Archiviata la sfida elettorale, per il presidente Barack Obama il

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Archiviata la sfida elettorale, per il presidente Barack Obama il
Mondo | Le strategie degli States
Archiviata la sfida elettorale,
per il presidente Barack Obama
il problema più grave
è il rilancio dell’economia
Usa,
l’industria
ci salverà
Agli Stati Uniti per risollevarsi non bastano gas, petrolio
e cereali. E nemmeno le novità della Silicon valley.
Vale di più il ritorno del manifatturiero tradizionale sul suolo
americano. Che sta avvenendo. Ma per fare fronte
al deficit stratosferico il governo è tentato
di rispolverare un’altra vecchia medicina, l’inflazione
di Ugo Bertone
iacomo Vaciago la vede così: «Non c’è risanamento senza
crescita, non c’è ricchezza senza industria, Obama lo ha capito e ha vinto». Detta in questo modo la formula espressa
dal docente dell’Università Cattolica di Milano sembra semplice.
Troppo semplice. Ma a scorrere l’elenco dei nuovi insediamenti industriali negli Usa, si capisce che l’economista piacentino non è lontano dal vero. Non passa giorno, in pratica, senza che qualche corporation annunci il rientro in patria. Ha cominciato Otis, che trasferirà la produzione di ascensori dal Messico alla Carolina del
Sud, un esodo alla rovescia imitato da General Electric. Caterpillar
ha aperto, cosa che non accadeva dai tempi di Lindon Johnson, una
fabbrica di escavatrici in Texas. Electrolux ha fatto le valigie e ha
lasciato il Canada: meglio Memphis nel Tennessee, terra generosa
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di contributi pubblici e di sindacati pronti a fare lo sconto sulla paga in cambio dei posti di lavoro garantiti da
una fabbrica che sfornerà 600.000 cucine all’anno, in
concorrenza a quella nuova di zecca targata Whirpool
in Carolina del Nord. E c’è chi rientra dalla Cina, come
la Peerless Industries, che ha scoperto come i tecnici
yankee possano costare meno e rendere di più dei loro
colleghi di Huizhou, come ha fatto anche la Coleman,
decidendo di tornare a costruire i thermos per il caffè a
Wichita, Kansas. E così via.
Certo, la ripresa Usa procede a un «tasso eccessivamente moderato», come ripete il Beige Book, il report
con la copertina beige preparato dalla Federal Reserve
relativo lo stato di salute economica Usa, che mese do-
po mese ha segnalato che la soglia della disoccupazione
resta oltre il livello di guardia, attorno all’8 per cento.
«Mai nella storia», esultavano gli strateghi repubblicani prima del 6 novembre, «si è dato il caso di un presidente Usa rieletto con un livello così elevato di senza
lavoro». Ma Obama ci è riuscito. Il motivo? L’elettorato
si è fidato della pioggia di dollari (40 miliardi al mese)
che il presidente della Fed Ben Bernanke ha promesso
di immettere nel sistema finché l’occupazione non tornerà a salire. Una strategia che ha convinto più dell’effetto taumaturgico di quella ventilata da Mitt Romney
con tagli alle tasse e alle spese.
«Il candidato repubblicano», obietta Vaciago, «in un
certo senso aveva ragione: l’America deve stare attenta
L’economista alla Cattolica di Milano Giacomo Vaciago. a proposito del debito statale
spiega che «l’America deve stare attenta a non seguire la strada dell’Italia».
«La spesa pubblica è buona se è produttiva. E Obama ha capito che deve fare leva sulla forza
delle università, dove studiano non solo i ragazzi americani ma i migliori di tutto il mondo»
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a non diventare l’Italia, ma non per quello che lui sosteneva, ma piuttosto perché la spesa pubblica è buona se
è produttiva. Ricordiamoci sempre che l’industria origina ricchezza, per dirla con Adam Smith. Obama ha capito che deve fare leva sulla forza delle università, dove
studiano i migliori di tutto il mondo, non solo i ragazzi americani». Insomma, l’Italia deve seguire l’esempio Usa.
Ma entro certi limiti, perché in quanto a debito e indisciplina della finanza pubblica gli States drammaticamente ci somigliano. Forse troppo. «Il loro fiscal cliff assomiglia al nostro spread, a causa del quale un anno fa
eravamo sull’orlo del baratro», ammette Vaciago. «Gli
Usa, come l’Italia, devono fare di più per la sostenibilità del loro debito. Grazie a Bernanke in questi anni
hanno “comprato” tempo, ma ora Obama è al suo secondo mandato, non ha scadenze elettorali di fronte e deve
agire con determinazione».
Ecco, grazie all’analisi di Vaciago, la prima chiave di
lettura dell’Obama bis: la crescita, quella vera, deve passare attraverso il ritorno al manufacturing. L’esempio
virtuoso l’ha fornito Sergio Marchionne: a far pendere
per Obama l’ago della bilancia dell’Ohio sono state probabilmente le tute blu dei fornitori di Gm e Chrysler.
Nel 2008, prima del turnaround di Detroit, l’Ohio aveva un tasso di disoccupazione del 14 per cento, ben oltre
la media nazionale; oggi è sotto il 6 per cento. Non si tratta di demonizzare la finanza, per carità. Ma di mettere
sotto controllo, almeno in parte, il genio scappato dalla
I repubblicani contavano che il tasso di disoccupazione Usa sopra l’8 per cento
avrebbe precluso la rielezione a Barack Obama. Invece l’elettorato si è fidato
della promessa del presidente della Fed Ben Bernanke di immettere nel sistema
una sostanziosa quantità di dollari finché l’occupazione non tornerà a salire
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Elizabeth Warren,
docente di legge
ad Harvard,
neo senatrice
del Massachusetts,
ha riconquistato
ai democratici
il seggio
che per decenni
è stato del patriarca
Ted Kennedy
lampada e che tanti guasti ha provocato dalla crisi dei
subprime al default di Lehman Brothers, dalle speculazioni miliardarie finite in fumo (ultimo caso, la Balena
bianca di JP Morgan) agli algotrading degli hedge fund
che spolpano la Borsa con milioni di transazioni più adatte ai casinò che non alla raccolta di capitali per le
imprese. Contro il genio cattivo, hanno accusato molti
tifosi del presidente, Barack Obama si è speso più a parole che nei fatti, nel corso del primo mandato. La monumentale legge Dodd-Frank (quasi tremila pagine,
cosa da fare invidia a certe leggi di casa nostra) è ancora in attesa di molti regolamenti. Le raccomandazioni
del Financial Stability Forum per regolare la finanza
ombra e le banche «too big to fail» sono rimaste, in pratica, sulla carta salvo i requisiti sul capitale degli istituti sistemici.
Ma si deve ricordare che nel corso del primo mandato Obama ha puntato quasi tutto sulla riforma sanitaria, un boccone troppo impegnativo per aprire altri fronti di scontro, capaci di scatenare un tracollo della Borsa
che, in un Paese dove la pensione dipende in buona parte dall’andamento dei fondi investiti nel mercato azionario, poteva portare a una sconfitta sicura. Ora le cose
possono andare diversamente. Almeno così hanno pensato i big di Wall Street che hanno abbandonato la saggia regola di distribuire i contributi elettorali tra più contendenti. Troppi i provvedimenti indigesti nell’agenda
di Obama, a cominciare dalla prospettiva di un aumento dell’imposta sui capital gain dal 15 al 20-25 per cento, con un altro 3,8 per finanziare la nuova riforma sanitaria. E ancora, l’imposta sui dividendi destinata a
crescere di un 10 per cento (dal 15 attuale), ma forse
anche molto di più, e l’aliquota marginale che verrà a
sua volta alzata e alla quale andrà aggiunto l’onnipresente 3,8 per cento per finanziare l’Obamacare. Di qui
la decisione, a differenza di quanto accadde nel 2008, di
destinare fondi per le presidenziali in pratica solo ai
repubblicani. Goldman Sachs e JP Morgan hanno versato la bellezza di 33 milioni a testa. Stephen
Schwarzmann, del fondo di private equity Kohlberg
Kravis Roberts, è arrivato al punto di dire che la proposta di alzare le tasse sui dividendi equivaleva «all’invasione della Polonia da parte di Hitler nel 1939».
Tanta acrimonia, probabilmente, si è risolta in un insperato vantaggio per il presidente a conferma che i banchieri sono oggi probabilmente la categoria più odiata d’America. Lo dimostra il successo di Elizabeth Warren, docente di legge ad Harvard, che ha ripreso per i democratici la poltrona al Senato del Massachusetts che per decenni era stata del vecchio patriarca Ted Kennedy. Miss
Warren, che è un ottimo avvocato con una specializzazione in bancarotte e difesa dei diritti dei consumatori,
è stata lo spettro contro cui le banche hanno investito
70 milioni di dollari per evitare il suo approdo al Congresso. Invano. E adesso? «Le banche la pagheranno»,
sostiene sul «New York Times» un avvocato d’affari anonimo. «La ferita si rimarginerà nel tempo. Ma ne sono sicuro: le banche la pagheranno».
Forse non accadrà, ma anche questo contribuisce a
rendere più aspro e acrimonioso il confronto sul fiscal
cliff. Se ne discuterà, facile previsione, per mesi sulla
base di una serie di soluzioni possibili praticamente infinita e un’incertezza, di conseguenza, totale. «I signori
politici», spiega Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos Partners, «dovranno stabilire se fare decidere tutto
al Congresso uscente o a quello nuovo che si insedierà
in gennaio. Dovranno scegliere se sistemare i problemi
in un paio di settimane oppure rinviarli di sei mesi o ancora aspettare la notte del 31 dicembre o avventurarsi
nell’anno nuovo a tasse già salite e poi farle ridiscendere retroattivamente. Dovranno mettersi d’accordo se
alzare le tasse di un dollaro per ogni tre dollari di tagli
La crescita deve passare attraverso il ritorno al manufacturing.
Non si tratta di demonizzare la finanza, ma di mettere sotto controllo un settore
che in questi ultimi anni ha provocato tanti guasti. Ma il presidente Usa è stato accusato
di essersi speso finora più a parole che nei fatti contro il “genio cattivo”
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I big di Wall Street
temono Obama
e per la prima volta
hanno finanziato
quasi esclusivamente
i repubblicani
Qui sotto: Stephen
Schwarzmann,
del fondo di private
equity KKR;
Olivier Blanchard,
capo economista
del Fondo monetario
internazionale
di spesa (l’idea che circolava l’anno scorso) oppure, adesso che ha rivinto Obama, accontentarsi (i repubblicani) di un dollaro di tagli per ogni dollaro di nuove tasse. Dovranno stabilire se approfittarne per dare una sistemata a tutta la legislazione sulle tasse e semplificare il codice fiscale (passato dalle 400 pagine del 1913 alle 74.000 di oggi) o se fare solo qualche ritocco». Alla fine sarà inevitabile il compromesso: facile che si vada verso la prospettiva di spalmare riduzione di spese e aumenti (comunque contenuti) delle tasse per i prossimi dieci
anni, con un taglio complessivo del deficit di quattromila miliardi. Senza dimenticare, però, che di fronte a cifre del genere ogni dettaglio nasconde torme di diavoli.
Un’America più vicina a Main Street, più distaccata
da Wall Street: questa, almeno all’apparenza, sembra
la fotografia che emerge dal voto di un grande Paese
democratico, deciso ad archiviare la guerra in Afghanistan e a non farsi coinvolgere in prima persona in un conflitto siriano. Un Paese più sensibile alle tematiche ambientali ma in cui, statene certi, il fracking (la tecnologia che consente di estrarre gas e petrolio dalle sabbie bituminose) non verrà troppo ostacolato perché crea molti posti di lavoro e i sindacati, nel cuore di Obama, con-
tano più degli ecologisti. Anche al presidente, poi, non dispiace in termini strategici e militari la previsione che vede gli Usa trasformati, grazie al fracking, nella prima
potenza energetica mondiale, anche davanti al Golfo
Persico. A ottobre, per la prima volta dal 1944, alcune
compagnie petrolifere hanno chiesto l’autorizzazione a
esportare greggio da raffinare oltre frontiera.
In questa America che, grazie alle materie prime
agricole e minerarie, sembra destinata ad assomigliare
sempre di più a un’Australia dotata però di un’indiscutibile leadership tecnologica e militare, le banche continueranno a essere punzecchiate in tutti i modi, multate metodicamente e regolate sempre più minuziosamente. Ma Barack Obama è comunque politico troppo abile
per trasformare questa strategia del contenimento in
un attacco frontale. E la Fed, altro spauracchio di Mitt
Romney, continuerà a offrire ai moloch della finanza un
ambiente favorevole. Anche pompando nel sistema dollari che, secondo le accuse, prima o poi scateneranno l’inflazione. Ma questo, agli occhi di Obama e di Bernanke,
sarà il male minore. L’impennata dei prezzi arriverà
solo quando la locomotiva avrà assorbito una bella fetta di disoccupazione e marcerà verso il pieno impiego.
Intanto, una politica monetaria aggressiva terrà sotto
pressione i tassi di interesse, per la fortuna dei debitori, primo fra tutti il governo federale americano. Altro
che austerità: sarà l’inflazione la medicina del debito
Usa.
Una terapia, ricorda l’ultimo rapporto del Fondo
monetario firmato da Olivier Blanchard, che ha funzionato nel 1945, quando gli Usa si sono ritrovati con un
rapporto debito-pubblico oltre il 120 per cento, assorbito nel giro di trent’anni dalla crescita. Allora, obiettano
i critici, la superiorità dell’economia americana era così
schiacciante rispetto ai concorrenti da consentire alti
profitti e alti salari. Ma l’accoppiata Bernanke-Obama
è convinta che l’America, ricca di gas, petrolio e cereali,
capace di sfornare iPad ma anche di rilanciare l’industria più tradizionale a suon di incentivi, moderazione
salariale e competenze professionali, abbia i numeri
per riprovarci. Alla faccia dell’austerità europea.
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Gli aiuti della Fed rischiano prima o poi di scatenare l’inflazione, ma per Obama e Bernanke
sarà il male minore perché arriverà quando la locomotiva avrà assorbito una buona parte
di disoccupazione e intanto una politica monetaria aggressiva terrà sotto pressione
i tassi di interesse. Per la fortuna dei debitori, primo fra tutti il governo Usa.
Ma il Fondo monetario internazionale ricorda che è una terapia vecchia: funzionò nel 1945
perché la superiorità dell’economia americana era così schiacciante rispetto ai concorrenti
da consentire alti profitti e alti salari. Non è affatto detto che potrà essere replicata
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