Non solo vino e moda. Anche le armi sono un,eccellenza italiana

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Non solo vino e moda. Anche le armi sono un,eccellenza italiana
settimanale left avvenimenti
poste italiane spa - SPED. abb.
Post. - D.L. 353/2003 (conv. in l.
27/02/2004 n. 46) ART. 1, COMMA
1 DCB roma - ann0 XXv - ISSN
1594-123X
politica Maggioranze sciiti vs sunniti Chi vuole scienza Il grafene,
in laboratorio
la plastica del futuro
dividere i musulmani
avvenimenti
N. 12 | 30 marzo 2013 left + l’unità 2 euro (0,80+1,20)
da vendersi obbligatoriamente insieme al numero di sabato 30 marzo de l’Unità.
Nei giorni successivi euro 0,80+il prezzo del quotidiano
made
in italy
Non solo ,vino e moda. Anche
le armi sono un eccellenza italiana.
Peccato le comprino dittatori e stragisti
di Davide Illarietti e Sofia Basso
settimanale left avvenimenti
poste italiane spa - SPED. abb.
Post. - D.L. 353/2003 (conv. in l.
27/02/2004 n. 46) ART. 1, COMMA
1 DCB roma - ann0 XXv - ISSN
1594-123X
la settimanaccia
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30 marzo 2013
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LA TESTATA FRUISCE DEI CONTRIBUTI
DI CUI LA LEGGE AGOSTO 1990, N. 250
left 30 marzo 2013
la nota di
Manuele Bonaccorsi
Europa fai da te
L
a crisi? Pagatevela da soli. È il principio che sta dietro alla soluzione dell’emergenza Cipro, piccolissima
per dimensioni - appena lo 0,1 per cento del Pil europeo - ma importantissima per il precedente che rappresenta.
Ognun per sé, appunto: i debiti bancari li paghino correntisti e azionisti. Un
«modello», per il capo dell’Eurogruppo, l’olandese Dijsselbloem. Tutti, a Bruxelles, si sono affrettati a smentire le dichiarazioni del ministro “nordico”. Hollande ha ribattuto che la garanzia dei
depositi bancari è «un principio assoluto e irrevocabile». Non è un mistero, però, che in cuor loro i tedeschi pensino a
quello di Cipro come un ottimo accordo, da spendere anche nella campagna
elettorale di Berlino (si voterà a maggio per il rinnovo del Parlamento). Centrata sul tema del rapporto tra un Nord
Europa virtuoso e il Sud spendaccione.
Anche con qualche venatura antieuro.
L’Italia non c’entra nulla con Cipro, si
sono affrettati a ripetere da Bruxelles
e Roma. Conviene però chiedere ai tedeschi che ne pensino, dato che le fila
dell’euro continuano a tenerle loro. Inutile chiedere a quelli di “Alternativa per
la Germania”, neonata formazione politica che propone l’uscita degli straccioni mediterranei dall’Euro. Rivolgiamoci al più paludato Deutsche instituts fur
wirtschaftsforschung, che dietro il nome
impronunciabile nasconde uno dei più
influenti centri studi tedeschi, con sede a
Francoforte. Questa estate l’istituto proponeva per risolvere l’emergenza debito
italiano una cura in stile cipriota: «Una
tassa speciale pari al 10 per cento dei redditi che porterebbe in cassa qualcosa come 230 miliardi di euro». Una patrimoniale shock, quindi. Da investire non nella
crescita o nella riduzione della diseguaglianze o nel welfare (per cui l’Italia è ormai fanalino di coda in Europa). Ma per
ripagare i debiti con la finanza. E levare ai
tedeschi il problema di raffreddare il rosso del debito italiano. In quel periodo il
vicepresidente dell’Spd Poß proponeva:
«Prima che altre misure di aiuto vengano
accordate, ci si può aspettare che un Paese in crisi mobiliti la propria ricchezza nazionale». Appunto.
Aggiungiamo qualche dato. Il recente Documento di finanza pubblica italiana vaticina per il 2013 una nuova recessione, pari al -1,3 per cento. Disoccupazione quasi
al 12 per cento, pressione fiscale record
al 44 per cento, ma entrate in riduzione
per 15,7 miliardi (la crisi fa ridurre le tasse versate allo Stato, anche se aumenta
l’aliquota pagata). Riuscirà l’Italia a mantenere in ordine i suoi conti, nonostante
l’ennesima gelata? Sembrerebbe di sì: insieme alla Germania, il Belpaese dovrebbe essere l’unico socio Ue a rispettare gli
stringenti dogmi dell’austerity dettati dal
fiscal compact. Pagando, però, un prezzo
sociale altissimo. Se poi la recessione dovesse indebolire ancora i conti, dal Nord
ci arriva una voce chiara: i vostri debiti
pagateveli voi. Nessun allentamento della stretta monetaria, nessun eurobond.
Ognuno per sé: è l’Europa unita.
Ora, questo problema resta in piedi, qualsiasi sia il governo che uscirà dal Quirinale o dalle prossime elezioni. E ogni piano
shock per tornare a crescere - che sia di
Bersani o Grillo, di Cgil o Confindustria deve scontrarsi con la Troika e il freddo
di Berlino. A meno che non si proponga di
uscire dall’euro. In quel caso, però, smetteremmo di pagare pensioni e stipendi
pubblici e di esportare il nostro made in
Italy. Neppure nel M5s - che giustamente
attacca i partiti sull’approvazione del pareggio di bilancio e del fiscal compact hanno il coraggio di proporlo chiaramente. Il dubbio, amletico, è semplice: perché
l’Italia non discute di questo, invece che
solo degli stipendi dei parlamentari?
3
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spigolature
left.it
Un supermercato per disoccupati
gattopardo senza veli
A 50 anni dall’anteprima mondiale al Barberini di Roma dello storico film di Visconti, Operazione Gattopardo - un libro di Alberto Anile e Maria Gabriella
Giannice - scopre alcune scene tagliate dal Gattopardo, tratto dal romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Come quando Don Fabrizio in una stanza d’albergo amoreggia con una cocotte, o Tancredi esorta
don Calogero a usare i militari contro i contadini.
28 %
La percentuale
dei consumi
elettrici italiani
coperta dalle
fonti rinnovabili
nel corso del
2012. A renderlo
noto Comuni
rinnovabili, il
rapporto 2013
di Legambiente.
Sono 27 i Comuni
100% rinnovabili
che coprono
interamente
i fabbisogni
dei residenti.
4
ok
Magdi Allam lascia la
Chiesa cattolica perché «troppo debole con
l’Islam». L’Europa dovrebbe trovare «la lucidità e il coraggio di denunciare l’incompatibilità dell’Islam con
la nostra civiltà», ha aggiunto. Guerrafondaio.
ko
Pompieri contro carabinieri
L’Usb Vigili del fuoco chiede al ministro Cancellieri di
aprire un’inchiesta sui fatti del 25 marzo. Quando, a Padova, due carabinieri in borghese chiedono a una squadra di pompieri in servizio di poter indossare le loro divise per arrestare dei presunti spacciatori di droga. Il
caposquadra accetta e, all’ingresso nell’appartamento,
si scatena un parapiglia. «Se fosse scattato un conflitto a fuoco, il nostro personale sarebbe stato privo di protezione», spiega Antonio Jiritano di Usb. «È gravissimo. Condanniamo
l’uso improprio di un Corpo che non deve svolgere operazioni di ordine pubblico».
t.b.
avvenimenti
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30 marzo 2013
left
© Monaldo / LaPresse
Si chiama Emporio Portobello, si trova a Modena ed è il primo supermercato del baratto: si paga la spesa prestando lavoro. Come?
Semplice, il prezzo non è indicato in euro ma in punti. Ogni famiglia è dotata di una tessera e di bollini con i quali poter “fare la spesa”. L’idea, del Centro servizi per il volontariato
modenese, si rivolge a 450 famiglie in difficoltà
economica scelte in base al quoziente Isee, in
collaborazione con i servizi sociali. «Un emporio sociale contro la crisi», come si autodefiniscono sul loro sito.
«La risposta concreta del volontariato
modenese ai bisogni delle famiglie in
difficoltà». Inaugurazione ufficiale nel
t.b.
mese di maggio.
«Era ora che i governi
ascoltassero chi opera
nel sociale». A dirlo è Luigi Ciotti di
Libera che, dopo l’incontro con Bersani, afferma
anche di non essere interessato alla carica di ministro. «Lo sono da 40 anni
per la Chiesa». Coerente.
left.it
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sommario
ianno XXV, nuova serie n. 12 / 30 marzo 2013
copertina
politica
medio oriente
Una fiera con 45mila visitatori e
un fatturato da 5 miliardi. Il più
grande distretto mondiale di armi
leggere è a Brescia. Qui si producono le armi olimpioniche ma anche quelle
di stragisti e dittatori. Vendute senza controllo. Grazie alle pressioni della Farnesina.
Negli ultimi vent’anni molti governi
nati senza avere i numeri sulla carta. Il primo esecutivo Berlusconi nel
’94 e quello guidato da Prodi nel
’96 si presentarono alle Camere senza una
maggioranza certa. Ecco cosa deve affrontare Bersani per uscire dall’impasse.
Si approfondisce la divisione
tra sciiti e sunniti all’interno del
mondo musulmano. E i gruppi
jihadisti si dedicano sempre
più alla guerra settaria, abbandonando gli
obiettivi occidentali. Che ringraziano, alimentando la retorica di un Islam diviso.
Eccellenza italiana
16
la settimana
02
03
04
06
La settimanaccia
La nota
Spigolature
fotonotizia
l’incontro
12 Lella Costa: ridere sul serio
di Sofia Basso
copertina
maggioranze di minoranza
24
islam contro islam
36
IDEE
RUBRICHE
di Alberto Cisterna
di Emanuele Santi
a cura della redazione Interni
a cura della redazione Esteri
08 In punta di penna
10 altrapolitica
di Andrea Ranieri
11 Ti riconosco
di Francesca Merloni
54 TRASFORMAZIONE
di Massimo Fagioli
16 Eccellenza italiana
di Davide Illarietti
22 La diplomazia delle armi
di d.i.
23 L’Europa sfida gli Usa
di Sofia Basso
33 Calcio mancino
34 Cose dell’altritalia
44 newsglobal
58 puntocritico
cinema di Morando Morandini
arte di Simona Maggiorelli
libri di Filippo La Porta
60 bazar
il personaggio, buonvivere,
tendenze, docufilm
61 in fondo di Bebo Storti
62 appuntamenti
a cura della redazione Cultura
società
24
28
30
32
Maggioranze di minoranze
di Rocco Vazzana
Decreto inganna malati
di Simona Maggiorelli
I tappabuchi di Donatella Coccoli
Libera nos a mafia di don.coc.
mondo
36 Islam contro Islam di Cecilia Tosi
40 Cipro non contagerà la Ue
di Alfonso Bianchi
left 30 marzo 2013
42 Orgoglio polare
di Paola Mirenda
cultura e scienza
48 La scommessa del grafene
di Pietro Greco
52 Roma, ritorno al futuro
di Vittorio Emiliani
54 La doppia vita di David Bowie
di Michele Manzotti
Chiuso in tipografia il 27 marzo 2013
5
fotonotizia
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30 marzo 2013
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Benvenuta
primavera
Trionfo dei colori durante
l’Holi Hindu, festività nazionale che in tutta l’India celebra l’arrivo della primavera. Chiamato anche Festival dei colori, cade nel giorno di luna piena del mese di
marzo. L’entusiasmo di decine di milioni di persone si
manifesta attraverso il lancio di fiori e di acqua e polvere colorate, come rappresentazione della gioia per la
rinascita della natura, il prevalere del bene sul male e la
vittoria leggendaria sul demone Holika.
(Kumar Singh/Ap photo)
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in punta di penna
di Alberto Cisterna
il taccuino
Cariche pubbliche
per interessi personali
Serve una legge che imponga regole non solo per Silvio Berlusconi. C’è un circuito
molto più forte e impermeabile della vituperata casta dei partiti
D
a un paio di decenni si discute di conflitto d’interessi, parolina magica che ha
un destinatario pressoché scontato, il solito Silvio Berlusconi. L’argomento
è tra i primi 8 punti del programma di Bersani e tra i 20 del M5s. Verrebbe da chiedersi come mai, visto che il Cavaliere ha chiaramente detto che la vicenda non lo
riguarda più avendo ceduto da un pezzo tutte le imprese ai propri figli.
In verità anche nel centrosinistra, al di là della necessità di contenere la spinta grillina e di tacitare l’ala più dura, ci sono tentennamenti e perplessità sulla scelta di
mandare a casa il leader del Pdl con qualche marchingegno giuridico. I più sono
convinti che l’unico modo per smacchiare il giaguaro sia sempre lo stesso, batterlo
alle elezioni, e che le scorciatoie siano pericolose. In nessun Paese civile - per giunta nel bel mezzo di una corsa più o meno lunga verso nuove elezioni - due minoranze potrebbero pensare di coalizzarsi per far fuori la terza minoranza con la bacchetta magica del conflitto d’interessi. Le leggi ad personam sono oscene, ma quelle contra personam sono orribili e riportano l’orologio della storia a tempi bui.
Proviamo, allora, a leggere la questione da un’altra prospettiva. Può darsi che Bersani e Grillo guardino allo stesso obiettivo pur partendo da valutazioni profondamente diverse. Grillo ha certamente il problema di portare a casa un risultato su
una questione che infuria come nessun’altra sul web e che, primo retropensiero,
metterebbe in difficoltà Bersani e il suo rapporto con il Quirinale.
Il leader del Pd, invece, potrebbe guardare alla questione per affrontare e risolvere
un problema che certo lo assilla ben più del Cavaliere: dare un colpo alle élite del
Paese che si riconoscono in Monti, stabilendo anche per loro un bel mucchio di regole. Obiettivo cui, peraltro, potrebbe non essere indifferente al M5s.
Ma spieghiamoci meglio. Può darsi che Bersani e Grillo parlino di una
legge severa sul conflitto d’interessi
guardando (anche) all’esperienza del
governo Monti, considerata da molti una parentesi negativa nella storia politica e
istituzionale del Paese.
A dire il vero, salvo pochissime eccezioni (la Cancellieri e Barca in primo luogo), i
ministri tecnici hanno avuto pagelle molto basse e sono rimasti parecchio al di sotto delle aspettative, mostrando i limiti evidenti delle élite amministrative e imprenditoriali. Una legge sul conflitto d’interessi non potrebbe non prendere in considerazione l’ultimo anno, e sia al centrosinistra che al M5s deve sembrare urgente ricondurre le classi dirigenti del Paese in circuiti d’influenza accettabili.
La salita al potere dei montiani è stato l’apogeo di una traiettoria che ha svilito, per
carità spesse volte a ragione, la politica e la sua credibilità, ma che ha anche mostrato l’inadeguatezza di alcuni grand commis, pubblici e privati, a governare un
Ci sono funzionari, prefetti, generali,
che fanno la spola dalle istituzioni
al privato senza che nessuno fiati
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left
Paese complesso e da modernizzare come l’Italia. Paradossalmente siamo la nazione europea che ha più bisogno di (buona) politica per rifondare il patto costituente tra i cittadini, ma anche la nazione che ha più duramente preso a sberle i politici e si è affidata a un rassemblement di tecnici: un suicidio che ha spianato la
strada alla contestazione e al risentimento.
I sopravvissuti al ciclone Grillo lo hanno capito al volo e la questione del conflitto d’interessi è finita immediatamente tra le priorità del futuro governo: in piena
luce si legge Berlusconi, ma in filigrana c’è scritto Monti e il suo dicastero.
Ad esempio è sotto gli occhi di tutti cosa sia successo con la storia dei marò e,
forse, non dovrebbe ripetersi che un ex ambasciatore, come il ministro Terzi,
si occupi della sorte di un altro ambasciatore finito in balìa della giustizia indiana. Per carità siamo tutti sereni e oggettivi, abbiamo tutti a cuore gli interessi supremi della Repubblica, ma le
leggi sul conflitto d’interessi stanno lì a
evitare le tentazioni.
In verità ci sono funzionari pubblici, uomini di partito, prefetti, generali, ambasciatori che fanno la spola tranquillamente da incarichi pubblici a prebende private o viceversa senza che nessuno fiati. Si dimettono e finiscono in Consigli d’amministrazione, comitati di controllo, collegi sindacali, uffici legislativi e di pubbliche relazioni o in assessorati,
commissariati straordinari e cose del genere. Costoro hanno costituito una sorta di inner circle in cui si scambiano favori, incarichi, nomine, un circuito chiuso, molto più forte e impermeabile della vituperata casta dei partiti, che una legge sul conflitto d’interessi potrebbe intaccare. Qualcuno, con grande efficacia,
l’ha paragonato alla Camera Stellata creata da Enrico VII Tudor, un blocco chiuso composto da oligarchie munite di privilegi feudali in cambio del servizio ai
monarchi. Se non fosse che oggi in Italia i monarchi mordono la polvere e che
i tecnici hanno provato a defenestrarli per sempre, mancando il bersaglio solo
per l’inatteso successo del M5s che, a ben guardare, potrebbe addirittura aver
salvato la politica in Italia da scorciatoie impervie e insicure, mettendo nuovamente al centro la vita parlamentare e non i salotti.
È probabile, quindi, che si porrà mano a questo problema, magari riprendendo la
questione a partire dagli stipendi dei manager pubblici e privati e dai loro benefit,
argomento che la gente non disdegna in tempi di crisi.
Le norme sulle incompatibilità delle élite pubbliche e private sono tutte da
scrivere e hanno ormai molto a che vedere anche con l’incarico di primo ministro o di ministro o di parlamentare. Lì si annida un grumo di potere quasi
intangibile che sopravvive a cambi di governo, di partito, di coalizione e che
sembra paralizzare la vita repubblicana.
Ecco qui effettivamente ci vorrebbe una bella legge che metta in riga i tanti gattopardi e gli sciacalli della nazione; quanto al giaguaro, per chi ci tiene, vedrete ci sarà un’altra elezione per provare a smacchiarlo.
Paradossalmente il M5s potrebbe
aver salvato la politica parlamentare
da scorciatoie tecniche
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altrapolitica
di Andrea Ranieri
il taccuino
Lettera aperta a Beppe Grillo
Proprio chi oggi non ne può più della crisi e della cattiva politica chiede un nuovo
esecutivo. Che possa invertire subito la rotta seguita negli ultimi anni
C
aro Beppe Grillo,
mi ha molto colpito una sua dichiarazione il giorno dopo le elezioni, resa a una
pressante giornalista tv proprio davanti all’ingresso di casa tua. Spiegava che il suo
movimento non aveva ancora il 100 per cento perché molti nella crisi galleggiano e
pensano di potere continuare a farlo, e proprio per questo potevano permettersi di votare ancora per i partiti. Penso che ci fosse del vero nella sua affermazione. Che il tono moderato della campagna elettorale del centrosinistra non abbia colto la disperazione di quanti non riescono più a stare a galla. Gli operai e i padroni delle fabbriche
che chiudono perché lo Stato non onora i suoi debiti, i giovani senza futuro, gli anziani che vedono diminuire ogni giorno il valore della loro pensione. E quanti sentono come l’emergenza più grande il consumo di terra, di acqua e di aria di un’economia basata sullo spreco sistematico di uomini e cose. Esasperati da una politica i cui costi sono
aumentati in maniera proporzionale al crescere della sua impotenza.
Ma, caro Beppe Grillo, non le viene in mente che oggi sono proprio quelli che non riescono più a galleggiare che sentono la necessità di misure urgenti, di svolta, che diano
un po’ di ossigeno alle loro vite. Segnali concreti di un nuovo modo di praticare la politica, per ridare dignità e trasparenza all’amministrazione della cosa pubblica? E che
forse il dibattito fra i suoi sostenitori più che il frutto di qualche hacker al servizio del
potere, rifletta una divisione vera fra chi può permettersi di galleggiare e chi proprio
non ce la fa più - per ragioni materiali e morali - ad aspettare?
Il vicepresidente del parlamento siciliano Giancarlo Cancelleri si schiera risolutamente contro la fiducia a qualsiasi governo, affermando che se in Sicilia si sono ottenuti importanti risultati, coerenti col programma 5 stelle, è perché la vostra affermazione ha costretto i partiti a misure che da soli non avrebbero mai prese. Le concedo anche questo. La politica dei partiti, anche di sinistra, si è dimostrata in questi anni incapace di autoriformarsi. Ma i primi risultati concreti della vostra azione sono stati possibili perché in Sicilia un governo c’è e ha dovuto fare i conti
con voi. Può essere la “fiducia”
un ostacolo insormontabile?
È proprio impossibile trovare
una strada, che pur mantenendo fino in fondo la vostra diversità, consenta all’Italia di avviarsi su una strada diversa
da quella sciagurata degli ultimi anni? Di rialzare la testa rispetto all’Europa del debito?
Caro Beppe Grillo, so che lei avrebbe preferito un governissimo che lasciasse i 5 stelle
soli all’opposizione. Ma non le dice niente che questa via sia ritenuta impraticabile dalla stragrande maggioranza della sinistra? L’insofferenza verso un certo modo di fare
politica è penetrata anche nelle nostre fila. È il nostro popolo a chiedere cambiamenti
radicali. Dovrebbe rallegrarsene, piuttosto che chiudersi in uno sdegnoso rifiuto. Gettando discredito sui primi risultati - l’elezione di Boldrini e Grasso, le prime misure sui
costi del Parlamento - frutto dello scossone che la politica ha ricevuto a febbraio.
Ancora convinto che si possa aprire una strada alla speranza,
con (non illimitata) simpatia
Il popolo di sinistra dice no a un governissimo.
Perché l’insofferenza verso i partiti
è penetrata anche nelle nostre fila
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30 marzo 2013
left
ti riconosco
di Francesca Merloni
il taccuino
Dalla parte di chi guarda
Lo sguardo di chi parla è affilato. Ma non basta più. Il mondo è rotto e lo riaggiustiamo ogni
volta. Non riconosciamo il percorso né il luogo. L’altro è straniero e ogni parola scordata
«S
ì, però...» ma non è più difficile stare dalla parte di chi guarda, piuttosto che dell’essere guardati? Si hanno meno strumenti, si è disarmati, si dispone solo di uno sguardo. Di un’apertura, di una possibilità di credere. Si possiede solo la vitale, disperata voglia di credere. In qualcosa di vero, finalmente. Di guardabile. Di tutto intero. E invece il tessuto della nostra
notte è costellato di mancati appuntamenti con il giorno. Ma non sono buchi di luce. Manca un’alba. E manca da molto tempo. Non è più difficile stare dalla parte di chi guarda, ancora una volta? Che possibilità ha, chi guarda,
se non quella di riconoscere o rimanere deluso, ancora una volta? Prendere
o lasciare. Lo sguardo è affilato, ma non basta. È innocente, ma non basta. È
scaltro, è informato, è bambino. Ma non basta più. Il mondo è rotto e lo riaggiustiamo ogni volta. È commovente questa forza di riaggiustare, di fare tutto nuovo di nuovo. Di guardare le stesse cose con altri occhi. O è forza inerziale? Questo pensavo l’altra sera ascoltando dire che è difficile sostenere gli
sguardi in cui si legge: «Sì, però...». Certo. È doloroso. Ferisce e butta a terra,
un peso quasi impossibile da portare. Ma, chiedo, non è infinitamente più doloroso stare dalla parte di chi quello sguardo non sa più dove posarlo?
Quando una immagine si frantuma come in un caleidoscopio e parti di essa
si scindono e si sovrappongono e non si compongono, non ha scelta chi guarda. «Ho vissuto ogni parola che ho scritto», dice un mio amico poeta. E ne abbiamo, insieme tutti noi, fatto il credo di questa pagina. Forse ci hanno tirati su
così. Ci hanno cresciuti a pane e parole. E di ogni parola abbiamo fatto gesto,
un mondo certo, un tratto di noi e del nostro ambito, che abitiamo e nel quale è possibile venirci a cercare, trovarci. Riconoscerci. Quando le azioni che
conseguono alle parole le allineano, esse vanno a formare struttura. Altrimenti disperdono tutto in un caos inenarrabile. Da cui è possibile ricominciare, dal
quale si riparte sempre per un inizio di nuovo, ma è più difficile e richiede tempo. Prima si deve comprendere, ripulire tutto e per bene. Le parole ci fanno. E
i gesti ci fanno. Poi è nel mancato allineamento delle traiettorie, delle linee essenziali e portanti, che si crea distorsione di immagine e di messaggio. Che non si comprendono più le parole. Le opere, le intenzioni.
Di queste case
non è rimasto
Le omissioni. Penso a un amico che parla e io gli credo. E poi si venche qualche
de. Il silenzio scende. Accoglie, ripara. Fornisce tempo. Dimentibrandello di muro.
ca. Poiché le persone che conoscevamo - o era proiezione di noi?- in
Di tanti
che mi corrispondevano
quelle parole discordanti che dipartono dal centro come schegge,
non è rimasto
non le troviamo più. E non sono più neppure nei gesti che accompaneppure tanto.
gnano il loro andare, sia esso stanco o furioso o necessario. Non riMa nel cuore
conosciamo più il percorso né il luogo. Siamo confusi. L’altro è stranessuna croce manca.
È il mio cuore
niero e non c’è casa. Ogni parola scordata. Ed è straniera e scordata
il
paese
più straziato.
la parte in noi che l’altro chiama. C’è dolore, allora. Straniamento. E
pochissima poesia in tutto questo.
Giuseppe Ungaretti,
San Martino del Carso, 1916
[email protected]
left 30 marzo 2013
11
l’incontro
12
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left
l’incontro
left.it
Ridere
sul serio
di Sofia Basso
Illustrazione di Alessandro Ferraro
lella costa. L’esordio nella Milano da bere, la scelta dell’ironia e dell’impegno.
L’attrice, che l’8 aprile sarà a Roma con Ferite a morte, si racconta. E a Bersani dice:
«Mi piacerebbe che leggesse Auden e capisse che è il momento di “passare il pacchetto”»
L’
unica differenza tra la Lella Costa sul
palcoscenico e quella che abbiamo incontrato nel suo luminoso soggiorno
milanese è la mise. Per il resto, la stessa ironia,
la stessa passione, lo stesso interesse per il bene
comune che ha sempre catterizzato il suo teatro.
Un’avventura nata per caso e decollata negli anni
della Milano da bere. Su battaglie sempre attuali.
«Ricostituire un senso di comunità è la vera mission impossible di oggi», avverte l’attrice e scrittrice. «Perché abbiamo consentito che venisse
corrotto e corroso profondamente».
Com’è nato il teatro di Lella Costa?
La mia è stata una scoperta di vocazione sicuramente anomala, perché non avevo mai pensato di
fare l’attrice. Quando ero al primo anno di Lettere a Milano - ho fatto tutti gli esami ma non mi sono laureata: come Giannino? No, come Steve Jobs
- facevo parte di un gruppo di psicoterapia alternativa perché ero convinta che si dovesse curare
anche la salute dell’anima. Soprattutto se si voleva fare una vera rivoluzione, e noi un po’ ci abbiamo creduto. Volevamo aprire un consultorio popolare all’ospedale di Niguarda e dovevamo simulare dei colloqui. Io ho interpretato una paziente schizofrenica e ho avuto un successone: tutti a dirmi che dovevo andare avanti. Io non avevo
mai pensato di fare l’attrice, ma avevo avuto una
tale sensazione di interezza, con tutti i pezzi della mia vita che erano andati a posto, che mi sono
detta: proviamo! Meglio fare errori che avere rimpianti. All’epoca vivevo già da sola e facevo i lavori più bizzarri possibili per campare. Così mi sono
iscritta all’Accademia dei filodrammatici, l’unica
che mi permetteva di conciliare questo tipo di vita.
Era una scuola molto tradizionale, ma di notte facevo i seminari di Grotowski. Dopo qualche anno
ho capito che non mi interessava mettermi in ga-
left 30 marzo 2013
ra come interprete: volevo provare a dire qualcosa, a modificare una relazione col teatro che passasse anche attraverso la comicità e l’ironia. Così,
dopo qualche esperienza in spettacoli di altri, ho
cominciato a scrivere, complice anche il fatto che
nella seconda metà degli anni Ottanta c’era Craxi
al governo e si poteva solo ridere. Gli anticorpi alla Milano da bere sono nati in luoghi come Zelig e
il Grand hotel pub. Perché va bene ridere, ma conta anche di cosa.
Infatti la sua cifra è sempre stata l’impegno.
Per me davvero ci sono cose sulle quali forma e sostanza non possono non coincidere. Il primo spettacolo che ho fatto da sola è stata una rassegna di
comicità femminile al Grand hotel pub. Rappresentava il partire da sé degli anni dell’autocoscienza: la militanza femminista per me è stata un percorso di formazione. Certo, sono cambiate le modalità, forse anche i punti di vista. Ma, anche se il
Sessantotto e gli anni successivi mi hanno dato
molto, considero il femminismo la mia storia. Ho
cominciato a parlare di donne perché era il tema
che avevo più vicino. Ma non mi interessava fare
spettacoli da donna di-a-da-in-con-su-per-fra-tra
le donne. Infatti ho preso subito coautori maschi.
Spesso mi dicono che ai miei spettacoli vengono
soprattutto le donne. Forse è vero. Ma i dati dicono che il 70 per cento del pubblico che va a teatro
è costituito da donne. Alla serata milanese di Ferite a morte, una Spoon River del femminicidio nata
da un’idea di Serena Dandini, i biglietti sono andati a ruba e il pubblico era in grandissima maggioranza femminile. Non che ci dispiaccia, però è un
po’ un peccato, perché questo spettacolo è per gli
uomini, visto che la violenza sulle donne è un problema degli uomini. Siccome crediamo fortemente che ci debba essere un cambiamento culturale, la presa di voce maschile è indispensabile. Non
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l’incontro
© PIRRONE/LaPresse
© samuele pellecchia
left.it
Non lo dico per me, che non ho mai chiesto
una lira, ma senza sostegno pubblico
i teatri chiudono
tanto la condanna, il dito puntato, ma il disprezzo,
la presa in giro. Un uomo che usa violenza a una
donna non è più forte: è più debole. Detto così è
uno slogan, ma bisogna farlo capire. È importante che ci sia una condivisione. Quindi è doloso dire che siamo separatiste, che siamo contro gli uomini. Noi cerchiamo di cambiare la situazione. E
le vittime in genere non possono fare più di tanto...
Ironia e battaglie civili, insomma?
Sì è un po’ la chiave che ho scelto. Nel 1996 ho fatto uno spettacolo sulla guerra che purtroppo oggi posso rifare identico. Anche allora ho usato la
chiave dell’ironia e del grottesco. Non puoi dire quelle enormità senza dare un sollievo, senza
permettere di riconoscersi in te, perché la guerra è quella che si fa con le armi, ma anche il conflitto che sta dentro di noi. Quindi parlare di guerre e vittime, ma anche del conflitto tra madre e figlia o degli scontri di coppia, è un modo per raccontare una storia potente, rendendola compatibile con l’assimilazione del pubblico, ma anche
per seminare nel pubblico il piccolo dubbio che,
se vuoi arrivare a dire di no a quella roba lì, devi
passare dentro di te. Che è l’antica pratica di noi
femmine. A ottobre partirà come tournée Ferite a
morte, che sinora abbiamo fatto solo come evento. Dopo Palermo, Genova, Bologna e Milano, il 5
aprile saremo a Firenze, l’8 a Roma, il 12 a Torino.
Lo spettacolo è costruito su testimonianze di donne da tutte le parti del mondo. Tutte storie estremamente coinvolgenti, toccanti, alcune veramenti devastanti. Alterna anche momenti di ironia e
grottesco, perché altrimenti c’è l’effetto paradosso, come nei romanzi di Verga. La risata deve essere consentita in qualche modo.
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Com’è fare teatro in tempi di crisi?
Il teatro è considerato un fatto superfluo, non indispensabile. E magari in una crisi economica la
gente ci va un po’ meno. Il problema è che i teatri non riescono più a sopravvivere. Di certo è stato sbagliato l’assistenzialismo a pioggia di cui oggi paghiamo il prezzo. Ma senza un sostegno pubblico, i teatri chiudono. E lo dico io che, avendo
scelto di essere una piccolissima compagnia completamente autonoma, non ho mai chiesto una lira di soldi pubblici. La destra e i grillini dovrebbero essere pazzi di me. Comunque quando mi capita di fare repliche il teatro è pieno, quindi vuol dire che c’è bisogno. Forse ancora di più. Siamo tutti
in grande sofferenza. Quest’anno non ho fatto produzioni nuove e sto portando in scena Arie, uno
spettacolo antologico con alcuni miei lavori più o
meno recenti cuciti insieme. Il filo conduttore è la
musica, visto che il mio lavoro è sempre stato molto legato all’interazione coi musicisti. Ivano Fossati, Stefano Bollani e Paolo Fresu hanno scritto
per me. Con loro ho fatto spettacoli in cui la mia
voce era come un altro strumento. In Arie ci sono
tutti i miei temi: memoria, punto di vista delle donne, guerra, percezione del mondo, follia. Finisco
col discorso di Pericle agli ateniesi perché volevo
un pezzo attuale...
A proposito di attualità: cosa pensa della situazione politica, tra exploit di Grillo e vittorie dimezzate?
Provo un grande smarrimento, che mi viene dalla sensazione di non aver capito il mio Paese. Sicuramente faccio fatica a farmi un’idea del Movimento di Grillo, perché penso che al suo interno
abbia istanze condivisibili che la politica tradizionale avrebbe dovuto cogliere prima. Bersani sta
facendo bene, con i suoi otto punti, però ti viene
da dire: adesso?! Bisognava capirlo prima perché
il tempismo è tutto. Il Pd ha fatto cose grandi in
questa fase, dalle primarie in giù, però ci sarebbe
voluto un po’ più di coraggio. Molti miei coetanei,
30 marzo 2013
left
l’incontro
persone colte e preparate, hanno dato almeno un
voto a Grillo perché non ne potevano più. È chiaro
che la responsabilità della mancata scossa non è
dei cittadini. Comunque faccio fatica a rapportarmi ai movimenti leaderistici: non mi fido, mi fanno
paura. Ma non è questo. Quello che mi ha suscitato
lo sconforto vero è il numero di voti che il Pdl è riuscito a prendere comunque. Il 25 per cento al Pdl è
troppo: non perché è di destra, ma perché è quella roba lì. Purtroppo continuiamo a essere un Paese senza una destra con cui relazionarci. Monti ha avuto quello che si meritava. Ho trovato la
sua scorrettezza e la sua incoerenza veramente
brutte. Non ti puoi candidare dopo che un quarto d’ora prima avevi detto che non facevi parte
del circolo della politica. Mi sembra un quadro
molto preoccupante e io c’ho il magone fisso dal
giorno dei risultati.
In Lombardia il centrosinistra ha perso anche la sfida per il Pirellone...
Da lombarda non riesco proprio a perdonare al
Movimento di Grillo e a Monti di non aver avuto
il coraggio di capire che puoi anche stare all’opposizione, ma non puoi pensare che Maroni e Ambrosoli siano la stessa cosa. Il candidato del centrosinistra era l’unico personaggio completamente nuovo. Così la Lega ha perso ma si ritrova in mano la Regione. Pur rispettando l’autonomia di voto, ritengo che i motivi che li hanno spinti ad appoggiare il loro candidato sapendo perfettamente
che non avrebbe vinto siano quanto di più vecchia
politica si possa immaginare: io penso alla mia visibilità personale e me ne frego del bene comune.
Allora non ci credo più tanto. Purtroppo Ambrosoli ha avuto pochissimo tempo. Molta gente, soprattutto fuori dalle città, non ha preso neanche
in considerazione l’ipotesi di guardare quanto di
nuovo e benefico c’era nella sua proposta. Sono
andati di là tranquilli, convinti di difendere i propri
interessi. Purtroppo non si è vigilato abbastanza
ed è passato il concetto che si fa politica per difen-
left 30 marzo 2013
© PIRRONE/LaPresse
© napolitano/LaPresse
left.it
dere i propri interessi. È saltato il concetto del bene comune. Siamo diventati un Paese di evasori,
perché molti non pagano le tasse sostenendo che
tanto non hanno niente in cambio. Credo che ricostituire un senso di comunità sia la vera mission
impossible, perché abbiamo consentito, o siamo
stati costretti a consentire, che questo tessuto venisse corrotto e corroso profondamente. E adesso è più difficile da recuperare. Mi spiego anche
in questo senso il successo di un movimento come i 5 stelle, che è più complesso e ricco dello stesso Grillo. Sono sicura che dentro non ci sia soltanto arroganza. Però sentire ancora quella violenza
verbale adesso che hanno vinto non me lo spiego.
Potevate restare movimento, come hanno fatto
Occupy e gli Indignados. Invece avete fatto una
scelta parlamentare, avete avuto dei risultati
straordinari, adesso contribuite. Se no, perché?
Ai media vorrei chiedere di smettere di dire che
Grillo ha vinto senza andare in tv. Si è sottratto
alla sua liturgia - quindi nessun dibattito, nessuna domanda, nessuna risposta - ma è stato così
bravo da essere sempre in tv.
Da sinistra: Lella Costa
all’Ambra Jovinelli
a Roma nel 2006 con
Alice una meraviglia di
Paese; sul palco con
lo spettacolo Arie; in
piazza per la pace a
Roma nel 2003, e una
manifestazione del
2006 a favore dei Pacs
Il quadro è preoccupante. Dal giorno
dei risultati elettorali c’ho il magone fisso
Il centrosinistra dopo questa sberla capirà?
Con enorme affetto per Bersani dico che non si
può governare un cambiamento e poi restare. Anche se hai tutti i diritti e tutto il merito. Governi il
cambiamento e poi, è amaro, ma devi andare via.
C’è una meravigliosa poesia di Auden nello spettacolo The history boys di Alan Bennet. Il concetto è
“passate il pacchetto”: tenetelo un po’, ma poi passatelo avanti, perché non è per me né per voi, è per
qualcun altro, da qualche altra parte. Mi piacerebbe che leggessero Auden e capissero che questo è
il momento di passare il pacchetto. E non è detto
che fai un regalo a chi lo riceve, perché oggi il pacchetto può essere esplosivo.
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copertina
copertina
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eccellenza
italiana
di Davide Illarietti
A
rmi, un mare di armi. Centinaia di migliaia: leggere, economiche, a canna
lunga, corta, rigata, liscia. Per tutti i gusti e tutte le tasche: da difesa, da borsetta, da comodino, da museo, per cacciatori, marines, sceicchi e maestre di scuola. La polvere innesca l’esplosione che scaglia il proiettile a 300 metri al secondo, lungo una traiettoria più o meno rettilinea. Il
principio è sempre lo stesso, a fare la differenza
non è dove va a finire il proiettile. Purché l’arma
sia made in Italy. Come il vino o gli abiti firmati.
Sì, perché la produzione di pistole&fucili è un’ec-
left 30 marzo 2013
cellenza italiana a pieno titolo. Ingiustamente trascurata. Paragonabile a moda e gastronomia, per
qualità e per fatturati: il settore vale 5,2 miliardi di
euro l’anno, le cifre della produzione sono seconde solo a quelle degli Stati Uniti, in crescita costante. Un mercato che non conosce crisi, anzi: è in
pieno boom. Per accorgersene, basta fare un giro
alla fiera di Brescia. Qui, dove ha sede il 90 per cento delle imprese italiane di armi, dal 13 al 16 aprile si tiene la più grande esposizione mondiale del
settore. È Exa, il salone dell’arma sportiva e a uso
civile. Superiore, per numero di visitatori - oltre
© Schulz/ap/lapresse
Una fiera con 45mila visitatori. Un fatturato da 5 miliardi l’anno. In costante crescita.
A Brescia, in Val Trompia, c’è il più grande distretto mondiale delle armi leggere.
Qui si producono quelle dei tiratori olimpici. Ma anche quelle usate in molte stragi.
E negli eserciti di numerosi dittatori. Vendute senza alcun controllo
copertina
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left.it
45mila in tre giorni - a quelle di Las Vegas e Norimberga. Un must per gli appassionati di mezzo mondo e per le ben 120 aziende del distretto, che sforna ogni anno il 60 per cento della produzione Ue.
Il “boom” del settore
«La crisi economica? Non ci tocca, anzi. È proprio
nei momenti di crisi che il mercato cresce di più»,
spiega Franco Rebecchi, presidente del Banco di
prova, l’anagrafe nazionale delle armi leggere con
sede in provincia di Brescia, dove vengono registrate tutte le armi prodotte in Italia, prima di essere immesse nel mercato. «Nel 2012 abbiamo registrato 840mila armi, l’11 per cento in più rispetto alle 760mila dell’anno scorso. Sono numeri di
gran lunga superiori a qualsiasi altra anagrafe armiera nel mondo. Un record senza precedenti nella storia del settore. Non ci possiamo lamentare».
Anche perché con il boom - confermato da un +15
per cento di espositori nelle ultime due edizioni di
Exa - sono venute meno persino le contestazioni.
«La mossa vincente è stata quella di mettere in risalto l’aspetto sportivo», spiega Marco Citteri, ad
di Exa. «Risultato: da qualche anno è cessata ogni
azione di disturbo. Niente più biciclettate antifiera o lanci di carne marcia alle inaugurazioni. Oggi
Exa è un motivo di orgoglio per la città».
Ma Exa è molto di più: è il tripudio esibizionistico
di un distretto che per tradizione - e per un’attitudine tutta bresciana - è laborioso quanto discreto.
Abituati alla poca pubblicità - televisione e giornali
sono off limits per il settore - i signori dell’arma made in Brescia hanno collaudato canali di promozione di sicura efficacia. All’insegna dell’operosità silenziosa. La prova è nel testo di una convenzione
che, a pochi giorni da Exa e a migliaia di chilome-
«La recessione? Non ci tocca.
Anzi, è proprio nei momenti di crisi
che il mercato cresce di più»
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© Settonce/ap/lapresse
Stoeger Cougar L
Prodotta da Stoeger per
Beretta, la semiautomatica Cougar (“puma” in
inglese) è una calibro 9
di ultima generazione.
Economica, elegante
e compatta, sta in un
taschino ed è capace di
abbattere un cinghiale
da 60kg. Chiusura geometrica, corto rinculo e
canna rototraslante.
È venduta a corpi di polizia e guardie giurate, ma
anche come arma civile
per la difesa personale.
È stata utilizzata dall’imprenditore perugino
Andrea Zampi, dotato di
una licenza sportiva, per
uccidere due impiegate
della Regione Umbria,
il 7 marzo scorso (foto a
destra). Prezzo: 500 euro
30 marzo 2013
left
copertina
left.it
tri di distanza, l’assemblea delle Nazioni unite ha
approvato in via provvisoria la settimana scorsa.
Si tratta dell’Arms trade treaty, lo storico trattato
sul commercio d’armi internazionale con cui 193
Paesi hanno stabilito una serie di condizioni per
l’esportazione, a garanzia dei diritti umani. Ma c’è
la sorpresa: una clausola, inserita all’ultimo momento su pressione dell’Italia, esenta dal trattato
«le armi usate per attività ricreative, culturali, storiche e sportive». Quelle prodotte, insomma, dal
distretto armiero bresciano. Una mossa inaspettata per cui il portavoce di Control arms, Jeff Abramson, ha accusato l’Italia di «aver fatto un passo indietro solo per proteggere i propri interessi».
La valle del piombo
La Val Trompia è una striscia di fabbriche lunga
50 km incuneata fra le Prealpi bresciane. Qui si
produce l’80 per cento del made in Italy «esentato» dal trattato Onu. «Ci chiamano la Valle d’Oro,
facciamo da soli il Pil della Basilicata», spiega Michele Gussago, sindaco Pd di Gardone Val Trompia. «Ma anche la Stalingrado delle Alpi, per la cinquantennale tradizione operaia e di sinistra», vanta il sindaco. «Non importa cosa faccia la gente
con le armi, qui andiamo fieri del nostro lavoro». Il
lavoro prima di tutto: «In assenza di una normativa internazionale rigorosa sulle armi, se non le facciamo noi le fa qualcun altro», spiega Stefano Ghirardi della Fiom Val Trompia. «Per noi l’importante è mantenere la produzione tra le nostre montagne». Perché è da qui, dagli stabilimenti Beretta, Tanfoglio, Benelli, che il fiume delle armi scorre, abbeverando la popolazione di 20 Comuni con
7 miliardi di euro di indotto. Per sfociare infine a
Brescia sui banchi di Exa 2013.
© Maurer/ap/lapresse
Ottenere una licenza per uso
sportivo è molto facile. «Poi non
importa cosa ne faccia la gente»
left 30 marzo 2013
Beretta 92 fs
La 92 Fs (o M9, in
versione militare)
è il pezzo più famoso
di casa Beretta. Chiusura geometrica con blocco oscillante, caricatore
da 15 colpi calibro 9.
Spara alla velocità di
365 km/h e può uccidere fino a una distanza
di 100 metri. Dal 1985
in dotazione alle forze
armate Usa, è l’“arma
letale” utilizzata da Mel
Gibson nel film omonimo, da Bruce Willis in
Die Hard e più di recente, da Tim Kretschmer, il
killer 17enne autore nel
2009 della strage nella
scuola di Winnenden,
in Germania (foto a sinistra). Prezzo: 800 euro
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copertina
left.it
© spada/lapresse
Una scena dell’Exa,
la fiera delle armi
made in Italy, nel 2012
Fucili sportivi e da difesa, rivoltelle e munizioni,
nuovi modelli e vecchi “pezzi forti”. La grande attrazione, naturalmente, è lei: la semiautomatica Beretta 92. Quella di Bruce Willis in Die Hard,
l’“arma letale” usata da Mel Gibson nell’omonima
serie. E, più di recente, da Tim Kretschmer, il killer
17enne autore nel 2009 della strage nella scuola di
Winnenden, in Germania: 16 morti, tutti minorenni. Il gioiellino della Beretta, simbolo del made in
Italy come la Ferrari o la moca Bialetti, in dotazione alle forze dell’ordine italiane e all’esercito Usa:
«Non sei un vero marine finché non hai mangiato acciaio italiano», recita un detto dei Navy Seals.
Dello stesso produttore, due nuovi fucili di precisione, il parallelo 486 e il sovrapposto 692 (non fatevi ingannare dal look storico: le caratteristiche
sono quelle di un arma da cecchini). E poi la semiautomatica Stoeger-Cougar calibro 9x21. La stessa con cui l’imprenditore di Perugia Andrea Zampi si presentò il 7 marzo scorso negli uffici della
Regione Umbria, freddando due impiegate prima
di uccidersi, per un finanziamento non concesso.
L’aveva comprata il giorno prima grazie - manco a
dirlo - a una licenza per il tiro sportivo.
Licenza di uccidere
Ed eccoci al punto. Le armi di Brescia sono strumenti sportivi o no? «L’arma ricreativa è più voluminosa, ingombrante e difficile da nascondere, ad esempio, per un malvivente», spiega Massimo Tanfoglio, proprietario dell’omonima azienda
con sede in Val Trompia, tra i principali produttori
mondiali di armi sportive. «È su questi modelli che
20
si gioca l’eccellenza. La Val Trompia ha mandato
alle scorse Olimpiadi di Londra il 90 per cento delle armi da tiro, e la totalità di quelle medagliate».
D’altronde, nei rendiconti presentati all’Ue dai governi Berlusconi prima e Monti poi, i modelli sportivi non sono conteggiati nei dati della produzione
armiera. Forse perché la vera differenza tra armi
ricreative e non, nel Belpaese, è proprio normativa. Ottenere il porto d’armi per la difesa personale
e assai difficile: «Le prefetture ne rilasciano numeri irrisori - spiega Tanfoglio - occorre dimostrarne
la necessità per motivi di sicurezza». Ma avere una
licenza a uso sportivo è un gioco da ragazzi. Basta
un test psicofisico, più il nulla osta della questura, e ci si porta a casa, per dirne una, una carabina
sportiva Cx4 Beretta. Quella in uso ai miliziani di
Gheddafi durante la Primavera araba.
Lo stesso vale per il commercio estero. Se l’export delle armi da guerra (automatiche e di medio
e grosso calibro) è sottoposto a controlli rigorosi
dalla legge 185 del 1990, per quelle comuni vige invece il Testo unico delle leggi di Pubblica sicurezza del 1931. Varato la bellezza di ottantadue anni
fa, un residuato prebellico di fabbricazione fascista. Che tra le altre cose rende quanto mai difficile “tracciare” i volumi delle vendite estere di armi
civili e sportive. Non resta che affidarsi alle banche dati dell’Istat, considerate approssimative dagli esperti del settore.
La lista nera dell’export
In testa alla classifica dell’export italiano di armi (vedi la tabella) ci sono gli Stati Uniti, con
30 marzo 2013
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copertina
© Curtis/ap/ LaPresse
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Le vendite all’estero
non sono tracciate.
Tra i principali acquirenti Turchia,
Bielorussia, Turkmenistan, Marocco.
Nel 2010 boom di vendite in Egitto e Libia
clienti illustri come Steven Spielberg, Clint Eastwood ma anche Jiverly Voong, autore del
massacro all’ufficio immigrazione di Binghampton a New York (aprile 2009, 13 vittime). Del
resto le stragi non guastano il mercato: anzi, il
made in Brescia negli Usa è cresciuto di quasi
il 100 per cento nel 2012. «Merito delle voci su
possibili riforme restrittive del mercato da parte di Obama». spiega Pierangelo Pedersoli, valtrompino, presidente del Consorzio armaioli.
«C’è stata una corsa alle provviste».
Non è l’unico caso. La Turchia, ad esempio, in tre
anni ha decuplicato gli acquisti, con una punta di
ordini per 26 milioni di euro tra gennaio e settembre 2012. Proprio all’apice della carneficina nella
vicina Siria. O il Libano (2,4 milioni di euro), altro
punto di rifornimento d’armi per i ribelli siriani e
per il regime di Assad. Nella lista spicca poi il Marocco del sovrano assoluto Mohammed VI con ordini per 4,1 milioni di euro negli ultimi due anni.
Messico e Russia (rispettivamente 4,8 e 23 milioni nel 2011) sono validi sostituti di Libia e Egitto,
off-limits dopo la Primavera araba. Anche se le imprese italiane avevano già fatto il pieno, nel bien-
left 30 marzo 2013
nio 2009-10, con i regimi di Mubarak e Gheddafi. È
nota la vicenda di una mega-partita non autorizzata, ordinata dal Colonnello nel 2009, di 8.200 pezzi
tra fucili Benelli, pistole semi-automatiche e carabine Cx4 Beretta. Tutti modelli in mostra, anche
quest’anno, nelle teche di Exa.
Morto un cliente, del resto, se ne fa un altro. Nel
2011 è Aleksandr Lukashenko, «l’ultimo dittatore d’Europa», a ordinare armi valtrompine per circa 1 milione di euro. Spedite in Bielorussia con
tempismo perfetto, tra aprile e il 20 giugno, giusto
qualche giorno prima della dichiarazione dell’embargo Ue per violazione dei diritti umani. L’anno dopo tocca al Turkmenistan. «Paese autoritario», per il dipartimento di Stato americano, cliente d’oro per gli armaioli nostrani (consegne per 5
milioni, nel 2012). L’ultima frontiera è il Sud Africa, con 6,5 milioni di vendite. Non a caso, una delegazione di buyers sudafricani è arrivata in Val
Trompia a fine febbraio, pochi giorni dopo la notizia shock dell’omicidio della modella Reeva Steenkamp da parte dell’atleta Oscar Pistorius (l’arma, ancora una volta, era una semiautomatica calibro 9). Perché business is business.
Beretta Storm cx4
La carabina Storm
Cx4 è l’avanguardia
della difesa personale.
Leggera come una
calibro 9, spara a
380 km/h, in grado di
uccidere fino a 200
metri. Caricatore da
20 colpi, rapidissima
successione, la canna
ha la precisione di un
fucile da cecchini.
Concepita per l’uso
sportivo, unisce
efficacia ed eleganza,
con il design firmato
Giorgietto Giugiaro.
È stata acquistata in
1.900 pezzi dal regime
libico nel 2009 e
utilizzata dalle guardie
di Gheddafi (foto in alto)
durante la Primavera
araba. Prezzo: 900 euro
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copertina
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La diplomazia
delle armi
di Davide Illarietti
© Carson ap/lapresse
Roma fa modificare il trattato Onu sul controllo dell’export. Per escludere
dalle limitazioni fucili e pistole per “attività ricreative”, fiori all’occhiello
del made in Italy. I pacifisti si infuriano. Ma il ministro dimissionario degli Esteri
Giulio Terzi, autore del blitz, festeggia il successo. Al circolo della caccia
C’
è mancato poco. Alla fine, però, il codicillo “ad hoc” è riuscito a infilarsi
anche lì, nel trattato internazionale
a cui l’Onu lavora dal 2003. È la sorpresa dell’ultimo minuto, alla conferenza sul commercio estero
delle armi conclusasi giovedì 28 marzo, al Palazzo di Vetro di New York. La clausola, su pressione
del governo italiano, esenta dai controlli introdotti per le esportazioni tutte le «armi usate per attività ricreative, culturali, storiche e sportive». Ossia,
guarda a caso, proprio quelle prodotte nel distretto armiero italiano. Un successo di tutto rispetto,
per il ministro degli Esteri dimissionario, Giulio
Terzi di Sant’Agata, finito nell’occhio del ciclone
per la vicenda marò.
Non è stata una missione facile. La campagna Control arms, a favore della convenzione, è
stata portata avanti per ben dieci anni con ostinazione dalle 120 organizzazioni promotrici, tra
cui Amnesty international. Obiettivo: imporre a
ognuno dei 193 Paesi membri dell’Onu indagini approfondite a tutela dei diritti umani, prima
di approvare qualsiasi trasferimento di armi. La
convenzione è stata più volte bloccata, ripensata, rimandata. Con la rielezione di Obama il passo definitivo sembrava a portata di mano. Ma
nella bozza del trattato mancava la precisazione. Fatta inserire in fretta e furia dalla delegazione italiana, su indicazione del ministero degli Esteri, pochi giorni prima della fine dei lavori. Per il rotto della cuffia.
Poche righe aggiunte al preambolo del testo:
«Fatta eccezione per il commercio legittimo e
il lecito utilizzo di specifiche armi convenzio22
30 marzo 2013
left
copertina
left.it
L’Europa sfida gli Usa. E Monti trucca i dati dell’Italia
di molti esecutivi. Se alcuni Paesi, tra cui
Germania e Regno Unito, non hanno
fornito le cifre sulle consegne effettive, il governo Monti le ha comunicate
sbagliate: un miliardo invece dei 2,6
miliardi documentati nella Relazione della presidenza del Consiglio. Meno della
metà. A denunciare l’incongruenza è
stata la Rete italiana per il disarmo, che
ha chiesto un formale chiarimento a Palazzo Chigi, ma non ha ancora ricevuto
risposte. Il dubbio è che l’Italia volesse
evitare «interrogativi imbarazzanti» sul
fatto di essere diventato il secondo
Paese europeo per esportazioni di armi,
dopo la Francia (3,6 miliardi). Un business, quello delle armi, che ha sempre
nali per attività ricreative, culturali, storiche e
sportive, laddove l’utilizzo e il possesso di queste sia consentito dalla legge». Il gioco è fatto.
Come spiega il rappresentante di Control arms
Wim Zwijnenburg, che ha interpellato sull’argomento i membri della delegazione italiana: «Il
vostro è stato l’unico Paese a chiedere l’inserzione di questa eccezione nel trattato. Ed è noto
che la delegazione non prende posizioni senza
il placet del ministro degli Esteri. La motivazione addotta - riferisce Zwijnenburg - è che le
armi sportive non rientrano nella definizione
di armi leggere data dal registro Onu. E l’Italia
continua a opporsi all’eventualità che siano incluse». Un grande risultato per gli appassionati di armi sportive di cui l’Italia, e in particolare la provincia di Brescia, rifornisce il mercato
europeo per circa l’80 per cento (vedi le pagine
precedenti). Un po’ meno per le associazioni.
Specie perché non tutte le armi sportive vengono usate per gioco.
«Siamo dispiaciuti», spiega a left Jeff Abramson, portavoce di Control arms. «Avevamo sperato fin dall’inizio che la distinzione tra armi militari e sportive si potesse superare. Alcuni Paesi l’hanno abolita del tutto». Secondo l’attivista
«l’Italia ha fatto un passo indietro per proteggere i propri interessi». Anche se «sono ancora molti i Paesi che sostengono l’Italia su questo
punto. In generale, si è deciso di passarci sopra,
per il bene delle trattative».
E per il sollievo del responsabile dell’operazione diplomatica, il ministro del governo uscente
Giulio Terzi Di Sant’Agata. Cosa avrebbero det-
left 30 marzo 2013
più ombre. Tra i maggiori acquirenti dei
sistemi militari “made in Europe”, infatti,
spiccano i regimi autoritari della penisola
araba, i Paesi del subcontinente indiano,
del Medioriente e dell’Africa settentrionale. Da qui la richiesta delle associazioni pacifiste europee: la Relazione
annuale sia discussa dal Parlamento di
Bruxelles. Anche Roma non ha negato
i suoi gioielli di guerra a Paesi come
Algeria, Egitto, Turkmenistan e Gabon.
Tra le commesse contestate dai pacifisti, quella di Alenia Aermacchi (Finmeccanica) che dovrebbe consegnare 30
jet M346 a Israele, nonostante la legge
italiana limiti il commercio militare con
Paesi belligeranti.
Sofia Basso
© Mostoller ap/lapresse
Primato americano, addio. Negli ultimi
anni la concorrenza europea è stata
talmente agguerrita che nel 2010, con
un export bellico di 31,7 miliardi di euro,
i 27 Paesi dell’Unione hanno superato
gli Usa. Ma, alla faccia della crisi economica, nel 2011 il mercato delle armi
si è impennato. E Washington è tornata
prima, triplicando le sue esportazioni
fino alla cifra record di 51 miliardi di
euro. Anche per il Vecchio Continente
il 2011 è stata un’ottima annata, con
giro d’affari di 37,5 miliardi. A fornire
i dati per l’Europa è la XIV Relazione
annuale, pubblicata a dicembre sulla
Gazzetta ufficiale Ue. Un documento
azzoppato dalle comunicazioni lacunose
to, altrimenti, gli amici del “Circolo della caccia” di Palazzo Borghese? Il nobile ministro (è
un marchese) è infatti uno dei più illustri soci di
questo club aristocratico (e, si vocifera, massonico) fondato a Roma nel 1922 per la promozione delle attività venatorie? La caccia è uno sport
per nobili, si sa. Anche se il “circolo”, oggi, è frequentato in buona parte da imprenditori, diplomatici, parlamentari: è lì, ad esempio, che Silvio
Berlusconi, durante un pranzo, avrebbe negato a Terzi la candidatura nelle liste del Pdl. Così,
per non giocarsi anche il rifugio da ambasciatore (incarico che ricopriva a Washington prima
della nomina alla Farnesina, e della figuraccia
sul caso marò), il marchese ha voluto dare prova della sua abilità diplomatica. E, questa volta,
sembra proprio esserci riuscito.
New Jersey, Usa,
25 marzo. Pistole
e fucili recuperati
in seguito a una
campagna che invitava
i cittadini a disfarsi
delle proprie armi.
Nella pagina
accanto, il ministro
dimissionario degli
Esteri Giulio Terzi
di Sant’Agata
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30 marzo 2013
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Maggioranze di
minoranza
di Rocco Vazzana
D
ecidendo di uscire dall’aula, Grillo ha
già fatto nascere un governo: quello guidato da Silvio Berlusconi nel 1994. Il 18
maggio di quell’anno, il neonato esecutivo di destra ottiene la fiducia grazie ad alcuni senatori che
decidono di andare a farsi una passeggiata. Tra cui
Grillo, che motiva così la sua scelta: «Con il voto
di oggi si gioca la prospettiva di ripresa del Paese.
Queste sono le attese dell’opinione pubblica». Ma
è solo uno scherzo del destino. Un cinico caso di
omonimia. A dare una mano al patron della Fininvest, quasi 19 anni fa, non è Beppe, ma Luigi Grillo,
senatore del Partito popolare italiano, che insieme ad altri colleghi esce dall’aula e abbassa il quorum necessario per la fiducia. Un escamotage che
difficilmente potrebbe funzionare adesso a far nascere un esecutivo a guida Bersani. Senza accordo
col Pdl, infatti, neanche l’eventuale passeggiata alla buvette dei senatori del M5s al momento del voto aiuterebbe il Pd a raggiungere l’obiettivo. A
largo del Nazareno, pallottoliere alla mano, i democratici continuano a fare conti. Ma somme e sottrazioni (di senatori) a Palazzo Madama diventano operazioni complicatissime. Di moltiplicazioni manco a parlarne. La camera presieduta da Piero Grasso è un
rebus di difficile soluzione. Proprio
come nel 1994.
L’equilibrista di Arcore
In quel caso l’uomo di Arcore riesce in un’operazione di altissima
chirurgia istituzionale. Nel 1994 i
left 30 marzo 2013
parlamentari a Palazzo Madama erano 326, visto
l’eccessivo numero di senatori a vita: ben 11. Soglia minima per la maggioranza: 164 voti. Ma, tra
assenze per malattia e ritirate strategiche, il 18
maggio si presentano in aula solo 315 parlamentari (314 votanti). Assenti per indisposizioni varie:
4 senatori a vita. Ritirati, tra gli altri, quattro iscritti al gruppo del Partito popolare: il già citato Luigi Grillo, Vittorio Cecchi Gori, Tommaso Zanoletti
e Stefano Cusumano. È grazie a loro che la soglia
per la fiducia si abbassa vertiginosamente quota
158. E Berlusconi passa: 159 sì e 153 no. Sui franchi tiratori del Ppi si scatena una bufera senza precedenti. Rosy Bindi dichiara sdegnata: «Dovrebbero dimettersi perché hanno tradito l’impegno
con gli elettori». Nelle stesse ore, a poche centinaia di chilometri, undici volontari francesi dell’associazione Premiere urgence vengono liberati in
Bosnia, dopo essere stati rapiti dai serbi a Sarajevo. La ex Yugoslavia è ancora una polveriera. Ma
in Italia si combattono altre guerre. I ribelli del Ppi
vengono sospesi dal partito. Alcuni di loro, come
Grillo, trovano asilo politico in Forza Italia.
Ma con maggioranze del genere, si sa, la stabilità
non è garantita. Il 22 dicembre dello stesso anno
Berlusconi è costretto a rassegnare le dimissioni
al Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro dopo i contrasti con la Lega nord. Mentre gli italiani guardano in tv il magnate delle televisioni salire al Colle, in Cecenia l’aviazione russa bombarda la città di Grozny uccidendo centinaia di civili. Boris Eltsin si dimostra incapace di fermare il
massacro. A Roma, dopo quattro settimane, il 17
gennaio si insedia il governo tecnico guidato da
© merlini/LAPRESSE
Dal primo governo Berlusconi all’impasse di questi giorni. Passando attraverso
l’esecutivo Prodi del 1996. La storia della Seconda Repubblica è fatta di presidenti
del Consiglio che ottengono la fiducia senza numeri certi alle Camere.
E che non riescono ad arrivare a metà legislatura
In apertura,
Pier Luigi Bersani
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© CARINO/imagoeconomica
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Silvio Berlusconi
scende in campo
e diventa presidente
del Consiglio nel 1994
Lamberto Dini. Resta in carica 406 giorni, anche il
nuovo presidente del Consiglio è costretto a rassegnare le dimissioni prima della fine della legislatura. Scalfaro è convinto di avere un asso nella manica e, dopo un giro di nuove consultazioni, conferisce un mandato esplorativo per la formazione di
un nuovo governo ad Antonio Maccanico che accetta l’incarico. Gli entusiasmi si esauriscono rapidamente, l’incaricato dovrà desistere sotto il fuoco incrociato di destra e sinistra. Al Presidente della Repubblica non resta che sciogliere le Camere.
Il capo di Forza Italia ottiene la fiducia
grazie a 4 senatori del Ppi che escono
dall’Aula al momento del voto
Il professore che desiste
Il 21 aprile del 1996, a vincere le elezioni, per la prima volta nella storia repubblicana è una coalizione
di centro sinistra guidata da Romano Prodi. L’Ulivo
riesce a sbaragliare la concorrenza del Polo delle
libertà. Il nuovo governo si insedia il 17 maggio. A
differenza dell’esecutivo nato due anni prima, questa volta i pericoli non si annidano al Senato ma alla Camera. A Montecitorio, infatti, il professore ha
una maggioranza “condizionata”. Tutto dipende
da un alleato esterno alla coalizione vincente: Rifondazione comunista. Il partito guidato dal segretario Fausto Bertinotti e dal presidente Armando
Cossutta ha stretto un accordo di desistenza con
l’Ulivo, spiegato così dal leader rifondarolo più anziano: «Dove si presenta l’Ulivo non si presenta Rifondazione, dove si presenta Rifondazione non si
presenta l’Ulivo. Ovviamente, nelle liste proporzionali, ognuno si presenta col proprio simbolo».
In sostanza, l’alleanza non prevede alcun accordo
di governo. È più una questione di fair play che di
programma. Tecnicamente i numeri ci sono, nei
fatti l’esecutivo passeggia sul filo del rasoio. La fragilità della nuova maggioranza è evidente da subito. Il 31 maggio, si vota la fiducia alla Camera. Prodi passa con 322 sì e 299 no. I 34 deputati di Rifondazione comunista sono determinanti.
Anche in Israele si vota e la destra ultraconservatrice vince le elezioni. Benjamin Netanyahu è il
primo ministro, ha battuto il laburista Shimon Peres (incline al dialogo con Arafat) alle politiche di
giugno. La pace in Palestina è sempre più lontana.
A Roma, invece, il governo sopravvive altri due anni tra mille tentennamenti. Rifondazione comunista vuole far valere il peso politico del proprio
sostegno e chiede a Prodi la riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore settimanali a parità di salario. «Lavorare meno, lavorare tutti» è lo slogan di
questi giorni, rinvigorito dalla virata a sinistra del
governo francese del socialista Lionel Jospin. Oltralpe, infatti, le 35 ore sono diventate legge. Ma
l’Italia è un’altra cosa. Il 9 ottobre del 1998, i comunisti si spostano tra i banchi dell’opposizione.
L’esecutivo del professore non ha più la fiducia alla vigilia della presentazione della manovra finanziaria: 313 voti contrari e 312 favorevoli. Rifondazione si spacca. Il grosso del gruppo parlamentare
di fede cossuttiana (21 deputati) decide di continuare a sostenere Prodi nonostante la contrarietà della maggioranza del partito. I bertinottiani, invece, (13 deputati) votano contro il governo. Il le30 marzo 2013
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Romano Prodi,
leader dell’Ulivo,
guida il governo
del centrosinistra
dal 1996 al 1998
ader dell’Ulivo va a casa e da Rifondazione si stacca una costola che dà vita al partito dei Comunisti
italiani, i cui parlamentari diventano indispensabili per i futuri governi D’Alema e Amato. Il giorno
dopo la fine del governo Prodi, il 10 ottobre, viene
arrestato a Londra il macellaio Augusto Pinochet,
spietato dittatore cileno.
Il puzzle del Pd
Mentre scriviamo, tocca a Bersani trovare i numeri al Senato. Il Pd ha una pattuglia di 106 senatori,
che sommati ai 10 del gruppo misto (7 eletti con
Sel, 2 col Pd e Carlo Azeglio Ciampi) fanno 116. Ma
per la fiducia servono 160 voti. Bersani ha chiesto
al partito di seguirlo nel suo inseguimento al Movimento 5 stelle - che però non sembra intenzionato a cedere alle lusinghe degli 8 punti del segretario - ponendo una sola condizione: mai accordi
col Cavaliere. E davanti all’ostile ostinazione grillina, non resta che rastrellare voti altrove. Il primo
a farsi avanti è stato Mario Monti, un altro sconfitto di peso, che per soccorrere Bersani sarebbe disposto a offrire i suoi 21 senatori. Con la stampella
di Lista civica, il Pd raggiungerebbe quota 137. Incoraggiante ma non sufficiente. Un altro gruzzolo di senatori, però, dovrebbe arrivare dal gruppo
delle autonomie che porta in dote altri 10 preziosissimi sostenitori che farebbero balzare l’asticella del consenso a quota 147. Ma una montagna non
si può scalare a metà e se non si arriva in cima è
inutile esultare, rischiando di cascare nel burrone.
E per arrivare sul cocuzzolo di Palazzo Madama,
mancano ancora almeno 13 introvabili senatori.
Ma in politica mai dire mai. Perché, a cercar bene
left 30 marzo 2013
Nel ’96 Maccanico riceve il mandato
esplorativo per formare un esecutivo.
Ma torna al Colle a mani vuote e si rivota
tra i banchi, qualcosa salta fuori sempre. Infatti c’è
un nuovo gruppo parlamentare che luccica in queste ore: il Gal (Grandi autonomie e libertà). Nato
pochi giorni fa, il gruppo sembra creato apposta
per Bersani. Dieci senatori provenienti da Grande Sud (3), Pdl (3), Lega nord (2), Mpa (1), Lista
Scopelliti (1) uniti da un solo scopo: offrire a caro prezzo i loro voti al leader del Pd. Il loro sostegno, unito a quello dei senatori a vita potrebbe
far nascere un eventuale governo Bersani. Il problema è che il Gal è un gruppo di facciata, composto da uomini pronti a muoversi a solo a un
cenno del capo di sempre: Silvio Berlusconi. Se i
democratici vogliono i loro voti senza far la parte degli inciucioni dovranno comunque pensare
a una contropartita importante da servire sul tavolo del sempreverde imprenditore di Arcore.
In alternativa ci sono nuove elezioni o un governo di larghe intese. Sempre che il segretario del
Pd non riesca a portare dalla sua parte almeno i
senatori della Lega. La partita è aperta. Mentre
la crisi lascia sul terreno un’altra vittima: Cipro.
Per salvare il Paese dalla bancarotta, il governo
dell’isola ha deciso di operare prelievi forzosi
sui depositi superiori al 100mila euro. Un piano,
concordato con la Troika, che potrebbe salvare
Cipro. Ai ciprioti ci penserà qualcun altro.
Un altro grillo nella testa di Bersani.
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Decreto
inganna
malati
di Simona Maggiorelli
Il ministro della Salute Balduzzi apre al metodo
Stamina e la comunità scientifica insorge.
«Non ci sono evidenze che funzioni. Questa
non è medicina», dice l’esperta Elena Cattaneo
A
driano Celentano ha chiesto pubblicamente che la piccola Sofia, affetta da
una grave patologia neurodegenarativa, potesse continuare con i rimedi della Stamina
Foundation, la onlus di Davide Vannoni (laureato
in Lettere e filosofia) nonostante i suoi metodi non
siano stati validati scientificamente. E quell’intervento, rilanciato in tv da Le Iene, ha portato a un
tam tam pro Stamina. Impossibile non essere solidali con Sofia e con tutti quei bimbi che sono affetti da malattie per le quali manca ancora una cura. Ma metterli nelle mani del team di Stamina che
somministra “terapie” a base di staminali significa
davvero aiutarli? O non siamo piuttosto di fronte a
un nuovo caso Di Bella, a uno sciagurato mercato
della speranza? La domanda sorge se si ripercorrono le tappe di questa complicata storia: nel maggio 2012 l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) bloccò il metodo Stamina, perché non conforme ai
protocolli internazionali. Il procuratore Guariniello ha avviato nel frattempo un’inchiesta su Stamina e, al contempo, si è assistito a una ridda di provvedimenti contrastanti: due giudici hanno autorizzato la piccola Celeste a Venezia e Smeralda a Ca28
tania a proseguire con Stamina. Poi lo stop del Tar.
Per tutta risposta la onlus di Vannoni è stata “convenzionata” e accolta nei locali della Asl Spedali
civili di Brescia. Il suo inserimento in questa struttura sanitaria pubblica ha fatto scattare un’inchiesta del ministro Balduzzi, affidata a Iss, Nas e Aifa.
Più di recente, come accennavamo, è emerso il caso di Sofia, affetta da leucodistrofia metacromatica, che attacca il sistema nervoso. Il tribunale di
Firenze le ha imposto di interrompere le “terapie”
di Stamina a base di infusioni di staminali mesenchimali (estratte dallo scheletro), in base all’ordinanza Aifa, ma il 21 marzo il ministro Balduzzi ha
presentato un decreto in cui la si autorizza a proseguire sulla strada avviata. Un provvedimento
che è stato accolto con sconcerto dalla comunità
scientifica e in particolare da quegli scienziati di
fama internazionale (Cattaneo, Garattini, Cossu,
De Luca, Bianco, Garattini ecc.) che in una lettera
avevano raccomandato al ministro di non aprire al
metodo Stamina perché «non esiste nessuna prova che queste cellule abbiano efficacia nelle malattie per cui sarebbero impiegate». Pena «lo stravolgimento dei fondamenti scientifici e morali della medicina» e un disconoscimento «della dignità del dramma dei malati. Una condizione che ci
motiva empaticamente a produrre e garantire risultati attendibili, visibili e pubblici, senza i quali
nessuna ipotesi diventerà mai cura». Dopo la presentazione del decreto Balduzzi abbiamo chiesto
un commento all’ordinario di Farmacologia Elena
30 marzo 2013
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Lo storico della medicina
Corbellini: «Ho letto il brevetto
e sentito gli specialisti:
questo metodo è una truffa»
Cattaneo, che da anni lavora con le staminali: Nel
metodo Stamina «di scientifico non c’è nulla», afferma. «Se i dati e la strategia seguita fossero messi a disposizione, come tutti noi facciamo per sottoporre i nostri piani e risultati alla valutazione dei
colleghi, si potrebbe valutare, confrontare, discutere. In genere quando nulla è messo a disposizione è perché non c’è nulla di cui discutere. Quindi non è scienza e non è medicina». Professoressa Cattaneo rischiamo un nuovo caso Di Bella? «A
me pare addirittura peggio. Qui i tribunali decidono che è terapia da somministrare a esseri umani
ciò che i medici specialisti non possono definire
terapia per evidenti mancanza di prove». Quanto
al decreto del ministro Balduzzi «per me è scioccante - dice -. È un decreto che sembra ripudiare la
pratica scientifica e medica che impone la verifica
dell’efficacia e della sicurezza di un preparato prima della somministrazione all’uomo. È un decreto che rinnega anche le disposizioni, contrarie al
trattamento, emesse dalle stesse agenzie ministeriali deputate al controllo oltre a contravvenire alle regole degli enti regolatori europei, recepite anche dall’Italia, in materia di impiego di staminali
nella medicina rigenerativa».
Ma c’è di più. «Questo decreto - denuncia Elena Cattaneo - impone anche alla collettività di farsi
carico di trattamenti non provati. E apre all’eventualità che ognuno possa esigere dallo Stato la terapia che (purtroppo) non c’è e che ciascuno riterrà più idonea per sé. Dimentica che le scorciatoie
in medicina non esistono e che i trattamenti non
provati sono anche pericolosi. Il decreto inganna
la speranza dei malati. Non contiene nessuna etica medica». Nettissimo è anche il parere di un altro
firmatario della lettera, Gilberto Corbellini, storico
della medicina de La Sapienza: «Ho letto la descrizione del metodo riportata nel brevetto, ho parlato
con colleghi che studiano la biologia della cellule
mesenchimali e - dice a left - sono giunto alla conclusione che: è una truffa!». I media come hanno
left 30 marzo 2013
trattato la questione? «Quelli italiani credo siano
tra i peggiori d’Occidente, inseguono i luoghi comuni e speculano sulle sofferenze. Creano le notizie e si guardano dal fornire ai lettori informazioni documentate e istruzioni per capire, alimentando incomprensioni tra mondo scientifico e società». Quanto al decreto Balduzzi, dice Corbellini,
«se fosse stato emanato in un altro Paese occidentale, i dirigenti delle agenzie regolatorie e degli anti di vigilanza sulla sicurezza e l’appropriatezza delle terapie di quel Paese si sarebbero dimessi. E le
società medico-scientifiche si sarebbero sollevate.
Quel decreto - conclude - è vergognoso e offende
la memoria e il lavoro di coloro che dopo il processo di Norimberga ai medici nazisti hanno cercato
di fondare la medicina solo su solide basi etiche,
sottraendola a un pericoloso paternalismo che giustificava l’inganno... per il bene dei pazienti». E sono proprio i malati a prendere la parola attraverso
l’Associazione Luca Coscioni. «Le notizie che arrivano sono di bambini che muoiono e che peggiorano, dall’altro lato ci sono tante famiglie di bimbi malati che vogliono accedere alle cure: sperano per i propri figli», dice l’avvocato Filomena Gallo che guida l’Associazione. «Avevamo chiesto al
ministro che facesse solo il suo dovere di applicare le norme italiane in linea con quelle comunitarie, fare chiarezza, pretendere i dati pre clinici con
un rapporto di confidenzialità. Non è stato fatto ed
è inammissibile. Dal punto di vista scientifico gli
esperti dell’Istituto superiore di sanità e dell’Aifa
hanno dato parere negativo. Se questi importanti
organi tecnici non hanno alcun valore per il ministro Balduzzi ci dica allora per quale motivo sono
stati consultati». Il decreto Balduzzi conclude Filomena Gallo «sembra ancor più fumoso del provvedimento con cui ha autorizzato le terapie sottolineando che non erano state ottenute in conformità
agli standard di sicurezza. Qui la contraddizione riguarda persino l’accesso che discrimina fra chi ha
iniziato e chi deve iniziare, quasi fosse una questione di ordine cronologico».
Un sostenitore
del movimento
Militia Christi in
una manifestazione
a favore della
Stamina Foundation.
A sinistra, il ministro
della Salute Renato
Balduzzi
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Lo Stato abbandona welfare e servizi pubblici. Per risolvere i problemi
arrivano loro, i volontari dell’Auser. Un esercito di 300mila iscritti. Anziani, ma
molto attivi. Che non vogliono essere rottamati. Ecco le loro buone pratiche
i tappabuchi
© 123rf
di Donatella Coccoli
A
Ferrara custodiscono i musei, a Crotone aggiustano le sedie a rotelle, a Siena
cucinano pizze per chi è solo, a Treviso
dialogano con gli immigrati. Ma ci tengono a dire che no, loro non vogliono diventare le stampelle d’Italia. Sono i volontari dell’Auser che nel loro congresso a Riccione, dal 20 al 22 marzo, hanno raccontato l’Italia degli anziani, stufa di essere sbeffeggiata dai rottamatori e umiliata dalla
povertà. Un’Italia che non ci sta: reclama diritti e
vuole ricostruire il futuro. È significativo che la fotografia di questa fetta del Paese venga dall’associazione fatta nascere 24 anni fa da Cgil e Spi, rivolta agli anziani ma ormai aperta a tutta la società. «Contaminata», precisa il presidente uscente
Michele Mangano che ha lasciato il posto a Enzo
Costa, fino a ieri segretario generale della Cgil sarda. L’Auser è un’associazione vivace, combattiva.
«Tanti provengono dalla Cgil, ma poi sono cambiati, non hanno più steccati ideologici», racconta
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uno dei 350 delegati. Per forza di cose. C’è chi vota
Lega, chi Grillo, chi viene da altri sindacati, ci sono
disoccupati, immigrati, giovani che nelle sedi Auser svolgono il servizio civile. Tantissime donne: il
56,4 per cento dei soci. In tutto sono 300mila iscritti, 48mila volontari, 1.500 sedi. Un piccolo esercito a stretto contatto con la solitudine, la malattia
e i buchi di un welfare sempre più debole. Specie
per gli anziani.
In Italia sono oltre 12 milioni gli over 65 e di
questi, 5 milioni vivono soli. Tra i 7 milioni di poveri, oltre due sono over 65. La crisi economica la
si tocca con mano. «Il potere d’acquisto delle pensioni è crollato di un terzo dal 2008 a oggi», spiega Mangano. E poi ci sono i tagli al welfare, che
è diventato sempre più un lusso: «Un arretramento continuo dell’intervento pubblico nei servizi sociali». Non si assumono più educatori, assistenti
sociali, psicologi, come si legge nella Rilevazione
30 marzo 2013
left
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nazionale sul rapporto tra enti locali e Terzo settore commissionata proprio da Auser. Tra 2010 e
2011 le assunzioni sono scese del 65 per cento. E
se lo Stato si ritira, i vuoti vengono riempiti dalle
cooperative e delle associazioni di volontariato.
«Ma non vogliamo sostituirci al pubblico». Bruno Tassone ha un sorriso amaro mentre racconta
le gesta dei volontari dell’Auser a Crotone, in Calabria, una delle regioni più dissestate in campo
sanitario. «I dializzati ci chiamano “i nostri angeli”». Senza i 46 volontari Auser che li trasportano
tra casa e ospedale la loro vita sarebbe un inferno.
Ex professore di tecnica, poeta, appassionato di
dialetto, Tassone ha creato anche un centro di recupero di materiale per disabili. «Visto che i soldi
non ci sono, abbiamo chiesto di portare qui le carrozzine e le stampelle rotte. Noi le aggiustiamo e le
riconsegniamo gratis. Abbiamo già fatto 62 noleggi con un risparmio di 42mila euro».
«A Ferrara abbiamo per fortuna un welfare corposo», racconta Antonio Turola, andato in pensione da giovane con «vent’anni di amianto» alle
spalle, un uomo che si definisce «di sinistra, non
di centrosinistra». Ma anche nell’efficiente Emilia
c’è qualche buco da tappare. Sono 260 i volontari
dell’Auser che nella città degli Estensi provvedono alla vigilanza del Palazzo dei Diamanti e di tutti
i musei. «Lo facciamo da 15 anni, ma non portiamo
via neppure un posto di lavoro. Il Comune non ha i
fondi per i custodi». Turola, oltre a essere vicepresidente dell’Auser di Ferrara è anche semplice volontario al suo paese, Poggio Renatico. Qui l’Auser,
grazie a una convenzione col Comune, copre il servizio di trasporto pubblico: ogni anno sono 8mila
le persone “accompagnate” dall’Auser. «Metà del
paese», dice Turola con orgoglio. Poi c’è il magazzino per gli ausilii per i disabili: dalle sedie a rotelle ai sollevatori fino ai letti. Tutto gratis. «I nostri
volontari non percepiscono un centesimo. L’anno
scorso abbiamo ricevuto 200mila euro di rimborsi.
Cosa ne facciamo? Li mettiamo in banca e li reinvestiamo nelle nostre attività».
Lontani dai grandi centri, in campagna, la vita è
doppiamente difficile se si è anziani e soli. In provincia di Siena, a Radicofani - il borgo medievale
reso celebre dal bandito medievale Ghino di Tacco e da Bettino Craxi - Giovanna Megna è la responsabile dell’Auser: 200 tesserati su mille abitanti. Giovanna è una giovane donna venuta dal-
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la Calabria in cerca di lavoro. Oggi è disoccupata. «Noi facciamo
volontariato puro. Organizziamo
una pizzeria la domenica, per l’ultimo dell’anno mandiamo la cena a casa di chi non si può muovere. Poi le serate da ballo, le feste,
le manifestazioni turistiche». Una
fotocopiatrice comprata dall’Auser regalata alla
scuola media è una grande conquista. E il sogno è
«ripulire e gestire gratis lo storico bosco Isabella,
coi suoi alberi secolari».
Tra i militanti
dell’associazione:
giovani del servizio
civile, immigrati
e tantissime donne
Ma l’attività dell’Auser significa anche apertura verso i nuovi italiani. Daniela Anghel viene dalla
Moldavia, ha sposato un cittadino rumeno, ha una
bambina piccola e lavora come traduttrice e interprete. Ha idee molto chiare sul ruolo degli stranieri. «Il termine clandestino, l’ho imparato qua in Italia, da noi gli immigrati sono considerati un gradino più su rispetto agli autoctoni». Arrivata in Italia
dieci anni fa a Treviso ha avuto «il primo contatto
con una istituzione italiana attraverso l’Auser» e
da allora non l’ha più lasciata. Adesso è presidente di due associazioni rivolte ai cittadini di origini
straniere. Tanti i progetti con l’obiettivo comune
dell’integrazione. «Uno di questi si chiama “Apriamo le case”. Facciamo incontrare famiglie italiane
e straniere. I bambini a scuola sono amici, ma i loro genitori non si conoscono affatto».
Nonostante la moltitudine di storie e attività sparse in Italia l’obiettivo dell’Auser resta uno solo.
«L’anziano non è un peso per la società. Noi vogliamo sconfiggere questo luogo comune», spiega il
presidente uscente Michele Mangano. Il suo successore, Enzo Costa, propone all’associazione un
ulteriore salto di qualità: «Vogliamo diventare sistema all’interno delle reti del terzo settore». Il popolo dei volontari chiede valorizzazione e riconoscimento del ruolo svolto all’interno della società.
Né tappabuchi dello Stato né missionari dell’assistenza. «Se un progetto lo si fa insieme, anziani
e giovani, l’economia sociale può far nascere anche opportunità di lavoro», conclude Mangano.
Invecchiamento attivo è la parola d’ordine. Come
del resto recita la legge della Liguria, un modello
da esportare in tutto il Paese. Obiettivo: realizzare
«per tutto l’arco della vita un progetto gratificante,
socialmente dignitoso, dotato di senso per sé e per
tutta la comunità di appartenenza».
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società
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Libera
nos
a mafia
© Baiamonte/LaPresse
di Donatella Coccoli
Parte da Tunisi la carovana contro la criminalità
organizzata. Un percorso che poi toccherà
le maggiori città italiane dal Sud al profondo Nord
L
la carovana su left
Dal prossimo numero
pubblicheremo il diario
di bordo settimanale
della carovana
internazionale
antimafie.
In alto, 23 maggio
2012, la nave della
legalità salpa da
Palermo verso Napoli
32
a mafia più pericolosa? È quella della zona grigia. Quella che non uccide ma che
si insinua nei territori ricchi e vi mette radici. Sale giochi, ristoranti, aziende agricole fanno molta gola. Dall’Emilia Romagna alla Toscana, e poi sù sù nel “profondo” Nord. Le cronache giornalistiche come quelle di Giovanni Tizian (finito sotto scorta per le minacce subite dopo i suoi articoli) e le inchieste della magistratura ogni giorno testimoniano il “salto di qualità”
delle cosche che hanno lasciato la manovalanza
al Sud per sbarcare in giacca e cravatta nella pianura padana. Svelare e raccontare questa realtà
è l’obiettivo della carovana internazionale antimafie, al via il 30 marzo da Tunisi, per poi passare in Sicilia (il 2 aprile la tappa è a Pizzolungo, il luogo della strage dell’85) e risalire la penisola chiudendo il 6 giugno a Milano, Firenze
e Roma. «Tre città legate dalle bombe del ’93,
quelle che fecero le stragi di via Georgofili a Firenze e di via Palestro a Milano», afferma Alessandro Cobianchi, coordinatore della iniziativa promossa da Arci, Libera, Avviso Pubblico, Cgil, Cisl e Uil, Banca Etica e da la Ligue de
l’insegnaiment, un’associazione francese per
l’educazione popolare. I “carovanieri” dei due
furgoni si daranno il cambio ogni 15-20 giorni e
andranno nelle scuole, nei circoli Arci, nelle sedi sindacali. «Siamo dei narratori, raccontiamo,
spieghiamo. E allo stesso tempo verifichiamo
di persona la percezione che si ha della mafia
nei vari luoghi d’Italia. Una campagna a tappeto. Meno alberghi, più piazze, è il nostro slogan»
continua Cobianchi. Le tappe fuori Italia servono ad allargare il campo, a fornire conoscenze
ai nostri vicini. «A Tunisi terremo un workshop
sulla corruzione che riguarda tutti i Paesi del
Mediterraneo e che prolifera nei momenti di
crisi», dice Cobianchi. Mentre in Francia sono
previste tappe autunnali (a Marsiglia, Nizza, Tolone, Bastia) per parlare di mafia là dove ancora pensano che sia un fenomeno di esportazione mentre invece anche il semplice spaccio di
droga è in mano alle multinazionali della criminalità. Un vero e proprio impero degli affari. In
Italia ammonta a 500 miliardi il “fatturato” proveniente dalle attività mafiose, dalla corruzione e dall’evasione fiscale. Un tesoro che potrebbe toglierci dalla recessione. Ma la legge 109 del
1996 sul riutilizzo per fini sociali dei beni sequestrati si trova in una situazione di empasse. E
pensare che sono circa 13mila gli immobili e le
aziende confiscati, con la Sicilia in testa (5.515,
il 42,60 per cento) e la Lombardia prima al Nord
con 1186 sequestri. «I beni confiscati sono strumenti per sconfiggere le mafie, perché toccano la “roba”, e hanno quindi un valore simbolico oltre che economico - conclude Cobianchi -.
La legge però ha bisogno di modifiche: bisogna
investire con più risorse e impedire che i beni
vengano abbandonati. Perché altrimenti servono solo alle “anime belle” dell’antimafia».
30 marzo 2013
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calcio mancino
società
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Il 10 maggio 1981 il Napoli passa al Sinigaglia e la Juve blocca la Roma a Torino
Quel Palo
sul lago di Como
Q
uel ramo del
lago di Como che volge a mezzogiorno, e non
finisce a Lecco, termina la corsa proprio a Como dove, a pochi passi
dall’acqua, sorge lo stadio Sinigaglia. È qui che
nella stagione ’80-’81, la
neopromossa squadra
lariana gioca le gare casalinghe del sesto campionato di serie A della sua storia. In porta c’è
William Vecchi, protetto da due colonne come
Vierchowod e Fontolan:
uno terzino destro e uno
stopper. Terzino sinistro
è Roberto Galia e libero Piero Volpi
da Milano: maturità classica e laurea
in medicina. A centrocampo: capitan
Lombardi, l’abruzzese Centi e il veneto Renzo Gobbo da Castelfranco. Massimo Mancini e Cavagnetto sono le ali
e Marco Nicoletti il centravanti. L’esordio tra le mura amiche è stato rovinato
dalla Roma e, dopo l’amara trasferta
sul campo della Juve, alla terza giornata arrivano i primi due punti ai danni
dell’Inter scudettata di Bersellini. Sarà dura salvarsi per i ragazzi di Pippo
Marchioro che, al giro di boa, possono comunque guardare ben sei squadre dall’alto di una classifica corta dove il solo Perugia appare ormai spacciato dopo essere partito da -5 insieme
a Bologna e Avellino per gli illeciti della stagione passata che la Federazione
aveva voluto cancellare riaprendo le
frontiere. Sebbene Como si trovi qua-
di Emanuele Santi
sostituisce Musella con
Francesco Palo, promettente centravanti della
primavera all’esordio in
serie A. Ma la musica non
cambia: ancora 0-0 come
al Comunale di Torino
dove arbitro e guardialinee annullano al giallorosso Maurizio Turone
il gol del sorpasso. Al Sinigaglia, invece, Claudio
Pellegrini da Primavalle
difende l’ultimo pallone
prima del triplice fischio
e lancia Guidetti che tira
in corsa da destra. Il missile rasoterra è respinto da Vecchi che si allunga in tuffo. Fontolan protegge il portiere ma alle sue spalle sbuca proprio il ventunenne Palo che tocca al volo in rete e fa esplodere mezzo stadio. Juve 40, Roma 39, Napoli 38.
La domenica successiva c’è NapoliJuve e la Roma ospita la Pistoiese retrocessa. Palo entrerà sempre nella ripresa al posto di Musella, ma non sfugge né a Gentile né a Prandelli. La Juve vince e vola verso il diciannovesimo scudetto. Il Como perde anche a
Brescia ma vince l’ultima in casa col
Bologna. Si salva grazie alla classifica
avulsa con altre quattro squadre a pari merito che condanna proprio il Brescia. È il maggio dell’81. Lo straniero
più famoso d’Italia non è né Brady né
Falçao né Krol, ma un certo Alì Agca
e il referendum ha appena respinto
l’aggressione alla Legge 194 da parte
del Movimento per la vita.
[email protected]
Lo stadio Sinigaglia di Como
Quell’anno i lariani si salvano grazie
alla classifica avulsa. Lo straniero
più famoso è Ali Ağca
left 30 marzo 2013
si sul confine, il presidente Brambilla
rinuncia alla facoltà di tesserare il suo
straniero. La lotta al vertice vede il Napoli di Krol spodestare l’Inter di Prohaska dal ruolo di outsider dietro alla
Juve di Brady e alla Roma di Falçao.
Il 10 maggio fa caldo. In riva al lago arriva proprio il Napoli in maglia bianca: Castellini, Bruscolotti, Marangon,
Celestini, Krol, Ferrario; Damiani, Vinazzani, Musella, Guidetti, Pellegrini.
Arbitra Menicucci di Firenze. La classifica dice: Juve 39, Roma 38, Napoli 36. I tifosi locali, sorpresi dall’invasione ospite, firmerebbero col sangue
per un pareggio che, a tre turni dalla fine, vale oro. A Torino si gioca Juve-Roma, piove, e l’unica notizia di rilevo nel
secondo tempo è l’espulsione di Furino per il tentato omicidio di Maggiora.
Quando manca mezz’ora alla fine, l’allenatore partenopeo Rino Marchesi
33
cose dell’altritalia
società
left.it
1 ROMA
Cocaina e ’ndrangheta vanno a nozze
Nella Capitale lo spaccio si fa in famiglia
Il 26 marzo, la Dda di Roma ha smantellato un’organizzazione criminale dedita al traffico di sostanze stupefacenti. Un cartello del narcotraffico composto da due famiglie: i
Gallace, ’ndranghetisti del catanzarese, e i Romagnoli, criminali capitolini. Due famiglie che
avevano creato un sodalizio anche grazie alle nozze tra il boss della ’ndrina e la figlia del capo del clan romano. Perché droga e ’ndrangheta nella Capitale vanno a nozze. O meglio, ci
andavano prima che la Squadra mobile eseguisse i dieci fermi richiesti dalla Procura antimafia per il concreto pericolo di fuga dei membri delle due organizzazioni. Il reato contestato:
associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di stupefacenti. Lo spaccio al dettaglio era
gestito dai Romagnoli che a loro volta ricevevano la cocaina dai Gallace. Piazze di riferimento: Torre Maura e San Basilio, con ramificazioni e basi logistiche sul litorale laziale. Numerosi beni riconducibili alla cosca sono stati sequestrati. I fermi sono il frutto di una lunga attività investigativa che ha permesso agli agenti di scoprire tutte le fasi del traffico della cocaina.
Intercettazioni ambientali e telefoniche, pedinamenti e osservazioni sono state eseguite dalla Squadra narcotici nella Capitale e nel territorio compreso tra Anzio e Nettuno.
5
2 SARDEGNA
Il popolo ha fame?
Diamogli il Sardex
Se non avete più un euro in tasca potete passare al Sardex. È
il progetto presentato dal governatore della Regione Sardegna Ugo Cappellacci, che prevede
l’erogazione di 500 euro di crediti al mese a beneficio di 10mila giovani disoccupati tra i 25 e
i 35 anni. Il tutto con una spesa di massimo 20
milioni di euro in tre anni. I crediti Sardex (che
avranno lo stesso valore degli euro) potranno
essere spesi in oltre mille aziende che partecipano all’iniziativa. Il paniere dei beni acquistabili verrà adattato alle esigenze dei giovani disoccupati (alimentari, librerie, cura persona, svago,
ecc.). Agli iscritti, selezionati dalla Regione anche attraverso un meccanismo di rotazione, verrà chiesto in cambio di impiegare il proprio tempo in progetti che saranno definiti dalle comunità locali attraverso una piattaforma di e-democracy. Si va dall’implementazione della segnaletica turistica, alle lezioni di inglese al miglioramento complessivo della qualità della vita.
34
2
3 CATANIA
Togliete la laurea a Caltagirone
Una petizione online per chiedere la sospensione della laurea ad honorem conferita a Francesco Bellavista Caltagirone, imprenditore finito in carcere il 19 marzo per truffa.
Ad avviarla un gruppo di docenti dell’università di Catania, l’Ateneo
che nel 2009 gli aveva attribuito l’onorificenza. La decisione dell’allora rettore Antonino Recca era stata molto contestata: «Per riparare
alla brutta figura non ci resta che chiedere che la laurea venga sospesa, in attesa che si verifichino le responsabilità penali del sig. Francesco Gaetano Caltagirone», queste le parole dei primi firmatari della petizione. L’uomo d’affari romano è stato arrestato con l’accusa di
frode in pubbliche forniture, appropriazione indebita e trasferimento fraudolento di denaro, a seguito di un’indagine della procura di Civitavecchia sulla realizzazione del porto turistico di Fiumicino.
30 marzo 2013
left
cose dell’altritalia
left.it
società
4 REGGIO CALABRIA
Quel prete al summit di mafia
Un prete al tavolo coi boss della ’ndrangheta. Al processo “Meta”, in corso a Reggio Calabria,
emergono strani particolari su un summit della criminalità organizzata svoltosi a Gambarie
d’Aspromonte, cui avrebbero partecipato, tra gli altri, Domenico Passalacqua e Stefano Vitale, ritenuti
organici alle cosche. La circostanza è emersa nell’udienza in cui hanno sfilato all’interno dell’aula bunker i
sottoufficiali del Ros di Reggio Calabria. I militari, partendo dalle investigazioni per la cattura del superboss
Pasquale Condello, erano riusciti a tracciare, sotto il coordinamento del pm Giuseppe Lombardo, i nuovi
assetti delle grandi cosche reggine. A riferire dell’incontro a Gambarie è uno dei marescialli del Ros. Il
quale, rispondendo alle domande dell’accusa e della difesa, ha dato atto della presenza di un uomo di
una certa età, con i capelli bianchi, in abito talare. Impossibile sapere, al momento, se quell’individuo
fosse davvero un “uomo di Dio”. Oppure un semplice affiliato che, astutamente, si sarebbe
travestito per non essere riconosciuto.
5
5 FERRARA
Il Consiglio in catene per protesta
Giunta e Consiglio comunale di Ferrara si incatenano durante la seduta come protesta contro le decisioni del Parlamento sull’allocazione del gettito Imu. Da quest’anno il gettito Imu degli immobili destinati ad attività produttive, infatti, andrà direttamente allo Stato,
senza passare per le casse comunali. La decisione vanifica la scelta dell’ente ferrarese di ridurre al minimo l’aliquota sui fabbricati destinati a nuove attività produttive. «Era l’unica arma fiscale che la nostra Repubblica
ci metteva a disposizione per mettere in atto un embrione di politica industriale», è il rammarico dell’assessore al Bilancio Luigi Marattin. Ma la scelta virtuosa del Comune si è dovuta scontrare con una lettera datata 4
febbraio arrivata dal ministero dell’Economia. La missiva invi6
tava il Comune ad abolire le agevolazioni Imu previste. Il 25
marzo il Consiglio era chiamato a ratificare la vecchia
delibera con la quale si prevedevano le agevolazioni,
destinate ora a rimanere lettera morta. «Questo
Consiglio viene umiliato nella sua capacità decisionale e dignità», aggiunge Marattin. «Noi
non siamo passacarte ministeriali».
1
6 BARI
Obiettori all’unanimità
4
3
left 30 marzo 2013
Duro colpo alle Legge 194 e ai diritti delle donne, a Bari.
Tutti i ginecologi e le ostetriche dell’ospedale San Paolo
si sono dichiarati obiettori di coscienza. Dallo scorso 18 marzo è così diventato impossibile, per una donna, sottoporsi all’interruzione volontaria di gravidanza presso la Asl barese, che contava sul San Paolo come ultimo presidio a garanzia del servizio. Nell’attesa di vederci chiaro l’azienda sanitaria ha inviato nel nosocomio un nuovo ginecologo non obiettore, che comunque avrà non poche difficoltà a sbrigare, da solo, l’ingente
mole di lavoro. L’ipotesi è, però, che le convinzioni morali c’entrino poco
con la vicenda. La scelta dei medici e del personale sanitario potrebbe essere scattata in segno di protesta per le condizioni di lavoro al limite della
sopportazione cui erano costretti. In mezzo, però, ci vanno le donne.
35
mondo
Islam
contro
Islam
di Cecilia Tosi
36
La divisione tra sunniti e
sciiti tormenta il mondo
musulmano. Tra vecchie
guerre e nuovi attentati,
i nemici non sono più gli
occidentali miscredenti,
ma i fratelli che hanno
corrotto la vera fede.
Un’interpretazione
che fa comodo a tutti.
Meno che al popolo
30 marzo 2013
left
© Adil /AP/lapresse
mondo
Karachi, Pakistan,
folla sul luogo di
un’autobomba
che la notte del 4 marzo
2013 ha devastato
la zona. Obiettivo?
Gli sciiti
left 30 marzo 2013
37
mondo
left.it
H
Islamabad, Pakistan,
una donna sciita protesta contro l’attentato
del 17 febbraio. I residenti chiedono la protezione del governo
38
a premuto il pulsante ed è esploso. La
bomba che portava in corpo ha risucchiato nel vortice più di 250 persone,
uccidendone 84 e ferendone 169. Uomini, donne,
bambini. Tutti musulmani, proprio come l’attentatore. In Pakistan il jihad non miete vittime cristiane, perché i terroristi combattano dentro l’Islam. Il
kamikaze che ha colpito Quetta il 16 febbraio era
sunnita e ha voluto sterminare una comunità sciita. Nati nel settimo secolo dopo Cristo, i due rami dell’Islam si separarono per questioni di discendenza: alla morte di Maometto gli sciiti seguirono
Ali, il cognato del Profeta, mentre i sunniti preferirono il califfo, raccogliendo la maggior parte dei
consensi. È stata questa maggioranza a forgiare la
storia e le successive divisioni tra i due gruppi, altrettanto fedeli al Corano. I sunniti hanno dettato
legge e gli sciiti sono rimasti minoranza, costretti
a scappare e difendersi, in attesa di un imam che
prima o poi verrà a ristabilire la giustizia in terra.
E in questo momento ne avrebbero davvero bisogno, visto i colpi che stanno prendendo: vittime di
attentati in Pakistan e in Iraq, schiacciati dal regime in Bahrein, in fuga dalle frange estremiste della rivolta siriana contro Bashar al Assad. Dopo che
le Primavere arabe hanno stravolto gli equilibri politici del Medio Oriente, la guerra di religione si è
trasferita dentro l’Islam. I terroristi agiscono a casa loro e i ricercatori americani si dedicano a studiare il nuovo scontro. Sarà un caso se l’Occidente
è uscito dal mirino?
«Il conflitto tra sette - intese come divisioni interne all’Islam - sostituirà la guerra israelopalestinese nel cuore degli arabi». Lo sostiene una delle più
esperte conoscitrici della materia, Geneive Abdo,
che in Usa lavora per lo Stimson center. Per gli occidentali presi di mira da al Qaeda sembra un sogno diventato realtà. Soprattutto per gli israeliani,
che non speravano altro dal ’46. Gioiscono regimi
dittatoriali arabi e teocrazie del Golfo.
Tutti hanno interesse a dividere l’Islam.
Tutti, tranne il popolo musulmano.
Ci sono i regimi in caduta libera, come quello
siriano, che hanno dipinto ribelli pacifici come sunniti fondamentalisti in cerca di vendetta.
C’è il sultano del Bahrein,
che ha appena fatto con-
dannare otto manifestanti alla pena di morte per
aver alimentato l’odio religioso. C’è soprattutto
l’Arabia Saudita, che da secoli teme un’insurrezione della sua minoranza sciita, dominante nell’area
dei pozzi petroliferi. Il suo nemico è l’Iran, ma non
solo quello degli ayatollah, perché i petroldollari finanziavano anche gli oppositori allo shah. La
scusa religiosa serve per fare propaganda, ed evitare che si formi un polo di potere avverso in Medio Oriente. L’incubo di una macroregione nemica
vede Teheran coagulare intorno a sé gli sciiti di Pakistan, Iraq, Bahrein, Siria e Libano.
«I sauditi hanno speso 75 milioni di dollari per
contribuire alla diffusione della loro ideologia di
Islam Deobandi - “puritano” - nel resto del mondo
musulmano», spiega Reza Aslan, studioso di origini iraniana dell’università della California, autore
di No god but God, the origins, evolution and future of Islam (Ramdon House). «Ora lo scontro tra
sciiti e sunniti è diventato una questione politica,
come lo era quello tra protestanti e cattolici a Belfast negli anni Settanta». In Irlanda del Nord, però, chi si suicidava lo faceva digiunando in carcere. In Pakistan, invece, ci si uccide per sterminare il nemico. «Gli attacchi contro gli sciiti in Baluchistan - ha spiegato Bruce Riedel del più quotato
think tank del mondo, Brookings institution - sono raddoppiati dal 2011 al 2012, raggiungendo quota 45. Eppure appartenevano a questa minoranza
anche il fondatore del Pakistan e la madre di Benazir Bhutto. Non c’è mai stato odio settario prima
degli anni Ottanta. Poi è arrivata la dittatura sunnita di Muhammed Zia ul Haq, amico degli Usa, che
si è alleato coi sauditi. E i sauditi hanno sostenuto la creazione di milizie anti sciite, per colpire il nemico iraniano». Una di queste, Lashkare-Jangvi, ha rivendicato gli ultimi attentati. Ufficialmente illegale, è in realtà alleata dei servizi segreti pakistani. Il loro
leader Malik Ishaq è stato rilasciato
nel 2011 nonostante fosse indagato
per 44 casi di omicidio: i testimoni
morivano prima di arrivare in tribunale. Il suo gruppo ha ucciso
centinaia di hazara, la comunità
sciita che discende dai profughi
afgani. Gli americani usano i loro droni per attaccare i terroristi in Pakistan, ma non
30 marzo 2013
left
mondo
© Mizban/ap/lapresse
left.it
per difendere gli hazara: il loro obiettivo sono i
gruppi talebani che fioriscono ai confini con l’Afghanistan, altra latitudine e altra posta in gioco.
Nessun americano invece sui cieli della Siria,
un altro Paese dove i musulmani si stanno uccidendo tra di loro. Il presidente Bashar al Assad e il
suo entourage fanno parte della minoranza alawita, che si identifica solo in parte con la famiglia sciita e che ha sempre assunto posizioni più laiche degli alleati iraniani. Le proteste del 2011 non chiedevano di passare il potere alla maggioranza sunnita,
ma di aprire alla democrazia. Il regime ha cambiato le carte in tavola, etichettando i ribelli come nemici dell’integrazione tra culti diversi, e ha trovato la sponda dei salafiti, gli integralisti sunniti. Oggi a Damasco sono arrivati jihadisti da tutto il mondo islamico e gli americani sostengono di non poter intervenire proprio perché il conflitto è diventato religioso. «L’unico modo di fermare la guerra
è emarginare Teheran, perché sono gli iraniani a
fomentare la destabilizzazione», sostiene l’ambasciatore Frederic C. Hof, consigliere per la Siria del
dipartimento di Stato Usa. Sciiti contro sunniti, è
questa la lettura più semplice (e utile) della guerra a Damasco. La alimenta la solita Arabia Saudita, che arma i ribelli sperando in un futuro regime
amico. «Eppure non credo proprio che gli alawiti cederanno il potere ai sunniti», sostiene Reza
Aslan. «Faranno dimettere Bashar, ma lo sostituiranno con uno dei loro. Gli sciiti hanno resistito
a 14 secoli di persecuzioni, non si arrenderanno
adesso».Ecco che fine hanno fatto i sogni dei giovani che hanno lottato per la democrazia: inscatolati in categorie che fanno comodo solo agli altri.
La guerra interna all’Islam serve anche agli ame-
left 30 marzo 2013
Karbala, Iraq, fedeli
sciiti durante il festival
musulmano di Arbaeen
del gennaio 2013
ricani per dividere le filiali di al Qaeda:
quelle “cattive” ancora impegnate a lottare contro gli occidentali, quelle “buone” concentrate ad assassinare gli sciiti
(indebolendo l’Iran nucleare). «I gruppi terroristi pakistani - ci spiega Raza
Rumi, analista di Islamabad - si ispirano all’ideologia Deobandi e sostengono che chiunque non sia sunnita sia corrotto. Vogliono che gli sciiti vengano riconosciuti come “non islamici”. E questo apre alla prospettiva che anche l’Iran venga espulso dal
consesso musulmano». Non importa che centinaia di pakistani dopo gli ultimi attentati abbiano
sfogato su twitter la loro frustrazione: «Voglio solo
essere islamico, non sunnita o sciita». I loro governanti non sono d’accordo, e isolano sempre più il
governo di Teheran. Al Summit di febbraio dell’Organizzazione della Conferenza islamica tutti si sono schierati su linee settarie: l’Iran ha cercato di
difendere il regime siriano, Arabia Saudita e Turchia hanno dichiarato di sostenere i ribelli. Il presidente iracheno al Maliki ha fatto mille giravolte, evitando di schierarsi per non distruggere il
precario equilibrio tra sunniti e sciiti a Baghdad.
L’Egitto, in cerca di un ruolo di mediatore, ha scelto un’analoga equidistanza. Ma negli stessi giorni,
ospitando per la prima volta i presidente iraniano
al Cairo, ha dovuto frenare le contestazioni dei salafiti, che accusavano Ahmadinejad di alimentare
la corruzione dell’Islam. E lo stesso Sheik Ahmed
al-Tayeb di al Azhar, la più autorevole università
islamica, ha accolto il leader iraniano solo per ammonirlo a non fomentare l’odio contro i sunniti e
ricordargli che gli sciiti insultarono i compagni del
Profeta. Il nemico è alle porte.
L’esperta:
«Lo scontro tra
sette sostituirà
il conflitto israelopalestinese nel
cuore degli arabi»
39
mondo
left.it
© Giannakouris/ap/lapresse
Cipro
non contagerà lA ue
di Alfonso Bianchi da Bruxelles
La crisi dell’isola dimostra che l’Europa ha bisogno di una
unione bancaria. Con un’efficace vigilanza e norme severe, si sarebbe
potuta evitare. Parla il commissario europeo al Mercato interno Michel Barnier
«D
ata la complessità della questione di Cipro e date le circostanze,
quella messa in campo è la migliore delle soluzioni possibili». È soddisfatto del “piano di salvataggio” per Nicosia il commissario europeo al Mercato interno, Michel Barnier, perché
a suo dire «dà al Paese la possibilità di ritrovare la
sua stabilità finanziaria e alla zona euro di preservare la sua integrità».
L’accordo raggiunto dalla Troika (Commissione,
Bce e Fondo monetario), prevede un prestito di 10
miliardi di euro condizionato a un programma di
consolidamento dei conti, riforme strutturali e privatizzazioni, che dovrebbero permettere di ricavare i restanti 6,7 miliardi necessari a salvare l’economia nazionale. Gli interventi più pesanti si concentreranno sui due principali istituti dell’isola,
colpiti gravemente dalla crisi. La banca Laiki sarà
divisa in una bad bank che fallirà e una good bank
con asset sani che finiranno nella Banca di Cipro.
I conti più ricchi di quest’ultima subiranno però
prelievi del 30 per cento.
40
Questa volta i piccoli risparmiatori non verranno toccati.
Ci sono le leggi europee che proteggono i depositi bancari inferiore a 100mila euro. Sono lieto che
questo accordo confermi la protezione dei correntisti. Una protezione che non deve più essere messa in discussione.
Molti dei conti più ricchi della Bank of
Cyprus, che saranno tassati fino al 30 per cento, contengono soldi russi. Il primo ministro
Dmitrij Medvedev ha parlato di “saccheggio”.
Gli interessi di Mosca nell’isola sono importanti ma l’accordo non è discriminatorio. Interesserà
tutti gli obbligazionisti, gli azionisti e i depositanti, indipendentemente dalla loro nazionalità. Così
abbiamo trovato una soluzione europea alla crisi
dell’isola. Questo non esclude ulteriori incontri bilaterali tra le autorità cipriote e quelle russe.
Ne avete discusso direttamente con Mosca?
Quando sono stato in Russia la scorsa settimana
(per il summit Russia-Ue, ndr) i miei interlocutori
hanno capito la situazione che stavamo affrontan30 marzo 2013
left
mondo
© Mayo/ap/lapresse
left.it
do. Abbiamo spiegato le difficoltà e deciso di rimanere in stretto contatto.
Anche all’interno dell’Ue ci sono state critiche all’accordo.
Ho sentito tra i critici chi ha detto che il piano ha
indebolito l’operazione di unione bancaria. Questo
è sbagliato, anzi quello che è successo dimostra
più che mai che l’Europa ha bisogno di una unione
bancaria. Con un’efficace vigilanza e norme severe
in materia di capitalizzazione delle banche, la gestione di questa crisi sarebbe stata più facile.
Crede che se fosse già stata in vigore la supervisione unica sarebbe stato diverso?
Penso che la crisi sarebbe stata semplicemente evitata. L’accordo raggiunto la scorsa settimana su una vigilanza unica è un primo e fondamentale passo verso un’unione bancaria vera e
propria, che deve ristabilire la fiducia nelle banche della zona euro e garantire la solidità e l’affidabilità del settore. Ciò contribuirà a rafforzare il
mercato unico e a garantire la stabilità finanziaria.
Il garante di questa stabilità diventerà la
left 30 marzo 2013
Banca centrale europea.
Il ruolo della Bce sarà anche quello di presidiare gli
istituti della zona euro. Credo fermamente che se
la Bce fosse stata il supervisore unico già pochi anni fa già, non avrebbe lasciato che la situazione di
Cipro evolvesse nel modo in cui vediamo. Sarebbe
intervenuta presto per prendere le misure necessarie a porre rimedio alla situazione.
Quali sono i rischi che il fenomeno si ripeta in
altri Stati Ue?
Il caso di Cipro è molto specifico, lì c’è stata una
vera ipertrofia del sistema finanziario che si è sviluppata senza alcun legame con l’economia reale
del Paese. Le autorità non sono state vigili e hanno permesso l’accumulazione di una vera e propria
bolla finanziaria la cui fragilità appare oggi chiara.
Però altri colossi bancari sono in difficoltà e
nazioni, come il Lussemburgo, in cui gli asset
delle banche sono superiori al Pil del Paese.
Attenzione alle risposte troppo semplicistiche:
non esiste una correlazione diretta tra le dimensioni di una banca o di un sistema bancario e la probabilità di una crisi. Ci sono molti fattori in gioco: in
particolare la presenza di una supervisione e di un
controllo adeguato ed efficace. Un settore bancario più piccolo, ma che prende un sacco di rischi e
in cui vi è scarsa supervisione, può essere più pericoloso di uno molto ampio ma ben regolamentato
e controllato.
Cosa state facendo per assicurare che una
crisi del genere non si ripeta più?
La mia priorità è fornire il settore bancario di regole solide. Solo questa settimana abbiamo rafforzato la solidità delle banche migliorando la qualità
del capitale e stabilendo regole severe sui bonus ai
banchieri per evitare speculazioni esagerate. Abbiamo inoltre migliorato la supervisione dei grossi istituti europei unificandola sotto il controllo diretto della Bce.
Siete sicuri che questo sarà sufficiente?
Per certe banche dobbiamo andare oltre perché la
situazione è complessa, soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra dimensioni e struttura della
banca e l’assunzione di rischi. Dobbiamo prendere
in considerazione ad esempio la separazione tra le
attività rischiose e non, come suggerito anche dal
gruppo Liikanen (gruppo di esperti di alto livello
della Commissione Ue promosso da Barnier, ndr).
Ma non c’è tempo da perdere e perciò sul tema faremo delle proposte entro l’estate.
In apertura, Nicosia,
Cipro, 26 marzo,
una manifestazione
contro la crisi.
In alto, il commissario
europeo al Mercato
interno Michel Barnier
41
mondo
left.it
Orgoglio polare
di Paola Mirenda
©PETERSEN/ap /Lapresse
Né Copenaghen né Pechino. Gli abitanti della Groenlandia eleggono una
premier indipendentista, che promette di non piegarsi agli interessi cinesi.
Che vogliono sfruttare le immense risorse del sottosuolo
T
ra i ghiacci della Groenlandia e la Muraglia cinese ci sono più di 8mila chilometri. Eppure le elezioni del 12 marzo
nell’isola artica hanno raccolto l’attenzione di
Pechino. Perché per 40mila votanti non si trattava solo di scegliere un governo. Nel mettere
la scheda nell’urna, i groenlandesi hanno implicitamente risposto alla domanda che ha dominato l’intera campagna elettorale: «Sei disposto
a vedere 5mila lavoratori cinesi invadere l’isola?». E la risposta è stata «no».
Aleqa Hammond, che presto diventerà la prima
donna a capo di un esecutivo “artico”, ha vinto grazie a Pechino, o meglio grazie alla paura che ha saputo abilmente alimentare. Nessuno slogan razzista, no. La sua propaganda politica ha fatto breccia perché ha esaltato i valori fondanti delle comunità inuit, le loro tradizioni, il loro passato, mesco42
lando a questo l’idea di una indipendenza anche
economica dalla Danimarca, che conserva ancora la sovranità sull’isola. Hammond sostiene che
darà più autonomia alla Groenlandia, senza però
passare, come ha fatto il governo precedente, da
accordi capestro con Pechino o con le multinazionali del settore estrattivo. È bastato questo slogan
per farle conquistare la maggioranza quasi assoluta, con un balzo di oltre 16 punti percentuali rispetto alle consultazioni del 2009. Adesso la Cina
è più lontana, e i membri del Consiglio artico (Paesi Scandinavi, Canada, Russia e Usa) possono tirare un sospiro di sollievo. Ma i problemi sono ancora qui. A cominciare da quelli che porterà l’uranio.
Perché la Hammond ha promesso che ne ammetterà l’estrazione, sia pure in misura ridotta, per recuperare i minerali preziosi che all’uranio sono associati . Ce n’è abbastanza da far imbestialire il go30 marzo 2013
left
mondo
left.it
verno di Copenaghen, talmente anti nucleare da
aver fatto chiudere una centrale atomica agli svedesi perché troppo vicina al confine. Ma il modello
danese qui non funziona.
A Nuuk, capitale della Groenlandia, si vive ancora di pesca di gamberetti e caccia alle foche. I
primi non portano chissà quali introiti, le seconde sono diventate specie protetta, mettendo in
crisi metà degli abitanti. Invano la sezione locale
di Greenpeace spiega che i groenlandesi si comportano bene e che i veri “cattivi” sono i canadesi,
che delle foche hanno fatto un business miliardario: uccidere questi animali è un delitto mediatico,
e chiunque lo compia mette a rischio l’economia
dell’isola . La Groenlandia, che nel 2009 ha ottenuto una forte autonomia dalla Danimarca, non è ancora autosufficiente, tanto da dover dipendere dagli aiuti di Copenaghen per metà del suo fabbisogno economico, circa 6 miliardi di euro. Un legame che non piace alla maggior parte degli abitanti, come ribadito in queste elezioni: nel complesso i partiti pro indipendenza hanno conquistato
più dell’80 per cento dei voti. Ma per vincere davvero, i secessionisti hanno bisogno di trovare una
strada finanziaria che non passi per Copenaghen.
E Pechino finora è sembrata la fermata più vicina.
L’ex premier Kuupik Kleist ha lasciato che la Cina
ottenesse decine di licenze estrattive, soprattutto
grazie alla London Mining, società basata a Londra
ma con capitali di Pechino. I cinesi hanno puntato
gli occhi su un sito a poca distanza da Nuuk, in grado di produrre ferro a sufficienza (fino a 15 milioni
di tonnellate) per tutti gli eredi di Mao. Ma perché
il prezzo del materiale sia conveniente, è necessario “essere competitivi”, spiegano dalla Greenland
development, società pubblica-privata pagata dagli imprenditori stranieri che investono in Groenlandia (in primis Alcoa) per decantare le virtù del
libero mercato. E possibilmente assumere manodopera straniera, come quella impiegata da due
società che hanno da poco conquistato gli appalti per due dighe idroelettriche. I lavoratori, cinesi come le due aziende appaltatrici, accettano un
salario pari alla metà di quello previsto dal sindacato groenlandese. «È la legge della concorrenza», spiegava Greenland development. «È sfruttamento non sostenibile», ribatteva il sindacato.
Alla fine, nel dicembre 2012, il Parlamento ha dato il proprio benestare alle aziende orientali.
left 30 marzo 2013
Sotto i ghiacci si trovano le terre rare,
ricche di minerali introvabili altrove
Ora i groenlandesi temono che le loro immense risorse si trasformino nello strumento per azzerare i loro diritti. Arriveranno i cinesi, coi loro
stipendi poveri, le loro case da dividere in dieci,
i loro pasti inviati via cargo dalla madrepatria, e
se ne andranno la tutela ambiente, la protezione delle coste, la pianificazione urbanistica a misura d’uomo, l’economia da filiera corta, persino
la pesca, simbolo dell’isola. Lo scioglimento dei
ghiacci mette già in crisi la caccia, con la superficie diventata così sottile che non tiene più il peso di una slitta. Gli abitanti dell’isola sanno che
quello verso lo sfruttamento del suolo e delle acque è un passaggio obbligato, ma non sono ancora pronti ad accettarlo. Mentre gli imprenditori,
locali e stranieri, hanno fretta di intaccare le ricchezze della Groenlandia.
Foto di gruppo
al largo di Nuuk,
capitale della
Groenlandia.
Al centro,
l’attuale premier
Aleqa Hammond
I gioielli di questa fetta d’Artico non sono tanto
gli idrocarburi, ma i minerali nascosti nelle cosiddette terre rare, così rare che stanno praticamente in sue soli posti: la Cina, che ne possiede il 90
per cento, e la Groenlandia, dove c’è il restante 10. I
geologi danesi si spingono oltre, e sostengono che
sotto la calotta ci siano tanti minerali preziosi da
soddisfare un quarto della domanda mondiale. Firmare un contatto per gestirne lo sfruttamento garantirebbe a Pechino il dominio di questi elementi, mettendo il resto del mondo in una condizione
di sudditanza. Non è quindi un mistero se Antonio
Tajani, commissario Ue alla Concorrenza, nel 2012
si è precipitato a Nuuk pochi giorni prima che a Copenaghen arrivasse il presidente cinese Hu Jintao.
Bruxelles voleva una rassicurazione che l’Europa non sarebbe stata esclusa dalla corsa ai minerali preziosi, e che nessuna esclusiva fosse data a
Pechino. Ha ottenuto una lettera di intenti, ma non
una rassicurazione definitiva. Allora sono arrivati
gli americani, sempre pronti a contestare l’“invadenza” cinese, e in quegli stessi giorni hanno spedito l’allora segretario di Stato Hillary Clinton in Groenlandia per capire cosa stesse succedendo in questa parte del mondo. Un’estate infuocata, in attesa
delle elezioni. E ora che il voto c’è stato, qualcuno
si è sentito rassicurato. Perché la grande perdente,
a conti fatti, potrebbe essere proprio la Cina.
43
newsglobal
mondo
left.it
sfida
post mortem
30milioni
La cifra in dollari pagata da
Yahoo al 17enne Nick D’Aloisio. Il liceale è diventato milionario grazie alla sua invenzione Summly, un’app che fa
il riassunto di testi lunghi in
poche frasi, facili da leggere
sull’iPhone. Un Bignami 2.0
© Cubillos/ap/lapresse
Il leader dell’opposizione venezuelana Henrique Capriles, candidato
alla presidenza, tenta
la rimonta. Ma gli ultimi
sondaggi realizzati
per conto di Barclays
bank assegnano a Nicolas Maduro, il vice di
Chavez, un vantaggio
di almeno 15 punti percentuali alle prossime
elezioni del 14 aprile.
trivelle
Il Perù si ferma
La foresta amazzonica peruviana
è al collasso. Il governo di Lima
ha dichiarato lo stato d’emergenza per i livelli shock di bario, cromo e piombo - usati per l’estrazione del petrolio - che hanno contaminato il terreno. Novan-
ta i giorni di stop alle attività inquinanti previsto dal decreto gover-
nativo per ristabilire le condizioni di sicurezza. L’argentina PlusPetrol, che
ha sfruttato il sottosuolo dal 2001 a oggi, viene indicata come la principale
responsabile dell’inquinamento. Insieme all’americana Occidental Petroleum, che ha trivellato la zona nei decenni precedenti.
crisi della settimana In Yemen crescono le tensioni tra separatisti del Sud e forze di sicurezza. Lo scontro
non raggiungeva questa violenza dall’inizio del 2012. In Corea del Nord i militari hanno dichiarato di avere attivato il segnale di “allerta massima” ai propri sistemi missilistici e di artiglieria. Pyongyang si prepara a colpire la
Corea del Sud, ma anche gli Stati Uniti, in particolare le basi Usa nelle Isole delle Hawaii.
44
30 marzo 2013
left
mondo
left.it
© US Navy photo
russia alla riscossa
La Russia rinuncia a Cipro ma non al Mediterraneo.
Mosca rilancia la sua presenza nel Mare nostrum con
la promessa di ricostituire una flotta navale nella regione. Gli europei temono intenzioni aggressive del
Cremlino, che ha già dato il via alle esercitazioni con 60
missili e varia artiglieria sottomarina. Ma oltre a dover
dimostrare la sua potenza,
la Russia deve far quadrare i conti: dopo aver speso
miliardi per rinnovare la
Marina, infatti, deve pur
mettere le nuove navi da
qualche parte.
il tabacco fa male all’orgoglio
Le multinazionali del tabacco piangono. E non solo per i milioni di dollari
che l’ultima sentenza della corte Usa
le costringerà a sborsare: questa
volta il giudice distrettuale Gladys
Kessler le ha condannate a finanziare una campagna
pubblicitaria che metterà nero su bianco le bugie create
per ingannare i fumatori. Philip Morris Usa, Reynolds
Tobacco e gli altri big della nicotina dovranno scrivere sui
cartelloni: «Le compagnie del tabacco hanno ingannato il
pubblico in relazione agli additivi presenti nelle sigarette»,
«hanno progettato le sigarette in modo da renderle più
efficaci nel creare dipendenza», e «il fumo uccide 1.200
americani. Ogni giorno». Le holding l’hanno definita una
“confessione pubblica forzata”, finalizzata a “infangarle e
umiliarle”. Ma la decisione della Corte è presa.
la curiosità
Se a sposarti ci pensa Kirk
In Scozia la nuova legge sui matrimoni potrebbe
consentire ai fedeli di Star Trek di sposarsi
nel Tempio dello Jeti. I seguaci della saga
infatti, hanno già attenuto che il loro credo
venga assimilato a una religione e ora stanno
affilando le spade laser per celebrare le nozze. In
Gran Bretagna i devoti dello Jeti sono la settima
Chiesa per numero di fedeli, dopo Cristianesimo,
Islam, Induismo, Sikh, Ebraismo e Buddismo.
centrafrica
«Raccoglieremo
ogni tipo
di dato e lo
memorizzeremo
per sempre»
I Mali non finiscono mai
Dopo il Mali, la Francia invia nuove truppe nelle sue ex colonie: questa volta
tocca alla Repubblica Centro Africana, dove i ribelli del Seleka hanno preso il
controllo della capitale Bangui e costretto il presidente Bozizé a fuggire in Camerun, uccidendo decine di soldati sudafricani mandati da Pretoria per garantire l’ordine. Ma lo scarso interesse strategico del Paese fa la differenza: solo 350 i
soldati schierati da Parigi a protezione dell’aeroporto (contro i 4.000 mandati in
Mali), nonostante le richieste di aiuto da parte del Sudafrica.
Gus Hunt, capo della
sezione tecnologia
della Cia, illustrando
lo storico accordo da
600 milioni di dollari
firmato con Amazon
per la creazione di un
cloud illimitato per
l’immagazzinamento
di ogni informazione
che viaggia attraverso i
social network
©ap/lapresse
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che
e la
seconda vita
48L’innovazione
viene dal grafene
52L’Auditorium
Roma del futuro
54Ladi David
Bowie
Il Medio Oriente è protagonista a Firenze dal
3 all’8 aprile con la IV
edizione di Middle East
Now, il festival di cinema, documentari, arte,
incontri ed eventi che
quest’anno presenta
44 film di cui 37 prime
nazionali al cinema
Odeon. Da segnalare,
in particolare, la mostra dell’artista marocchino Hassan Hajjaj
(in foto una sua opera)
con la sua prima mostra personale in Italia,
dal titolo VogueArabe,
negli spazi della Aria
Art Gallery.
cultura
scienza
scommessa
L’Europa investe un miliardo di euro
sulla “plastica del futuro”. Si tratta
di un materiale universale straordinariamente leggero, trasparente e duttile.
E trasmette gli elettroni meglio del silicio.
A livello internazionale è già partita la lotta
per controllarne la produzione
è
il primo “progetto bandiera” di ricerca scientifica e sviluppo tecnologico
dell’Unione europea. Scelto insieme allo
Human Brain Project, il progetto che intende simulare il cervello dell’uomo, dopo una lunga selezione tra molti altri il 28 gennaio scorso, durerà
dieci anni. Avrà un miliardo di euro di dotazione.
Sarà guidato dal finlandese Jari Kinaret, professore di Fisica presso la Chalmers Tekniska Högskola (il politecnico) di Göteborg in Svezia. Vedrà
la partecipazione di centoventisei diversi gruppi
di ricerca pubblici e privati di diciassette diversi Paesi, tra cui molti italiani, a iniziare dal Cnr,
che è tra i promotori dell’iniziativa. Sarà diviso in
almeno quindici diverse aree strategiche. E avrà
per protagonista assoluto lui: il grafene. L’unico
cristallo in 2D. O, più correttamente, l’unico ma30 marzo 2013
left
a
grafene
di Pietro Greco
teriale che cristallizza in due dimensioni.
Da un punto di vista chimico il grafene non è
che un singolo strato di grafite, uno dei quattro stati allotropici (dette in parole semplici,
uno dei quattro stati) del carbonio. È, dunque,
un velo molto sottile, il più sottile possibile. Gli
atomi di carbonio sono disposti a esagono. È
stato ottenuto per la prima volta nel 2004 da due
fisici russi, Andrej Konstantinovic Gejm e Konstantin Sergeevic Novosëlov, trapiantati a Manchester presso la locale università, che hanno
ricevuto per questo nel 2010 il premio Nobel.
Le proprietà del grafene sono straordinarie. Il sito del Graphene future emerging technology flagship, il progetto europeo, lo definisce, non senza una certa enfasi, come il mate-
left 30 marzo 2013
riale più affascinante e versatile che l’uomo abbia mai conosciuto. E, in effetti, il grafene risulta più duro del diamante (un altro degli stati allotropici, sì insomma delle forme, che può assumere il carbonio), leggero e flessibile, trasparente e impermeabile, elastico, capace di trasportare elettroni meglio del silicio e un milione di volte meglio del rame, capace di catturare
la luce e trasformarla in elettroni a qualsivoglia
frequenza e via enumerando.
Se solo alcune di queste proprietà troveranno
una concreta ed economica applicazione, il grafene diventerà ben più che «la plastica del futuro», come qualcuno lo ha battezzato. Diventerà
una sorta di materiale universale.
Chi controllerà il grafene, controllerà i materiali innovativi del XXI secolo. In questa corsa l’Eu-
I cristalli esagonali
del grafene
49
scienza
left.it
ropa è partita avvantaggiata. Il grafene è stato
ottenuto in Inghilterra e la ricerca scientifica
più avanzata è stata condotta nei laboratori del
Vecchio Continente (compresi alcuni laboratori italiani). Ma poi lo sviluppo tecnologico è stato condotto, a tappe forzate, altrove. Lo dimostrano i brevetti finora richiesti e ottenuti (dati aggiornati al 2012). A fronte dei 500 europei,
ve ne sono 1.100 della Corea del Sud, 1.700 degli
Stati Uniti e 2.200 della Cina.
Insomma, il timore - non del tutto infondato
- è che la scienza del grafene viene fatta in Europa, ma le applicazioni vengono elaborate altrove, con i conseguenti ritorni economici. Di qui
la proposta - qualcuno sostiene,
la necessità - di un progetto europeo volto in maniera specifica allo sviluppo tecnologico e alla commercializzazione del grafene e del
suo indotto. Così quando l’Unione
ha varato il programma per le Future and emerging technologies e
ha deciso di puntare su due grandi progetti flagship (aggettivo inglese che significa portabandiera,
ammiraglio, faro) di scienza applicata e di sviluppo tecnologico in
grado di restituire al Vecchio Continente il ruolo
guida nell’economia della conoscenza, quello sul
grafene ha vinto alla grande. Battendo nella corsa finale a sei, progetti come FuturICT (le tecnologie innovative nel campo dell’informazione e
della comunicazione), Guardian angels (senso-
Sono già stati
richiesti e
ottenuti 500
brevetti in
Europa, 1.700
negli Usa e
2.200 in Cina
ri per il monitoraggio della salute
e dell’ambiente), IT Future of medicine (uso di dati sanitari per costruire un modello personalizzato al computer per 500 milioni di
europei) e RoboCom (lo sviluppo
della robotica di servizio).
L’obiettivo
del
Graphene
flagship è dunque chiaro: fare
dell’Europa non solo la frontiera
avanzata della nuova conoscenza scientifica su
questo peculiare materiale, ma anche la frontiera
delle sue applicazioni, che almeno sulla carta sono senza precedenti.
In realtà, il grafene ha già mostrato in concreto
ciò di cui è capace. Per esempio, è stato utilizza-
All’Enea si studiano già le applicazioni legate all’energetica e ai sensori
È partita la road map che porterà
anche l’Italia alla produzione del grafene all’interno del progetto europeo
Horizon 2020. Costituito da uno strato
di atomi di carbonio, è considerato il
materiale più sottile del mondo. Basta
dire che per raggiungere un millimetro
di spessore servirebbero tre milioni di
fogli. «Il grafene è duecento volte più
forte dell’acciaio ed è un conduttore
50
di elettricità più efficiente del rame e
un eccezionale conduttore di calore.
È quasi trasparente, ma è così denso
che, opportunamente trattato, non
può essere attraversato neanche
dall’elio» ha spiegato il professor Andrea Ferrari, direttore del Cambridge
graphene centre, durante l’incontro
che si è tenuto il 25 marzo al Centro
ricerche Enea di Portici e in cui si
sono confrontati, a porte aperte, ricercatori Enea e Cnr sulle rispettive attività di ricerca e per delineare le tappe e
l’organizzazione del contributo italiano
alla Flagship grafene, il progetto
portabandiera su cui l’Unione europea
ha deciso di puntare con importanti
investimenti. Come è noto la scoperta
del grafene è avvenuta quasi per caso
osservando come si sfoglia la grafite
30 marzo 2013
left
scienza
left.it
© SUPER/ap/lapresse
I due premi Nobel per
la Fisica 2010 Andre
Geim,e Konstantin
Novoselov.
Sotto, un materiale
flessibile e ultra
trasparente derivato
dal grafene.
Nella pagina accanto,
due studenti della
Georgia Tech
osservano il processo
di produzione del
grafene negli Stati Uniti
© gary meek
«Il grafene è un cristallo unico.
Con enormi potenzialità
d’innovazione». Parola del premio
Nobel per la Fisica Novoselov
to per produrre nuovi e più avanzati transistor.
Ma attenzione, sostengono il premio Nobel Novosëlov e un gruppo di suoi colleghi in un articolo review pubblicato sulla rivista Nature lo scorso mese di ottobre: «Il grafene è un cristallo unico, nel senso che possiede molte proprietà superiori, da quelle meccaniche a quelle elettroniche.
Tutte le sue enormi potenzialità potranno essere espresse non semplicemente sostituendolo ai
vecchi materiali ma con nuove applicazioni, specificamente progettate per lui».
Insomma c’è bisogno di creatività. Di immaginare nuove applicazioni. Di qui alcune critiche
al Graphene flagship e all’intero impianto del
Future and emerging technologies. È giusto
puntare tutte le fiches dell’innovazione su due
soli progetti - il grafene e il modello di cervello
di una matita quando la appuntiamo con un banale temperino. Poi la
scommessa è stata riuscire a separare fogli di grafite pura non più larghi
di un atomo. Le attività di ricerca ora
hanno come principale obiettivo cercare di ottenere il massimo rendimento dalle particolari proprietà fisiche e
chimiche del grafene applicandole a
nuovi prodotti di mercato. La speranza è quella di poter dare un nuovo
impulso alla competitività tecnologica
left 30 marzo 2013
umano - che certo sono promettenti, ma su cui
non c’è garanzia di successo? Le grandi innovazioni sono, in genere, imprevedibili a priori. Avvengono non per caso, ma attraverso percorsi
inattesi e tortuosi. Per cui sarebbe meglio puntare, anche nella scienza applicata e nello sviluppo tecnologico, non su uno o due petali, ma
su un’intera corolla di idee.
Questo è vero, sostengono i fautori del programma d’innovazione europeo. Tuttavia un forte investimento in un settore, ma con grande possibilità di esplorare aree ignote, può diffondersi anche in quei percorsi inattesi e tortuosi e, in ogni
caso, avrà enormi ricadute - per così dire - di “innovazione normale”. Insomma, quello sul grafene sarà in ogni caso un buon investimento.
Solo il tempo ci dirà chi ha avuto ragione.
e commerciale dell’industria europea
proprio grazie alle numerose possibilità di impiego del grafene. L’Enea, in
particolare, ha messo a disposizione
le sue competenze e le sue infrastrutture di ricerca nell’ambito delle applicazioni legate alla energetica ed alla
sensoristica, settori in cui ha acquisito
un riconoscimento a livello europeo.
Nei laboratori dell’Enea dei Centri
ricerca di Casaccia e di Portici sono
già avviate attività di ricerca dedicate
allo sviluppo di metodi di sintesi e di
integrazione del grafene in dispositivi
di tipo energetico, come le celle solari,
e per la salvaguardia dell’ambiente,
come i sensori. A più largo raggio
si potranno realizzare con il grafene
dispositivi elettronici miniaturizzati (dai
computer ai telefonini), touch screen e
celle solari, pannelli luminosi flessibili,
sensori per ambiente e biomedici.
E molto altro ancora.
Laura Morelli
51
Roma
ritorno al futuro
Da area irreggimentata da Mussolini a spazio delle
arti. L’esempio felice dell’Auditorium indica alla futura
Amministrazione capitolina la strada da seguire
M
olti aspiranti al Campidoglio. Poche
idee, per ora, per quell’ente molto speciale che sarà la Città metropolitana e
Roma Capitale insieme. Quella Roma che Quintino Sella, gran regista liberale dopo il 1870, voleva «Capitale della scienza e delle cultura», idea
giusta per la quale, fra l’altro, rilanciò alla grande
l’Accademia dei Lincei. Capitale però senza «una
soverchia agglomerazione operaia» che turberebbe la serenità del dibattito politico. La Comune di Parigi è là che fiammeggia ancora. Niente
industrie quindi. In realtà, la stessa Roma papale aveva già un po’ di industrie. Notevolmente
sviluppate nella seconda parte del ’900 in specie col terziario avanzato. Malgrado il “no” di
52
di Vittorio Emiliani
Mussolini: alle fabbriche e ai tram (capillari allora!) che contrastano col “carattere imperiale”. Sì invece agli sventramenti nei rioni storici
(già avviati in periodo umbertino) e al consumo
dell’Agro Romano per le grandi opere di regime.
Strade epocali: via dell’Impero, dritta fino al Colosseo dal “suo” balcone di Palazzo Venezia, oppure via della Conciliazione (inaugurata nel ’50)
nata e rimasta “morta”. L’E42, la futura EUR.
Il duce impugna il piccone e, sotto le cineprese
del Luce, sotto gli scatti dei fotografi, piccona la
zona dei Fori (molti “sovversivi” vengono deportati a Primavalle). Piccona la Spina di Borgo prima di San Pietro. E, basco sulla pelata e maglio30 marzo 2013
left
cultura
ne a scacchi, “prende il piccone e
ne fa fragorosamente cadere alcuni colpi sul cornicione di una vecchia casa” vicino all’Augusteo, la
lignea, bella, sonora sede dei concerti di Santa Cecilia. È il 22 ottobre 1934. Illuso da archeologi e
sventratori servili, pensa di recuperare chissà che dal Mausoleo di
Augusto nascosto là, sotto l’antica arena del marchese Correa sulla quale è stato poi edificato l’Auditorium. In realtà, nei secoli, il
Mausoleo è stato, non spogliato,
ma scorticato. Per contro Roma
rimane senza una grande sala da
musica. Complice la guerra, il dopoguerra e le mille indecisioni del
ceto politico, dc soprattutto (che
governa Roma fino al 1976, fino
ad Argan sindaco di una giunta
Pci-Psi), ne rimarrà priva sino al
2000, cioè per ben 44 anni. Pochi,
dopo il piccone mussoliniano, ritengono possibile un nuovo Auditorium degno della straordinaria tradizione musicale di Roma e di Santa Cecilia. Il balletto delle sedi si ferma, dopo anni, nel
posto sbagliato: Borghetto Flaminio, sotto Villa Strohl Fern, costipato da depositi Atac, carrozzieri abusivi, bocciofile, e senza spazi per i
parcheggi. Nel ’72 il grande urbanista Luigi Piccinato l’ha bocciato: è angusto, al più ci sta una
sala. Sentenza inascoltata dai “borghisti”.
Nel novembre del 1990 un architetto poco
più che trentenne, Francesco Ghio, figlio di Mario e di Vittoria Calzolari, maestri dell’urbanistica, individua nel maxi parcheggio di via de Coubertin la possibile alternativa a Borghetto Flaminio. Me ne parla. Andiamo da Antonio Cederna
che ne è subito entusiasta. Con Giovanni Pieraccini, presidente degli Amici dell’Opera, assiduo
a Santa Cecilia, organizziamo la prima presentazione insieme ad un’altra area del tutto improbabile. Una furbata a fin di bene. Quando il sindaco
Franco Carraro fissa per l’11 giugno 1991 la data entro cui decidere in Consiglio l’area, scoppiano polemiche tanto disinteressate quanto accese
fra “borghisti” (sostenuti da Repubblica e Mes-
left 30 marzo 2013
Nonostante Alemanno, il progetto di Renzo
Piano ha rivitalizzato l’intero quartiere
saggero) e “flaministi”. L’affascinante perorazione di Antonio Cederna in Campidoglio, il forte
intervento di Renato Nicolini e il lavoro politico
fra le quinte di Bettini, Salvagni, Borgna e altri del
Pds, creano le condizioni per l’inatteso, largo “sì”
all’area del Flaminio.
Una foto dell’anfiteatro
dell’Auditorium
di Roma, durante
uno spettacolo estivo
E ora, come andare oltre? Giovanni Pieraccini propone con forza il concorso internazionale
a inviti solo fra quanti hanno già costruito auditorii. Insorgono polemici gli architetti (ricordo
Franco Purini). Ma la proposta passa: in Comune c’è un commissario e il suo vice per la Cultura
è il docente di architettura Lucio Barbera. Adesso bisogna trovare 2 miliardi e mezzo per invitare
dieci progettisti da tutto il mondo e insediare una
giuria di ferro... Ce li mette l’Ufficio di Roma Capitale diretto da Nicola Scalzini convinto che sia
una buona idea. La giuria, presieduta da Roman
Vlad, premia il progetto di Renzo Piano (ora raccontato nel volume Roma III millennio, Hoepli
ndr). Siamo al 1994-95. Francesco Rutelli, sindaco dal ’93, ha sempre sostenuto con energia l’Auditorium al Flaminio. Ma non ha soldi. Il “ribaltone” di Bossi porta al governo tecnico di Dini nel
quale i Lavori pubblici e l’Ambiente vengono assegnati a Paolo Baratta, musicofilo come pochi.
Che riesce a far finanziare interamente allo Stato il progetto di Piano: 254 miliardi di lire, prelevati da Roma Capitale, in tre soli anni. Col ragioniere generale dello Stato, Monorchio, costernato. Il Comune, oltre a metterci l’area, impegna il
resto della somma necessaria ed è indubbiamente abile (sindaco Rutelli, assessore alla Cultura
Borgna, ai Lavori pubblici, Cecchini e Montino)
nel condurre l’appalto e soprattutto il complesso riappalto. Sarà Veltroni a completare l’opera
e a varare la gestione delle tre sale e della cavea
con Musica per Roma, presieduta, in modo meritorio, da Bettini prima e Borgna poi, direttore
generale Carlo Fuortes, presidenti di Santa Cecilia, Bruno Cagli, Luciano Berio, di nuovo Cagli.
Un’entusiasmante avventura che, malgrado Alemanno, continua e che ci insegna - per tornare alle imminenti elezioni - che ci vogliono progetti e
giuste ambizioni. Ci vuole un’idea di Roma.
53
trasformazione
Massimo Fagioli, psichiatra
L’identità umana razionale ha sempre avuto
il terrore di pensare la nascita umana
L’ALTRO
oltre me stesso, esiste
N
on sanno, ma credono che la vita umana inizi
dalla prima cellula, detta zigote, che deriva
dall’unione del gamete maschile con quello
femminile. Fanno finta di credere che la vita
umana sia semplice fatto biologico senza nessuna realtà
non materiale, ovvero il pensiero.
Eppure è evidente che, nell’essere umano, esiste una
realtà non materiale. Viene detto pensiero e si manifesta, in
modo palese, nel linguaggio articolato.
Vidi, da adolescente, che il pensiero che non era
coscienza veniva sempre ignorato dai sapienti del linguaggio
articolato. E guardavo le opere d’arte, e mi domandavo da
dove venisse l’arte di creare immagini.
Tutti dicevano che era razionalità cosciente ma, forse,
non li credetti mai. Forse, senza coscienza, avevo pensato
che venivano dal mondo del sonno, nella notte.
I sogni erano stati relegati, dai sapienti, nel mondo delle
favole che, dicevano, erano frutto di una mente che non
aveva nessun rapporto con la realtà e, pertanto, non avrebbe
mai avuto la conoscenza della verità della realtà umana.
I sogni, dicevano, erano mandati dagli dei, ed in essi
Apollo parlava attraverso la possessione di una donna, detta
pitonessa.
Pensai che i presocratici e le “tre menti giganti”, che
avevano spinto il pensiero verbale della conoscenza della
natura, avevano eliminato le figure degli dei che tentavano
di spiegare i fatti che accadevano in essa.
Ma il pensiero verbale così ottenuto riuscì a portare al sapere
dell’uomo la realtà materiale della natura non umana e del
corpo umano, ma non riuscì a liberare la mente dall’emergenza,
da esso, delle immagini quando la coscienza non c’era.
Così la creazione dell’identità umana come razionalità fu
una vittoria, che fece un uomo sciancato, su ciò che veniva
detto non pensiero perché non razionale.
Esistevano soltanto i due terzi di vita in cui, nella veglia,
la coscienza è presente e sempre angosciata da quel “male”
interno che, ora, viene detto irrazionalità e pazzia, che la
ragione non può conoscere.
E la memoria, come una leggera nube bianca che entra
nella mente come il demone di Socrate o la sostanza aliena dei
film di fantascienza, abbozza uno schizzo di poche linee che
indicano in silenzio un termine verbale, nascita, che compare
sulla carta bianca come se fosse la parola distruzione.
E non so né come né quando comparve nella mente il
pensiero informe che balbettava “la violenza umana che
produce alterazioni della realtà materiale che vanno verso
il «non essere», chiamate distruzione non potrà mai vedere
la verità della realtà umana non percepibile dai cinque sensi
della coscienza”.
Non so quando, non so come, giunsi a pensare che il
termine distruzione era un linguaggio articolato imparato
senza che fosse compreso. Poi, timoroso di diventare
superbo, vidi che neppure i poeti, salvo Montale in «Un
mattino andando...» avevano compreso che il senso, nella
parola distruzione, non c’era.
Ricordo, che vidi il termine sparizione nel lavoro di
interpretazione dei sogni, anche se avevo sempre guardato
con sospetto la storia del rocchetto che spariva al di là della
sponda del lettino, raccontata in Al di là del principio del
piacere. Rilevai subito che la storia che lessi dell’ “istinto di
morte” come “vescichetta che si rompe”, ovvero si distrugge,
era molto stupida. Era interessante che il bambino, dopo la
morte della madre, davanti allo specchio si accucciava e
«faceva sparire se stesso».
E vidi che sparire non era distruggere. Il termine,
esistente nella sua forma percepibile, non era parola perché
non aveva mai parlato della realtà non materiale.
Non avevo mai udito né letto una composizione del
linguaggio articolato che avvicinasse il termine sparizione
a “rendere non esistente”. E mai neppure una allusione ad
un nesso tra questi termini ed il termine pulsione. Compresi
presto che non c’era mai stata una mente che fosse riuscita a
separarsi dal pensiero umano della veglia e della coscienza.
Non so perché. Ma so con certezza che vidi il termine
credere: credere alla non esistenza di una realtà umana che
esiste. E vennero le parole: fantasia di sparizione.
Ha negato, alterandolo, il termine trasformazione
54
30 marzo 2013
left
left.it
Monstrum del nulla che toglie la vita l’uno all’altro e l’altro
all’uno. Fantasia, parola che fa comparire, si accompagna
alla creazione del «non», sparizione.
Non so quando, non so come venne alla mente cosciente
il movimento che, avvicinando i due termini verbali creò
una parola nuova. Fondendoli l’uno all’altro li faceva sparire
entrambi nel loro significato. Nella differenza dall’animalità
dava un senso alla vita umana nel suo essere natura e non
più esistenza per la “creatività” di un “essere” che non è
umano.
Non so perché ma sono certo che, nella ricerca, va
sempre ricordato quel momento in cui una ferita, che
poteva essere vissuta come sfregio del volto per la lesione
all’occhio sinistro, diventò ricreazione della mente che
sentiva e “vedeva”, senza parola, l’invisibile alla coscienza.
E, nel passare degli anni, compresi la realizzazione del
bambino che a pochi mesi di vita, riconosce se stesso allo
specchio. Poi vidi che le alterazioni della realtà visibile del
volto potevano essere vissute, senza che la coscienza se ne
rendesse conto, come alterazioni dell’identità che si crea
alla nascita.
E, con la logica che rischia di diventare astratta, penso che
l’inconscio del coetaneo violento che diceva che, quando si
masturbava dal suo pene usciva pus, avesse voluto ledere la
realtà mentale che si crea alla nascita dalla realtà biologica.
E così, più di quarantadue anni fa, scrissi: fantasia
di sparizione e inconscio mare calmo. Dissi, in linguaggio
articolato, la verità della nascita umana sempre vista nella sua
realtà biologica, mai pensata nella sua realtà del pensiero.
Poi scrissi: movimento, tempo, pulsione, fantasia di
sparizione. È il linguaggio articolato che tenta di unirsi alle
realtà invisibili della mente umana per dare quel “conosci te
stesso” che è l’obbligo di essere, esseri umani.
Spesso, da qualche anno, sento voci grosse e dolci che
mi dicono: “Non ho capito il momento della nascita umana
su cui hai detto le quattro parole cambiando il loro posto”.
Ed è ormai difficile trovare un corso di parole che potrebbe
essere più chiaro.
Là, in quel mondo umano surreale della seduta di
psicoterapia di gruppo, potrei fare l’interpretazione, qui
non è lecita, che la domanda che sembra un lamento, è una
negazione. La reazione violenta alla realizzazione che, dopo
quaranta anni di violenze ed insulti, le idee sulla nascita
umana si sono confermate valide.
Altrimenti dovrò pregare un poeta, le cui parole
esprimono il senso e non il significato degli oggetti percepiti
ed emettono un suono... senza immagine, di trasformare in
parole i termini verbali che la negazione della nascita umana
ha reso sterili.
Non è stato mai possibile
fare l’immagine della nascita,
come creazione del pensiero.
Abbiamo realizzato
la conoscenza
della nascita
con la ricreazione
dell’inconoscibile,
primo momento
della vita
che diventerà linea
La memoria ricrea le immagini che lo studente
di medicina aveva formato. E sono memorie-fantasia
dell’esperienza vissuta con le donne.
Ma il pensiero verbale prevarica la fantasia che parla per
immagini, e pensa alla fantasia di sparizione.
Sono parole e non riesco a pensare “memoria-fantasia
dell’esperienza avuta”. E viene alla mente soltanto la
parola: pulsione. Essa, forse, sta “prima” della memoriafantasia.
Forse Trieb, perché nell’Italia catto-fascista nessuno
aveva pensato che l’essere umano non ha istinti, e la parola
pulsione aveva vissuto una esistenza senza vita. Tutti
pensavano che la nascita era «essere gettato nel mondo».
Ma anche Trieb non aveva mai vissuto nella lingua
straniera che non era neolatina. Non era stata mai distinta
da istinto, ovvero dalla realtà animale ovvero non umana.
Ed io scrissi: Istinto di morte e conoscenza, perché sapevo
che non era distruzione.
La pulsione fa vivere la vita dell’essere umano con
l’essere che è sapienza senza linguaggio articolato. È
indifferenza verso il mondo non umano perché non è
uguale a se stesso. L’unica verità è la certezza dell’esistenza
di un essere umano come se stesso.
La conoscenza diventa così parola elevandosi oltre
la ragione che capisce soltanto la realtà materiale della
natura.
...la nascita umana è fare una biologia “altra” rispetto a quella del feto...
left 30 marzo 2013
55
cultura
left.it
laseconda
vita
delDuca
Bianco
di Michele Manzotti da Londra
Dopo
sei anni
di silenzio,
a 66 anni
David Bowie
torna con un
disco che guarda
al futuro. E con una
mostra al Victoria
and Albert Museum
che ripercorre tutte
le sue metamorfosi
di artista
I
cultori degli anni Settanta possono finalmente ammirare da vicino quella che è la sua divisa più nota: il costume di Ziggy Stardust del
1972 disegnato da Freddie Burretti. Oppure le creazioni dello stilista giapponese Kansai Yamamoto
per il tour di Aladdin Sane del 1973, esotiche e affascinanti. Mentre i fan delle copertine dei dischi
vengono “catturati” dal cappotto con la Union
Jack disegnato da Alexander Mc Queen per l’album Earthling del 1997. Stiamo parlando di David Bowie, uno dei più importanti artisti e interpreti rock dei nostri tempi oltre che fenomeno di
costume. Proprio per questo, Bowie è degno protagonista di una mostra inaugurata da poco al Victoria and Albert Museum di Londra e che durerà fino all’11 agosto (orari e informazioni www.
vam.ac.uk). Un’occasione per esplorare, grazie
a immagini e materiale di vario genere il processo creativo del Duca bianco (così è spesso soprannominato) come innovatore musicale e icona
culturale, ricostruendo l’evoluzione del suo stile
con la costante del cambiamento attraverso cinquant’anni di attività.
I curatori della mostra Victoria Broackers e
Geoffrey Marsh hanno selezionato più di 300 oggetti dagli archivi di Bowie, che per la prima volta
30 marzo 2013
left
cultura
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saranno riuniti e visibili nello stresso luogo. Nelle
stanze del museo londinese sono stati raggruppati testi scritti a mano, costumi originali, foto, film,
video musicali, bozzetti oltre agli strumenti dello
stesso Bowie e il lavoro sulle copertine degli album. Un modo per capire come il look e la musica dell’artista hanno influenzato e sono stati a loro volta influenzati da un vasto numero di movimenti artistici, di design e di cultura contemporanea in genere. «David Bowie - spiega Martin Roth,
direttore del Victoria and Albert Museum che si è
avvalso del marchio Gucci come partner - è una
vera a propria icona. E lo è in modo ancora più rilevante oggi per la cultura popolare. Più che negli anni passati. La sua innovazione radicale attraverso la musica, il teatro, la moda e lo stile compare ancora oggi nel design e nella cultura visiva e
continua a ispirare artisti in tutto il mondo. Siamo
veramente orgogliosi di presentare la prima mostra in assoluto che prende il materiale dagli archivi di Bowie». Tra le curiosità che si incontrano
lungo il percorso espositivo ecco le foto scattate
da Brian Duffy, Terry O’Neill, Masayoshi Sukita (il
fotografo di “Heroes”), gli artwork delle copertine
degli album disegnate da Guy Pellaert ed Edward
Bell, estratti visivi da film ed esibizioni dal vivo tra
cui quelle da The man who fell the earth (1976)
e dal Saturday night live (1979), video musicali come Boys keep swinging (1979) e Let’s dance (1983) e bozzetti di scenografie creati per il tour
di Diamond Dogs (1974). Dagli archivi privati sono spuntati fuori anche soggetti inediti, scalette
dei concerti scritte a mano e testi di canzoni così
come spartiti e annotazioni fatte giorno per giorno che mostrano l’evoluzione di alcune idee musicali. Ma c’è anche un aspetto che sicuramente incuriosirà il visitatore, quello che mostra l’attività
del giovane David Robert Jones (questo il nome
di Bowie, nato nel quartiere londinese di Brixton nel 1947) prima del grande successo di Space
oddity del 1969. Da bravo musicista che comincia l’attività negli anni sessanta del secolo passato, il giovane David si muove attraverso vari stili: da quello Mod al folk, dal Rhythm’n’Blues alla
congiunzione tra musica e mimica, tutti elementi che confluiranno nelle sue canzoni. Oltre alle
foto di quel periodo e delle prime formazioni di
Bowie (The Kon-rads e The King Bees), sono stati selezionati anche gli Lp dei suoi eroi musicali,
left 30 marzo 2013
a partire da Little Richard. Infine la
Bbc ha dato il suo contributo con un
documentario che sarà trasmesso
dal secondo canale dell’emittente nel prossimo maggio e basato sul materiale della mostra oltre che focalizzato su cinque anni (1971, 1975, 1977, 1980 e 1983)
fondamentali per la sua attività.
Un ritratto del regista
Patrice Leconte.
E alcune immagini
del suo ultimo film
di animazione,
La bottega dei suicidi
La mostra del Victoria and Albert
Museum coincide con l’uscita del disco The next day, che ha già raggiunto il primo posto delle classifiche di
vendita in Gran Bretagna (l’ultimo
numero uno del Duca bianco risaliva al 1993, con “Black tie white noise”). Un album molto atteso a dieci
anni dall’ultima produzione, lanciato
a gennaio dal singolo “Where are we
now?” e con il video di un altro brano
(“The Stars”) interpretato con l’attrice
Tilda Swinton. Il successo quasi istantaneo del disco può essere spiegato non
solo dal grande nome dell’artista, ma
dal fatto che paradossalmente The next
day è un album tutt’altro che semplice. Si
tratta infatti di quei prodotti da apprezzare
ascolto dopo ascolto, tipici dei grandi artisti che non amano riposare sugli allori e dove convivono in uguale misura passato e presente. Inciso a New York con la produzione di
Tony Visconti e con la copertina che rimanda
a quella di Heroes, l’album ha un carattere prevalentemente rock, con un pizzico di sperimentazione (si ascolti “If you can see me” e la divertente “Dancing out in Space”) e qualche traccia di anima punk (“Dirty boys”). Ma c’è anche
il Bowie delle grandi ballate dall’ispirata melodia come la già citata e intimista “Where are we
now?” e “You feel so lonely you could die dal carattere soul”. Per arrivare a un finale di grande
effetto quale è “Heat”, una sorta di inno dark
che al tempo stesso guarda al futuro. Le sessioni di registrazione per The next day hanno infatti generato ben 29 brani e forse
non dovremmo aspettare altri dieci anni per un nuovo album
di Bowie.
David Bowie in una foto recente
e in alto in una serie di ritratti
anni Settanta e Ottanta
puntocritico
cultura
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arte di Simona Maggiorelli
Restituire l’arte
ai cittadini
Due fotogrammi dal film Gli amanti passeggeri di Almodovar
cinema di Morando Morandini
Sul pazzo aereo di Almodovar
G
li amanti passeggeri è la storia
di un altro aereo più pazzo del
mondo all’insegna di una claustrofobia
di tipo catastrofico. Sul volo 2549 intercontinentale della compagnia spagnola
Peninsula, in partenza da Barajas e diretto a Città del Messico, un guasto tecnico a un carrello mette a rischio la vita
dei passeggeri e dell’equipaggio. I viaggiatori sono stati drogati: in Economy,
la classe più affollata, tutti sono addormentati, in preda agli ansiolitici; in Business hanno provveduto con una vecchia combinazione anni 80 (champagne, vodka, succo di aranci), mischiata
a una dose mescaline sintetiche, miscela che rende la gente più socievole, disinibita. Ma intuiscono che sta succedendo qualcosa, anche se l’equipaggio ha
avuto un ordine tassativo di tacere. In
questa commedia irrealista, metaforica e succinta succede di tutto, anche un
cellulare che sfugge di mano a una donna che sta per buttarsi da un grattacielo
e va finire nel cestino della bici di una ragazza carina, ex innamorata dello stesso uomo della suicida. Secondo Pedro
Almodovar - di cui Gli amanti passegeri è l’opus n. 20 - la vita tra le nuvole è
complicata come lo è sulla Terra per le
solite due ragioni sostanziali: il sesso e
la morte. Tra i passeggeri c’è una coppia
di sposi novelli, due coatti sfiniti dai bagordi della loro festa di nozze; un finanziere truffatore senza scrupoli, un padre infelice per l’abbandono della figlia;
un seduttore incallito con la coscienza
sporca, intento a scaricare alcune fra le
tante sue sedotte; veggente rurale; una
specialista di cronaca rosa, una matura vergine, che profitta della situazione
per non esserlo più, un messicano na58
sconde un segreto inconfessabile. Tutti
hanno progetti di lavoro o di fuga a Città del Messico; quasi tutti hanno, o sembra che abbiano, un segreto da nascondere, l’impotenza di fronte al pericolo
provoca tra i passeggeri equipaggio una
catarsi generali che diventa un modo di
sfuggire al pensiero della morte, ma non
a quello del sesso. Secondo il ministro
madrileno dei Trasporti in Spagna esistono 17 aeroporti inutili, senza senso
né uso. Uno è quello de La Mancha, vicino a Toledo che, però, ha una pista molto lunga. I due piloti ricevono l’ordine di
atterrarvi. Perciò, dopo un’ora e mezzo,
l’aereo comincia a girare a 5mila metri
di altezza nel cielo di Toledo in attesa
che a terra siano pronti ad accoglierlo.
Dentro l’aereo l’azione si svolge in quattro zone: a) la cabina di pilotaggio, ogni
tanto invasa da qualche passeggero ansioso e preoccupato; i due piloti sono i
soli a non aver perduto la calma; uno
dei due è un bisessuale con famiglia,
l’altro un seduttore di donne: concordano nel dirsi che con un uomo è meglio;
b) il gallery, spazio ridottissimo per tre
giovani steward froci, uno dei quali è
un alcolizzato che non può mentire; c)
l’Economy; d) la Business dove Almodovar recupera il suo strambo umorismo degli anni 80, aggiornandolo alla
Spagna del primo Duemila. Gli amanti passeggeri è una commedia svitata e
lunatica in cui Almodovar ha per modello certi film hollywoodiani anni 30, ma
possiede anche una morale: i personaggi rimangono uguali, ma imparano qualcosa su se stessi e non mentono più a se
stessi né agli altri. Non perdere i titoli di
testa e fare attenzione alle luci delle fotografie di José Luis Alcaine.
U
na legislatura vissuta pericolosamente. Dalla scuola, dall’università ma anche e soprattutto dal patrimonio d’arte. Così Tomaso Montanari racconta, con lingua viva e tagliente, ciò che è accaduto in Italia sotto l’egida del ministro dei Beni culturali Lorenzo Ornaghi «l’unico ministro
incompetente di un governo tecnico»,
che, per giunta «ha moltiplicato intorno a sé l’incompetenza come fossero
pani e pesci» scrive lo storico dell’arte
dell’università di Napoli nel suo nuovo
libro Le pietre e il popolo, restituire ai
cittadini l’arte e la storia delle città
italiane (Minimum Fax). Un volume
che stigmatizza il vuoto culturale e la
mancanza di strategie che ha connotato il governo Monti. Che ha finito per
proseguire sulla strada dello smantellamento del bene comune perpetrata
dal governo Berlusconi e dalla “finanza creativa” di Tremonti con famigerate cartolarizzazioni (per far cassa),
scandalosi condoni e svendite di interi pezzi di patrimonio pubblico. Ne Le
pietre e il popolo Montanari ci mostra
come questo tipo di scellerata politica
che attacca l’articolo 9 della Costituzione e il Codice dei beni culturali sia
stata praticata anche dal governo tecnico, in doppio petto e nascosto sotto
il credito internazionale. Un esempio
per tutti. Il ministro Ornaghi nel 2012
ha nominato direttore della biblioteca
Il sindaco Renzi alla ricerca della Battaglia di Anghiari
30 marzo 2013
left
cultura
left.it
Girolamini di Napoli tal Marino Massimo De Caro, con alle spalle molteplici lavori fra cui anche l’aver gestito
una libreria antiquaria a Verona e intimo amico di Marcello Dell’Utri. Nel
capitolo “La danza macabra di Napoli”, Montanari tratteggia il suo incontro con l’improbabile direttore preposto alla tutela della biblioteca dove andava a studiare Vico: fra cani che si aggiravano con ossi in bocca fra rari incunaboli e bionde presenze sgattaiolate al suo arrivo. Ma soprattutto racconta come a poco a poco il suo lavoro
di storico dell’arte sia diventato quello di un giornalista d’inchiesta che riesce abilmente a mettere insieme tutti
i pezzi del puzzle della clamorosa truffa che, poche settimane fa, ha portato alla condanna di De Caro a sette anni di carcere per aver sottratto duemila libri alla Girolamini. Ma l’appassionato lavoro di difesa del patrimonio
d’arte e del suo valore civico che Montanari svolge da diversi anni parallelamente alla sua attività accademica
e di studioso del Seicento si concretizza in questo libro anche in ficcanti
pagine di denuncia delle privatizzazioni mascherate che passano, per esempio, attraverso la creazioni di Fondazioni (vedi il museo Egizio di Torino
e il rischio che corre Brera). Da questo punto di vista va detto che la vena
più caustica e corrosiva di Montanari si appunta sull’amministrazione della sua Firenze. In pagine che non esiteremmo a definire esilaranti, se non fosse tragico il senso che ci trasmettono.
Alla sbarra c’è l’improvvida politica di
valorizzazione dei beni culturali ridotta a mero marketing da parte del sindaco Matteo Renzi, che oltre ad aver
bucherellato gli affreschi di Vasari alla ricerca di lacerti della Battaglia di
Anghiari di Leonardo e ad aver pensato di sostituirsi a Michelangelo nel
completare la facciata di San Lorenzo, ha affidato il suo pensum, sui beni
culturali «petrolio d’Italia» a un imbarazzante libro come Stil Novo (Rizzoli), soprattutto ha eletto a suo Ganimede il vicesindaco Dario Nardella che,
come ci ricorda Montanari, «dal 2003
caldeggia la cessione degli Uffizi a una
fondazione».
left 30 marzo 2013
libri di Filippo La Porta
In Magna Grecia con Adele
N
ei miti greci c’è già tutto quel che si deve sapere sulla condizione umana. Adele Cambria, grande giornalista, ha scritto un libro bello e utilissimo che ripercorre i miti dell’antichità:
In viaggio con la zia (Città del Sole). Attraverso un viaggio nella
Magna Grecia con due nipotine, Cambria ci racconta di nuovo le
storie di Core e Demetra, di Pentesilea e Achille, di Hera, di Aretusa e Alfeo, di Didone ed Enea, fino alla Grande Dea, figura primigenia che prima del pantheon maschile presiedeva al cosmo.
Una mini enciclopedia di miti, riletti con uno sguardo femminista
(esplicitamente “ideologico”) e alla luce del presente (ad es. sulla spiaggia di Erice le madri troiane sono paragonate alle donne curde), seguendo
il magistero di studiosi come Graves (per il quale il matriarcato domina fino al 400
a.C.), Hillmann, Bachofen, Kereny e poi citando i libri fondamentali di Kleist, Wolf,
D’Arrigo, Yourcenar. Le due ragazzine, Nora (sua nipote) e la russa Yelena (ricalcata
su una ragazzina reale, polacca, figlia della badante della madre di Adele, e alla quale lei leggeva le fiabe di Calvino), ogni tanto prendono in giro la “zietta” («zia Cassandra»): sono a lei devote ma irriverenti: contestano la storia di Persefone perché
accetta di sposare il suo rapitore, Ade. Il tocco dell’autrice è lievissimo: riesce a dire
anche cose gravi, o drammatiche, con una pronuncia giocosa, a volte persino frivola. Ed è una donna del Sud. Non c’è riga che non esprima un amore per la vita “meridiano”, sensuale, pagano, un senso della felicità tragico e solare, accecante ed estatico (il «vaporoso celeste» dello Jonio, che dilaga fino all’orizzonte sconfinato, ricorda Camus). Il viaggio è pieno di sorprese. Così ci imbattiamo in una suora di clausura laureata in Sartre che spiega come le due imposizioni sulla donna - il velo (Islam)
e il nudo come merce (Occidente) - rispondono a un desiderio femminile (degradato): il velo per proteggersi dall’offesa dello sguardo maschile che fruga le donne in
pubblico e il denudamento come piacere di esibirsi. Infine: accennavo all’ideologia
rivendicata dall’autrice, al suo mescolare impegno e filologia. Citando Nosside, poetessa del III secolo a.C. scopriamo che a Locri le principesse greche avevano instaurato una “ginecograzia”: esercitavano il potere non con le armi ma con la poesia.
L’eredità
di antigone
di Riccardo
Michelucci,
Odoya,
278 pagine
18 euro
Il prezzo
della
disuguaglianza
di Joseph E. Stiglitz,
Einaudi,
XXXVI-476 pagine
23 euro
FRESCO SULLE
LABBRA FUOCO
NEL CUORE
di Hanan Al-Shaykh,
Piemme,
294 pagine
17,50 euro
scaffale
Dall’Afghanistan agli Usa, dall’Argentina al Sudafrica. E
oltre. Michelucci ci guida in un appassionante viaggio
facendoci scoprire le storie di donne che, nei vari angoli
del mondo, hanno lottato per i diritti civili e la libertà,
affrontando e sfidando l’antico conflitto tra imperativo
morale e potere. Con una prefazione di Emma Bonino.
L‘America è oggi il Paese avanzato con la maggiore
disuguaglianza del pianeta. In questi ultimi anni gli
interessi consolidati dell’1 per cento della popolazione
hanno prevaricato quelli del 99 per cento. Il Premio Nobel Joseph Stiglitz spiega le ragioni e le conseguenze di
questa disuguaglianza.
Dalla scrittrice libanese, autrice de La sposa ribelle, un
romanzo che racconta l’emigrazione nella multietnica
Londra, a partire da un volo durante il quale la protagonista incontra una ragazza marocchina, un inglese
studioso di arti islamiche, un mondo variegato che le fa
sperare in un futuro diverso e più aperto al dialogo.
59
bazar
cultura
left.it
buonvivere
Il personaggio di Elena Pandolfi
Marco scala il K2
Marco Bocci che ha interpretato
Walter Bonatti nella fiction di Rai1
D
i attori belli, con gli occhi
verdi e i capelli scompigliati ce ne sono tanti, ma Marco Bocci ha qualcosa di diverso. Lo sguardo, apparentemente torvo, tradisce
un’inclinazione all’esuberanza, trasmettendo anche spontaneità e stupore. Le fan lo rincorrono. Marco
scappa. Spesso torna a Marsciano,
in provincia di Perugia, dove è nato.
È giovane ma ha già molta esperienza. L’esordio con Pupi Avati ne I cavalieri che fecero l’impresa, poi con
più successo nelle serie televisive
come Incantesimo, Ho sposato uno
sbirro e Romanzo criminale. La popolarità l’ha raggiunta con il personaggio del vicequestore Domenico
Calcaterra, nella fiction di Canale 5
Squadra antimafia. E adesso la fiction K2 la montagna degli italiani
in onda su Rai1, dove ha interpretato Walter Bonatti l’alpinista che partecipò nel 1954 alla storica impresa
capitanata da Ardito Ardesio. Il set
del film era a 3.500 metri sul ghiacciaio tirolese di Solden.
Chi era Walter Bonatti?
Era un eroe naturale, un semplice e
un ottimista. Un uomo coraggioso
sia nell’approccio alla vita che nella sfida continua nel raggiungimento dei suoi obiettivi. Ho imparato
tanto da lui. Avvicinandomi all’alpinismo, ho capito bene cosa voleva
60
dire Bonatti quando raccontava la
sensazione straordinaria che provava nell’essere su quella montagna. Quando sei lassù, a quelle temperature, sotto lo zero, e con tutte
le difficoltà, devi avere un controllo perfetto del corpo e della mente.
Bisogna imparare a dosare le emozioni senza entrare nel panico, e soprattutto fare le scelte giuste. Così come nella vita, sapere che ogni
scelta porta delle conseguenze.
Sembra banale, ma nelle situazioni
estreme lo capisci meglio.
Sta ultimando le riprese di
Squadra antimafia. Come si
può combattere la criminalità?
È una battaglia dura ma non impossibile. Ho conosciuto tante persone
che fanno questo mestiere nella vita
reale: questori, commissari, marescialli. Rappresentano una speranza. Sono persone che dedicano la vita a questa missione.
Per l’otto marzo ha partecipato
alla campagna di sensibilizzazione contro la violenza sulle donne. Pensa che queste iniziative
servano a cambiare le cose?
Una fotografia (era con Gigi Buffon e Matteo Marzotto con i tacchi a
spillo, ndr) non basta, è solo un modo per farci riflettere un po’. In realtà bisogna cambiare la mentalità a
partire dall’educazione al rispetto
per tutti, soprattutto per le donne.
In questo momento di crisi come
giovane e attore pensa di poter
fare qualcosa?
Io adesso mi sto dando molto da fare per il mio lavoro, non mi fermo un
attimo. Non credo che da solo un individuo possa risollevare le sorti
dell’Italia, ma anche solo fare bene
il proprio mestiere con entusiasmo,
correttezza e disciplina, può in qualche maniera contribuire a rendere
migliore tutto il resto. L’etica individuale è molto importante per cambiare la mentalità di un Paese.
di Giulia Ricci
Pago con il
tempomat
C
on la crisi il denaro, è vero, non
c’è. Ma potrebbe anche non essere necessario. Basterebbe pagare in
un altro modo... Esiste una moneta invisibile e universale. Il tempo. L’idraulico ha impiegato un’ora per riparare
un rubinetto? Bene, può essere ricompensato con una lezione d’inglese per
il figlio, o un taglio di capelli. E così
via, lavoro in cambio di lavoro. E finalmente rispettando il concetto di uguaglianza, perché «l’ora di un avvocato
è uguale a quella di un operaio», dice
Leonina Grossi, assessore della Provincia di Rimini che nel ‘95 ha dato vita ad una delle prime banche del tempo in Italia e che fa parte del direttivo dell’associazione nazionale. Il tempo assume ancora più
valore. Così anche
il lavoro. E poi
si socializza.
Mica male, di
questi tempi...
(Elenco delle
sedi e modalità di adesione su www.
associazionenazionalebdt.it).
Tendenze di Sara Fanelli
Coloriamoci
L
a primavera-estate 2013 si prospetta
leggera, spensierata e rilassata, almeno in fatto di moda. Voglia di lasciarsi alle
spalle i colori e i pensieri plumbei dell’inverno. L’aria sarà all’insegna del colore e
della gioia. Vizi, vezzi e frivolezze. C’è bisogno di semplicità. Tutto ritorna in chiave
decisamente contemporanea. Il bianco farà da padrone. Tutto sarà costellato da trasparenze, veli, ricami e sovrapposizioni. E
poi anche i colori vivi, pieni, brillanti, squillanti: il giallo, l’arancio, il verde e il fucsia.
Ogni anno viene pubblicato il Fashion color
30 marzo 2013
left
cultura
left.it
di
Bebo Storti
il taccuino
Docufilm di Camilla Bernacchioni
In fondo.
Espulsi e offesi
«C
i dicono di tornare a casa ma noi
non vogliamo, nel nostro Paese ci opprimono». Storie di
ordinarie frustrazioni e violenze psicologiche e non solo si intrecciano nel potente
Vol spécial del regista Fernand Melgar che dopo il pluripremiato La Forteresse sulle condizioni di accoglienza
dei richiedenti asilo in Svizzera, sposta l’attenzione sui
rimpatri forzati degli stranieri in situazione irregolare. Distribuito con metodo “civile” da ZaLab, che organizza
proiezioni fuori dai circuiti
commerciali onnivori e lampo, è il primo documentario
in Europa realizzato all’interno di una struttura di detenzione amministrativa, quella di Frambois, a Ginevra,
uno dei 28 centri di espulsione per sans papiers elvetici.
Girato in tre mesi dopo sei
di sopralluoghi nella struttura, il documentario mostra
immagini di vita quotidiana
Un’immagine del documentario Vol spécial
del personale, ma soprattutto le storie dei reclusi in attesa di espulsione e gli assurdi ingranaggi amministrativi. Alcuni di loro sono in Svizzera da anni, quasi tutti africani, hanno una famiglia, lavorano, versano i contributi e mandano i figli a scuola.
Fino a che un giorno i servizi cantonali di immigrazione
decidono arbitrariamente di
chiuderli in carcere per garantire il loro rientro nei paesi di origine dove la maggior
parte di loro non vuole tornare perché perseguitato. Han-
report di Pantone, uno studio tecnico che
rintraccia e prevede le tonalità di moda in
una particolare stagione. Anche per il 2013
è stato individuato un gruppo di dieci tonalità che “coloreranno” il guardaroba primaverile: Monaco Blue, Dusk
Blue, Emerald, Grayed Jade,
Linen, Poppy Red, African
Violets, Tender Shoots, Lemon Zest e Nectarine, saranno le nuance più alla moda.
Vietati alle timide, alle pallidine. Ma consigliatissimi a tutte le altre. Per
la sera, via libera a paillette, strass e pietre
colorate. Vanno alla grande anche i colori
pastello: rosa cipria, beige, verde menta e
glicine. Alternateli come in un bouquet flo-
left 30 marzo 2013
no tre possibilità: il rilascio,
una partenza da liberi oppure un viaggio di ritorno, sotto scorta e blindato, ai luoghi
di origine. E al loro rifiuto di
partire vengono legati e ammanettati, costretti a indossare elmetti e pannolini, imbarcati a forza su un aereo.
Melgar, regista, produttore
indipendente e autodidatta,
osserva la realtà, non giudica, ma con la forza delle immagini riesce a risvegliare
le coscienze. Per organizzare una proiezione scrivere a:
[email protected].
reale. Per quanto riguarda i volumi, copritevi con abiti extralong ed extralarge, ampi
e leggeri. In tinta unita, in pizzo di sangallo,
in stampa fantasia. Ciò che conta è che accarezzino il suolo. Un must sarà poi lo smoking con rever bianco a contrasto. Per quanto riguarda
le decorazioni, potete vincere la partita del trend più cool, accaparrandovi sostanzialmente: righe, soprattutto
in versione macro, tipo sdraio di Riccione anni 70, le ruches e la stampa pitone, anche e soprattutto in versione patchwork o colorfull. Infine per le più
estrose che amano l’Oriente, kimono e obi
a go-go, da vere geishe metropolitane.
Cari elettori,
il tempo delle illusioni
sembra finito. Chi di voi
aveva, dopo il voto, nutrito
delle aspettative, sarà lì
che se la mena e se la
rimena “ma perché ho
votato il tapparella (Bersy)ma perché ho votato un
comico, e ho subito smesso di ridere” e via così,
ma le cattive notizie non
arrivano mai sole, e così
oggi veniamo a sapere
che uno, che si è beccato
7 anni per mafia, ha fondato
un partito di plastica e ha
detto di un pluriomicida
che era un eroe, può andarsene a casa e dormire fra
4 guanciali, tanto in galera
non ci andrà mai.
Di aggiunta però, per compensare, ora sappiamo che
se ti fai fare un servizietto,
strapagato, da una minorenne, la puoi tirare lunga,
se poi te lo fanno anche due
ministre e una consigliera
regionale, arriva uno e ti
propone per un premio per
la tua lotta contro la mafia.
Anche se avevi uno stalliere
assassino. Di contro, ci
solleva sapere che se uno
ha un figlio che non capisce
una ceppa ha la reattività
di un tonno morto e l’intelligenza di una vongola, lo
può mettere come vice di
Bersani, se parte l’inciucione, chiaro. Per carico da 11,
basta mandare dei pullman
nella provincia di Roma,
cacciare 60 euri a persona,
scrivere dei cartelli tutti
uguali, affittare una piazza, e sembri ancora vivo.
Anche se ormai anche a
Lourdes si toccano i maroni
quando ti vedono arrivare.
Quindi elettori diletti cosa
hanno prodotto 300 milioni
di euri e aver votato? Che
avremo un governo sempre
in bilico con 5stelle,formato
da Alfano Ruby la Minetti e
Balotelli. Beh, poteva andare peggio, potevano riesumare Menghele Rasputin e
Landrou.
61
[email protected]
cultura
BOLOGNA
Festival
Monster
Dal 12 al 17 aprile,
torna l’atteso Future
film festival dedicato
alle nuove tecnologie
applicate all’animazione e ai media. I
mostri sono il tema
di questa XV edizione
della kermesse che
come ogni anno non
mancherà di lanciare
mode e tendenze. Il
motto c’è già: Tweet
the monster.
tORINO
milano
VENEZIA
La favola
di Psiche
Palazzo Barolo ospita
dal 27 marzo al 16 giugno la mostra Amore e
Psiche, che propone un
percorso alla scoperta
delle rappresentazioni
iconocrafiche che gli
artisti hanno dedicato
a questa millenaria favola di Amore e Psiche.
Con la geniale invenzione di Canova.
ROMA
cuneo
L’Ulisse di Bob Wilson Tutto Stingel
a Palazzo Grassi
Il teatro Strehler ospiterà, dal 3 al 24 aprile, Odyssey, l’ultimo spettacolo teatrale firmato da Robert
Wilson. Dopo cinque mesi di repliche ad Atene, arriva anche in Italia l’allestimento del poema epico,
nella versione in greco moderno tratta dal testo
del poeta inglese Simon Armitage. E qui la figura
di Ulisse permette di affrontare temi modernissimi. Lo spettacolo nasce da una collaborazione col
Teatro nazionale di Grecia.
GENOVA
Un’importante personale del pittore Rudolf
Stingel a Palazzo Grassi. La mostra, curata dallo
stesso artista, è la più completa monografica a
lui dedicata in Europa. Saranno esposte circa
quaranta opere - tutti dipinti - alcune di proprietà
dell’artista, altre provenienti dalla collezione
François Pinault e da collezioni private internazionali. La mostra sarà aperta al pubblico dal 7
aprile al 31 dicembre.
PADOVA
Magie di
Salgado
Cucina
è arte?
Food, Philosophy and
Art - Cibo, Filosofia
e Arte è il convegno
organizzato dall’università di Scienze
gastronomiche di Pollenzo dal 4 al 5 aprile.
Il rapporto tra cucina,
estetica e arte sarà
discusso da filosofi,
semiologi e cuochi.
62
Apre al pubblico dal 15
maggio presso il museo
dell’Ara Pacis la mostra
Genesi. Fotografie di
Sebastiao Salgado.
In mostra oltre 200
fotografie, frutto del lavoro di Salgado, andato
alla ricerca di parti di
mondo ancora incontaminate, non sfigurate
dall’uomo. Aperta fino
al 15 settembre, catalogo Contrasto.
Genova fiorisce
Obiettivo Padova
La città della Lanterna vive al meglio la primavera. Dal 9 marzo è stato inaugurato Wow! Genova
science centre, il primo Science centre in Italia.
La prima mostra visitabile è Brain, the world
inside your head, dedicata al cervello umano.
A Palazzo Ducale fino al 7 aprile due mostre di
grande rilievo: Mirò. Poesia e luce, con oltre 80
lavori; e l’allestimento fotografico Steve McCurry. Viaggio intorno all’uomo.
Si apre il Padova fotografia festival. Il tema scelto per
la prima edizione è Alone Inside. Through Society.
Guarda alle relazioni contradditorie tra uomo, identità e luoghi, viste attraverso la macchina fotografica.
Fino al 6 aprile è possibile visitare numerose mostre
oltre a workshop, incontri, letture di portfolio.
Un festival giovane e indipendente che presenta, tra
i tanti, autori come Valentina Vannicola, Carlo Bevilacqua, Alessandro Serranò, Michael Frank.
30 marzo 2013
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