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Linea dura di Modi
India-Pakistan: Dopo l’attacco di Uri nel Kashmir indiano, New Delhi e Islamabad
sembrano sull’orlo dell’ennesima guerra. Di sicuro diplomatica
/ 01.10.2016
di Francesca Marino
Non si tratta di una guerra formale, certamente. O almeno non del tutto e alcuni dicono
semplicemente non ancora. Ma la quinta guerra tra Pakistan e India è decisamente in corso. Una
guerra combattuta al momento con armi che non lasciano morti sul terreno, anche se i morti
continuano a esserci, ma che rischiano di avere per entrambi i Paesi ripercussioni e conseguenze
molto più letali di un’azione militare. Dopo mesi e mesi di scaramucce a mezzo stampa e
dichiarazioni infuocate rilasciate dai leader dei due Paesi e dai loro collaboratori, il conflitto
diplomatico-politico è diventato un vero e proprio conflitto qualche giorno fa: quando a Uri, nel
Kashmir indiano, è stata attaccata dai soliti noti una base dell’esercito di New Delhi. Il bilancio di
diciotto morti, ma soprattutto l’audacia dell’azione, ha scatenato l’inferno nella regione. Da una
parte e dall’altra. In India, la stampa e i generali a mezzo stampa, hanno chiesto a gran voce
vendetta per lo smacco subito.
Modi ha annunciato di voler sospendere l’Indus Water Treaty che non era mai stato sospeso in
precedenza
Secondo gli inquirenti l’attacco di Uri sarebbe stato compiuto da un gruppo finanziato e
telecomandato da Islamabad, ma non solo. A differenza di altre volte, a organizzare l’attacco e a
pianificare l’azione non sarebbero stati soltanto i terroristi ma il Border Action Team, un gruppo che
opera al confine e che mescola appartenenti ai corpi speciali pakistani e militanti. L’intelligence
indiana ha dichiarato di avere avvertito l’esercito di un attacco imminente a opera delle forze
speciali pakistane e, sempre secondo gli inquirenti, le armi recuperate erano armi in dotazione
all’esercito e ai corpi speciali. Inutile dire che Islamabad ha negato ogni addebito, stracciandosi le
vesti come avviene dopo ogni attacco terroristico in India e aggiungendo anche che «il Pakistan non
ha mai accusato nessuno senza prove».
Il premier indiano Narendra Modi ha giurato vendetta, aggiungendo che l’India avrebbe reagito a
tempo e a luogo e nei modi che più gli si addicono. Ne è seguita la solita dichiarazione dai toni
roboanti dell’esercito pakistano, uno dei meglio armati al mondo che però, in tutta la sua storia, non
è mai stato in grado di vincere una guerra. La tanto temuta azione militare non c’è stata. Forse.
Perché nei giorni scorsi è girata voce di un’azione militare indiana oltre confine, nel Kashmir
pakistano, che avrebbe lasciato sul terreno una ventina di militanti e circa duecento feriti. Non ci
sono state conferme né da Islamabad né da Delhi, ma una serie di indizi confermerebbero
l’accaduto.
L’azione militare, se c’è stata, è servita soltanto a tenere buoni i militari e gli estremisti di destra
indiani mentre la vera offensiva si è trasferita nei palazzi del potere, nelle sedi diplomatiche e alle
Nazioni Unite. Narendra Modi ha annunciato di voler «isolare diplomaticamente» il Pakistan: non
che Islamabad abbia bisogno dell’aiuto di nessuno per farlo, negli ultimi anni è stata perfettamente
in grado di farlo da sola grazie alla politica estera pilotata al solito dall’esercito, ma tant’è. L’azione
di Uri si è rivelata per i pakistani l’ennesima Caporetto: compiuta pochi giorni prima di un
attesissimo discorso alle Nazioni Unite del premier Nawaz Sharif, discorso in cui Sharif intendeva
sollevare la questione delle violazioni dei diritti umani nel Kashmir indiano provando ancora una
volta a internazionalizzare la questione. Sharif ha parlato, un discorso definito «una farsa» perfino
dalla rappresentante pakistana alle Nazioni Unite Maleha Lodi, in un tweet reso pubblico a sua
insaputa.
Alle accuse pakistane sul Kashmir, Delhi ha scelto ormai da mesi di controbattere davanti alla
comunità internazionale sollevando la questione del Baluchistan, ma non solo. A esercitare il diritto
di replica nei confronti di Nawaz Sharif è stato inviato un diplomatico di non molto rilievo. Soltanto
giorni dopo il ministro degli Esteri indiano Sushma Swaraj si è recata Washington per parlare di
terrorismo e di Stati che sponsorizzano il terrorismo. Forte anche di una mozione da poco presentata
da due deputati Usa al Congresso, mozione in cui si chiede di dichiarare il Pakistan «sponsor del
terrorismo».
A latere dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, rappresentanti dell’India, dell’Afghanistan e
degli Usa si sono inoltre incontrati per discutere su come aggirare il blocco di Islamabad al traffico
di merci tra India e Afghanistan, in attesa dello sviluppo del porto iraniano di Chabahar. I pakistani
non hanno gradito, come non hanno gradito il ritiro di New Delhi dal prossimo meeting della Saarc
che si svolgerà in territorio pakistano. Ma non è tutto. Con una clamorosa mossa a sorpresa, e con
l’intento dichiarato di voler «punire» il Pakistan, Modi ha annunciato di voler sospendere l’Indus
Water Treaty, che non era mai stato sospeso in precedenza, nemmeno durante le guerre tra India e
Pakistan. Decisione senza precedenti che segna un punto di svolta nella politica estera indiana e che
se messa in atto, avrebbe su Islamabad effetti peggiori di quelli dell’atomica.
Riassumendo in pillole una questione su cui si sono spesi tonnellate di inchiostro e fiumi di parole, la
questione è questa: i rapporti tra i due Paesi in materia di gestione dei corsi d’acqua sono regolati
dall’Indus Water Treaty, firmato nel 1960 con la benedizione della Banca Mondiale. Il trattato
attribuisce al Pakistan lo sfruttamento dell’ottanta per cento del sistema di affluenti del fiume Indo.
L’India, nel cui territorio il fiume nasce, è autorizzata ad adoperare entro certi limiti le acque
dell’Indo e dei suoi affluenti a scopi agricoli, industriali e, ovviamente, per dissetare le popolazioni
che vivono lungo il corso dei fiumi. Nello specifico, adesso l’India ha intenzione di sviluppare
appieno la costruzione di un mega-progetto di dighe su una serie di affluenti dell’Indo che si trovano
dalla parte indiana del Kashmir.
Progetto estremamente controverso che risale a diversi anni fa. Ma soprattutto progetto che,
secondo Islamabad, sarebbe come «un fucile puntato alla tempia» del Pakistan. Leggi: se l’India
chiudesse i rubinetti, il Kashmir pakistano e soprattutto la dominante regione del Punjab si
troverebbero in ginocchio in meno di venti giorni. Islamabad si sta freneticamente appellando alla
Banca Mondiale, ma alle accuse pakistane New Delhi ha sempre risposto facendosi forte di un
parere emanato nel 2008 da osservatori delle Nazioni Unite secondo cui gran parte delle
preoccupazioni pakistane sarebbero infondate.
Il Pakistan, messo alle corde, ha addirittura accusato l’India di aver programmato l’assalto di Uri per
fare incolpare il Pakistan dalla comunità internazionale, e minaccia di spingere Pechino a restituire il
favore agli indiani chiudendo il flusso verso l’India del fiume Yarlung Zangbo. Quello stesso fiume
che, lungo la sua discesa verso il mare, attraversa il confine indiano e prende il nome di
Brahmaputra. Dal Brahmaputra dipende in gran parte l’economia di una vasta porzione degli Stati
del nordest indiano, l’esistenza stessa dell’isola fluviale di Majuli e l’equilibrio dell’ecosistema
himalayano. La guerra è appena incominciata.