringeva, e capì che Isabelle stava
piangendo. Le sue lacrime gli piovevano sulla
pelle. Piangeva per lui, perché gli voleva bene.
Anche dopo tutto quello che era successo.
Tutti e due gliene volevano.
Si addormentò così, con Isabelle da un lato e
Alec dall’altro, mentre il sole si apriva alla luce
del giorno.
— Cosa vuol dire che non posso ancora
vederlo? — sbottò Clary. Era seduta sul bordo
del divano, nel salotto di Luke, il filo del
telefono avvolto così stretto attorno alle dita
che le punte le erano diventate bianche.
— Sono passati solo tre giorni, due dei quali è
rimasto in coma — disse Isabelle. Sentendo
delle voci dietro di lei, Clary aguzzò le orecchie
per capire di chi si trattasse. Forse una era
Maryse, ma stava parlando con Jace? Con
Alec? — I Fratelli Silenti lo stanno tenendo
sotto osservazione. E hanno detto niente visite.
— Insomma, quelli mi vogliono fottere.
— Perché, pensi di essere il loro tipo?
— Isabelle! — Clary si buttò all’indietro sui
cuscini morbidi. Era una luminosa giornata
d’autunno, e il sole inondava le finestre del
salotto, ma questo non bastava a farla sentire
meglio. — Voglio solo sapere che sta bene. Che
non ha danni permanenti, che non è gonfio
come un melone…
— Ovvio che non è gonfio come un melone,
non essere ridicola.
— Come faccio a saperlo? Nessuno mi dice
niente!
— Sta bene — la rassicurò Isabelle, anche se
Clary sentiva che nella sua voce c’era della
reticenza. — Alec dorme nel letto accanto al
suo, io e mia madre facciamo i turni per
assisterlo. I Fratelli Silenti non lo hanno mica
torturato! Hanno solo bisogno di sapere cosa
sa lui. Sebastian, l’appartamento, tutto.
— Non posso credere che Jace non mi
chiamerebbe, se potesse. A meno che lui
preferisca non vedermi.
— Forse è così — rispose Isabelle. — Magari
per il fatto che l’hai trafitto…
— Isabelle, io…
— Stavo scherzando, che tu ci creda o no. Nel
nome dell’Angelo, Clary, non puoi avere un po’
di pazienza? — sospirò Isabelle. — D’accordo,
come non detto. Avevo dimenticato con chi
stavo parlando. Ora non dovrei dirlo, e quindi
mi raccomando, ma Jace ha detto che voleva
parlarti di persona. Se solo tu riuscissi ad
aspettare…
— Ma non ho fatto altro — ribatté Clary. —
Nient’altro che aspettare. — Ed era vero. Aveva
trascorso le ultime due notti sdraiata in
camera, a casa di Luke, in attesa di notizie su
Jace, ripercorrendo continuamente e nei
minimi dettagli l’ultima settimana della sua
vita. La Caccia Selvaggia, il negozio di
antiquariato di Praga, le fontane di sangue, i
tunnel degli occhi di Sebastian, il corpo di Jace
contro il proprio, Sebastian che le spingeva la
Coppa Infernale contro le labbra per
costringerla a bere, l’odore amaro dell’icore
demoniaco. La Gloriosa che le risplendeva in
mano, trafiggendo Jace come un fulmine
celeste, il battito del suo cuore sotto i
polpastrelli. Lui non aveva nemmeno aperto
gli occhi, ma a Clary aveva gridato che era vivo,
che il cuore gli batteva ancora, dopodiché tutta
la famiglia di Jace li aveva circondati, anche
Alec, che quasi doveva tenere di peso un
Magnus bianco come uno straccio. — Continuo
a pensare e ripensare alle stesse cose. Sto
diventando pazza.
— E su questo siamo d’accordo. Sai cosa,
Clary?
— Cosa?
Ci fu una pausa. — Non ti serve il mio
permesso per venire qui a trovare Jace — disse
Isabelle. — Non ti serve il permesso di nessuno
per fare niente. Tu sei Clary Fray. Ti butti a
capofitto in qualsiasi situazione senza sapere
come cavolo andrà a finire, poi ce la fai, perché
hai coraggio da vendere e… sei anche un po’
pazza.
— Non quando si tratta della mia vita privata,
Iz.
— Uh! — fece Isabelle. — Forse dovresti
esserlo. — E così dicendo, riagganciò.
Simon era disteso sul letto, i piedi sopra i
cuscini, il mento appoggiato sulle mani.
Teneva il portatile aperto davanti a sé,
immobile su una scena del film Matrix. Alzò lo
sguardo quando lei entrò. — Allora? Ti è
andata bene?
— Non proprio. — Clary si era già vestita con
l’idea che quel giorno avrebbe potuto
incontrare Jace: jeans e un maglione celeste
che sapeva piacergli. Si mise una giacca di
velluto a coste e si sedette sul letto accanto a
Simon, facendo scivolare i piedi dentro gli
stivali. — Isabelle non mi dice niente. I Fratelli
Silenti non vogliono che Jace riceva visite, ma
chi se ne importa. Io ci vado lo stesso.
Simon chiuse il portatile e rotolò sulla
schiena. — Ecco la mia piccola molestatrice
coraggiosa!
— Chiudi il becco — gli disse. — Non vuoi
venire con me? Vedere Isabelle?
— Devo vedere Becky, a casa di Jordan —
rispose lui.
— Bene. Salutala da parte mia. — Finì di
allacciarsi gli stivali e allungò una mano per
togliere a Simon una ciocca di capelli dalla
fronte. — Prima mi sono dovuta abituare a te
con il Marchio di Caino. E ora mi devo
riabituare a te senza.
Gli occhi scuri di lui le percorsero i
lineamenti del viso. — Con o senza, sono
sempre e soltanto io.
— Simon, ti ricordi cosa c’era scritto sulla
lama della spada? Della Gloriosa?
— Quis ut Deus?
— È latino. Sono andata a cercare e ho visto
che vuol dire “Chi è come Dio?” Una domanda
trabocchetto, perché la risposta è “nessuno”.
Nessuno è come Dio. Non vedi?
Lui la guardò. — Vedere cosa?
— L’hai detto. Deus, Dio.
Simon aprì la bocca, poi la richiuse. — Io…
— Camille ti disse che lei poteva pronunciare
il nome di Dio perché non credeva in lui, ma io
credo che la cosa abbia a che fare con quello
che uno crede di se stesso... Se pensi di essere
dannato, allora lo sei. Se no…
Gli toccò la mano. Lui strinse le dita per un
attimo e le lasciò andare, un’espressione
preoccupata sul viso. — Mi serve del tempo per
pensarci su.
— Tutto quello che ti serve. Ma se hai bisogno
di parlare, sappi che sono qui.
— E io sono qui se sarai tu ad averne bisogno.
Qualsiasi cosa succeda fra te e Jace
all’Istituto… sai che puoi sempre venire da me,
se ti va di parlare.
— Come sta Jordan?
— Abbastanza bene. Adesso lui e Maia stanno
proprio insieme. Sono in quella fase odiosa in
cui ho la sensazione di doverli lasciare soli
continuamente! — Arricciò il naso. — Quando
lei non c’è, Jordan impazzisce perché si sente
insicuro a pensare che lei ha frequentato altri
ragazzi mentre lui ha passato gli ultimi tre
anni in allenamento militare per il Praetor,
fingendosi in pratica un essere asessuato.
— Oh, andiamo. Dubito che a lei interessi.
— Sai come sono fatti gli uomini. Il nostro
ego è fragile.
— Non direi lo stesso per quello di Jace.
— No. Jace è una specie di carro armato
d’artiglieria contraerea dell’ego maschile —
ammise Simon. Era sdraiato con la mano
destra aperta sulla pancia, e l’anello d’oro delle
fate gli brillava sul dito. Dato che l’altro era
stato distrutto, probabilmente questo non
aveva più poteri, ma Simon lo portava
comunque. D’istinto, Clary si chinò e gli baciò
la fronte.
— Sei il migliore amico che si potrebbe mai
avere, lo sai?
— Sì, lo sapevo, ma è sempre bello sentirselo
dire.
Clary rise e si alzò. — Be’, potremmo anche
camminare insieme fino alla metropolitana. A
meno che tu non voglia restare qui con i miei
anziché nel tuo appartamento supercool da
scapoli in centro.
— Giusto. Con il mio coinquilino che si
strugge d’amore e mia sorella. — Simon scivolò
giù dal letto e la seguì mentre lei usciva dal
soggiorno. — Perché non usi un portale?
Clary fece spallucce. — Non so. Mi
sembrerebbe… uno spreco. — Attraversò il
corridoio e, dopo aver bussato rapidamente,
infilò la testa dentro la camera padronale. —
Luke?
— Entra.
Lei entrò, con Simon accanto. Luke era a
letto, seduto. Il bendaggio che gli avvolgeva il
petto formava un rilievo sotto la camicia di
flanella. Davanti a lui, una pila di riviste.
Simon ne prese una: — “Brilla come una
principessa: sposa d’inverno” — lesse ad alta
voce. — Non so, amico. Non sono sicuro che
una coroncina di cristalli sarebbe il look più
adatto a te.
Luke guardò attorno al letto e fece un sospiro.
— Jocelyn ha pensato che un po’ di preparativi
per il matrimonio potrebbero farci bene.
Ritorno alla normalità e cose del genere. —
Sotto i suoi occhi azzurri c’erano delle ombre
scure. Era stata Jocelyn a rivelargli la verità su
Amatis, quando lui era ancora alla stazione di
polizia. Anche se Clary lo aveva accolto a casa
con grandi abbracci, lui non aveva nominato
sua sorella una sola volta, e nemmeno lo aveva
fatto lei. — Se fosse per me, scapperei a Las
Vegas e farei un matrimonio a tema da
cinquanta dollari, tutti vestiti da pirati,
celebrato da Elvis.
— Io potrei fare la damigella d’onore con la
toppa sull’occhio — propose Clary. Puntò lo
sguardo su Simon. — E tu potresti essere…
— Oh no — la fermò lui. — Io sono un
alternativo. Troppo indie per i matrimoni a
tema.
— Ma se giochi a Dungeons&Dragons! Tu sei
un nerd! — replicò lei con affetto.
— Guarda che il genere sfigato va di moda —
dichiarò lui. — Le ragazze lo adorano.
Luke si schiarì la voce. — Presumo che siate
venuti qui per dirmi qualcosa, giusto?
— Sto andando all’Istituto per vedere Jace —
rispose Clary. — Vuoi che ti porti qualcosa?
Lui fece di no con la testa. — Tua mamma è
già in negozio a far provviste. — Si sporse per
arruffarle i capelli, ma fece una smorfia. Stava
guarendo, ma gli serviva ancora del tempo. —
Divertiti.
Clary pensò a quello che l’avrebbe
probabilmente aspettata all’Istituto: una
Maryse arrabbiata, un’Isabelle affaticata, un
Alec assente e un Jace che non voleva vederla.
Sospirò. — Contaci.
La galleria della metro aveva l’odore
dell’inverno definitivamente giunto in città:
metallo freddo, umidità, sporcizia bagnata,
deboli tracce di fumo. Alec, camminando
lungo i binari, vedeva il proprio respiro
condensato in nuvolette bianche davanti al
viso. Si infilò la mano libera nella tasca del
giaccone a doppiopetto blu, per scaldarsela.
Con l’altra teneva la stregaluce che gli serviva
per illuminare il tunnel: piastrelle verdi e
crema, scolorite dagli anni, cavi che
penzolavano dal soffitto come ragnatele. Ne
era passato del tempo, dall’ultima volta che
quel posto aveva visto passare un treno.
Si era svegliato prima di Magnus, anche
quella volta. Lo stregone era rimasto a dormire
fino a tardi, per riposarsi dalla battaglia nel
Burren. Aveva consumato molte energie per
rigenerarsi, ma non era ancora completamente
guarito. Gli stregoni erano immortali, ma non
invulnerabili. “Qualche centimetro più su e per
me sarebbe stata la fine” aveva detto Magnus,
con apprensione, esaminando la ferita da
taglio. “Mi avrebbe fermato il cuore”.
C’erano stati dei momenti, forse minuti, in
cui Alec aveva davvero pensato che fosse
morto. Dopo tutto quel tempo passato a
preoccuparsi di diventare vecchio e morire
prima di lui! Che beffa del destino sarebbe
stata… Era quello che si sarebbe meritato,
avendo preso seriamente in considerazione
l’offerta di Camille, seppure per un solo
secondo.
Di fronte a sé vedeva delle luci: la stazione di
City Hall, illuminata da lampadari e lucernari.
Era sul punto di spegnere la sua stregaluce,
quando dietro di sé sentì una voce familiare.
— Alec — disse qualcuno. — Alexander
Gideon Lightwood.
Alec provò una stretta al cuore. Si voltò
lentamente. — Magnus?
Lo stregone avanzò dentro il cerchio chiaro
proiettato dalla stregaluce di Alec. Aveva
un’aria stranamente lugubre, gli occhi
adombrati, i capelli a spunzoni scompigliati.
Indossava una giacca elegante con una
maglietta, tanto che Alec non poté fare a meno
di chiedersi se non avesse freddo.
— Magnus — gli disse di nuovo. — Pensavo
stessi dormendo.
— Ovviamente — rispose lui.
Alec deglutì forte. Non aveva mai visto
Magnus arrabbiato, non sul serio. Non così. Il
suo sguardo felino era assente, impossibile da
decifrare. — Mi hai seguito? — gli chiese.
— In un certo senso. È stato utile sapere in
anticipo dove stavi andando. — Con
movimenti rigidi, Magnus estrasse dalla tasca
un foglio di carta ripiegato. In quella
penombra, l’unica cosa che Alec riusciva a
intravedere era una calligrafia ordinata e ricca
di svolazzi. — Sai, quando lei mi ha detto che
eri stato qui e dell’accordo che aveva stretto
con te, io non le ho creduto. Non volevo
crederle. Invece eccoti qui.
— Camille ti ha detto…
Magnus sollevò una mano per interromperlo.
— Taci — gli disse l’altro stancamente. — Certo
che me lo ha detto. Ti avevo avvertito che era
la regina delle manipolazioni e degli intrighi,
ma tu non mi hai ascoltato. Secondo te, chi
preferirebbe avere dalla sua parte? Me o te?
Hai diciotto anni, Alexander. Non sei
esattamente quello che si potrebbe definire un
potente alleato.
— Le avevo già detto — rispose Alec — che
non avrei ucciso Raphael. Sono venuto qui e le
ho detto che l’accordo saltava, che non lo avrei
fatto…
— E dovevi venire fin qui, in questa stazione
abbandonata, per consegnarle quel messaggio?
— Magnus sollevò le sopracciglia. — Non pensi
che avresti potuto fare la stessa cosa, per
esempio, restando alla larga?
— Era…
— E anche se tu fossi venuto qui per dirle che
l’accordo saltava — proseguì Magnus con voce
tremendamente calma — mi dici cosa ci fai qui
adesso? Visita di cortesia? Passavi per caso?
Spiegamelo, Alexander, se c’è qualcosa che mi
sfugge.
Alec deglutì. Doveva di certo esserci un modo
per spiegare. Era andato fin lì, da Camille,
perché era l’unica persona con cui poteva
parlare di Magnus. L’unica persona che lo
conosceva come lo conosceva lui, non soltanto
come l’Alto Stregone di Brooklyn, bensì come
una persona capace di dare e ricevere amore,
con fragilità e peculiarità tutte umane, unite a
bizzarri sbalzi d’umore che Alec non sapeva
come affrontare senza qualche consiglio. —
Magnus… — Alec fece un passo verso il suo
fidanzato e, per la prima volta da che si
ricordava, lui si allontanò. Aveva una postura
rigida e ostile; lo guardava come avrebbe
potuto guardare uno sconosciuto, uno
sconosciuto non particolarmente gradito.
— Mi dispiace tanto — gli disse Alec.
All’improvviso la sua voce suonava gracchiante
e irregolare alle sue stesse orecchie. — Io non
volevo…
— Ci stavo pensando, sai — lo interruppe
Magnus. — Questo è in parte il motivo per cui
volevo il Libro Bianco. L’immortalità può
essere un fardello. Ripensi ai giorni che hai
davanti, quando sei stato dovunque e hai visto
tutto. L’unica cosa che non avevo provato era
invecchiare con qualcuno, con qualcuno che
amavo. Pensavo che magari potevi essere tu.
Ma questo non ti dà il diritto di rendere la
durata della mia vita una scelta tua.
— Lo so. — Il cuore di Alec batteva
all’impazzata. — Lo so, e infatti non lo avrei
fatto…
— Resterò fuori tutto il giorno — disse
Magnus. — Vieni a portare via le tue cose da
casa mia. Lascia le chiavi sul tavolo da pranzo.
— Mentre parlava, con gli occhi scrutava il viso
di Alec. — È finita. Non voglio mai più
rivederti, Alec. E nemmeno i tuoi amici. Sono
stanco di essere il loro stregone da compagnia.
Le mani di Alec avevano cominciato a
tremare, abbastanza forte da fargli cadere la
stregaluce. L’oggetto si spense e il ragazzo
cadde in ginocchio, frugando tra la sporcizia
sul pavimento. Finalmente qualcosa si accese
di fronte ai suoi occhi e, quando si sollevò, vide
Magnus con la stregaluce in mano. Brillava e
tremolava di uno strano bagliore colorato.
— Non dovrebbe fare quella luce — disse Alec
d’istinto. — Non con chi non è uno
Shadowhunter.
Magnus allungò il braccio. Il cuore della
stregaluce brillava di rosso scuro, il colore dei
carboni ardenti.
— È per via di tuo padre? — gli chiese Alec.
Lo stregone non rispose e si limitò a mettergli
la pietra runica nel palmo della mano. Quando
si sfiorarono, il viso di Magnus cambiò
espressione. — Stai gelando.
— Sì?
— Alexander… — Magnus lo tirò a sé, la
stregaluce che brillava fra loro cambiando
rapidamente colore. Alec non l’aveva mai vista
fare niente del genere. Appoggiò la testa alla
spalla di Magnus e lasciò che lui lo
abbracciasse. Il cuore dello stregone non
batteva come quello umano; era più lento, ma
stabile. La cosa più stabile di tutta la sua vita,
aveva a volte pensato Alec.
— Baciami — gli disse.
Magnus gli appoggiò una mano sulla guancia
e, con delicatezza, quasi in modo assente, gli
fece scorrere il pollice lungo lo zigomo.
Quando si chinò per baciarlo, profumava di
sandalo. Alec gli afferrò la manica della giacca,
e la stregaluce, stretta fra i loro corpi, si accese
di rosa, verde e azzurro.
Fu un bacio lento, e triste. Quando Magnus si
ritrasse, Alec vide che, chissà come, era lui
l’unico a sorreggere la stregaluce. Brillava di
un bianco tenue.
A bassa voce, lo stregone disse: — Aku cinta
kamu.
— Cosa vuol dire?
Magnus si liberò dalla presa di Alec. — Vuol
dire “ti amo”. Non che cambi qualcosa.
— Ma se mi ami…
— Certo che ti amo. Più di quanto pensassi.
Ma è finita comunque — gli disse. — Non
cambia quello che hai fatto.
— Ma è stato un errore — sussurrò Alec. —
Solo un errore…
Magnus fece una risata sarcastica. — Solo un
errore? È come dire che durante il viaggio
inaugurale del Titanic c’è stato un piccolo
incidente. Alec, tu hai cercato di accorciarmi la
vita.
— È stato solo… Me lo ha proposto lei, ma io
ci ho pensato su e ho capito che non potevo
farlo, che non potevo farti una cosa del genere.
— Ma hai dovuto pensarci. E non me ne hai
mai parlato. — Magnus scosse la testa. — Non
ti sei fidato di me. Non lo hai mai fatto.
— Sì, invece — ribatté Alec. — Lo farò, ci
proverò. Dammi un’altra possibilità…
— No — rispose Magnus. — E, se posso darti
un consiglio: stai alla larga da Camille. C’è una
guerra in arrivo, Alexander, ed è meglio se non
metti in discussione le tue alleanze. Dico bene?
Pronunciate quelle parole, si girò e se ne andò
via con le mani in tasca, camminando
lentamente, come se fosse ferito, e non
soltanto dal taglio sul fianco. In ogni caso, se
ne stava andando. Alec rimase a guardarlo
finché non uscì dal bagliore della stregaluce,
sparendo dalla sua vista.
L’interno dell’Istituto era fresco, d’estate, ma
ora che l’inverno era ufficialmente cominciato,
Clary lo trovava caldo. La navata era
illuminata da file di candelabri e le finestre con
i vetri colorati brillavano di una luce tenue.
Lasciò che la porta le si chiudesse alle spalle e
si diresse verso l’ascensore. Arrivata a metà del
corridoio centrale, sentì una risata.
Si voltò. Isabelle era seduta su una delle
vecchie panche, le lunghe gambe appoggiate
sopra lo schienale di fronte. Indossava degli
stivali che le arrivavano a metà coscia, jeans
aderenti e un maglione rosso che le lasciava
una spalla scoperta. Aveva la pelle ricoperta da
disegni neri; Clary ricordò le parole di
Sebastian, quando le aveva detto che a lui non
piacevano le donne che si sfiguravano la pelle
con i marchi, e si sentì percorrere da un
brivido. — Non hai sentito che ti chiamavo? —
le chiese Izzy. — Sai davvero essere
sorprendentemente testarda.
Clary si fermò, appoggiandosi a una colonna.
— Non ti ho ignorata apposta.
Isabelle tolse di slancio le gambe dallo
schienale e si alzò in piedi. I tacchi degli stivali
erano alti e la facevano troneggiare sopra
Clary. — Oh, lo so. È per questo che ho detto
“testarda” e non “cafona”.
— Sei qui per dirmi di andare via? — Clary fu
felice di sentire che la voce non le stava
tremando. Voleva vedere Jace. Voleva vederlo
più di ogni altra cosa. Ma dopo quello che
aveva passato nell’ultimo mese, sapeva che a
contare era solo il fatto che lui era ancora vivo
e che era di nuovo se stesso. Tutto il resto
finiva in secondo piano.
— No — disse Izzy, cominciando a dirigersi
verso l’ascensore. Clary la seguì e le si mise
accanto. — Credo che tutta questa storia sia
ridicola. Tu gli hai salvato la vita.
Clary deglutì contro il freddo che si sentiva in
gola. — Hai detto che c’erano cose che non
capivo.
— E ci sono. — Premette il pulsante
dell’ascensore. — Jace te le può spiegare. Sono
scesa perché ho pensato che c’era qualcos’altro
che dovevi sapere.
Clary rimase in attesa di sentire il familiare
cigolio, seguito da vibrazioni e tonfo finale, del
vecchio ascensore a gabbia. — Del tipo?
— Mio padre è tornato — annunciò Isabelle
senza incontrare lo sguardo di Clary.
— Tornato in visita o tornato per restare?
— Per restare. — Isabelle sembrava calma, ma
Clary ricordò quanto l’aveva ferita la notizia
che Robert si fosse candidato a diventare
Inquisitore. — In pratica Aline ed Helen hanno
evitato che finissimo nei guai per tutto quello
che è successo in Irlanda. Quando siamo
venuti ad aiutarti, lo abbiamo fatto senza
informare il Conclave. Mia madre era sicura
che, se li avessimo avvertiti, avrebbero inviato
dei guerrieri per uccidere Jace. Lei non poteva
farlo. Voglio dire, era in gioco la nostra
famiglia.
L’ascensore sferragliò e completò il suo
fragoroso percorso prima che Clary potesse
dire qualunque cosa. Seguì l’altra ragazza
all’interno, lottando contro lo strano impulso
di abbracciarla. Dubitava che a Izzy sarebbe
piaciuto.
— E così Aline ha detto al Console, ovvero in
fin dei conti a sua madre, che non c’era stato il
tempo di avvisare il Conclave, che lei era stata
lasciata indietro col preciso ordine di chiamare
Jia, ma che poi i telefoni non avevano
funzionato. Balle su balle, insomma. Ma è la
nostra versione, perciò dobbiamo continuare a
sostenerla. In realtà non penso che Jia le abbia
creduto, ma non importa; di sicuro non voleva
punire mia madre. Le serviva soltanto una
storia a cui aggrapparsi per non trovarsi in
condizione di doverci davvero sanzionare.
Dopotutto, l’operazione non si è rivelata un
disastro. Siamo andati, abbiamo salvato Jace,
ucciso gran parte dei Nephilim oscuri e messo
in fuga Sebastian.
L’ascensore smise di salire e si fermò
strepitando.
— Messo in fuga Sebastian — ripeté Clary. —
Quindi non abbiamo idea di dove si trovi?
Pensavo che forse, avendogli distrutto casa,
ovvero la tasca dimensionale, avremmo potuto
rintracciarlo.
— Ci abbiamo provato — spiegò Isabelle. —
Ovunque sia, resta ancora al di là delle nostre
capacità di ritrovamento. E, secondo i Fratelli
Silenti, la magia compiuta da Lilith…
Insomma, Clary, Sebastian è forte. Veramente
forte. Dobbiamo pensare che sia là fuori, con la
Coppa Infernale, impegnato a pianificare la
sua prossima mossa. — Aprì il cancello
dell’ascensore e uscì. — Pensi che tornerà a
cercarti? O a cercare Jace?
Clary esitò. — Non subito — rispose infine. —
Per lui siamo le ultime tessere del puzzle.
Prima vorrà sistemare tutto il resto. Vorrà un
esercito, vorrà sentirsi pronto. Noi siamo
come… il premio per la sua vittoria. E così non
dovrà essere solo.
— Deve soffrire molto la solitudine — disse
Isabelle. Non c’era comprensione nella sua
voce; era una semplice osservazione.
Clary pensò a Sebastian, alla faccia che aveva
cercato di dimenticare, quella che popolava i
suoi incubi e i suoi sogni a occhi aperti. Mi hai
chiesto a chi appartengo. — Non ne hai
un’idea.
Raggiunsero le scale che portavano in
infermeria. Isabelle si fermò, posandosi una
mano sul collo. Clary riusciva a intravedere il
contorno squadrato del suo ciondolo di rubino
sotto il maglione. — Clary…
Lei si sentì all’improvviso in imbarazzo. Si
lisciò l’orlo della manica per evitare lo sguardo
di Isabelle.
— Com’è? — le chiese all’improvviso.
— Com’è cosa?
— Essere innamorati — rispose Isabelle. —
Come si fa a sapere che lo si è? E come si fa a
sapere se qualcuno lo è di te?
— Uhm…
— Come con Simon — proseguì. — Come
avevi capito che era innamorato di te?
— Be’… Me l’aveva detto lui — rispose Clary.
— L’aveva detto lui.
Clary fece spallucce.
— E prima di quello, tu non ne avevi idea?
— No, in realtà no — rispose Clary,
ripensando a quel momento. — Izzy… se provi
qualcosa per Simon, o se vuoi sapere cosa
prova per te… forse dovresti dirglielo e basta.
Isabelle si stava gingillando con un
inesistente filo sulla manica del maglione. —
Dirgli cosa?
— Quello che provi per lui.
Isabelle non sembrava d’accordo. — Ma non
posso!
Clary scosse la testa. — Dio. Tu e Alec siete
così simili…
Isabelle spalancò gli occhi. — Invece no!
Proprio per niente. Io esco con dei ragazzi, lui
prima di Magnus mai. Lui si ingelosisce, io
no…
— A tutti capita di essere gelosi. — Clary parlò
con decisione. — E siete tutti e due così…
stoici. Si tratta di amore, non è la battaglia
delle Termopili. Non dovete affrontare tutto
come se fosse l’ultima battaglia. Non dovete
tenervi tutto dentro.
Isabelle buttò in aria le mani. — Oh,
all’improvviso sei diventata un’esperta?
— Non sono un’esperta — ribatté Clary. — Ma
conosco Simon. Se non gli dici qualcosa,
penserà che non sei interessata a lui e si
arrenderà. Lui ha bisogno di te, Iz, e tu di lui.
Ma ha anche bisogno che sia tu a dirlo.
Isabelle fece un sospiro e si girò di scatto per
cominciare a salire le scale. Clary la sentì
borbottare strada facendo. — È colpa tua, sai.
Se tu non gli avessi spezzato il cuore…
— Isabelle!
— Senti, lo hai fatto.
— Già, e mi sembra di ricordare che quando
fu trasformato in un topo, fosti tu a proporre
di lasciarlo così. Per sempre.
— Non è vero.
— Sì, tu… — Clary si interruppe. Avevano
raggiunto il piano successivo, dove un lungo
corridoio si allungava a destra e a sinistra.
Davanti alla doppia porta dell’infermeria c’era
la figura, avvolta in una tunica color
pergamena, di un Fratello Silente a mani
giunte e viso basso, fermo in posizione
meditativa.
Isabelle lo indicò con grande enfasi. — Prego!
— le disse. — Buona fortuna, se vuoi
oltrepassarlo per vedere Jace.
Se ne andò lungo il corridoio, con gli stivali
che battevano forte contro il pavimento in
legno.
Clary sorrise fra sé e prese lo stilo che teneva
nella cintura. Sapeva che probabilmente non
esisteva una runa capace di ingannare un
Fratello Silente con un incantesimo, ma forse,
se fosse riuscita ad andargli così vicina da
tracciargliene una sulla pelle…
Clary Fray. La voce dentro la sua testa era
divertita, e anche familiare. Pur essendo priva
di suono, lei ne riconobbe la forma, proprio
come si riconoscerebbe il modo di ridere o di
respirare di qualcuno.
— Fratello Zaccaria. — Con rassegnazione,
Clary rimise a posto lo stilo e gli andò più
vicina, pensando che avrebbe voluto Isabelle
ancora con sé.
Presumo tu sia qui per vedere Jonathan, le
disse lui sollevando la testa dalla sua posizione
meditativa. Il viso era ancora coperto
dall’ombra del cappuccio, ma Clary riusciva a
indovinare il contorno di uno zigomo
spigoloso. Nonostante gli ordini della
Confraternita.
— Chiamalo Jace, per favore. Altrimenti
faccio troppa confusione.
Jonathan è un bel vecchio nome da
Shadowhunter, il primo dei nomi. Gli
Herondale hanno sempre mantenuto i loro
nomi di famiglia…
— Il suo nome non gli è stato dato da un
Herondale — sottolineò Clary. — Anche se ha
un pugnale con quello di suo padre. Sulla lama
c’è scritto S.W.H.
Stephen William Herondale.
Clary fece un altro passo verso la porta e
verso Zaccaria. — Sai molte cose sugli
Herondale — gli disse. — E tra tutti i Fratelli
Silenti, sembri quello più umano. La maggior
parte di loro non lascia mai trapelare nessuna
emozione. Sono come delle statue. Invece
sembra che tu provi qualcosa, che ti ricordi
ancora della tua vita passata.
Essere un Fratello Silente è vita, Clary Fray.
Ma se mi stai chiedendo se ricordo com’era la
mia vita prima della Confraternita, allora la
risposta è sì.
Clary fece un respiro profondo. — Sei mai
stato innamorato? Prima della Confraternita?
C’è mai stato qualcuno per cui avresti dato la
vita?
Seguì un lungo silenzio, e poi:
Due persone. Esistono ricordi che il tempo
non cancella, Clarissa. Chiedilo al tuo amico
Magnus Bane, se non mi credi. L’eternità non
basta a dimenticare ciò che si è perso, lo
rende soltanto sopportabile.
— Be’, io non ho l’eternità — disse Clary con
una voce sottile. — Ti prego, fammi entrare a
vedere Jace.
Fratello Zaccaria non si mosse. Ancora non
riusciva a vedergli la faccia, soltanto un
accenno di ombre e superfici sotto il cappuccio
della tunica. Teneva ancora le mani giunte
davanti a sé.
— Ti prego! — lo supplicò.
Alec si sollevò sulla piattaforma della stazione
City Hall e camminò a grandi passi verso le
scale. Aveva eliminato l’immagine di Magnus
che si allontanava da lui grazie a un solo, unico
pensiero: avrebbe ucciso Camille Belcourt.
Salì i gradini, sfilando dalla cintura una spada
angelica. La luce era fioca, tremolante;
riemerse al piano ammezzato, sotto il City Hall
Park, dove i lucernari di vetro colorato
filtravano la grigia luce invernale. Si mise la
stregaluce in tasca e sollevò l’arma.
— Amriel — sussurrò, e la spada divampò,
come fosse un fulmine nella sua mano. Sollevò
il mento, perlustrando la stanza con lo
sguardo. Il divano a schienale alto era ancora
lì, ma Camille no. Le aveva mandato un
messaggio annunciandole il suo arrivo, ma,
visto il modo in cui lo aveva tradito, non si
stupiva che non fosse rimasta lì ad aspettarlo.
Attraversò la stanza come una furia e tirò un
violento calcio al divano, che si ribaltò con
fragore contro il legno sollevando una nuvola
di polvere. Uno dei piedini si era staccato.
Dall’angolo della stanza giunse una risata
argentina, squillante.
Alec si voltò di scatto, la spada lucente fra le
mani. Le ombre negli angoli erano dense e
nere; persino la luce di Amriel non bastava a
penetrarle. — Camille? — disse con voce
pericolosamente
tranquilla.
—
Camille
Belcourt. Esci fuori, adesso.
Seguì una seconda risata e una sagoma uscì
dalle tenebre. Ma non era Camille.
Era una ragazzina molto magra, che non
aveva più di dodici o tredici anni, con un paio
di jeans strappati e una maglietta rosa a
maniche corte col disegno luccicante di un
unicorno. Rosa era anche la sciarpa che aveva
al collo, l’orlo inzuppato di sangue. Altro
sangue era sparso sulla metà inferiore del suo
viso, che colava fino a macchiare il bordo della
maglietta. Guardava Alec con occhi grandi e
felici.
— Io ti conosco — mormorò. Appena aprì la
bocca, Alec vide il flash dei suoi canini. Un
vampiro. — Alec Lightwood. Tu sei amico di
Simon, ti ho visto ai concerti.
Lui rimase a fissarla. Si erano già incontrati?
Forse… Il lampo di un viso fra le ombre di un
bar, uno di quei concerti a cui Isabelle lo aveva
costretto a partecipare. Non ne era così sicuro.
Ma questo non significava che non sapesse chi
aveva di fronte.
— Maureen — disse. — Tu sei la Maureen di
Simon.
Lei sembrò compiaciuta. — Sì. Sono la
Maureen di Simon.
La ragazzina si guardò le mani, coperte di
sangue come se le avesse letteralmente
immerse. E non era sangue umano, pensò
Alec. Era scuro, rosso rubino: sangue di
vampiro. — Starai cercando Camille — gli disse
con voce cantilenante. — Ma lei non è più qui.
Oh, no. Se n’è andata.
— Andata? In che senso se n’è andata?
Maureen fece un risolino. — Sai come
funziona la legge dei vampiri, vero? Chiunque
uccide il capo di un clan di vampiri prende il
suo posto. E Camille era il capo del clan di
New York. Eh già, lo era.
— Perciò… qualcuno l’ha uccisa?
Maureen scoppiò a ridere allegramente. —
Non qualcuno, sciocchino — disse. — L’ho
uccisa io.
Il soffitto a volta dell’infermeria era azzurro,
abbellito da un motivo in stile rococò di
cherubini che reggevano nastri dorati e da
stralci di nuvole bianche. Lungo le pareti di
destra e di sinistra erano allineati dei letti di
ferro, in modo da formare un corridoio al
centro. Da due alti lucernari entrava la luce
chiara di un sole invernale che, però, non
serviva a scaldare la fredda stanza.
Jace era seduto su uno dei letti, la schiena
appoggiata a una pila di cuscini sottratti agli
altri letti. Indossava dei jeans con gli orli
sdruciti e una maglietta grigia. Teneva un libro
in bilico sulle ginocchia. Quando Clary entrò
nella stanza lui alzò lo sguardo, ma, quando la
vide avvicinarsi al letto, non disse nulla.
Il cuore di lei aveva iniziato a martellare. Il
silenzio era immobile, quasi opprimente. Gli
occhi di Jace la seguirono mentre arrivava ai
piedi del letto e si fermava, appoggiando le
mani sulla sbarra di ferro. Clary gli studiò il
viso. Tante volte aveva cercato di fargli un
ritratto, pensò, cercando di catturare quella
qualità ineffabile che rendeva Jace se stesso,
ma le sue dita non erano mai state davvero
capaci di riprodurre sulla carta quello che
vedevano gli occhi. Ora quella qualità
indefinibile, che non c’era quando Sebastian lo
controllava, era lì: comunque la si volesse
chiamare, anima o spirito, ora era lì che gli
spuntava dagli occhi.
Strinse le mani attorno al ferro del letto. —
Jace…
Lui si infilò una ciocca di capelli oro chiaro
dietro l’orecchio. — Ma tu… I Fratelli Silenti ti
hanno detto che potevi entrare?
— Non proprio.
L’angolo della bocca di Jace si sollevò. —
Quindi li hai messi al tappeto con una trave di
legno e hai fatto irruzione? Il Conclave non
vede di buon occhio certe cose, lo sai.
— Ehi! Mi ritieni capace di qualsiasi cosa, eh?
— Si mosse per sedersi sul letto accanto a lui,
in parte per essere al suo stesso livello, in parte
per nascondere il fatto che le stavano
tremando le ginocchia.
— Già, a poco a poco l’ho imparato — le disse,
mettendo da parte il libro.
Quelle parole la colpirono come uno schiaffo.
— Non volevo farti del male — gli disse con
una voce più simile a un sussurro. — Mi
dispiace.
Jace si mise a sedere dritto, buttando le
gambe dall’altro lato del letto. Non erano
molto distanti l’uno dall’altra, sul letto, ma lui
si stava trattenendo. Ne era sicura. Così come
era sicura che, dietro quegli occhi chiari,
c’erano dei segreti e c’era dell’esitazione.
Avrebbe voluto allungare una mano, ma
rimase immobile, la voce ferma.
— Non ho mai voluto farti del male — disse.
— E non sto parlando solo del Burren. Intendo
dal primo istante in cui tu, il vero tu, mi hai
detto quello che volevi. Avrei dovuto ascoltarti,
ma l’unica cosa a cui pensavo era salvarti,
portarti via. Non sono stata a sentirti quando
hai detto che volevi consegnarti al Conclave, e
per questo siamo quasi finiti come Sebastian.
Quando ho fatto quello che ho fatto con la
Gloriosa… Alec e Isabelle ti avranno detto che
l’arma era per Sebastian. Ma non riuscivo a
trovarlo in mezzo alla folla, proprio non ce la
facevo. E ho pensato a quello che tu mi avevi
detto, e cioè che avresti preferito morire
piuttosto che vivere sotto l’influenza di
Sebastian. — La voce le si strozzò in gola. — Il
vero tu, intendo. Non potevo chiedertelo, ho
dovuto intuirlo da sola. Devi sapere che
colpirti è stato… tremendo. Pensare che
magari saresti morto e che sarebbe stata la mia
mano a impugnare l’arma del delitto… Avrei
preferito morire, ma ho messo a rischio la tua
vita pensando che fosse quello che avresti
chiesto tu. Dopo averti tradito una volta, ho
pensato che te lo dovevo. Ma, se fossi stata
forte… — Fece una pausa, ma lui non parlava.
Le si rivoltò lo stomaco, una contorsione
dolorosa, da provocarle la nausea. — Quindi…
scusami. Lo so che non c’è niente che posso
fare per farmi perdonare. Però volevo fartelo
sapere, farti sapere che mi dispiace.
Tacque di nuovo, e questa volta il silenzio si
estese fra loro, sempre più ampio, un filo teso
all’infinito.
— Adesso puoi parlare — sbottò infine lei. —
Anzi, sarebbe molto bello se lo facessi.
Jace la guardava incredulo. — Scusa, fammi
capire — le disse. — Sei venuta qui per scusarti
con me?
Clary si sentì presa alla sprovvista. — Certo
che sì.
— Clary, tu mi hai salvato la vita.
— Ma io ti ho praticamente ferito a morte. E
con una spada enorme. Hai preso fuoco!
Le labbra di lui vennero scosse da un fremito
quasi impercettibile. — Okay — disse. — Allora
forse i nostri problemi non sono come quelli
delle altre coppie. — Sollevò una mano come
per toccarle il viso, ma la riabbassò subito. —
Ti ho sentita, sai? — riprese, in tono più dolce.
— Quando mi dicevi che non ero morto.
Quando mi hai chiesto di aprire gli occhi.
Si guardarono in silenzio per quelli che
furono secondi ma che a Clary sembrarono
ore. Vederlo così, completamente se stesso, era
talmente bello da riuscire quasi a cancellare la
paura che tutto andasse a rotoli nel giro di
pochi minuti.
Finalmente Jace parlò di nuovo.
— Perché credi che mi sia innamorato di te?
Era l’ultima cosa che Clary si aspettava di
sentirgli dire. — Io non… Non è giusto
chiederlo.
— A me sembra di sì, invece — rispose Jace.
— Credi che non ti conosca, Clary? La ragazza
che è entrata in un hotel pieno di vampiri
perché il suo migliore amico era lì e aveva
bisogno di aiuto? Quella che è andata a Idris
con un portale perché non sopportava l’idea di
rimanere esclusa dall’azione?
— Ma mi hai sgridata per quello…
— Sgridavo me stesso — disse lui. — Ci sono
cose in cui siamo così simili… Siamo
imprudenti. Non pensiamo prima di agire.
Faremmo qualsiasi cosa per le persone che
amiamo. E non ho mai pensato a quanto fosse
angosciante tutto questo per chi amava me
finché non ho visto te, e questo mi ha
spaventato. Come potevo proteggerti se tu non
me lo lasciavi fare? — Si chinò in avanti. —
Questa, comunque, era una domanda retorica.
— Bene. Perché a me non serve protezione.
— Sapevo che lo avresti detto. Ma il fatto è
che, invece, a volte capita. Anche a me. Siamo
nati per proteggerci a vicenda, ma non da
qualunque cosa. Non dalla verità. Ecco cosa
significa amare una persona e lasciare che sia
se stessa.
Clary si guardò le mani. Moriva dalla voglia di
toccarlo. Era come visitare un carcerato: lo
potevi vedere bene, da vicino, ma in mezzo
c’era sempre un vetro infrangibile.
— Mi sono innamorato di te — le disse —
perché tu sei una delle persone più coraggiose
che abbia mai conosciuto. Quindi come potevo
chiederti di non esserlo più solo perché ti
amavo? — Le passò una mano fra i capelli,
sollevandole riccioli e nodi che Clary non
vedeva l’ora di risistemare. — Sei venuta per
me — proseguì. — Mi hai salvato quando
praticamente tutti gli altri si erano arresi e
quando anche chi non lo aveva fatto non
sapeva più come intervenire. Credi che non
sappia cos’hai passato? — Gli occhi di lui si
incupirono. — Come fai anche solo a pensare
che potrei essere arrabbiato con te?
— E allora perché non volevi vedermi?
— Perché… — Jace sospirò. — D’accordo, un
punto a tuo favore. In realtà c’è una cosa che
non sai. La spada che hai usato, quella che
Raziel ha dato a Simon…
— La Gloriosa. La spada dell’Arcangelo
Michele. È andata distrutta.
— Distrutta no. È tornata da dove è venuta,
dopo che il fuoco del Paradiso l’ha consumata.
— Jace fece un debole sorriso. — Altrimenti il
tuo Angelo avrebbe avuto un bel po’ di
spiegazioni da dare se Michele avesse scoperto
che il suo amico Raziel aveva prestato la sua
spada preferita a un branco di umani
sciagurati. Ma torniamo al punto: la spada… il
modo in cui bruciava… quello non era un fuoco
qualsiasi.
— L’avevo immaginato. — Clary avrebbe
voluto che Jace allungasse un braccio e la
tirasse a sé. Invece era come se lui volesse
mantenere le distanze, perciò rimase ferma
dov’era. Stargli così vicino e non poterlo
toccare le dava la sensazione di un dolore
fisico.
— Avrei preferito che non mettessi quel
maglione — mormorò Jace.
— Cosa? — Clary si guardò. — Pensavo ti
piacesse!
— E mi piace — rispose lui scuotendo la testa.
— Non importa. Quel fuoco… era fuoco del
Paradiso. Il cespuglio ardente, il fuoco eterno,
la colonna di fuoco davanti ai figli d’Israele… È
questo il fuoco di cui stiamo parlando. “Un
fuoco si è acceso nella mia collera e brucerà
fino nella profondità degl’inferi; divorerà la
terra e il suo prodotto e incendierà le radici dei
monti”. È stato lui a bruciare via quello che
Lilith mi aveva fatto. — Si prese l’orlo della
maglietta e lo sollevò. Clary trattenne il fiato,
perché vide che sopra il cuore di Jace, sulla
pelle liscia del petto, non c’era più alcun
marchio: soltanto una cicatrice bianca nel
punto in cui era penetrata la spada.
Allungò una mano per toccarlo, ma lui si
ritrasse e fece di no con la testa. Mentre lui
rimetteva a posto la maglietta, Clary si rese
conto dell’espressione dispiaciuta che non
aveva fatto in tempo a nascondere e che ora le
stava attraversando il viso. — Clary — le disse.
— Quel fuoco… è ancora dentro di me.
Lei lo fissò. — Che cosa vuoi dire?
Jace fece un respiro profondo e le porse le
mani, con i palmi all’ingiù. Lei le guardò,
affusolate e familiari, la runa della
Chiaroveggenza sulla destra sbiadita dalle
cicatrici bianche che la coprivano. Sotto gli
occhi di entrambi, le mani di lui cominciarono
a tremare leggermente. Poi Clary rimase
scioccata quando le vide diventare trasparenti.
Come la lama della Gloriosa quando aveva
cominciato a bruciare, così anche la pelle di
Jace sembrava sul punto di trasformarsi in
vetro, vetro al cui interno era intrappolato un
oro che si muoveva, imbruniva e ardeva. Clary
riusciva a vedergli i contorni dello scheletro,
ossa dorate connesse da tendini di fuoco.
Lo sentì inspirare bruscamente. Poi lui alzò lo
sguardo e lo incrociò con il suo. Aveva gli occhi
d’oro. Era lo stesso colore di sempre, ma Clary
avrebbe potuto giurare che adesso quell’oro
viveva e bruciava. Jace stava respirando forte,
sulle guance e sul petto gli brillavano gocce di
sudore.
— Hai ragione — gli disse. — I nostri
problemi non sono come quelli delle altre
persone.
Jace la guardò incredulo. Chiuse lentamente
le mani a pugno e il fuoco svanì, lasciando
dietro di sé pelle normale, intatta. Con una
risata strozzata, le disse: — È tutto qui quello
che hai da dire?
— No, ho ben altro da dire. Che cosa sta
succedendo? Le tue mani sono diventate armi?
Sei la Torcia Umana? Cosa diavolo…
— Non so cosa sia una torcia umana, ma…
Okay, senti, i Fratelli Silenti mi hanno detto
che ora porto dentro di me il fuoco del
Paradiso. Dentro le vene, dentro l’anima.
Quando mi sono risvegliato, mi sentivo come
se respirassi fuoco. Alec e Isabelle pensavano
fosse un effetto transitorio provocato dalla
spada, ma vedendo che non spariva hanno
chiesto ai Fratelli Silenti. Zaccaria ha detto che
non sapeva se sarebbe stato transitorio e… io
l’ho scottato. Mentre parlava mi ha toccato la
mano, e io ho sentito dentro una scossa
d’energia.
— Lo hai ustionato?
— No, solo una leggera scottatura. Però…
— È per questo che non mi vuoi toccare —
dedusse Clary ad alta voce. — Hai paura di
scottarmi.
Lui annuì. — Nessuno ha mai visto niente del
genere, Clary. Non prima d’ora. Mai. La spada
non mi ha ucciso, ma mi ha lasciato questo: un
pezzo di qualcosa di mortale dentro di me.
Qualcosa di così potente che probabilmente
ucciderebbe un essere umano, forse anche uno
Shadowhunter. — Fece un respiro profondo. —
I Fratelli Silenti sono al lavoro per scoprire
come potrei liberarmene o come controllarlo.
Ma, come puoi immaginare, io non sono la
loro priorità numero uno.
— Perché quella è Sebastian. Hai sentito che
ho distrutto la sua casa? So che ha altri modi
per cavarsela, ma…
— La mia Clary! Comunque sì, ha dei piani di
riserva. E altri posti in cui nascondersi. Non so
dove siano, non me l’ha mai detto. — Si sporse
in avanti, abbastanza perché Clary riuscisse a
vedere i colori in mutamento che aveva dentro
gli occhi. — Da quando mi sono svegliato, i
Fratelli Silenti sono rimasti con me
praticamente ogni minuto. Hanno dovuto
ripetere la cerimonia, quella che si fa alla
nascita di uno Shadowhunter per proteggerlo.
E poi mi sono entrati nella mente. L’hanno
setacciata per cercare di estrarre il più piccolo
briciolo di informazione su Sebastian,
qualsiasi cosa che potessi sapere ma avessi
dimenticato. Invece… — Jace scosse la testa,
demoralizzato, — non c’è niente. Durante la
cerimonia al Burren ero al corrente dei suoi
piani. Ma oltre a quello, non ho idea di quale
sarà la sua prossima mossa o dove potrebbe
colpire. Sanno che stava collaborando con dei
demoni, quindi hanno rafforzato le protezioni,
specialmente attorno a Idris. Io sento che c’è
una cosa utile che potremmo aver ricavato da
tutto questo, ovvero qualche segreto dentro di
me. Invece non abbiamo neanche quello.
— Ma se tu sapessi qualcosa, Jace, lui
cambierebbe programma — obiettò Clary. —
Sa di averti perso. Voi due eravate legati l’uno
all’altro. L’ho sentito urlare, quando ti ho
colpito. — Rabbrividì. — Un suono desolato,
tremendo. Credo che, a suo modo, si fosse
affezionato a te. E anche se questa avventura è
stata orribile, abbiamo imparato tutti e due
una cosa che potrebbe rivelarsi utile.
— Ovvero?
— Il fatto che lo capiamo. Sì, per quanto si
possa capire Sebastian. E questa non è una
cosa che lui può cancellare cambiando i piani e
basta.
Jace annuì lentamente. — Sai chi altro mi
sembra di capire, adesso? Mio padre.
— Valen… no — si corresse Clary vedendo
l’espressione sul viso di lui, — intendi Stephen.
— Ho guardato le sue lettere. Le cose dentro
la scatola che mi ha dato Amatis. Mi aveva
scritto una lettera che voleva leggessi dopo la
sua morte. Mi ha detto di essere un uomo
migliore di lui.
— E lo sei — rispose Clary. — Nei pochi
momenti in cui eri davvero tu, nella casa, fare
la cosa giusta ti importava di più della tua
stessa vita.
— Lo so — disse lui guardandosi le nocche
graffiate delle mani. — È questa la cosa strana.
Avevo così tanti dubbi su me stesso, sempre,
ma ora conosco la differenza. Fra me e
Sebastian. Fra me e Valentine. Anche la
differenza fra loro due. Valentine credeva
davvero di stare facendo la cosa giusta; lui
odiava i demoni. Ma Sebastian… La creatura
stessa che lui considera sua madre è un
demone. Sarebbe felice di comandare una
razza di Shadowhunters al loro servizio,
massacrando gli umani di questo mondo a suo
piacimento. Valentine continuava a credere
che la missione degli Shadowhunters fosse
proteggere gli esseri umani; per Sebastian, non
sono altro che scarafaggi. Lui non vuole
proteggere nessuno: vuole soltanto quello che
vuole nel momento in cui lo vuole. E l’unica
vera cosa che prova è rabbia quando lo si
ostacola.
Clary si mise a riflettere. Aveva visto
Sebastian guardare Jace, persino guardare lei
stessa, e sapeva che in lui c’era una parte che
risuonava solitaria come il vuoto cosmico più
nero. La solitudine era un movente valido
quanto la sete di potere: solitudine e bisogno
di essere amato senza la benché minima
consapevolezza che l’amore è un sentimento
che va guadagnato. Ma l’unica cosa che disse
ad alta voce fu: — Bene, allora continuiamo a
ostacolarlo.
Un sorriso apparve sul viso di Jace. — Lo sai
che vorrei implorarti di restare fuori da questa
faccenda, vero? Sarà una battaglia tremenda.
Peggiore di quanto lo stesso Conclave possa
immaginare.
— Ma tu non lo farai — ribatté Clary. —
Perché farebbe di te un idiota.
— Lo dici perché ci servono le tue rune?
— Sì, per questo, e… Allora non hai ascoltato
niente di quello che hai appena detto? Tutta la
storia sul proteggersi a vicenda?
— Sappi che per quel discorso ho fatto le
prove, davanti allo specchio, prima che venissi
qui.
— E quindi, cosa credi significasse?
— Non lo so — ammise Jace, — ma so che
mentre lo facevo ero veramente figo.
— Dio, mi ero dimenticata quanto fosse
odioso il Jace non posseduto — brontolò Clary.
— Devo ricordarti che hai detto di dover
accettare il fatto che non puoi proteggermi da
tutto. L’unico modo che abbiamo per
proteggerci è stare insieme. Affrontare le cose
insieme. Fidarci l’uno dell’altra. — Lo guardò
dritto negli occhi. — Non avrei dovuto
chiamare Sebastian per impedirti di andare al
Conclave. Devo rispettare le tue decisioni. E tu
le mie. Perché staremo insieme per molto
tempo, ed è l’unico modo per far funzionare le
cose.
La mano di Jace si spinse avanti poco alla
volta verso di lei, sulla coperta. — Essere sotto
l’influenza di Sebastian — disse con voce roca
— ora mi sembra un brutto sogno. Quel posto
folle… Quegli armadi pieni di vestiti per tua
madre…
— Allora ti ricordi… — Quello di Clary fu
quasi un sussurro.
Jace le sfiorò la punta delle dita con le sue,
facendole quasi fare un salto. Entrambi
trattennero il respiro mentre lui la toccava;
Clary non si mosse, ma rimase a guardarlo
mentre le spalle gli si rilassavano lentamente e
l’espressione ansiosa se ne andava dal suo viso.
— Ricordo tutto — disse. — Ricordo la barca a
Venezia, la discoteca a Praga. Quella notte a
Parigi, quando ero me stesso.
Lei sentì il sangue affluirle alla pelle,
facendole scottare il viso.
— In un certo senso, abbiamo passato cose
che nessuno, tranne noi due, potrebbe mai
capire — le disse. — E questo mi ha aperto gli
occhi. Siamo sempre, in ogni caso, meglio
insieme. — Sollevò il viso verso quello di lei.
Era pallido e il fuoco gli scoppiettava dentro gli
occhi. — Ucciderò Sebastian — annunciò. — Lo
ucciderò per quello che ha fatto a me, a te e a
Max. Lo ucciderò per quello che ha fatto e che
farà. Il Conclave lo vuole morto, e lo cercherà.
Ma io voglio che sia la mia mano a
distruggerlo.
A quel punto Clary gli si avvicinò e gli mise
una mano sulla guancia. Lui rabbrividì e
socchiuse gli occhi. Clary si aspettava di
sentire la pelle calda, invece era fresca al tocco.
— E se fossi io a ucciderlo?
— Il mio cuore è il tuo cuore — le disse. — Le
mie mani sono le tue mani.
Gli occhi di Jace erano color del miele mentre
scorrevano lentamente su e giù lungo il corpo
di lei, come se la vedesse per la prima volta da
quando era entrata in infermeria. Partivano
dai capelli arruffati dal vento e scendevano
fino agli stivali, poi ricominciavano da capo.
Quando i loro sguardi si incrociarono di
nuovo, Clary aveva la bocca asciutta.
— Ti ricordi — le disse lui — la prima volta
che ci incontrammo, quando ti dissi che ero
sicuro al novanta per cento che farti una runa
non ti avrebbe uccisa? E tu mi rifilasti uno
schiaffo, dicendomi che era per il restante
dieci?
Clary annuì.
— Ho sempre pensato che mi avrebbe ucciso
un demone — riprese Jace. — Un Nascosto
fuorilegge. Una battaglia. Ma poi ho capito che
avrei potuto morire se non fossi riuscito a
baciarti, e presto.
Clary si passò la lingua sulle labbra secche. —
Be’, lo hai fatto — rispose. — Mi hai baciata,
voglio dire.
Lui allungò una mano e le prese un ricciolo.
Era abbastanza vicino da farle sentire il calore
del suo corpo, l’odore del sapone, della pelle e
dei capelli. — Non abbastanza — disse
lasciando che la ciocca gli scivolasse fra le dita.
— Se ti baciassi tutto il giorno, ogni giorno, per
il resto della mia vita, non sarebbe ancora
abbastanza.
Jace piegò la testa. Lei non poté fare a meno
di alzare la sua. La sua mente era piena dei
ricordi di Parigi, stretta a lui come se fosse
l’ultima volta, e per poco non lo era stata
davvero. Il suo sapore, il tocco, il respiro.
Anche adesso riusciva a sentire l’aria che gli
usciva dalla bocca. Con le ciglia, le solleticava
la guancia. Le loro labbra erano a pochi
millimetri di distanza, poi si sfiorarono
leggermente e poi più forte. Si abbandonarono
l’uno all’altra… e Clary avvertì una scintilla,
non di dolore, più come una scossa di
elettricità statica. Jace si ritrasse velocemente.
Era rosso in viso. — Dovremo lavorarci su.
A Clary girava ancora la testa. — Va bene.
Lui guardava dritto di fronte a sé, ancora col
respiro affannoso. — C’è una cosa che voglio
darti.
— L’avevo capito.
A quella risposta, Jace riportò lo sguardo su
Clary e, quasi controvoglia, sorrise. — Non
quello. — Si mise una mano sotto il colletto
della maglietta e ne estrasse l’anello dei
Morgenstern appeso alla catenina. Se la sfilò
dalla testa e, chinandosi in avanti, lo lasciò
cadere delicatamente in mano a Clary. Era
caldo per via della pelle. — Alec se lo è fatto
ridare per me da Magnus. Lo porterai ancora?
Clary chiuse la mano attorno all’anello. —
Sempre.
Il sorriso teso di lui si ammorbidì e lei osò
appoggiargli la testa sulla spalla. Sentì che
trattenne il fiato, ma non si mosse.
Inizialmente rimase fermo a sedere, ma a poco
a poco la tensione gli uscì dal corpo, finché si
appoggiarono l’uno all’altra. Non fu un
abbraccio ardente e passionale, ma dolce e
comprensivo.
Jace si schiarì la voce. — Questo significa che
quello che abbiamo fatto, anzi, quasi fatto a
Parigi…
— Cioè andare sulla Torre Eiffel?
Lui le mise una ciocca di capelli dietro
l’orecchio. — Non mi dai tregua un secondo,
eh? Non importa. È una delle cose che mi
piacciono di te. Comunque, l’altra cosa che
abbiamo quasi fatto a Parigi… probabilmente
non se ne parlerà per un po’. A meno che non
vuoi che frasi tipo “quando ci baciamo brucio
di passione” diventino folle realtà!
— Niente baci?
— Baci, forse. Quanto al resto…
Clary gli strofinò dolcemente una guancia con
la sua. — Per me va bene se va bene per te.
— Ovvio che per me non va bene. Sono un
maschio adolescente. Per quanto mi riguarda,
questa è la cosa peggiore che poteva capitare
da quando Magnus fu bandito dal Perù. — Lo
sguardo gli si addolcì. — Ma non cambia quello
che siamo l’uno per l’altra. È come se alla mia
anima fosse sempre mancato un pezzo. Quel
pezzo è dentro di te, Clary. Una volta ricordo
di averti detto che, Dio o non Dio, noi siamo
soli. Ma quando ci sei tu, io non lo sono.
Clary chiuse gli occhi per non fargli vedere le
lacrime. Lacrime di gioia, per la prima volta da
molto tempo. Nonostante tutto, nonostante il
fatto che le mani di Jace restavano
prudentemente nel grembo di lui, Clary sentì
un senso di sollievo così travolgente da
soffocare
qualunque
altra
cosa:
la
preoccupazione su dove fosse Sebastian, la
paura di un futuro incerto, tutto passò in
secondo piano.
Niente più contava. Erano insieme, e Jace era
tornato se stesso. Lo sentì che girava la testa e
le dava un bacio leggero sui capelli.
— Quanto vorrei che non ti fossi messa quel
maglione! — le sussurrò all’orecchio.
— Per te è un buon allenamento — ribatté
Clary muovendo le labbra contro la pelle di lui.
— Domani, calze a rete.
Contro il suo fianco, caldo e familiare, lo sentì
ridere.
— Fratello Enoch — disse Maryse alzandosi
da dietro la scrivania. — Grazie per aver
raggiunto me e Fratello Zaccaria con così poco
preavviso.
Si tratta di Jace? volle sapere lui. Se Maryse
non avesse saputo con chi aveva a che fare,
avrebbe detto di riconoscere una punta d’ansia
nella voce del Fratello. Oggi sono andato a
controllarlo diverse volte. Le sue condizioni
non sono cambiate.
Enoch si mosse sotto la veste. E ho cercato
negli archivi e nell’antica documentazione
relativa al fuoco del Paradiso. Ci sono alcune
informazioni sul modo in cui si potrebbe
liberarlo, ma devi avere pazienza. Non c’è
bisogno che ci chiami. Se avremo notizie,
saremo noi a chiamare te.
— Non si tratta di Jace — disse Maryse
oltrepassando la scrivania con i tacchi che
battevano sul pavimento di pietra della
biblioteca. — L’argomento è completamente
diverso. — Abbassò lo sguardo. Un tappetino
era stato buttato a terra in malo modo, in un
punto dove normalmente non c’era nulla. Non
era ben disteso, ma ricurvo sopra qualcosa di
irregolare. Copriva la raffinata greca di
piastrelle che creavano la forma della Coppa,
della Spada e dell’Angelo. Si piegò, afferrò
l’angolo del tappetino e lo tirò.
I Fratelli Silenti non trasalivano mai per lo
stupore, certo, non potevano emettere suoni.
Ma la mente di Maryse si riempì di una
singolare cacofonia, l’eco psichico del loro
shock e del loro terrore. Fratello Enoch fece un
passo indietro e Fratello Zaccaria sollevò una
delle sue mani dalle lunghe dita per coprirsi il
viso, come per proteggere da quello spettacolo
i suoi occhi già deturpati.
— Stamattina non c’era — spiegò Maryse. —
Ma quando sono tornata, questo pomeriggio,
era qui ad aspettarmi.
A un primo, rapido sguardo, aveva pensato
che qualche grosso uccello fosse riuscito a
entrare in biblioteca, dove poi era morto
rompendosi magari il collo contro una delle
alte finestre. Quando però si era avvicinata, la
verità le era piombata addosso. Non disse
nulla della disperazione attanagliante che
l’aveva trafitta come una freccia, né del modo
in cui si era trascinata fino alla finestra per
vomitare di fuori nell’istante in cui aveva
capito cosa stava guardando.
Un paio di ali bianche, anzi non proprio
bianche, piuttosto un amalgama di colori
cangianti: argento chiaro, venature violacee,
blu scuro, ogni piuma bordata d’oro. E poi, lì
alla base, un orrendo stralcio di ossa e tendini
squartati. Ali d’angelo, ali d’angelo strappate
da un corpo vivente. Sul pavimento, una
chiazza di icore angelico del colore dell’oro
liquido.
In cima alle ali c’era un foglio di carta
ripiegato, indirizzato all’Istituto di New York.
Dopo essersi buttata in viso dell’acqua fresca,
Maryse aveva preso la lettera e l’aveva letta.
Era breve, una sola frase, e firmata da un
nome con una calligrafia che le era
stranamente familiare, perché aveva in sé l’eco
del corsivo di Valentine, gli svolazzi delle sue
lettere, il pugno fermo e deciso. Ma il nome
non era il suo. Era quello di suo figlio.
Jonathan Christopher Morgenstern.
Maryse passò il biglietto a Fratello Zaccaria.
Lui lo prese, lo aprì e lesse l’unica parola, in
greco antico, scritta in modo elaborato in cima
alla pagina.
Erchomai, diceva.
Sto arrivando.
NOTE
L’invocazione latina di Magnus quando evoca
Azazel, a pagina 243, che comincia con “Quod
tumeraris: per Jehovam, Gehennam” è tratta
da La tragica storia del dottor Faust di
Christopher Marlowe.
Le parti della canzone che Magnus ascolta in
macchina, alle pagine 399-400, sono estratte
da Alack, for I Can Get No Play, su gentile
concessione di Elka Cloke. elkacloke.com
La maglietta CHIARAMENTE HO PRESO
DELLE CATTIVE DECISIONI è stata ispirata
dal fumetto del mio amico Jeph Jacques, su
questionablecontent.net. Sua anche l’idea di
Magical Love Gentleman.
RINGRAZIAMENTI
Come sempre, devo ringraziare la mia
famiglia: mio marito Josh, mia madre e mio
padre, come anche Jim Hill e Kate Connor;
Melanie, Jonathan ed Helen Lewis; Florence e
Joyce. Grazie infinite anche ai primi lettori e
critici Holly Black, Sarah Rees Brennan, Delia
Sherman, Gavin Grant, Kelly Link, Ellen
Kushner e Sarah Smith. Un grazie speciale va a
Holly, Sarah, Maureen Johnson, Robin
Wasserman, Cristi Jacques e Paolo Bacigalupi
per avermi aiutata con la scaletta di lavoro e a
far quadrare le scene. Maureen, Robin, Holly,
Sarah: posso sempre venire a lamentarmi da
voi. Siete delle stelle. Un grazie a Martange per
avermi aiutata con la traduzione francese e ai
miei fan indonesiani per la dichiarazione di
Magnus ad Alec. Wayne Miller, come sempre,
mi ha assistita nelle traduzioni latine, mentre
Aspasia Diafa e Rachel Kory hanno fornito un
supporto speciale per il greco antico. Un aiuto
impagabile è arrivato dal mio agente Barry
Goldblatt, dalla mia editor Karen Wojtyla e
dalla sua complice Emily Fabre. Mille grazie
anche a Cliff Nielson e a Russell Gordon per la
bellissima copertina dell’edizione americana,
allo staff di Simon&Schuster e di Walker
Books per aver compiuto il resto della magia.
Città delle anime perdute è stato scritto con il
programma “Scrivener” nella città di Goult, in
Francia.