nota a sentenza in materia di abusi sessuali
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nota a sentenza in materia di abusi sessuali
OSSERVATORIO PENALE ABUSI SESSUALI SU MINORE Capo di imputazione: reati di cui agli artt. 81 comma 2, 609 – bis, 609 – ter comma 1 n. 4, 609 – quater comma 1 n.1, 609 – septies comma 4 nn.1 e 2 c.p., perché più volte, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, compiva con la figlia avente età inferiore ai dodici anni, atti sessuali. Infatti, all’incirca a far data da epoca anteriore e prossima al 6.04.1998, e fino al 26.09.2004 trovandosi in casa con la predetta minore, la induceva a recarsi a letto con lui e, chiusa a chiave la porta della camera, denudandosi e denudando il predetto minore, la accarezzava su tutto il corpo e sui genitali facendosi a sua volta accarezzare e dicendole quindi parole e frasi quali: “SE TI AZZARDI A RACCONTARE QUESTE COSE SONO AFFARI TUA, E’ UN SEGRETO FRA DI NOI E I SEGRETI VANNO MANTENUTI” “ TU ADESSO FAI QUELLO CHE TI DICO IO, SE NON FAI QUELLO CHE DICO IO NON ANDIAMO Più D’ACCORDO”, “ SE TU ADESSO NON TI STAI FERMA TI UCCIDO”. Prima di analizzare la fattispecie sottoposta alla nostra attenzione, appare opportuna una breve premessa relativa al caso che ci compete. L’imputato veniva tratto in giudizio per rispondere del reato di violenza sessuale ai danni della figlia minore. Svolta l’istruttoria dibattimentale, e analizzate tutte le prove poste all’attenzione dei Giudicanti, documentali e testimoniali, il Tribunale, in composizione Collegiale, riteneva provata la penale responsabilità dell’imputato in ordine ai reati allo stesso ascritti. Il Collegio, considerava decisiva, ai fini della pronuncia della responsabilità penale dell’imputato, le dichiarazioni rese dalla minore, in sede di incidente probatorio. che all’epoca aveva l’età di anni dieci Prima di passare alla rassegna giurisprudenziale relativa all’argomento, è necessario sottolineare le problematiche che l’assunzione della testimonianza di un minore d’età comporta. Ed infatti essa deve avvenire con criteri e modalità che la Legge si è sforzata di individuare, ma che inevitabilmente lasciano insoddisfatti, magistrati, avvocati, psicologi, psichiatri, neuropsichiatri infantili e criminologi. Ed infatti la questione che si pone agli occhi di chi deve valutare la testimonianza di un minore, si palesa sotto un duplice aspetto: la capacità di deporre dello stesso e la veridicità del suo racconto, e ciò, a maggior ragione deve essere tenuto in conto soprattutto nel caso in cui il minorenne sia anche persona offesa e vittima del reato. (Cass. Pen. Sez. III 11.07.2003 n.39959) 1 Così come più volte ribadito in alcune pronunce dalla Suprema Corte infatti “le dichiarazioni rese dalla persona offesa possono essere assunte come fonte di prova ove sottoposte ad un vaglio positivo di credibilità oggettiva e soggettiva” ( Cass. Pen. Sez. Un. n. 41461 del 19.07.2012). Ed infatti, molto dibattuta è stata la scelta del legislatore di consentire alla persona offesa dal reato di deporre nella qualità di testimone, con la conseguenza che le sue dichiarazioni, possano da sole fondare l’affermazione della responsabilità penale dell’imputato. Nonostante il chiaro interesse della persona offesa, soprattutto se costituita parte civile, all’esito del processo, il legislatore non ha voluto privarsi del contributo probatorio che tale soggetto può apportare al processo. Un piccolo freno a tale scelta, è pervenuto dall’indirizzo giurisprudenziale, oramai cristallizzato, secondo cui la testimonianza della vittima necessita, a differenza della posizione testimoniale tout court, di essere sottoposta ad indagine positiva in punto di attendibilità, attraverso un riscontro della credibilità oggettiva e soggettiva, pur dovendosi escludere l’applicazione delle regole ex art. 192 commi 3 e 4 c.p.p., ossia la necessità di ricorrere ai riscontri esterni. Pertanto la potenzialità probatoria della testimonianza dipende non solo dalla rilevanza del fatto esposto nel corso dell’esame, ma anche dall’attendibilità del testimone, in questa prospettiva, il teste deve essere giudicato in relazione alla sua deposizione nella stessa maniera in cui si giudica l’imputato in relazione al fatto che gli si attribuisce. La giurisprudenza ha poi affermato che le modalità di valutazione della testimonianza devono mutare in ragione della “qualità della prova”, determinata da una serie di elementi: dal grado di intrinseca attendibilità del deponente, dato dalle sue caratteristiche personali, morali, intellettive e sensitive; dalla presenza o meno di un suo personale interesse alla vicenda processuale; dalle sue capacità di attenzione e di memoria. Sempre in tema di valutazione della testimonianza, giova rilevare che la giurisprudenza aderisce al principio della scindibilità che, consente di ritenere al contempo, sincera una parte della deposizione ed, inattendibile un’altra parte della stessa. Il Giudice, peraltro, deve dar conto dell’applicazione di tale principio, con adeguata motivazione che esplichi le ragioni di tale diversa valutazione e del perché del configgente esito di essa non si rifletta in un complessivo contrasto logico-giuridico della prova posta a supporto della decisione. In particolare, relativamente alla valutazione dell’attendibilità della vittima del reato, è stato ribadito che il controllo sulle dichiarazioni della persona offesa, considerato l’interesse del quale essa è portatrice, deve, peraltro, essere particolarmente rigoroso, specie laddove si tratti di minore e l’esame concerna fatti che possono interagire con delicati aspetti della personalità, come nel caso di reati contro la libertà sessuale. 2 Ed infatti se è vero che, le dichiarazioni della persona offesa possono essere assunte anche da sole come fonte di prova ove sottoposte ad un vaglio di credibilità oggettiva e soggettiva (Cass. Pen. Sez. Un n. 41461 del 19.07.2012) è altresì vero che tale controllo debba essere condotto con la necessaria cautela attraverso un esame particolarmente rigoroso e penetrante che tenga conto anche degli altri elementi emergenti dagli atti. Tali principi trovano applicazione ancor più forte quando la persona offesa sia un soggetto affetto da patologia mentale ed i fatti narrati possano interagire con gli aspetti più intimi della sua personalità, così da accentuare il rischio di suggestioni, di reazioni emotive, di comportamenti di compiacenza o auto protettivi, di contaminazioni da c.d. “dichiarazioni a reticolo” in comunità quali la famiglia. Ed infatti, posto che la capacità del testimone di rendere dichiarazioni vada valutata in concreto, e non in astratto, ne consegue che soltanto quando il Giudice disponga di concreti elementi per stabilire che il dichiarante sia assolutamente incapace di rendere dichiarazioni, operi il divieto di assumerne le dichiarazioni; diversamente in presenza di una patologia psichiatrica che non renda il dichiarante incapace, le sue dichiarazioni, se valutate con particolare rigore, possono essere ritenute attendibili ed utilizzate ai fini probatori. ( Cass. Pen. Sez. 2, n. 12195 del 14.03.2012). Nel caso qui esaminato, siamo in presenza di una persona offesa che, all’epoca dei fatti come specificato, era minorenne e portatrice di una seri di disturbi psicologici, emozionali e comportamentali, ed in questi casi bisogna ricordarsi che seppur è vero che anche lo stato di ritardo mentale della persona offesa, non escluda che alla testimonianza della stessa sia attribuito pieno valore probatorio, è altrettanto vero però che ciò è possibile qualora il Giudice abbia accertato, ed abbia dato congrua motivazione, che la deposizione non sia stata influenzata dal deficit psichico. ( Cass. Pen. Sez. 3 n. 9734 del 16.06.1999). In estrema sintesi si ha che, da una parte, in generale le dichiarazioni della persona offesa di abusi sessuali, che abbia piena capacità di intendere e volere, possono esse solo fondare la prova della responsabilità dell’autore della condotta ove non sussistano elementi, anche solo indiziari di segno opposto che possano indurre a dubitare dell’attendibilità di tali dichiarazioni, nel qual caso il Giudice di merito è chiamato a valutarli criticamente e ad esprimere la ragione del suo convincimento. D’altra parte, come autorevolmente chiarito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, le regole dettate ex art. 192 comma 3 c.p.p. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. 3 ( Cass. Pen. Sez. Un. n.41461 del 19.07.2012), che peraltro ha precisato, come nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi). Altra considerazione di carattere generale, è che la verifica dell’attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa asseritamente abusata è rimessa alla prudente valutazione del Giudice di merito. Il procedimento valutativo delle risultanze processuali converge, infatti verso un giudizio di attendibilità del teste; in questo senso è bene sempre ricordarsi che mentre la verifica dell’idoneità mentale del teste, diretta ad accertare se questi sia stato nelle condizioni di rendersi conto dei comportamenti tenuti in suo pregiudizio e sia in grado di riferire sugli stessi, senza che la sua testimonianza possa essere influenzata da eventuali alterazioni psichiche, è demandabile al perito, l’accertamento dell’attendibilità del teste, attraverso l’analisi della condotta dello stesso e dell’esistenza di riscontri esterni, deve formare oggetto del vaglio del Giudice. Sul punto la giurisprudenza della Suprema Corte, ha fornito alcune linee guida per valutare l’attendibilità dei bambini in tenera età che si dichiarino vittime di abusi sessuali. Ed infatti, se è vero che, in tali casi, il giudice possa trarre il proprio convincimento circa la responsabilità penale anche dalle sole dichiarazioni rese dalla persona offesa, sempre che sia sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità, senza la necessità, come detto, di applicare le regole probatorie di cui all’art. 192 commi 3 e 4 c.p.p., che richiedono la presenza di riscontri esterni, è stato però stabilito che nel caso di persona offesa nei reati sessuali, di età minore, è necessario che l’esame della credibilità sia onnicomprensivo e tenga conto di più elementi quali:” l’attitudine a testimoniare, la capacità a recepire le informazioni, ricordarle e raccordarle ( ovvero l’attitudine psichica, rapportata all’età, a memorizzare gli avvenimenti e a riferirne in modo coerente e compiuto), nonché il complesso delle situazioni che attengono la sfera del minore, il contesto delle relazioni con l’ambito familiare ed extrafamiliare ed i processi di rielaborazione delle vicende vissute” (Cass. Pen. Sez.3 n.39994 del 26.09.2007 e Cass. Pen. Sez. 3 n.29612 del 27.07.2010). E’ stato precisato “ che l’assunto secondo il quale i bambini piccoli non mentono consapevolmente e la loro fantasia attinge pur sempre ad un patrimonio conoscitivo deve essere contemperato con la consapevolezza che gli stessi possono essere dichiarate attendibili se lasciati liberi di raccontare, ma diventano altamente malleabili in presenza di suggestioni etero indotte, interrogati con domande inducenti, tendono a conformarsi alle aspettative dell’interlocutore ( Cass. Pen. Sez. 3 n. 37147 del 18.09.2007). Ed ancora “ per controllare che il bambino non abbia inteso compiacere l’interlocutore ed adeguarsi alle sue aspettative, è utile poter ricostruire la genesi della notizia di reato, cioè, focalizzare quale sia 4 stata la prima dichiarazione del minore (che, se spontanea, è la più genuina perché immune da interventi intrusivi), quali le reazioni emotive degli adulti coinvolti, quali le loro domande, se la narrazione del bambino si è amplificata nel tempo, è necessario verificare se l’incremento del racconto sia dovuto all’abilità degli intervistatori oppure alle loro indebite interferenze (Cass. Pen. Sez.3 n. 24248 del 13.05.2010). Da tali assunti emerge la necessità di una valutazione rigorosa e neutrale da parte dei giudici delle dichiarazioni rese dai bambini, con l’opportuno aiuto delle scienze che risultano rilevanti nella materia (pedagogia, psicologia, sessuologia), al fine di esprimere un giudizio di attendibilità, attraverso un’articolata analisi critica, anche e soprattutto, degli elementi probatori di conferma. Sulla linea di tali studi scientifici, la Carta di Noto, che contiene le linee-guida per gli esperti nell’ambito degli accertamenti da loro compiuti sui minori vittime di abuso sessuale (la quale, pur non dettando regole di valutazione vincolanti, rappresenta un formidabile strumento di verifica dei dati probatori acquisiti nel processo), nel nuovo testo approvato il 12.06.2011, ha sottolineato la necessità di analizzare il minore considerando le modalità attraverso le quali il minore ha narrato i fatti ai familiari, alla polizia giudiziaria, ai magistrati ed agli altri soggetti, tenendo conto in particolare: a) delle sollecitazioni e del numero di ripetizioni del racconto; b) delle modalità utilizzate per sollecitare il racconto; c) delle modalità della narrazione dei fatti ( se spontanea o sollecitata, se riferita solo dopo ripetute insistenze da parte di figure significative); d) del contenuto e delle caratteristiche delle primissime dichiarazioni, nonché delle loro modificazioni nelle eventuali reiterazioni sollecitate. Inoltre al punto 13 del testo è espressamente ricordato che deve essere data particolare attenzione ad alcune situazioni specifiche idonee ad influire sulle dichiarazioni dei minori come: 1) separazioni coniugali caratterizzate da inasprimento di conflittualità dove si possono verificare, ancor più che in altri casi, situazioni di falsi positivi o falsi negativi; 2) allarmi generati solo dopo l’emergere di un’ipotesi di abuso. Quindi, per una corretta valutazione, i Giudici di merito devono stabilire se il racconto dei fatti, quale emerge dalle dichiarazioni de relato rese dai genitori o da chi abbia ricevuto il primo “disvelamento” dell’abuso sessuale, corrisponde a quanto il minore ha realmente vissuto, unitamente all’eventuale conferma del racconto stesso in sede di incidente probatorio tenuto conto degli elementi scaturenti dalle perizie psicologiche che siano state disposte. 5 Con riferimento invece alla veridicità del racconto del minore di età vittima di abusi, la sede più appropriata per l’escussione del testimone minorenne diventa l’incidente probatorio, con le garanzie costituzionali e processuali riservate a tutte le parti del processo. In tale sede, sotto il profilo della veridicità del racconto, bisognerà preventivamente valutare le modalità per l’escussione del teste. Non v’è dubbio alcuno, che il Giudice che avrà disposto l’incidente probatorio, ordini che si proceda con tutte le cautele possibili, perché anzitutto devono essere tutelate le esigenze del minorenne. Egli può stabilire particolari modalità per procedere all'incidente probatorio, che reputi necessarie od opportune. Fra queste particolari modalità di assunzione della prova, ad esempio rientra sicuramente anche la forma scritta, laddove sia consigliata o imposta dall'esigenza di proteggere la fragile emotività del minore e di assicurare nel contempo la genuinità della deposizione. Secondo la Suprema Corte “Il ricorso alla forma scritta, non costituisce una lesione del principio del contraddittorio, giacché all'incidente probatorio partecipano necessariamente il pubblico ministero e il difensore dell'indagato e ha diritto di partecipare anche il difensore della persona offesa (articolo 401, comma 1, del c.p.p.), e tutti costoro hanno diritto di proporre al giudice le domande e le contestazioni da rivolgere al testimone ai sensi del combinato disposto degli articoli 401, comma 5, e 495, comma 4, del c.p.p. Questa forma scritta, inoltre, neppure configura una deroga al principio dell'oralità, dovendosi intendere per tale il principio, fondamentale nel rito accusatorio, che vieta le prove scritte precostituite, cioè formate fuori del processo, mentre nella suddetta modalità di svolgimento dell'incidente probatorio la prova non si viene precostituita fuori del processo, ma si forma nell'udienza camerale in contraddittorio tra le parti” (Cass. pen., Sez. III, 25/05/2004, n.33180). Ma “l’inesistenza nel sistema normativo di preclusioni o limiti alla capacità del minore a rendere testimonianza (art. 196 c.p.p.) non affranca il giudice dal dovere di controllarne le dichiarazioni con impegno assai più solerte e rigoroso rispetto al generico vaglio di credibilità cui vanno sottoposte le dichiarazioni di ogni testimone. In particolare, nei reati a sfondo sessuale - dei quali il minore è frequentemente vittima e il suo contributo non è normalmente sottraibile alla ricostruzione del fatto il giudice deve accertare la sincerità della testimonianza del minore, con l'esercizio di una straordinaria misura di prudenza e con un esame particolarmente penetrante e rigoroso di tutti gli altri elementi probatori di cui si possa eventualmente disporre. A tal fine, può rivelarsi necessario il ricorso agli strumenti dell'indagine psicologica per verificare, sotto il profilo intellettivo e affettivo, la concreta attitudine del minore a testimoniare, la sua credibilità, la sua capacità a recepire le informazioni, a raccordarle tra loro, a ricordarle e a esprimerle in una visione complessa, da stimare 6 in relazione all'età, alle condizioni emozionali che regolano le sue relazioni con il mondo esterno, alla qualità e alla natura dei suoi rapporti familiari. E ciò anche al fine di escludere che una qualunque interferenza esterna, talvolta collegata allo stesso ambiente domestico nel quale l'abuso sessuale non di rado si consuma, possa alterare la genuinità dell'apporto testimoniale” (Cass. pen., Sez. III, 28/02/2003, n.19789). In conclusione, come si è visto, non esistono riferimenti normativi e quindi processuali, tali da delimitare i confini entro i quali debbono essere valutati i due elementi fondamentali per procedere all’esame del testimone minorenne (capacità di testimoniare e veridicità delle dichiarazioni). Tuttavia, grazie al contributo fondamentale della psicologia, della psichiatria, della neuropsichiatria infantile, della criminologia, della giurisprudenza di merito e di quella di legittimità, l’esame testimoniale del minorenne è ormai prossimo a quelle garanzie costituzionali di tutela poste alla base del nostro (non perfetto) sistema giuridico. Dal punto di vista strutturale, l’art. 609 bis c.p. distingue due diverse fattispecie: la prima, contemplata nel primo comma, punisce con la reclusione da uno a cinque anni “chiunque con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o a subire atti sessuali”; mentre la seconda sottopone alla medesima pena “chi induce taluno a compiere o a subire atti sessuali”, attraverso due condotte tipicamente contemplate dalla norma. Con l’entrata in vigore della legge n. 66 del 15 febbraio 1996, le vecchie fattispecie di violenza carnale e di atti di libidine violenti (che erano previste dagli abrogati artt. 519-521 c.p.) sono state ridefinite nell’unico concetto di “violenza sessuale” e collocate per una scelta di principio del legislatore tra i delitti contro la libertà personale. Il delitto previsto dall’art. 609 bis c.p. è quindi integrato da ogni costrizione a subire un atto sessuale, che va inteso non soltanto come congiunzione carnale (che implica, pertanto, penetrazione) ma anche come atto di natura oggettivamente sessuale (tra i quali i toccamenti, la palpazione, la masturbazione ma anche, in taluni casi, il bacio sulle labbra), nel senso che tali comportamenti dovranno essere valutati per la loro attitudine ad offendere la libertà sessuale della persona offesa. Secondo una diffusa interpretazione gli atti sessuali presi in considerazione dal codice penale non sarebbero solo quelli che involgono la sfera propriamente genitale, ma anche quelli che riguardano le zone del corpo considerate erogene. Appare subito evidente che la norma attuale ha una portata molto più ampia: non è violenza sessuale solamente la condotta di chi subisce atti sessuali, ma, altresì, quella in cui o viene a mancare il contatto corporeo tra carnefice e vittima e quest’ultima deve realizzare atti sessuali su se stessa, ovvero il contatto c’è e la vittima deve compiere atti sessuali a favore dell’agente. 7 In tali ipotesi la giurisprudenza ha ritenuto che l'induzione sufficiente alla sussistenza del reato non si identifica solamente nell'attività di persuasione, esercitata sulla persona offesa, per convincerla a prestare il proprio consenso all'atto sessuale, ma consiste in ogni forma di sopraffazione posta in essere senza ricorrere ad atti costrittivi ed intimidatori nei confronti della vittima, la quale, non risultando in grado di opporsi a causa della sua condizione di inferiorità, si sottopone al volere dell'autore della condotta, divenendo strumento di soddisfazione delle voglie sessuali di quest'ultimo (Cass. Pen., sez. IV, 17 settembre 2008, n. 40795). Peraltro la complessiva disciplina della “violenza sessuale” non si esaurisce nella previsione e conseguente repressione della costrizione all’atto sessuale prevista dall’art. 609 bis comma 1 c.p. perché il reato viene commesso anche tramite due tipi di “induzione” ritenute rilevanti da legislatore nel secondo comma dell’art. 609bis c.p.. Occorre intendersi sul significato di induzione (che di norma, andrebbe intesa come attività di pressione psicologica o più semplicemente, di persuasione) nello specifico ambito dell’art. 609 bis c.p. Infatti il delitto (ulteriore e diverso da quello descritto al primo comma) è commesso da chi “induce” taluno a compiere o subire atti sessuali, purché ciò avvenga attraverso due modalità descritte dalla stessa norma al comma 2: 1) l’autore del fatto deve avere abusato delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della vittima; 2) deve essersi sostituito ad altra persona traendo così in inganno la persona offesa. In tali casi, si noti, il consenso della vittima è viziato da una oggettiva situazione di “minorata difesa” o dall’inganno perpetrato dal soggetto agente. La seconda fattispecie assume rilevanza penale quando si realizzano le condizioni, indicate dal legislatore, ossia l’abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica ovvero la sostituzione di persona (violenza sessuale per induzione). La pena è assai elevata (da 5 a 10 anni per la fattispecie-base) e, per le vicende di basso profilo delinquenziale (si pensi alla “manomorta”, al bacio, alle palpazioni, a taluni approcci maleducati), sembra palesemente sproporzionata. Unico elemento d’equilibrio è nell’ultimo comma dell’art. 609bis c.p. ove si prevede che: “nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi” (sicchè il minimo della pena sarà pur sempre di un anno e otto mesi di reclusione). Per contro, il reato è caratterizzato da una serie di aggravanti specifiche (art. 609ter c.p.): la pena è della reclusione da sei a dodici anni se il fatto descritto nell’art. 609bis c.p. è commesso - nei confronti di persona minore di 14 anni; - nei confronti di persona minore di 16 anni quando l’autore del fatto sia l’ascendente, il genitore (anche adottivo) o il tutore; - all’interno o nelle vicinanze della scuola 8 frequentata dalla persona offesa; - con l’uso di armi, alcool o sostanze stupefacenti; - da persona travisata o che simuli la qualità di pubblico ufficiale; - su persona sottoposta a limitazioni della libertà personale. La più incisiva delle circostanze aggravanti (per cui la reclusione è da sette a quattordici anni) opera nel caso in cui la vittima non abbia ancora compiuto 10 anni. La scelta repressiva del legislatore nei confronti di questo tipo di reati è resa particolarmente evidente da due previsioni introdotte nel codice di procedura penale. In primo luogo, l’imputato di violenza sessuale non può ottenere una sentenza di patteggiamento (art. 444 ss. c.p.p.), “qualora la pena superi due anni soli o congiunti a pena pecuniaria” (soluzione impossibile con una pena minima di 5 anni di reclusione per la fattispecie-base). Inoltre, il condannato per il delitto previsto dall’art. 609bis c.p. è fortemente ostacolato anche nella possibilità di ottenere misure alternative alla detenzione. Egli infatti non può beneficiare della sospensione dell’esecuzione della condanna (si veda art. 656 co. 9 lett. a che rinvia all’art. 4bis legge ordinamento penitenziario), sospensione comunemente prevista dal codice di procedura penale in tutti i casi in cui la pena detentiva da eseguire non sia superiore a tre anni: quanto sopra significa che il condannato per violenza sessuale dovrà necessariamente subire l’esecuzione (con traduzione, dunque, in carcere) prima di potere formulare istanze per scontare la pena tramite una delle note misure alternative (affidamento in prova e detenzione domiciliare). La tutela della persona offesa dal reato previsto dall’art. 609bis c.p. e, in generale, dai reati contro la libertà sessuale, è dunque particolarmente intensa. Ciò si riflette anche sul piano della prova, dal momento che la giurisprudenza è costante nell’ammettere che la sentenza di condanna possa essere fondata sulla sola testimonianza della parte offesa: non v’è dubbio che l’estrema durezza del legislatore nei confronti dell’autore (o anche solo del supposto autore) di questo genere di reati non è del tutto compensata dalla presenza di garanzie per l’imputato proprio nel più delicato settore della ricostruzione del fatto e della valutazione della responsabilità. L’art. 609 bis c.p., inoltre, all’ultimo comma statuisce che “nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi”. La norma ha suscitato alcune perplessità in dottrina. Al riguardo, è stato evidenziato come tale previsione abbia l’intento di consentire diminuzioni di pena nei casi più lievi in cui la pena, stabilita negli altri commi, potrebbe risultare eccessiva. Tuttavia, così operando, il legislatore ha delegato al giudice il compito di mitigare e rendere più eque, nel caso concreto, delle sanzioni molto rigorose. In ogni caso, la valutazione relativa alla maggiore o minore gravità della violenza deve essere posta in essere sulla base dei seguenti elementi: 9 1) Valutazione del disvalore della condotta criminale, desunto dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell'azione; 2) gravità del danno criminale o del pericolo cagionato alla persona offesa; 3) l'intensità del dolo o il grado della colpa; senza alcun obbligo, invece, di prendere in considerazione specificamente anche gli indici della capacità a delinquere, i quali potranno essere valutati solo ai fini della commisurazione finale della pena (Cassazione Penale, sez. IV, sentenza 8 giugno 2007, n. 22520). Sempre sull’argomento, va rilevato come siano sorti dei dubbi anche sulla qualificazione giuridica della norma. In buona sostanza ci si è chiesti se le ipotesi di minore gravità integrino una circostanza attenuante ovvero una autonoma fattispecie incriminatrice. Dottrina e giurisprudenza ( Cass. Pen. sez. III, 5 Febbraio 2009, n. 10085) sono concordi nell’abbracciare la prima tesi . Va, infine, rilevato che tale circostanza, non può essere concessa nell'ipotesi di reato di violenza sessuale di gruppo di cui all'art. 609 octies c.p., in quanto trattasi di attenuante specifica prevista soltanto per la violenza sessuale individuale ed essendo, in ogni caso, incompatibile logicamente con la maggiore gravità di una violenza sessuale di gruppo (Cass. Pen., sez. III, 12 ottobre 2007, n. 42111). A tal fine in tema di reati sessuali, per l’applicazione dell’attenuante speciale dei casi di minore gravità, di cui all’ultimo comma dell’articolo 609-bis del c.p., non è sufficiente la mancanza di congiunzione carnale tra l’autore del reato e la vittima, essendo piuttosto necessario verificare che vi sia stata una minima compressione della libertà sessuale della vittima, da verificare prendendo in considerazione le modalità esecutive e le circostanze dell’azione attraverso una valutazione globale che comprenda il grado di coartazione esercitato sulla persona offesa, le condizioni fisiche e psichiche della stessa, le caratteristiche psicologiche valutate in relazione all’età, l’entità della lesione alla libertà sessuale ed il danno arrecato, anche sotto il profilo psichico. Con la pronuncia numero 46184 del 18 novembre 2013 la terza sezione della Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi in merito ai parametri di valutazione dei cd. casi di “minore gravità” richiamati dall’ultimo comma dell’art. 609 bis c.p. (violenza sessuale). L’art. 609 bis c.p. dispone, al 3° comma infatti: Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi. E’ opportuno precisare come sulla questione riguardante i casi di “lieve entità” si pronunciò il 18 luglio del 1995 la Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati. Il suggerimento 10 della Commissione fu di spingere il legislatore a predefinire in maniera più puntuale i criteri di giudizio in base ai quali valutare i casi di lieve entità del fatto, relativi alla normativa in tema di violenza sessuale antecedenti alla legge del 1996. Con la riforma dei reati sessuali si ottenne la sostituzione della formula “lieve entità” con l’altra che fa riferimento ai “casi di minore gravità”. Tale sostituzione, rappresentò però, una semplice modifica di carattere terminologico. Nel caso de quo il Collegio rileva come l’assenza di congiunzione carnale non sia motivo idoneo ad integrare l’attenuante di cui all’ultimo comma dell’art. 609 bis (Sez. 3 n. 10085, 6 marzo 2009; Sez. 3 n. 14230, 4 aprile 2008), ma sia piuttosto necessaria una “minima compressione della libertà sessuale” attraverso una valutazione di carattere globale prendendo in considerazione le modalità esecutive (art. 133 c.p.) In sostanza, quindi per giudicare della minore gravità del fatto, bisogna aver riguardo, non già della “quantità” di violenza fisica impiegata o alla tipologia dell’aggressione sessuale, ma piuttosto alla “qualità” dell’atto compiuto, che deve desumersi dall’intero contesto del fatto e delle condizioni personali della vittima (grado di coartazione esercitato dal soggetto agente, caratteristiche psicologiche della persona offesa anche in relazione all’età, danno arrecato alla vittima in termini psichici) (Cass.., Sez. III, 24 marzo 2000). Avv. Teresa Caiazza e Adriana Toti 11