lette e rilette - Carote e Lilla

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lette e rilette - Carote e Lilla
LETTE
E
RILETTE
24 Favole classiche
rivestite di lieto fine
INDICE
Introduzione ……………………………………………………….3
Barbablù…………………………………………………………….4
Il pifferaio magico………………………………………………….11
La ricottina ………………………………………………………….15
L’abete……………………………………………………………….17
L’intrepido soldatino di stagno……………………………………28
Jack e il fagiolo magico……………………………………………..34
La cicala e la formica………………………………………………..40
La piccina dei fiammiferi……………………………………………42
L’usignuolo e la rosa…………………………………………………46
La chiocciola e il rosaio………………………………………………54
Hansel e Gretel……………………………………………………… 58
Baba-jaga………………………………………………………………66
Puccettino……………………………………………………………..70
L’acciarino…………………………………………………………….82
Pelle d’asino…………………………………………………………..92
Il pesciolino d’oro……………………………………………………100
Nevina e Fiordaprile…………………………………………………106
Il guardiano di porci…………………………………………………112
Pollicino……………………………………………………………… 119
La principessina sul pisello…………………………………………125
Il principe ranocchio…………………………………………………127
La volpe e la cicogna…………………………………………………132
Scarpette rosse………………………………………………………. 133
Riccidoro…………………………………………………………….. 138
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INTRODUZIONE
Carta dei diritti degli appassionati di favole
lettori ed ascoltatori di ogni età
Art. 1
Ogni lettore od ascoltatore di ogni età ha il diritto al lieto fine della favola che
legge o ascolta.
Per lieto fine si intende non solo una conclusione felice del racconto, ma anche
un finale che dia un insegnamento coerente con i valori più elevati
dell'esistere e del vivere.
Ogni bambino di ogni età ha il diritto di ascoltare una favola che lo faccia
dormire sereno.
Ogni lettore di fiabe ha il diritto di leggere storie che lo facciano sentire a suo
agio, che non creino in lui il dubbio se sia o no opportuno leggere una favola
del genere al suo ascoltatore, bambino di ogni età.
Art.2
Ogni lettore od ascoltatore di ogni età ha il diritto di riscrivere il finale della
favola che legge, ovvero di aggiungere o modificare passaggi in essa
contenuti che non siano in linea con la propria idea di lieto fine, lieto
svolgersi della narrazione.
Art. 3
La favola nasce dai racconti orali popolari. Con un intervento dell'avente
diritto, cioè chiunque, volto a dare, attraverso la favola, bagliori di luce, non
si fa altro che affermare l'appartenenza di ognuno all'Umanità, poichè si
contribuisce all'arricchimento e all'evoluzione del suo patrimonio culturale
con il proprio personale apporto.
Art. 4
Ogni lettore od ascoltatore di ogni età ha il diritto di affidarsi totalemnte alla
favola che legge o ascolta. tale diritto è garantito dall'intrinseca bontà della
favola, apportatavi da una riscrittura attenta alla sensibilità dei bambini di
ogni età.
Ai sensi della presente carta, abbiamo riscritto 24 favole famose, assicurando loro un
lieto finale. Ci auguriamo che questo sia solo l'inizio , che porterà a riscrivere tutta la
realtà.
Associazione Carote e Lillà
www.carotelilla.it
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BARBABLU’
C'era una volta un uomo tanto ricco quando brutto.
Egli possedeva palazzi in città, ville in campagna, scuderie
piene di cavalli, forzieri colmi di monete d'oro, ma aveva la
barba blu, una barba che gli dava un aspetto così terribile
che tutte le ragazze scappavano non appena lo vedevano.
Aveva già chiesto la mano di parecchie fanciulle, poiché
desiderava sposarsi; ma tutte lo avevano rifiutato. Tuttavia
egli non si stancava e continuava a cercare moglie.
Nella sua stessa città viveva una gran dama che aveva due
figlie molto belle, e Barbablù ( tutti lo chiamavano così ) ne
chiese una in sposa: non gli importava se la maggiore o la
minore.La gran dama esitò: ella aveva anche due figli
maschi ai quali avrebbe voluto preparare l'avvenire; ma,
rimasta vedova, era caduta in povertà. Un matrimonio con
un uomo ricco come Barbablù sarebbe stato la fortuna per
tutti…Non volendo forzare la volontà delle sue ragazze, le
lasciò libere di accettare o no. Ma nessuna delle due si
sentiva il coraggio di compiere quel passo. Tanto più che, si
diceva, Barbablù era già stato sposato altre volte, ma non si
sapeva dove le sue mogli fossero andate a finire.
Allora Barbablù incominciò a coprire le due ragazze di
regali: fiori,gioielli meravigliosi, le invitò insieme alla madre
in una sua villa dove, per una settimana, si susseguirono
feste da ballo, battute di caccia, banchetti…Infine la figlia
minore concluse che quell'uomo non aveva poi la barba
tanto blu…e in quattro e quattr'otto decise di sposarlo. Le
nozze furono celebrate con grande sfarzo, e la sposina si
sentì molto orgogliosa quando poté mostrare alle sue
amiche il meraviglioso palazzo dove abitava. Un giorno
Barbablù annunciò a sua moglie che doveva assentarsi da
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casa per alcuni affari. Tuttavia desiderava che nel frattempo
lei si divertisse con le sue amiche, e le invitasse a palazzo:
- Ti lascio le chiavi di tutte le porte, di tutti i forzieri, di tutti
gli armadi - disse togliendo di tasca un tintinnante mazzo di
chiavi. - Adopera come vuoi il servizio di vasellami e le
posate d'oro e d'argento; fruga nei ripostigli, saccheggia la
dispensa. Ma per nessun motivo al mondo dovrai aprire la
porticina che si trova in fondo alla galleria e che si apre con
questa chiavetta d'oro. Guai a te se entrerai in quello
stanzino: dovrai pentirtene amaramente!
Così dicendo, consegnò il mazzo di chiavi alla
moglie.Questa ebbe subito una grande curiosità di vedere
che cosa si nascondesse nel misterioso stanzino. Tuttavia
promise di essere ubbidiente e di adoperare tutte le chiavi
meno quella d'oro. Barbablù salì in carrozza e partì; subito
dopo la ragazza invitò sua sorella Anna e tutte le sue
amiche ad andare a farle visita.
Invitò anche i due fratelli, ma questi promisero che
sarebbero venuti soltanto il giorno dopo. Il corteo delle
ragazze, con la sposina in testa, percosse le sale e le gallerie
del sontuoso palazzo e di continuo risuonavano degli " Oh "
di meraviglia davanti alle ricchezze che venivano alla luce:
tazze di diaspro e di cristallo, piatti d'oro e
d'argento…Finalmente non restò più da visitare che lo
stanzino in fondo alla galleria, e la sposina esitò parecchio,
stingendo fra le dita la chiave d'oro…poi pensò che era
meglio lasciar partire le amiche; rimasta sola, avrebbe
potuto soddisfare la curiosità senza che nessuno se ne
accorgesse. Infatti, dopo i convenevoli la sorella Anna andò
a dormire al piano di sopra, e la sposina poté dirigersi senza
far rumore verso la stanza misteriosa.
Infilò la chiave nella toppa, la girò dolcemente, entrò,
ma…orrore!
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Un grosso cespo ancora insanguinato e una scure affilata
gettata sulla paglia stavano a dimostrare che in quello
stanzino si entrava soltanto per morire…Ora sul ceppo
ballavano i topi, ma in un angolo giacevano diversi corpi di
donne: tutte con la testa tagliata.
Le mogli scomparse di Barbablù…Inorridita, la sposina si
portò le mani agli occhi per non vedere più; ma in quel
gesto la chiavetta le sfuggi di mano e cadde in una pozza di
sangue.
La raccolse e fuggì via, dopo aver richiuso accuratamente la
porta; poi si rifugiò in camera sua tremando da capo a piedi.
Guardò la chiavicina maledetta e vide che era sporca di
sangue. Subito cercò di asciugarla e di pulirla, ma non vi
riuscì. La chiave era fatata, e le macchie di sangue cancellate
da una parte, ricomparivano da un'altra. Atterrita, pensava
di fuggire dal palazzo, ma proprio quella notte Barbablù vi
fece ritorno.
La sposina simulò di accoglierlo lietamente, ma in cuor suo
si sentiva morire per la paura. Barbablù non chiese la
restituzione delle chiavi e andò a dormire senza domande,
ma al mattino dopo, assumendo un piglio che non
prometteva niente di buono, chiese:
-Hai adoperato la chiave che ti avevo proibito di usare?
Vuoi restituirmela, ora?
La ragazza porse la chiave con mani tremanti, e Barbablù
vide subito che era macchiata.
- Perché c'è del sangue su questa chiave?
- Proprio non lo so…
- Ebbene, lo so io! - gridò ferocemente l'uomo. - Tu mi hai
disobbedito e sei entrata nello stanzino. Perciò vi ritornerai,
e questa volta per sempre, perché io ti taglierò la testa e ti
metterò a fianco delle altre donne che furono curiose come
te.
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La povera ragazza a quelle parole divenne pallida come una
morta e si buttò in ginocchio:
- Perdonatemi! - singhiozzo. - Io non lo dirò a nessuno ciò
che ho veduto.
- Tutte le donne sono pettegole così come sono curiose; solo
quando ti avrò tagliato la testa, sarò veramente sicuro che
non parlerai. - Vi prometto che vi obbedirò sempre! Vi
prometto che non dirò una sola parola.
Barbablù ridendo sgangheratamente, disse:
- Ti ho veduto alla prova! E adesso sono stanco di ciarle:
vieni con me perché la tua ultima ora è suonata.
Fece per afferrare la giovane per i capelli, ma ella si ritrasse:
- Non potete farmi morire senza che io abbia prima
raccomandato la mia anima a Dio. Lasciatemi sola, affinché
io possa pregare in pace.
Barbablù esitò, ma sebbene fosse un uomo crudele e feroce,
non osò opporre un rifiuto.
- Va bene, - replicò. - Ti concedo un quarto d'ora di tempo:
non di più. Io, intanto, andrò ad affilare la scure.
Si allontanò verso il terribile stanzino, e la povera moglie
corse a svegliare la sorella Anna.
- Mia cara sorella - supplicò - sali sulla torre e guarda se
vedi i nostri fratelli. Dovrebbero arrivare questa mattina. Se
li vedi fa cenno che si affettino, per carità.
La sorella Anna corse subito alla finestra della torre, mentre
la sposina aspettava col cuore in gola.
Nel frattempo Barbablù, che aveva finito di affilare la scure,
incominciò a gridare.
- Il quarto d'ora è ormai trascorso. Affrettati a scendere:
altrimenti salgo io!
- Ancora un attimo - rispose la sposina, e chiese con ansia:
- Cara sorella Anna, non vedi nessuno?
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- Nessuno - rispondeva Anna. - Vedo soltanto i ruscelli
luccicare e l'erba verdeggiante.
“Ecco” pensava la giovane, “adesso morirò in un modo
orribile, e nessuno saprà che fine ho fatto, proprio come le
altre mogli di Barbablù!” e lacrime amare le scorrevano sulle
guance. “Adesso, dai!” una voce che che sembrava più un
sussurro arrivò all’orecchio della ragazza, che si voltò senza
vedere nessuno. Lo spavento della morte incombente era
talmente forte che la giovane non ci pensò troppo e continuò
a piangere. “Non so …” un’altra voce rispose alla prima,
“Come sarebbe ‘non so’! Non vedi come piange?”; “Già,
sotto la minaccia della scure siamo tutti bravi a pentirci!”
intervenne una terza voce. “Ma! Artemisia, cosa dici?
Ricordati chi siamo…”.
La ragazza, senza smettere di piangere, disse “Già, chi siete?
Da dove arrivano queste voci?”.
“Bene, visto che ci hai sentite significa che dobbiamo
presentarci…”. Una luce color di violetta luccicò davanti
agli occhi della giovane, “Io sono Ottilia, prima moglie di
Barbablù”, “Ed io Artemisia, seconda moglie di Barbablù”,
fece eco una luce dorata, “Ed infine io sono Agata” una
terza luce verde brillò.
La giovane sposa smise finalmente di piangere e fissò le tre
luci a bocca aperta “Ma…come?”. Artemisia spiegò: “Si, lo
sappiamo, hai visto i nostri corpi in quello stanzino, ma ciò
non significa che non esistiamo più”. “Infatti”, proseguì
Agata “siamo diventate spiriti di luce, con un compito che
fino ad oggi ci era sconosciuto. Quando ti abbiamo vista
entrare nello stanzino abbiamo capito che è arrivato per noi
il momento di essere utili”.
- Hai finito si o no? Sono stanco di aspettare. Se non scendi
tu,salirò io. Urlava intanto Barbablù. - Un momento, un solo
momento - rispondeva la sposina piangendo e, rivolgendosi
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alle tre luci,“Ma come potete aiutarmi…Barbablù ha affilato
la scure e non riuscirò mai a sfuggirgli! Tutta colpa della
mia sciocca curiosità!”. “Calmati ora!” disse Ottilia
“Barbablù è solo un vecchio spauracchio, una comparsa di
seconda categoria! Questa storia della scure ci ha proprio
stancate! Devi sapere che se tu non fossi entrata in quello
stanzino oggi, lui avrebbe trovato un’altra scusa per poterti
eliminare, così come ha fatto con alcune di noi”. “Già”
incalzò Agata, “pensaci: non ha alcun senso che un uomo
uccida la moglie poiché lei ha disubbidito. Forse il tuo vero
errore è stato un altro…”. La giovane si asciugò gli occhi
dicendo: “Io non ero innamorata di Barbablù, ma i regali ed
il miraggio di una vita di agi mi hanno offuscato la vista…”.
Le tre luci brillarono un po’ più forte “Pensavo di far bene
anche per i miei fratelli” proseguì la giovane, “ma loro
sicuramente sono in grado di cavarsela da soli, e inoltre non
mi hanno certo chiesto di prendermi carico del loro
futuro…”. “Esatto! E a proposito di fratelli…” dissero in
coro Ottilia, Artemisia ed Agata, e veloci come lampi nel
cielo si diressero verso il bosco davanti al castello.
In quel momento si udirono i passi pesanti di Barbablù che
saliva le scale.
Egli spalancò la porta con un calcio, mentre la sposa
chiedeva un'ultima volta:
-Sorella Anna, vedi nessuno?
-Vedo…due cavalieri…Si, si, sono proprio i nostri fratelli!
Anna si strappo la sciarpa dalle spalle e incominciò da
agitarla dalla finestra facendo cenno ai due giovani di
affrettarsi.
Essi irruppero nel cortile e salirono i gradini a quattro a
quattro…
Appena in tempo, perché Barbablù aveva afferrato la sposa
per i capelli e stava trascinandola verso l'orribile stanzino.
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I giovani gli balzarono addosso con le spade sguainate, e un
attimo dopo egli giaceva a terra morto, mentre la sorella con
le mani ancora giunte sul cuore, non sapeva se ridere o
piangere. Solo la giovane sposa si accorse di tre luci brillanti
che avevano accompagnato i fratelli verso il castello e che
ora attendevano lo spirito di Barbablù per accompagnarlo
verso un altro mondo …
Poi quel terribile spavento passò, e anche Barbablù fu
dimenticato, come succede sempre ai cattivi.
La moglie ereditò tutti i suoi beni, e con quelli poté regalare
una dote alla sorella Anna che sposò un gentiluomo buono e
ricco; aiutò i due bravi fratelli a crearsi un avvenire; Infine
anche lei scelse un onesto e affettuoso marito che la consolò
di tutti i dispiaceri provati con Barbablù.
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IL PIFFERAIO MAGICO
Hamelin è una piccola e strana città della Prussia, arroccata
su un colle gaio e fiorito. Tutte le strade scendono di là
verso un ampio fiume.Vi fu un tempo in cui la gente qui
viveva senza pensieri.
Ma un brutto giorno avvenne una terribile invasione: topi,
topi ovunque... e così gagliardi da spaventare i gatti più
coraggiosi! Mordevano i neonati nelle culle, divoravano in
un battibaleno enormi forme di cacio, leccavano la salsa
sotto gli occhi delle cuoche, pappavano interi barili di
sardine e... fischiavano, stridevano cosi forte, da coprire
persino le chiacchiere delle donne. Fssch.....sgrr... ssch! Il
loro sibilo era in cinquanta e più toni, dai più gravi ai più
acuti.
Fu da allora che gli abitanti di Hamelin cominciarono ad
ispirare un' immensa pietà! Il sindaco, disperato, arrivò ad
offrire mille fiorini a chi fosse riuscito a liberare il paese da
un simile incubo.
Una mattina arrivò in città un forestiero: era secco e
allampanato, aveva negli occhi una luce strana e sul volto lo
stesso colore giallognolo del cielo di Hamelin in quella fosca
giornata di novembre.
I suoi occhi guizzavano come le fiammelle delle candele
quando vi si butta il sale e l'uomo misterioso si mise a
suonare. Ed ecco, alla terza nota, un rosicchio assordante
levarsi d'improvviso: grasc... crosc... grig... sgrr... e milioni e
milioni di topi riversarsi sulle strade. Sbucavano a frotte
dalle case, codine dritte e baffetti a punta, saltellando,
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ruzzolando, traballando, famiglie intere a dozzine, a
ventine; mogli e mariti, fratelli e sorelle, topi bianchi e neri,
grigi e rigati, grassi e magri, tutti dietro al pifferaio che
suonava e suonava facendo scorrere le lunghe dita nervose
sul suo magico strumento.
....Tutti dietro a quella musica che diceva pressappoco cosi "
O topi, il mondo non è che una grande credenza.. " e
somigliava al rumorino del cacio quando vien grattato, delle
mele mature pestate ben bene nel mortaio per ricavarne il
sidro, di vasi di conserva scoperchiati, di fiaschi di sciroppo
stappati, di barattoli di burro sfasciati .... E via e via fin
dentro le acque gelide del fiume, dove annegarono tutti
allegramente.
Che scampanio in città, che festa per le strade! Ora che
l'incubo era finito, la gioia di un tempo era tornata nei cuori
della gente di Hamelin.
Ed ecco, tra la folla, farsi largo il pifferaio - Sono venuto a
riscuotere i miei mille fiorini - disse senza esitazione. Il
Sindaco impallidì. - Mille fiorini? E dovrei sborsarli a quel
vagabondo? Già già - rispose beffardo - chi affoga non
risuscita... se volete un boccale di vino da bagnarvi la bocca,
non vi sarà negato, quanto ai mille fiorini, non era che una
burletta .... cinquanta saranno anche troppi!
- Giusto, giusto! - gridò la folla.
Un lampo di collera passò negli occhi del forestiero. Egli
non disse nulla e si allontanò, ma riapparve subito dopo
nella piazza principale. Allora sotto gli sguardi di una
piccola folla attonita, aggrinzò le labbra, soffiò dentro il
piffero magico e ne trasse tre dolcissime note....Subito un
brusio festoso, un batter di manine, un calpestio di
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zoccoletti, un rimbalzar di voci fresche echeggiò nella
piazza e.... decine, centinaia di bambini con le guancette
rosee e gli occhietti vispi, biondi e bruni, paffuti e
mingherlini, si misero in marcia dietro il pifferaio.
Invano padri e madri, balie e nutrici cercarono di trattenere
le loro creature, i loro piedi restavano incollati ai ciottoli
della piazza e le loro labbra non avevano voce...
Il pifferaio attraversò la città poi si volse. - Verso il fiume? domanderete voi. Ebbene no, questa volta si diresse dalla
parte opposta, verso la grande montagna. Giunto fin là, il
fianco del monte si apri ed egli vi entrò seguito da tutti i
bambini. Poi lentamente la parete si richiuse.
A nulla servì il pianto delle madri, che ogni giorno
raggiungevano la montagna e appoggiavano gli orecchi
contro la roccia per cercare di udire la voce dei loro
bambini....La montagna era fredda e silenziosa e non si
sarebbe riaperta mai più, se non fosse stato che le madri un
bel giorno finirono le loro lacrime e videro che la
disperazione non aveva riportato indietro il loro piccoli. –
Ma come è potuto accadere – disse una mamma – che
abbiamo lasciato che il dolore entrasse nella nostra cittadina
felice? – ; – E’ colpa dei topi! – disse una; – E’ tutta colpa di
quel vagabondo con gli occhi di brace! – disse un’altra, –
No, è tutta colpa del sindaco, che non lo ha voluto pagare! –
disse una terza – No è colpa della folla, che ha incitato il
sindaco a non pagare il vagabondo! – . E così videro che
nella folla urlante c’erano anche loro e la disperazione del
senso di colpa le invase. Fu in quel preciso istante che la
montagna compassionevole mandò un soffio leggero sulla
testa delle mamme e il vento dell’equanimità liberò i loro
pensieri. Perdonarono se stesse per non aver potuto
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trattenere i loro piccoli. Perdonarono il sindaco, spossato
dalle pressioni dei suoi cittadini, per non aver capito che
quell’uomo con gli occhi di brace non avrebbe portato nulla
di buono. Perdonarono il vagabondo, del quale non
conoscevano la storia, per essere stato catturato
dall’oscurità. Perdonarono i topi, spinti dall’istinto alla
sopravvivenza, per aver sconvolto la loro città. E così, come
se guardassero un riflesso su un lago tranquillo, videro che
ciascuno aveva la sua parte nell’accaduto, come sempre
succede nella vita. Il vento della montagna allora passò tra
le fronde degli alberi e qualche nota sottile vibrò nell’aria,
finché il rumore delle foglie, dei fili d’erba e dei tronchi
sfiorati dal vento non divenne una musica dolcissima e
luminosa. Voci di bimbi e rumore di piedini si unirono alla
musica e finalmente la porta di pietra si aprì ed ogni piccolo
riabbracciò la sua mamma, tra baci e lacrime di gioia.
Restava solo un bimbo che nessuno aveva mai visto, con gli
occhi limpidi come il mare, l’aria spaurita e nella manina un
piccolo flauto di legno. La moglie del sindaco lo prese con
se, e da quel giorno nella cittadina di Hamelin risuonò la
musica delicata e gioiosa di un piccolo flauto di legno.
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LA RICOTTINA
C'era una volta una contadinella che si chiamava Mariettina.
Un pastore le regalò una ricotta. La ragazzina, tutta
contenta, mise la ricottina in un cestello che si pose in testa e
si diresse al mercato. Strada facendo pensava: - Ora vado al
mercato, vendo la ricotta, con i soldi ricavati compro una
gallina che mi farà tante uova. Con i soldi ricavati comprerò
una coniglia che mi farà tanti coniglietti, poi li venderò e
comprerò un maiale che ingrasserò bene. Lo venderò e
comprerò una mucca che mi farà tanti vitellini e vendendoli
guadagnerò molti soldi. Mi comprerò tanti abiti eleganti e
una bella casetta con balconcino, così quando mi affaccerò,
tutti mi saluteranno con un inchino:
- Buongiorno signorina! Mariettina era tanto convinta che
un giorno si sarebbe trovata in quella situazione che, senza
accorgersene, fece un bell'inchino. Naturalmente la ricotta
che aveva sul capo cadde a terra e così Mariettina si trovò a
fissare a bocca aperta il bel disastro combinato. – Ma perché
sono stata così distratta? Caspita che bella occasione che ho
perso! Che ne sarà del mio balconcino, e dei miei bei vestiti?
– Mariettina si ricordò nel pronunciare quelle parole di una
frase che la sua nonna le ripeteva spesso: “Lo sai che il tuo
angelo custode è sempre vicino a te, vero Mariettina? Lui ti
parla sempre, solo che non usa la voce per farlo… ”. E così
cominciò a pensare che il suo Angelo sicuramente le voleva
dire qualcosa tramite quella ricotta finita in terra – Forse
avere molti bei vestiti e guadagnare molti soldi non è la
strada buona per me, e il mio Angelo ha voluto farmelo
capire così, visto che ho sempre la testa tra le nuvole! – si
diceva Mariettina. – Ma d’ora in poi avrò gli occhi bene
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aperti e non mi farò più scappare le parole non dette del
mio
Angelo – .
In quel momento passò di lì il pastore che aveva regalato la
ricotta a Mariettina. – Buongiorno signorina! Vedo che non
siete arrivata al mercato per vendere la ricotta, e vedo anche
che la ricotta non ha fatto una bella fine. Io sto andando giù
in città perché c’è un uomo buono che mi sta insegnando a
leggere e scrivere, se volete vi do un passaggio fino al
mercato, ho con me altre ricotte che potreste vendere –
Mariettina alla parola ‘scrivere’ aveva avuto un piccolo
sussulto e non ebbe dubbi che quello era il suo Angelo che
apriva le ali . “Scrivere … come mi piacerebbe imparare !
Certo con tutta la mia fantasia ne avrei di storie da
raccontare, e il mio Angelo mi suggerirebbe le parole giuste
da usare per rasserenare i cuori dei grandi e dei piccini”.
– Posso venire con voi? – Disse subito – Ma non per
vendere le ricotte, per imparare a scrivere! - E così senza
esitare un solo istante Mariettina saltò sul carretto del
pastore sapendo che il suo Angelo certamente sorrideva.
Dall’omonima fiaba popolare
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L'ABETE
C'era una volta nel bosco un piccolo abete, che avrebbe
dovuto essere molto contento della propria sorte: era bello, e
in ottima posizione; aveva sole e aria quanta mai ne potesse
desiderare, e amici più grandi di lui, pini ed abeti, che gli
stavan d'attorno a tenergli compagnia. Ma egli non aveva
che una smania sola: crescere. Non gli importava di sole
caldo nè di aria fresca; nè si curava dei contadinelli che gli
passavano dinanzi chiacchierando, quando venivano al
bosco in cerca di fragole e di more. Spesso, quando ne
avevano colto tutto un panierino, o quando avevan fatto
una coroncina di fragole, infilate su di una paglia, venivano
a sedere accanto al piccolo abete, e dicevano: «Com'è
grazioso, così piccolino!» - Ma all'abete quel complimento
poco garbava. L'anno appresso era cresciuto di un nodo
intero, e l'anno dopo ancora, di un altro; perchè negli abeti
dal numero dei nodi si può sempre dire il numero degli
anni che sono cresciuti.
«Oh, se fossi alto come quell'albero laggiù!» - sospirava
il piccolo abete: «Allora sì, che stenderei i miei bravi rami in
lungo e in largo, e dalla mia vetta guarderei per tutto il
mondo. Allora gli uccelli potrebbero fare il nido tra le mie
fronde, e, quando tira vento, potrei accennare a dondolarmi
superbamente anch'io come i grandi.»
Non trovava piacere nel calore del sole, negli uccellini,
nelle nuvole di porpora che passavano sul suo capo mattina
e sera. Tal volta, nell'inverno, quando la neve era sparsa per
tutto bianca e scintillante, una lepre veniva correndo a tutto
spiano, e saltava pari pari sopra l'abete. Oh, gli faceva una
rabbia... Ma gl'inverni passarono, uno dopo l'altro; e,
quando giunse il terzo, il piccolo abete era divenuto così
alto, che la lepre fu obbligata in vece a girargli attorno.
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«Oh, crescere, crescere, divenir grandi, divenir vecchi!
Ecco la sola cosa bella di questo mondo! - pensava il piccolo
abete. Ogni autunno solevano venire i taglialegna a segare
gli alberi più alti; e così fecero anche quell'anno. Il piccolo
abete, che oramai si era fatto bello alto, rabbrividiva dallo
spavento, perchè i grandi alberi maestosi piombavano a
terra con fracasso; e poi avevan mozzati tutti i rami, così che
rimanevano nudi, lunghi e sottili, da non riconoscerli
nemmeno più. E poi erano caricati sui barocci, e i cavalli li
trascinavano fuori dal bosco. Dove andavano? che destino li
aspettava? A primavera, quando venivano le rondini e la
cicogna, l'alberello domandava loro: «Sapete dove li abbiano
portati? Non li avete incontrati per via?»
Le rondini nulla ne sapevano; ma la cicogna, fatta
pensosa, scrollava il capo e diceva:
«Sì, credo di saperne qualche cosa. Ho incontrato molti
bastimenti nuovi, tornando dall'Egitto; e i bastimenti
avevano certi alberi alti... M'immagino che fossero quelli.
Odoravano di pino. Posso darti la mia parola ch'erano
maestosi, molto maestosi.»
«Oh, se fossi grande abbastanza da andar per mare!
Che roba è questo mare? A che somiglia?»
«Sarebbe troppo lungo a spiegare...» - e la cicogna se ne
andava per i fatti suoi.
«Godi la tua gioventù,» - dicevano i raggi di sole:
«Rallegrati della tua nuova altezza, della vita giovanile che è
dentro di te.»
E il vento baciava l'alberello, e la rugiada lo bagnava di
lacrime; ma il piccolo abete non comprendeva.
All'avvicinarsi del Natale, furono tagliati certi abeti giovani
giovani, taluni anche più giovani e più bassi del nostro
alberello, il quale era in continua agitazione, dalla gran
voglia che aveva di andarsene. Questi piccoli alberi, ed
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erano per l'appunto i più belli, si caricavano intatti, con tutti
i loro rami, sopra i barocci, per portarli fuori del bosco.
«Ma dove vanno tutti?» - domandava l'abete: «Non
sono più alti di me; uno, anzi, era molto più piccino. E
perchè a questi non tagliano i rami? Dove li portano?»
«Noi sì, che lo sappiamo! Noi sì, noi sì!» - pigolarono i
passeri. «Laggiù, in città, noi guardiamo dentro dalle
finestre. Noi sì, sappiamo dove li portano, noi sì! Oh
bisogna vedere come li rivestono, con che lusso, con che
splendore! Abbiamo guardato dentro dalle finestre, ed
abbiamo veduto come li piantino nel mezzo della stanza
calda e li adornino delle cose più belle - mele dorate, noci,
dolci, balocchi, e centinaia e centinaia di candeline colorate.»
«E poi? e poi?» domandava l'abete, e tremava persino,
dalla vetta alle radici, per la grande ansietà: «E poi? che cosa
avviene poi?»
«Poi? non abbiamo veduto altro. Ah, ma era una
bellezza!»
«Chi sa ch'io non sia destinato un giorno ad una simile
gloria?» - gridò l'albero allegramente: «È ancora meglio che
viaggiar per mare. Ah, che struggimento! Vorrei che fosse
oggi Natale! Oramai sono grande e grosso come quelli che
furono menati via l'anno passato. Ah, mi par mill'anni
d'essere sul baroccio! Mi par mill'anni d'essere nella stanza
calda, tra tutta quella pompa, tra quello splendore! E poi?
Già, deve poi venire qualche cosa di più bello ancora: se no,
perchè mi adornerebbero a quel modo? deve venire poi una
grandezza, una gloria anche maggiore; ma quale? Oh, che
struggimento, che struggimento! Non so nemmen io che
cos'abbia per soffrire così!»
«Gioisci e contentati di noi!» - dicevano l'aria e il sole:
«Rallegrati della tua fresca giovinezza nella foresta!»
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Ma l'abete non si rallegrava punto: non faceva che
crescere e crescere, inverno e estate, sempre più verde, d'un
bel verde cupo. La gente diceva: «Che bell'albero!» - e, a
Natale, fu tagliato prima di tutti gli altri. L'ascia andò
profonda, sino al midollo, e l'albero cadde a terra con un
sospiro; provava un dolore, una sensazione di sfinimento,
non poteva davvero pensare a felicità: è così triste lasciare il
posto dove si è nati e cresciuti... Sapeva che non avrebbe
rivisti mai più i vecchi compagni, i piccoli cespugli ed i fiori
ch'erano lì attorno - nemmeno gli uccelli, forse... Ah, il
distacco fu tutt'altro che lieto! L'albero non tornò in sè che
quando fu scaricato in un cortile insieme con molti altri, e
sentì dire:
«Questo sì, ch'è magnifico: non voglio vederne altri.
Prendiamo questo.»
Vennero due domestici in livrea gallonata, e portarono
l'albero in una grande splendida sala. Le pareti erano tutte
coperte di quadri, e presso una enorme stufa stavano due
vasi della Cina con due leoni dorati sul coperchio: c'erano
due poltrone a dondolo, e divani di broccato, e grandi
tavole cariche di bei libri con le figure; e balocchi che
valevano cento volte cento lire - almeno, così dicevano i
bambini. E l'abete fu posto in un grande mastello pieno di
sabbia; ma nessuno avrebbe detto che fosse un mastello,
perchè era stato ricoperto di stoffa verde, e collocato nel
mezzo d'un bel tappeto a colori. Ah, come tremava, ora, il
nostro abete! Che sarebbe accaduto? I domestici, ed anche le
signorine di casa, incominciarono ad ornarlo. Ad un ramo
appesero tante piccole reti intagliate nella carta colorata, ed
ogni rete era piena di dolci; noci e mele dorate pendevano
qua e là, che parevano nate sull'albero; e più di cento
candeline, bianche, rosse e verdi, erano attaccate ai rami.
Bambole, che sembravan vive - l'abete non ne aveva mai
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vedute, di simili, prima d'allora, - si dondolavano tra mezzo
al fogliame; e su in alto, sulla vetta dell'albero, era
inchiodata una stella di similoro. Insomma, una bellezza,
come non se ne vedono.
«Questa sera,» - dicevan tutti: «Questa sera ha da esser
bello, tutto illuminato!»
«Ah!» - pensava l'albero: «Mi par mill'anni che venga
sera, e che i lumicini sien tutti accesi! Quando sarà? Son
curioso di sapere se gli alberi verranno dal bosco per
vedermi! E i passeri? Chi sa se voleranno contro ai vetri
delle finestre? Chi sa come crescerò, qui, tutto adorno così,
estate e inverno!»
Sì, l'aveva per l'appunto inzeccata! Ma, a forza di
allungare la vetta e di struggersi dal desiderio, s'era buscato
un fortissimo mal di tronco; ed il mal di tronco è cattivo per
gli alberi, come il mal di capo per gli uomini. Finalmente le
candeline furono accese. Che luccichìo! Che bellezza!
L'albero tremava tanto, per tutti i rami, che una delle
candele appiccò il fuoco ad un ramoscello verde, il quale
n'ebbe una buona sbucciatura.
«Per amor di Dio!» - gridarono le signorine, e si
precipitarono a spegnere il fuoco.
Ora l'albero non osava più nemmeno tremare. Ah, che
spavento! Stava fermo fermo per non dar fuoco a qualcuno
de' suoi bei gingilli... E poi, tutti quei lumi lo stordivano. In
quella le porte del salotto furono spalancate, ed una frotta di
bimbi irruppe correndo, come se volessero rovesciare
l'albero ed ogni cosa: i grandi li seguirono, con più calma. I
piccini rimasero muti, a bocca aperta... oh, ma per un
minuto soltanto: poi, principiarono a fare un chiasso così
indiavolato, che la stanza ne rimbombava; e si misero a
ballare rumorosamente intorno all'albero, e tutti i regali
furono colti dai rami, uno dopo l'altro.
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«Che fanno?» - pensava l'albero: «Ed ora, che cosa
accadrà?»
Le candele andavano consumandosi, e quando erano
tutte bruciate, sino al ramo, si spegnevano. Dopo che furono
spente, fu permesso ai bambini di spogliare l'albero. Ah, ci
si avventarono sopra con una furia, che tutti i rami
scricchiolarono. Se la vetta non fosse stata assicurata al
soffitto per mezzo della stellina di similoro, sarebbe certo
caduto a terra.
I bambini ballavano per la stanza con i bei balocchi
nuovi. Nessuno guardava più l'albero, all'infuori della
vecchia bambinaia, che gli si accostò e spiò tra i rami; ma
soltanto per vedere se mai un fico od una mela vi fosse
rimasta dimenticata.
«Una novella! una novella!» - gridarono i bambini, e
strascinavano verso l'albero un piccolo signore grasso; ed
egli vi si sedette sotto: «Così saremo in un bel bosco verde,»
- disse; «e l'albero avrà la fortuna di sentire la novella. Ma
non ve ne posso raccontare che una sola. Volete quella di
Ivede-Avede, oppure quella di Zucchettino-Durettino, che
cadde giù dallo scalino, ma poi tornò su, e fu rimesso in
onore e sposò la Principessa?»
«Ivede-Avede!» - gridarono alcuni. «ZucchettinoDurettino!» - urlarono gli altri; e ci furono strilli e ci furono
anche pianti. L'abete solo rimaneva zitto zitto e pensava: «O
io? Che non ci abbia ad entrare?» Ma egli aveva avuto la sua
parte nei divertimenti della serata, ed aveva dato, oramai,
quello che da lui si voleva.
E il signore grasso raccontò di Zucchettino, che era
caduto giù dallo scalino, ma poi era salito ai più alti onori ed
aveva sposato la Principessa. E i bambini batterono le mani
e gridarono: «Un'altra! un'altra! Raccontane un'altra!»
perchè ora volevano la novella di Ivede-Avede; ma
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dovettero accontentarsi di quella di Zucchettino. L'abete se
ne stava zitto zitto, tutto pensieroso: mai gli uccelli del
bosco avevano raccontato una storia simile. «Zucchettino
era caduto, e pure era tornato in onore, ed aveva sposato la
Principessa! Sì, così accade nel mondo!» - pensava l'abete, e
credeva che fosse tutto vero verissimo: quegli che aveva
raccontato la storia era un signore così per bene!...
«Dopo tutto, chi può dire mai nulla? Forse che anch'io
cadrò, e poi sposerò una Principessa!» Ed in tanto si
rallegrava tutto al pensiero d'essere adornato di nuovo, la
sera dopo, con tanti lumicini e tanti balocchi, e frutta e
lustrini: «Domani non tremerò mica più!» - pensava: «Sarò,
in vece, tutto felice del mio splendore. Domani, sentirò di
nuovo la storia di Zucchettino-Durettino, e forse, chi sa?
imparerò anche quell'altra, di Ivede-Avede...»
E l'albero rimase fermo tutta la notte, a pensare. La
mattina entrarono i domestici e la cameriera.
«Ecco che ora ricomincia il mio splendore!» - pensò
l'albero. Ma, in vece, fu portato fuori del salotto, e su per la
scala, sin nel solaio, in un angolo buio, dove nemmeno
arrivava un raggio di sole.
«Che significa questa faccenda?» - pensò l'albero: «Che
vogliono che faccia qui ? Ed ora, che cosa accadrà?»
E si appoggiò al muro, e stette lì a pensare, a pensare. E
tempo n'ebbe sin troppo, perchè passarono i giorni e le
notti, e mai che venisse alcuno; e quando finalmente uno
capitò, non fu se non per deporre in un angolo certe grandi
casse. Così l'albero rimaneva ora del tutto nascosto:
probabilmente, lo avevano dimenticato.
«Fuori è inverno, ora» - pensava l'albero: «la terra è
dura e coperta di neve, e non potrebbero piantarmi; sarà per
questo che mi tengono qui al riparo sin che non torni la
primavera. Quanti riguardi! Che buona gente! Ah, se non
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fosse questo buio e questa terribile solitudine!.... Mai che si
veda nemmeno un leprattino! Era bello, però, il bosco,
quando c'era la neve alta, e la lepre passava correndo; sì,
anche quando mi passava sopra d'un salto... Allora, mi
faceva arrabbiare... Che malinconia in questa solitudine!»
«Piip, piip!» - disse a un tratto un topolino, e fece
qualche passo avanti; e poi ne venne subito un altro,
piccolino piccolino. Fiutarono l'abete, e si ficcarono tra
mezzo ai rami.
«Fa tanto freddo...» - dissero i due topolini: «Se non
fosse freddo, si starebbe abbastanza comodi quassù; non le
pare, vecchio abete?»
«Non son punto vecchio,» - disse l'abete: «Ce ne sono
molti e molti più vecchi di me.»
«Di dove viene?» - domandarono i topolini «E che
nuove porta?» (Erano terribilmente curiosi.) «Ci racconti, la
prego, del più bel paese del mondo. C'è stato lei? È stato
nella dispensa, dove ci sono i formaggi sopra gli scaffali, e i
prosciutti pendono dalla travatura, dove si può ballare sui
pacchi di candele, dove si va dentro magri e si esce grassi
grassi?»
«Non conosco questo paese;» - rispose l'abete: «Ma
conosco il bosco, dove il sole splende e gli uccelli cantano.»
E allora raccontò del tempo della sua giovinezza.
I topolini, che non avevano mai udito nulla di simile,
stavano attenti; poi dissero: «Quante cose ha vedute lei,
signor abete, e come dev'essere stato felice!»
«Io?» - esclamò l'abete, e ripensò a tutto quello che
aveva raccontato: «Sì, davvero che quelli erano tempi felici!»
Ma poi raccontò della sera di Natale, quand'era tutto carico
di dolci e di candeline.
«Oh!» - disse il topo più piccino: «Come dev'essere stato
felice lei, nonno abete!»
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«Ma non sono nonno, non sono vecchio io!» - disse
l'abete: «Sono uscito dal bosco appena quest'inverno. Sono
nel fiore dell'età; gli è soltanto che sono cresciuto un po' in
fretta.»
«Che magnifiche novelle sa raccontare lei!» - disse il
topolino.
E la notte dopo, vennero con altri quattro topolini a
sentire quello che l'albero sapeva raccontare così bene; e più
raccontava, e più chiaro gli si riaffacciava il ricordo di tutto,
e pensava: «Quelli erano tempi lieti! Ma possono tornare.
Anche Zucchettino-Durettino cadde dallo scalino, ma poi
sposò la Principessina.» E allora l'abete ripensò ad una
graziosa betulla, che cresceva nella foresta; per l'abete,
quell'alberella era una vera Principessa.
«Chi è Zucchettino-Durettino?» - domandò il topo più
piccolo.
L'abete gliene raccontò tutta la storia. La ricordava
parola per parola; e i topolini, dalla gioia, per poco non gli
saltarono sino in vetta. La notte dopo, vennero addirittura
in frotta; e la domenica comparvero persino due ratti; ma
questi dissero che la storia non era bella, e ai topolini ciò
rincrebbe, perchè ora non piaceva più tanto nemmeno a
loro.
«Non ne sa altre, novelle?» - domandarono i ratti.
«Non so che questa;» - rispose l'albero: «La udii nella
più bella serata della mia vita: non sapevo, allora, quanto
fossi felice.»
«È una storia molto meschina. Non ne sa una di
prosciutti e di candele di sego? non sa storielle di
dispensa?» «No,» - disse l'albero.
«E allora, servi devoti!» - dissero i ratti; e tornarono alle
loro famiglie. Anche i topolini alla fine se ne andarono; e
l'abete sospirò, e disse: «Era bello, però, quando mi stavano
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tutti attorno, quei cari topolini così allegri, ed ascoltavano i
miei racconti. Ora, è finita anche questa. Ma mi ricorderò di
essere contento quando mi levano di qui». Quando lo
levarono? Mah! Fu una mattina che la gente di casa venne
su a frugare per tutto il solaio: le grandi casse furono
scostate, e l'albero fu scovato fuori: veramente, lo buttarono
a terra con certo mal garbo; ma poi un domestico lo
strascinò subito sulla scala, alla luce del giorno. «Ah! la vita
ricomincia!» - pensò l'abete.
Sentì la prima aria fresca, i primi raggi di sole, e si trovò
fuori, in un cortile. Tutto ciò era accaduto così rapidamente,
che l'albero aveva dimenticato di guardare a se stesso: c'era
tanto da guardare intorno a lui!... Il cortile confinava con un
giardino; e nel giardino, tutto era in fiore: le rose pendevano
fresche e profumate al disopra del piccolo steccato; i gigli
erano in piena fioritura, e le rondini gridavano «Videvit!
Videvit! Viene mio marito-marit!» Ma non intendevano già
con questo di parlare dell'abete.
«Ora sì, che vivrò!» - disse l'abete tutto allegro, e distese
un po' più le braccia... Ma, ahimè! Erano tutte secche e
gialle; ed egli si vide buttato là, in un angolo, tra le ortiche e
le male erbacce. Sulla vetta aveva ancora la stella di
similoro, che scintillava al sole. Nel cortile giocavano due di
quegli allegri fanciulli che avevano ballato intorno all'albero
la sera di Natale, e lo avevano tanto ammirato. Il più piccino
corse a strappargli la stellina dorata. «Guarda che cosa c'è
attaccato a quel brutto alberaccio!» - disse il bambino; e
calpestò le rame, che scricchiolarono sotto alle sue scarpette.
L'albero guardò a tutti i fiori lussureggianti, a tutti gli
splendori del giardino, e poi guardò a se stesso, e gli dolse
di non essere rimasto nell'angolo buio del solaio: ripensò
alla sua fresca giovinezza nel bosco; alla lieta notte di
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Natale; ai topolini, che avevano ascoltato con tanto piacere
la novella di Zucchettino.
«È finita! è finita!» - disse il vecchio albero: «Almeno
avessi goduto quando potevo! È finita, finita, finita!» Venne
un domestico, segò l'albero in pezzi, e ne fece una fascina.
La fascina mandò una bella fiamma sotto la caldaia che
bolliva, e sospirò profondamente; ed ogni sospiro era come
un lieve scoppiettìo. I bambini, che giocavano lì attorno,
corsero a mettersi dinanzi al fuoco; e guardavano, e
facevano: «Puff Puff!» Ma ad ognuno di quegli scoppiettii,
che era un profondo sospiro, l'albero pensava ad una bella
giornata d'estate nel bosco, o ad una notte d'inverno,
quando le stelle scintillavano sopra gli abeti; pensava alla
sera di Natale ed alla novella di Zucchettino, l'unica novella
che avesse mai sentita, l'unica che avesse mai saputo
raccontare... E finalmente, l'abete fu tutto finito di bruciare.
Poco dopo i bambini giocavano nel giardino, ed il più
piccolo aveva appuntata sul petto una stella dorata, proprio
quella che l'abete aveva portata nella più bella serata della
sua vita. Era finita, ora: finita la vita dell'albero, e finita
anche la novella: finita, finita, finita, come accade di tutte le
novelle. Finita, e iniziata di nuovo, come accade nella vita,
in cui tutto si trasforma. La cenere del camino fu portata via
dal vento e arrivò proprio in un bosco, dove l'acqua della
pioggia la sciolse nel terreno. I sospiri dell'abete che
bruciava la seguirono, e lo spirito dell'abete tornò a casa, nel
bosco, a mescolarsi col vento che accarezzava i giovani
abeti....E diceva:"Non abbiate fretta di crescere, ma
apprezzate ogni momento come fosse il più importante
della vostra vita....E non desiderate le luci della città: le
stelle mandano una luce mille volte più radiosa..."
Dall' originale di Hans Christian Andersen
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L'INTREPIDO SOLDATINO DI STAGNO
C'erano una volta venticinque soldatini tutti fratelli,
perchè tutti fusi fuor dallo stesso vecchio cucchiaio di
stagno. Avevano il fucile in ispalla, la divisa rossa e
turchina, proprio bella, e tutti guardavano diritto dinanzi a
sè. La prima cosa che udirono al mondo, quando fu tolto il
coperchio della scatola, fu il grido: «Soldatini di stagno!»
Chi aveva gridato così, battendo le mani, era un ragazzo, e i
soldatini gli erano stati regalati per il suo natalizio. Egli li
mise tutti sulla tavola: ogni soldato era identico agli altri;
soltanto, per quello che era stato fuso l'ultimo, non era
rimasto stagno abbastanza, e così gli era venuta una gamba
sola; ma egli stava altrettanto saldo sull'unica gamba,
quanto gli altri, che ne avevano due; e fu appunto questo
soldatino che si distinse.
Sulla tavola, sulla quale si trovavano, c'erano molti altri
balocchi; ma quello che più attirava lo sguardo era un
grazioso castello di cartone. A traverso alle piccole finestre,
si poteva vedere dentro, nella sala. Dinanzi al castello, certi
alberelli erano piantati attorno ad un pezzettino di specchio,
che doveva raffigurare un limpido lago; e sul lago
nuotavano specchiandosi alcuni piccoli cigni di cera. Tutto
questo era molto bellino; il più bello di tutto, però, era una
piccola signora, ritta vicino al portone aperto del castello;
anch'essa di cartone, ma con un vestito di velo leggerissimo,
ed un sottile nastrino azzurro sulle spalle, posto a mo' di
sciarpa: nel mezzo del nastro era appuntata una stellina
lucente, grande come tutto il suo viso. La signora
arrotondava con grazia le braccia al di sopra del capo,
perchè era una ballerina, e teneva un piede così alto, per
aria, che il soldato, non vedendolo, credette che anche lei
avesse una gamba sola.
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«Quella mi andrebbe bene per moglie!» - pensò: «Ma è
troppa aristocratica per me: abita un castello, ed io non ho
che una scatola, che debbo dividere con altri ventiquattro
compagni: non sarebbe casa per lei. Voglio vedere, però, se
mi riesce di fare la sua conoscenza.» - E si distese quant'era
lungo dietro ad una tabacchiera, che stava anch'essa sulla
tavola. Di lì poteva osservare comodamente la bella
donnina, che non si stancava mai di starsene ritta su una
gamba sola, senza mai perdere l'equilibrio.
Venuta la sera, gli altri soldatini di stagno furono
riposti nella loro scatola, e quelli di casa andarono a letto.
Allora i balocchi incominciarono a giocare per conto loro: un
po' facevano è arrivato l'ambasciatore, un po' il lupo e le pecore,
o la festa da ballo. I soldati strepitavano dentro alla scatola,
perchè avrebbero voluto unirsi anch'essi al gioco, ma non
riuscivano a sollevare il coperchio. Lo schiaccianoci faceva
le tombole, e la pietra romana si sbizzarriva in mille
ghirigori sulla lavagna. Fecero un chiasso tale, che il
canarino si destò ed unì il suo canto all'allegria generale, ma
sempre in versi però. I soli che non si mossero dal posto
furono il soldatino e la ballerina. Essa rimase ritta come un
cero sulla punta d'un piede, con le braccia levate al di sopra
del capo; egli, altrettanto imperterrito sull'unica gamba, non
le tolse un istante gli occhi di dosso.
Battè la mezzanotte, e tac!... saltò il coperchio della
tabacchiera; ma non c'era tabacco dentro, c'era un diavolino
nero, perchè era un balocco a sorpresa.
«Soldatino,» - disse il diavolo nero: «A forza di
guardare, ti consumerai gli occhi!»
Ma il soldatino fece come se non avesse udito.
«Sì, aspetta domani, caro!» - ammonì il diavolino.
Quando venne il mattino e i fanciulli si alzarono, il
soldatino di stagno fu posato sul davanzale della finestra, e,
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fosse il diavolo nero od un colpo di vento, la finestra si
spalancò a un tratto, e il soldatino precipitò dal terzo piano
a capofitto nel vuoto. Fu una tombola tremenda: tese l'unica
gamba all'aria, e rimase a baionetta in giù, con l'elmo fitto
tra le pietre del selciato.
La domestica ed il ragazzino corsero subito giù a
cercarlo; gli andarono vicino che quasi lo pestavano, e pure
non riuscirono a vederlo. Se il soldatino avesse gridato:
«Eccomi qui!» - l'avrebbero subito raccattato; ma, essendo in
divisa, non gli parve decoroso mettersi a gridare.
Incominciò a piovere; i goccioloni, radi da prima, si
fecero sempre più fitti, sin che venne un vero acquazzone.
Quando spiovve, capitarono due monelli.
«Guarda, guarda!» - esclamò l'uno: «Un soldatino di
stagno! Facciamolo andare a vela!»
Fecero una barchetta con un pezzo di giornale, ci
misero il soldato e lo vararono nel rigagnolo della via. I due
ragazzi gli correvano appresso battendo le mani. Cielo,
aiutami! Che onde c'erano in quel rigagnolo e che corrente
terribile! La pioggia doveva proprio esser caduta a torrenti!
La barchetta di carta beccheggiava forte forte, e tal volta
girava così rapidamente, che il soldato sussultava. Ma
rimaneva intrepido, però, nè mutava colore; guardava
sempre fisso davanti a sè e teneva il fucile in ispalla.
Improvvisamente, la barca scivolò in un tombino; e lì
poi era buio pesto, come nella sua scatola.
«Dove sarò mai capitato?» - pensava: «Sì, sì, quest'è
tutta opera del diavolo nero. Ah, se ci fosse qui, nella
barchetta, la donnina del castello, mi sentirei tutto
consolato, per buio che fosse!»
In quella, sbucò un vecchio ratto, che nel tombino aveva
la sua casa.
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«Hai il passaporto?» - domandò il ratto: «Fuori il
passaporto!»
Ma il soldato rimase muto e si contentò di tener l'arma
ancora più salda. La barchetta seguitava, e il ratto dietro.
Uh! come digrignava i denti, e come gridava a tutti i fuscelli,
a tutte le pagliuzze: «Fermatelo! fermatelo! Non ha pagato
pedaggio, non ha presentato passaporto!»
La corrente divenne sempre più forte: il soldatino
incominciava a veder chiaro già prima d'essere fuori del
tombino; ma, proprio nel medesimo tempo, sentì uno
scroscio tale, che avrebbe fatto tremare anche il cuore
dell'uomo più valoroso. Figuratevi che il rigagnolo, appena
fuori di quel passaggio, si buttava in un largo canale con un
salto altrettanto pericoloso per la barchetta quanto sarebbe
per noi la cascata del Niagara.
Oramai, il pericolo era così vicino, che egli non poteva
più evitarlo. La barchetta precipitò; il povero soldatino si
tenne ritto, alla meglio, perchè nessuno potesse dire d'averlo
nemmeno veduto batter palpebra. La barca girò su se stessa
tre o quattro volte, si riempì d'acqua sino all'orlo, sì ch'era
sul punto di calare al fondo: il soldato era nell'acqua sino al
collo, e la barca sprofondava sempre più giù, sempre più
giù: la carta inzuppata era lì per isfasciarsi: già l'acqua si
richiudeva sopra il capo del soldato... Egli pensò allora alla
graziosa ballerina, che non avrebbe mai più riveduto, e un
ritornello gli risonò agli orecchi:
Soldato, dove vai?
La morte incontrerai!
La carta si lacerò ed il soldato cadde di sotto; ma
proprio in quel momento, un grosso pesce lo inghiottì.
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Allora sì, che si trovò al buio davvero! Si stava ben
peggio lì che nel tombino, e pigiati poi... Ma il soldato
rimase imperterrito, e, anche così lungo disteso, mantenne
pur sempre il fucile in ispalla.
Il pesce non si chetava un momento: correva qua e là
con certi guizzi terribili; alla fine, si fermò e parve traversato
come da un baleno: e allora qualcuno gridò forte: «Oh! il
soldato di stagno!»
Il pesce era stato pescato, e poi portato al mercato e
venduto, ed era capitato in cucina, dove la cuoca l'aveva
aperto con un grande coltello.
Allora la cuoca prese il soldato con due dita a traverso il
corpo e lo portò in salotto dove tutti vollero vedere
quest'uomo meraviglioso, che aveva viaggiato nel ventre
d'un pesce. Ma non per questo egli mise superbia: fu posto
sulla tavola, e là... - Davvero che in questo mondo si danno
certi casi meravigliosi!... - Il soldatino di stagno si trovò per
l'appunto nello stesso identico salotto di dov'era partito, si
vide attorno gli stessi bambini, e vide sulla tavola, tra gli
stessi balocchi, lo splendido castello con la bella ballerina,
che se ne stava sempre ritta sulla punta di un piede ed
alzava l'altro per aria, intrepida anche lei. Il nostro soldatino
ne fu tanto commosso, che avrebbe pianto lacrime di stagno,
se non gli fosse parso vergogna. Egli la guardò, ed essa
guardò lui, ma non si dissero nulla.
A un tratto, uno dei bambini più piccini afferrò il
soldato e lo gettò nella stufa, così, proprio senza un perchè
al mondo. Anche di ciò doveva aver colpa il diavolo nero
della scatola.
Il soldatino si trovò tutto illuminato e sentì un terribile
calore: egli stesso non riusciva a distinguere se fosse il fuoco
vero e proprio, o l'immenso, ardente suo amore. Non gli era
rimasto più un briciolo di colore: fosse poi conseguenza del
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viaggio o delle emozioni nessuno avrebbe potuto dire. La
ballerina lo guardava ed egli guardava lei; e si sentiva
struggere, ma rimaneva imperterrito, col fucile in ispalla. In
quella, una porta si spalancò; il vento investì la signorina, ed
essa, volando come una silfide, andò proprio difilata nel
caminetto presso il soldato: una vivida fiamma... e poi, più
nulla. Il soldato si strusse sino a diventare un mucchietto
informe, e il giorno dopo, quando la domestica venne a
portar via la cenere, lo trovò ridotto come un cuoricino di
stagno. Della bambolina non rimaneva altro che la piccola
stella, ma tutta bruciata, nera come il carbone.
"Vedi cosa hai fatto?" Disse la sorella del bambino, che
cercava nel camino il soldatino e la ballerina. "Adesso sai
che, anche se il divaolo ti consigliò di far morire quelo
valoroso soldatino, non riusciì però ad uccidere il suo
amore... L'amore del soldato e della ballerina non è bruciato:
è ancora qui, in questa casa, a guidare le tue mani a fare un
bel disegno, che appenderemo sopra il camino....Un soldato
e una ballerina, che viaggiano per il mondo nella loro
barchetta...."
Dall'originale di Hans Christian Andersen
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JACK E IL FAGIOLO MAGICO
In una casetta di pietra vivevano, molti e poi molti anni fa,
una povera vedova e il suo unico figlio, che si chiamava
Giacomino. Non possedevano che una mucca. La mucca
dava loro ogni giorno una certa quantità di latte, e con la
vendita del latte i due campavano, seppure miseramente.
Ma la mucca invecchiava, e allora la vedova l'affidò al figlio
perché la portasse al mercato, dove avrebbe potuto
venderla.
Lungo la strada, Giacomino s'imbatté in un viandante, un
tipo curioso, che propose al giovane un baratto.
"Stammi bene a sentire", disse. "Se mi dai la tua mucca, io in
cambio ti do cinque fagioli magici. Decidi".
Giacomino ci rifletté su un bel po'. Non sapeva come
comportarsi. Alla fine, attratto dalla supposta magia di quei
fagioli, accettò: cedette la mucca ed ebbe i fagioli.
Giunto a casa, la madre si mise le mani nei capelli.
"Ma tu sei ammattito, figlio mio! E adesso con che cosa
vivremo? Con i soldi avremmo comperato una mucca
giovane, che ci avrebbe dato del buon latte fresco. Così
invece siamo alla fame. Sciagurato ragazzo, non dovevo
fidarmi di te!".
Incollerita, la donna afferrò i cinque fagioli e li fece volare
fuori dalla finestra. Poi entrambi andarono a dormire, senza
nemmeno cenare.
L'indomani, non appena Giacomino, alzatosi, andò alla
finestra, scorse, nel punto in cui erano stati gettati i fagioli,
una pianta gigantesca. Un fagiolo così alto che non se ne
vedeva la cima.
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"Allora quei fagioli erano magici davvero", pensò, "se in una
sola notte hanno fatto crescere questa pianta smisurata.
Voglio arrampicarmi per andare a vedere fin dove arriva".
Trovatosi al di sopra delle nuvole, Giacomino dette uno
sguardo attorno, e vide un castello. Con precauzione si
staccò dalla pianta, constatò che le nuvole reggevano il suo
peso, procedendo su di esse si diresse al castello e vi entrò.
Mettevano un po' di paura l'androne, gli scaloni, le sale.
Mentre egli s'incuriosiva nell'immaginare chi ne fosse il
proprietario, si sentì dire da un vocione: "E tu che sei venuto
a fare, qui? Chi sei?".
"Mi sono perso", mentì Giacomino, "ed è da ieri che non
mangio. Sapeste che fame che ho!".
Il vocione apparteneva alla padrona di casa, che era
un'orchessa, cioè la moglie d'un orco. Ma, mentre l'orco era
un violento, lei era mite, e provò simpatia per il ragazzo che
le stava di fronte.
Perciò si dette da fare: offrì a Giacomino del latte caldo, e
dei buoni dolcetti con lo zucchero sopra. Ma ecco che,
all'improvviso, la casa rintronò, e si udirono dei passi
pesanti come quelli d'un elefante.
"Presto, nasconditi, è l'orco che sta arrivando", disse il
donnone.
Mentre Giacomino trovava un rifugio, l'orco entrò dalla
porta, mettendosi di traverso, sennò non ci sarebbe passato.
Poi si stese su una poltrona larga quattro metri. Annusò, e
sentì profumo di carne umana.
"Ci dev'essere un bambino, in questa casa", sbottò.
Dal forno dove si era rifugiato, Giacomino tremava di
paura.
"Un bambino?", finse di stupirsi l'orchessa. "Tu straluni ogni
giorno di più. Di che bambini e bambini vai cianciando? Stai
diventando vecchio, mio caro". E intanto, per distrarre il
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consorte, gli mise davanti la cena, che consisteva in un
capretto e in un barilotto di vino.
Saziatosi, l'orco cominciò a contare monete d'oro, cavandole
da due sacchi. Zecchini, marenghi, fiorini. Un vero tesoro.
Conta e riconta, alla fine si addormentò.
Allora Giacomino sgusciò dal forno, e riempì un sacchetto
di quelle monete. Poi tornò al fagiolo che lo aveva fatto
salire fin là, vi si abbrancò e prese a discendere.
"Meno male che l'orchessa era andata a prepararsi il letto",
pensava. "Altrimenti come avrei potuto fuggire, per di più
con tutto questo denaro?".
Ai piedi della pianta, ecco la madre di Giacomino,
piangente e preoccupata per l'assenza del figlio.
"Dove sei stato, dove? Vuoi proprio farmi morire
d'angoscia?".
"Sono stato dove mi ha portato la pianta cresciuta dai fagioli
magici. Ci credi, adesso, che erano magici?". E le mise
davanti il bel gruzzolo sottratto nella casa dell'orco.
Con quelle monete, madre e figlio vissero finalmente senza
problemi, almeno per un bel po'.
Ma anche se erano tante, le monete finirono. Perciò
Giacomino decise di tornare ad arrampicarsi sul fagiolo,
raggiungere il castello dell'orco e prenderne altre. Per non
farsi scorgere dall'orchessa, di nuovo trovò rifugio nel forno.
Risuonarono fragorosi i passi dell'orco che, appena entrato,
fiutò l'aria e fiutò la presenza d'un bambino.
E di nuovo la moglie a dirgli: "Ma è proprio una fissazione!
Tu straluni sempre peggio. Bisognerà chiamare il medico,
un giorno o l'altro".
Lo diceva convinta, l'orchessa, perché non aveva visto
nessun forestiero da quelle parti. Così convinta, che l'orco si
tranquillizzò e, cavatosi dall'enorme tasca del giaccone una
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gallina, si dette ad accarezzarla. Sotto quelle carezze, la
gallina si accovacciò e fece, seduta stante, due uova d'oro.
"Se ce la faccio, me la porto via", pensava Giacomino dal suo
nascondiglio. Così, non appena l'orco prese a russare, con
un balzo afferrò la gallina e, tenendola ben stretta, dalla
torre del castello balzò sulle nuvole e raggiunse la cima
della pianta. Ma questa volta la fuga fu complicata.
"Al ladro, al ladro!", gridava infatti la gallina, starnazzando.
Per fortuna le foglie della pianta nascosero ben presto
Giacomino dalla vista dell'orco che aveva cominciato a
inseguirlo, e il ragazzo atterrò sano e salvo.
"Tutto lì?", si stupì la madre. "Solo una gallina gli hai
portato via?".
"Aspetta".
Giacomino l'accarezzò, come aveva visto fare all'orco, e la
gallina depose due uova d'oro massiccio.
"La nostra fortuna è fatta, ragazzo mio!", esclamò la madre.
"Lo so bene", rispose Giacomino, che era più in gamba di
quanto lei supponesse.
Grazie alle uova d'oro, Giacomino poté ordinare la
costruzione d'un palazzo, dove entrambi andarono ad
abitare. Un palazzo nel cui interno furono disposti quadri,
arazzi, argenterie, vasellami, e le cui porte non venivano
mai chiuse. Tutti potevano entrarvi e ristorarsi, soprattutto i
diseredati: perché Giacomino aveva buon cuore, e non
dimenticava i tempi difficili della sua povertà.
Un triste giorno, però, la madre di Giacomino cadde
ammalata, di un male che i medici non riuscivano a capire.
Era come se non le importasse più di vivere. Aveva perduto
il sorriso. Non provava entusiasmo per nulla. Inoltre
rifiutava il cibo, e perciò deperiva, chiusa in una profonda
malinconia.
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Giacomino fece venire a palazzo clowns e giullari perché,
con i loro giochi, con i loro scherzi, le risollevassero il
morale. Ma non ci fu nulla da fare.
Decise allora di tornare nel castello dell'orco, sperando di
trovarvi in qualche modo un rimedio. Si arrampicò di
nuovo sul fagiolo, raggiunse il castello, e qui, senza farsi
scorgere da nessuno, si rifugiò dentro una pentola e attese
gli eventi.
Ed eccolo, l'orco, giungere con i suoi passi pesanti. Cenò, poi
trasse da una cassapanca un'arpa magica, e lo strumento
iniziò a suonare, da solo, una melodia dolcissima: così dolce
che l'orco, dopo aver sorriso e poi riso di gusto, si
addormentò.
Lesto, Giacomino scattò fuori dalla pentola, prese al volo
l'arpa e fuggì verso il fagiolo per ridiscendere a terra.
Ma l'arpa non voleva saperne di lasciarsi rapire.
"Padrone, padrone!", gridava rivolta all'orco. "Svegliati. Mi
stanno rubando!".
E Giacomino: "Zitta! Taci una buona volta. Ti porterò dove
starai molto meglio di qui". E intanto correva. La pianta si
avvicinava, però si avvicinava anche l'orco, che gli era quasi
alle calcagna.
Come Dio volle, il ragazzo raggiunse prima la chioma, poi il
fusto della pianta e, con il fiato grosso e il cuore che gli
batteva forte, cominciò a scendere, a lasciarsi scivolare verso
il basso. Non aveva ancora toccato terra, che l'arpa si mise a
suonare una nuova melodia, ancora più dolce. Ed ecco, per
incanto, la madre di Giacomino sorridere, farsi incontro al
figlio, abbracciarlo. Sembrava addirittura ringiovanita, ed
era di sicuro guarita, grazie a quel suono. Tuttavia
Giacomino non ebbe tempo di rallegrarsi, perché s'accorse
che la pianta oscillava. Oscillava sotto il peso dell'orco che,
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trovata la strada, scendeva a riprendersi l'arpa, e si può
immaginare quanto fosse arrabbiato.
Non c'era un minuto da perdere. Giacomino corse a
prendere una scure e vibrò contro il fagiolo molti colpi ben
assestati. Gli stivaloni dell'orco erano già in vista, quando la
pianta cedette, trascinando l'orco in un burrone. Inutilmente
l'orchessa lo cercò per ogni dove: egli era caduto giù, a terra,
ai piedi della pianta e lì giaceva esanime. La madre di
Giacomino si avvicinò al gigante: egli era gravemente ferito.
La sua recente infermità le aveva fatto conoscere le
sofferenze della malattia e capire a fondo che ammalarsi
dipende molto più dall’animo che dal corpo, ed ora era ben
decisa ad evitare che l’enorme essere che le era disteso
innanzi morisse Perciò fece chiamare i più bravi medici del
regno, perché si prodigassero nelle migliori cure. Poi si
rivolse a Giacomino: “Figlio mio adorato, durante questo
lungo periodo di malattia ho riflettuto e compreso la gravità
delle azioni che hai compiuto nel regno del gigante con la
mia complicità. Ora l’orco sta per morire a causa nostra.”
Giacomino la guardò con attenzione ed ella continuò:
“Perdonami se ti ho tratto in inganno, se ti ho fatto credere
che il denaro, la ricchezza fossero più importanti di un
animo candido, della vita stessa. Nulla ha più valore della
vita, che appartiene a tutti gli esseri, dal più grande al più
minuscolo che esista. Ora non ci resta che pregare affinché
l’orco si salvi!”.
E Orco si salvò. Ormai guarito, e divenuto assai gentile
dopo la guarigione, prese Oca ed Arpa e salì sul monte più
alto del paese dal quale, con un enorme balzo, tornò a casa,
felice di riabbracciare la sua famiglia.
Dall'originale di Richard Walker
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LA CICALA E LA FORMICA
L'estate passava felice per la cicala che si godeva il sole sulle
foglie degli alberi e cantava, cantava, cantava. Venne il
freddo e la cicala imprevidente, si trovò senza un rifugio e
senza cibo.
Si ricordò che la formica per tutta l'estate aveva accumulato
provviste nella sua calda casina sotto terra. Andò a bussare
alla porta della formica.
La formica si fece sulla porta reggendo una vecchia lampada
ad olio.
- Cosa vuoi? - chiese con aria infastidita.
- Ho freddo, ho fame….- balbettò la cicala. Dietro di lei si
vedeva la campagna innevata. Anche il cappello della cicala
ed il violino erano pieni di neve.
- Ma davvero? - brontolò la formica - lo ho lavorato tutta
l'estate per accumulare il cibo per l'inverno. Tu che cosa hai
fatto in quelle giornate di sole?
- Io ho cantato!
- Hai cantato? - Bene… adesso balla!
La formica richiuse la porta e tornò al calduccio della sua
casetta, mentre la cicala, con il cappello ed il violino coperti
di neve, si allontanava, ad ali basse, nella campagna.
La formica stava bene, lì al caldo, questo è sicuro, ma c’era
un silenzio, intorno a lei, così spesso da tagliarsi col coltello!!
La formica cominciò a canticchiare, perché il silenzio, reso
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ancora più spesso dalla coltre di neve fuori dell’ uscio, le
dava sempre più noia…Ma le note le uscivano di bocca
stentate, stonate, e cantare la faceva star peggio di prima!
Allora si decise a uscire, e, nera nera contro la neve bianca,
si avventurò nella campagna, a cercare la cicala. La trovò
accanto ad un albero, ormai infreddolita e in fin di vita.
-Vieni con me, vieni!- le disse, e, sostenendola, la portò in
casa.
-Credo proprio che quest’inverno ci faremo una buona
compagnia: quello che io so fare, tu non lo sai, e ciò che sai
fare tu, a me non riesce! Siamo proprio come il sole e la
pioggia, che ci vogliono tutte e due per far bella la
campagna!
Dall'originale di Jean de la Fontaine
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LA PICCINA DEI FIAMMIFERI
Faceva un freddo terribile, nevicava e calava la sera l'ultima sera dell'anno, per l'appunto, la sera di San
Silvestro. In quel freddo, in quel buio, una povera
bambinetta girava per le vie, a capo scoperto, a piedi nudi.
Veramente, quand'era uscita di casa, aveva certe babbucce;
ma a che le eran servite? Erano grandi grandi - prima erano
appartenute a sua madre, - e così larghe e sgangherate, che
la bimba le aveva perdute, traversando in fretta la via, per
iscansare due carrozze, che s'incrociavano con tanta furia...
Una non s'era più trovata, e l'altra se l'era presa un monello,
dicendo che ne avrebbe fatto una culla per il suo primo
figliuolo.
E così la bambina camminava coi piccoli piedi nudi,
fatti rossi e turchini dal freddo: aveva nel vecchio grembiale
una quantità di fiammiferi, e ne teneva in mano un
pacchetto. In tutta la giornata, non era riuscita a venderne
uno; nessuno le aveva dato un soldo; aveva tanta fame,
tanto freddo, e un visetto patito e sgomento, povera
creaturina... I fiocchi di neve le cadevano sui lunghi capelli
biondi, sparsi in bei riccioli sul collo; ma essa non pensava
davvero ai riccioli! Tutte le finestre scintillavano di lumi; per
le strade si spandeva un buon odorino d'arrosto; era la
vigilia del capo d'anno: a questo pensava.
Nell'angolo formato da due case, di cui l'una sporgeva
innanzi
sulla
strada,
sedette
abbandonandosi,
rannicchiandosi tutta, tirandosi sotto le povere gambine. Il
freddo la prendeva sempre più, ma non osava tornare a
casa: riportava tutti i fiammiferi e nemmeno un soldino. Il
babbo l'avrebbe certo picchiata; e, del resto, forse che non
faceva freddo anche a casa? Abitavano proprio sotto il tetto,
ed il vento ci soffiava tagliente, sebbene le fessure più larghe
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fossero turate, alla meglio, con paglia e cenci. Le sue manine
erano quasi morte dal freddo. Ah, quanto bene le avrebbe
fatto un piccolo fiammifero! Se si arrischiasse a cavarne uno
dallo scatolino, ed a strofinarlo sul muro per riscaldarsi le
dita... Ne cavò uno, e trracc! Come scoppiettò! come bruciò!
Mandò una fiamma calda e chiara come una piccola
candela, quando la parò con la manina. Che strana luce!
Pareva alla piccina d'essere seduta dinanzi ad una grande
stufa di ferro, con le borchie e il coperchio di ottone lucido:
il fuoco ardeva così allegramente, e riscaldava così bene!...
La piccina allungava già le gambe, per riscaldare anche
quelle... ma la fiamma si spense, la stufa scomparve, - ed ella
si ritrovò là seduta, con un pezzettino di fiammifero
bruciato tra le mani.
Ne accese un altro: anche questo bruciò, rischiarò e il
muro, nel punto in cui la luce batteva, divenne trasparente
come un velo. La bambina vide proprio dentro nella stanza,
dove la tavola era apparecchiata, con una bella tovaglia
d'una bianchezza abbagliante, e con finissime porcellane;
nel mezzo della tavola, l'oca arrostita fumava, tutta ripiena
di mele cotte e di prugne. Il più bello poi fu che l'oca stessa
balzò fuor del piatto, e, col trinciante ed il forchettone
piantati nel dorso, si diede ad arrancare per la stanza,
dirigendosi proprio verso la povera bambina... Ma il
fiammifero si spense, e non si vide più che il muro opaco e
freddo.
Accese un terzo fiammifero. La piccolina si trovò sotto
ad un magnifico albero, ancora più grande e meglio ornato
di quello che aveva veduto, a traverso ai vetri dell'uscio,
nella casa del ricco negoziante, la sera di Natale. Migliaia di
lumi scintillavano tra i verdi rami, e certe figure colorate,
come quelle che si vedono esposte nelle mostre dei negozii,
guardavano la piccina. Ella stese le mani... e il fiammifero si
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spense. I lumicini di Natale volarono su in alto, sempre più
in alto; ed ella si avvide allora ch'erano le stelle lucenti. Una
stella cadde, e segnò una lunga striscia di luce sul fondo
oscuro del cielo.
«Qualcuno muore!» - disse la piccola, perchè la sua
vecchia nonna (l'unica persona al mondo che l'avesse
trattata amorevolmente, - ma ora anche essa era morta,) la
sua vecchia nonna le aveva detto: «Quando una stella cade,
un'anima sale a Dio.»
Strofinò contro il muro un altro fiammifero, che mandò
un grande chiarore all'intorno; ed in quel chiarore la vecchia
nonna apparve, tutta raggiante, e mite, e buona...
«Oh, nonna!» - gridò la piccolina: «Prendimi con te! So
che tu sparisci, appena la fiammella si spegne, come sono
spariti la bella stufa calda, l'arrosto fumante, e il grande
albero di Natale!» - Presto presto, accese tutti insieme i
fiammiferi che ancora rimanevano nella scatolina: voleva
trattenere la nonna. I fiammiferi diedero tanta luce, che
nemmeno di pieno giorno è così chiaro: la nonna non era
stata mai così bella, così grande... Ella prese la bambina tra
le braccia, ed insieme volarono su, verso lo Splendore e la
Gioia, su, in alto, in alto, dove non c'è più fame, nè freddo,
nè angustia, - e giunsero presso Dio.
Ma nell'angolo tra le due case, allo spuntare della
fredda alba, fu veduta la piccina, con le gotine rosse ed il
sorriso sulle labbra, - morta assiderata nell'ultima notte del
vecchio anno. La prima alba dell'anno nuovo passò sopra il
cadaverino, disteso là, con le scatole dei fiammiferi, di cui
una era quasi tutta bruciata. «Ha cercato di scaldarsi...» dissero. Ma nessuno seppe tutte le belle cose che aveva
vedute; nessuno seppe tra quanta luce era entrata, con la
vecchia nonna, nella gioia della nuova Alba. Nessuno, forse,
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tranne un abimba, che notò quel viso disteso, quel sorriso
d'angelo che ancora aleggiava sulla bocca della piccina. "E'
diventata un angelo?" chiese alla mamma. "No, bambina
mia" ella le rispose. "Lo è sempre stata...e la sua breve vita,
trascorsa nella sofferenza, è servita ad insegnarci a guardare
oltre le nostre tavole imbandite, i nostri caminetti
scoppiettanti, e atendere la mano per aiutare chi soffre..."
Dall'originale di Hans Christina Andersen
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L’ USIGNUOLO E LA ROSA
- Ha detto che ballerà con me se le porterò delle rose rosse –
si lamentava il giovane Studente – ma in tutto il mio
giardino non c’è una sola rosa rossa.
Dal suo nido nella quercia lo ascoltò l’Usignolo, e guardò
attraverso le foglie, e si meravigliò:
- Non ho una rosa rossa in tutto il mio giardino! – si
lamentava lo Studente, e i suoi begli occhi erano pieni di
lacrime.
- Ah, da qual sciocchezze dipende la felicità! Ho letto gli
scritti di tutti i sapienti, conosco tutti i segreti della filosofia,
ciononostante la mancanza di una rosa rossa sconvolge la
mia vita!
- Ecco finalmente un vero innamorato – disse l’Usignolo. –
Notte dopo notte ho cantato di lui, nonostante non lo
conoscessi: notte dopo notte ho favoleggiato la sua storia
alle stelle, e ora lo vedo. I suoi capelli sono scuri come i
boccoli del giacinto, e le sue labbra sono rosse come la rosa
del suo desiderio; la sofferenza ha reso il suo volto simile a
pallido avorio e il dolore gli ha impresso il suo sigillo sulla
fronte.
- Il Principe dà un ballo domani sera – sibilava il giovane
Studente – e la mia amata vi andrà. Se le porterò una rosa
rossa ballerà con me fino all’alba. Se le porterò una rosa
rossa la terrò fra le mie braccia ed ella piegherà il capo sulla
mia spalla, e la mia mano stringerà la sua. Ma non c’è una
rosa rossa in tutto il mio giardino, e così io siederò solo, ed
ella passerà dinnanzi a me senza fermarsi. Non avrà
nessuna cura di me. E il mio cuore si farà a pezzi.
- Ecco certamente un vero innamorato – disse l‘Usignolo. –
Ciò che io canto, egli lo patisce, ciò che per me è gioia, per
lui è pena. Davvero l’Amore è una cosa straordinaria. È più
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prezioso degli smeraldi e degli splendidi opali. Perle e
granati non possono comperarlo, e non è in vendita sulla
piazza del mercato. Non possono comprarlo i mercanti, né
pesarlo le bilance dell’oro.
- I musicanti siederanno nella galleria – proferiva il giovane
Studente – e suoneranno i loro strumenti, e la mia amata
ballerà al suono dell’arpa e del violino. Ballerà così leggera
che i suoi piedi non toccheranno intorno. Ma con me non
danzerà, perché io non ho una rosa rossa da offrirle e si
gettò sull’erba, si chiuse il volto tra le mani, e versò lacrime.
- Perché piange? – chiese la Farfalla, che piroettava qua e là
inseguendo un raggio di sole.
- Già, perché? – sussurrò una Pratolina al suo vicino, con
voce sommessa e tenera.
- Piange per una rosa rossa – disse l’Usignolo.
- Per una rosa rossa! – esclamarono quelli. – Che
ridicolaggine! – e il Ramarro, che era un po’ sprezzante, rise
di gusto.
Ma l’Usignolo comprendeva il segreto dolore dello
Studente, e restava taciturno sulla quercia, a pensare sul
mistero dell’Amore. D’improvviso distese le sue brune ali e
volò, si librò nell’aria. Passò attraverso il boschetto come
un’ombra, e come un’ombra svolazzò sul giardino. Al
centro dell’aiuola erbosa s’ergeva un bellissimo Rosaio, e
non appena l’Usignolo lo vide volò sopra di lui e si posò su
un ramo.
- Dammi una rosa rossa – supplicò – e ti canterò la mia
canzone più dolce.
Ma il Rosaio scosse il capo.
- Le mie rose sono bianche – ribatté – bianche come vuole la
schiuma del mare, e più bianche della neve sulla montagna.
Ma va da mio fratello che cresce accanto all’antica
meridiana, e forse ti darà quel che desideri.
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Allora l’Usignolo volò sul Rosario che germogliava accanto
all’antica meridiana.
- Dammi una rosa rossa – supplicò – e ti canterò la mia
canzone più dolce.
Ma il Rosario scosse il capo.
- Le mie rose sono gialle – affermò - gialle come i capelli
della sirena che siede sopra un trono d’ambra, e più gialle
del narciso che sboccia nel prato prima che il mietitore
giunga con la sua falce. Ma va da mio fratello che germoglia
sotto la finestra delle Studente, e forse ti darà quel che
desideri.
Allora l’Usignolo volò sul Rosaio che cresceva sotto la
finestra dello Studente.
- Dammi una rosa rossa – supplicò – e ti canterò la mia
canzone più dolce.
Ma il Rosario scosse il capo.
- Le mie rose sono rosse – rispose – rosse come i piedi della
colomba, e più rosse dei grandi ventagli di corallo che
oscillano nelle grotte degli oceani.
Ma l’inverno ha ghiacciato le mie vene e il gelo ha dilaniato
i miei boccioli, e l’uragano ha spezzato i miei rami, e non
avrò più rose quest’anno.
- Una sola rosa rossa è tutto ciò che ti chiedo! – urlò
l’Usignolo. – Non c’è proprio nessun sistema per averla?
- Un modo c’è – rispose il Rosario – ma è così terribile che
non ho il coraggio di dirtelo.
- Dimmelo – implorò l’Usignolo – io non ho paura.
- Se vuoi una rosa rossa – disse il Rosaio – sei costretto a
formarla con la musica al lume della luna, e colorarla col
sangue del tuo cuore. Devi cantare per me col petto contro
una spina. Tutta la notte devi cantare per me, e la spina
deve trafiggere il tuo cuore, e il tuo sangue vivo deve
scendere nelle mie vene e diventare mio.
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- La morte è un prezzo alto da pagare per una rosa rossa – si
dolse l’Usignolo – e la vita è così cara a tutti. È dolce tardare
nel bosco verde, e ammirare il Sole nel cocchio d’oro, e la
luna nel suo cocchio d’argento. Dolce è il profumo della
vitalba, e dolci le campanule azzurre che si celano nella
valle, e l’erica che fiorisce sul colle. Ma l’Amore è più
prezioso della Vita, e cos’è mai il cuore di un uccellino
equiparato al cuore di un uomo?
Così piegò le ali brune nel volo, e si librò nell’aria. Passò
attraverso il giardino come un’ombra, e come un’ombra
volò sopra il boschetto. Lo Studente era ancora steso
nell’erba, là dove lo aveva lasciato, e il pianto non s’era
ancora rasciugato dai suoi occhi.
- Sii felice – gli urlò l’Usignolo. – Sii felice! Avrai la tua rosa
rossa! Io la formerò con la musica al lume della luna, e la
colorerò col sangue del mio cuore. Tutto ciò che ti chiedo in
cambio è d’essere un vero innamorato, perché l’Amore è il
più giudizioso della Filosofia, per quando saggia essa sia, e
il più autorevole del Potere, per quando potente esso sia.
Sono color di fiamma le sue ali, color di fiamma è il suo
corpo. Le sue labbra sono dolci come il miele, e simile
all’incenso è il suo alito.
Lo Studente alzò lo sguardo dall’erba e si pose ad ascoltare,
ma non gli era possibile capire ciò che l’Usignolo gli diceva,
dopo che capiva solo parole che sono scritte sui libri. Ma la
quercia capì, e si addolorò, poiché voleva bene al piccolo
Usignolo che si era costruito il nido fra i suoi rami.
- Cantami un’ultima canzone – gli bisbigliò. – Mi sentirò
molto sola quando te ne sarai andata.
Così l’Usignolo cantò per la Quercia, e la voce era come
l’acqua che si sparge gorgogliante da un’anfora d’argento.
Finita che fu la canzone, lo Studente s’alzò, e trasse di tasca
un taccuino e una matita.
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- Questa creatura ha stile. - Disse a se stesso – è un fatto che
non si può contestare, ma avrà inoltre sentimenti? Ho
timore di no. In verità, è come la maggior parte degli artisti,
tutta forma, nessuna lealtà. Non si offrirebbe in sacrificio
per gli altri. Pensa solamente alla musica, e tutti sanno che
l’arte è egoista. Bisogna in ogni modo ammettere che ha
note incantevoli nella sua voce. Peccato che non significano
nulla, e non abbiamo alcun’utilità pratica. E andò in camera,
e si stese sul suo piccolo letto, e cominciò nuovamente a
pensare alla sua amata, e dopo un po’ di tempo,
s’addormentò. E quando la Luna spiccò nei cieli l’Usignolo
volò dal Rosaio, e pose il suo petto contro la spina. Tutta la
notte cantò col petto contro la spina, e la fredda Luna di
cristallo si chinò ad udirlo. Tutta la notte cantò, e la spina si
spingeva sempre più profonda nel suo petto, e il suo sangue
vitale fluiva da lui. Prima cantò dell’amore che germoglia
nel cuore di un fanciullo e di una fanciulla. E sul ramo più
alto del Rosaio fiorì una rosa magnifica, petalo dopo petalo
come nota dopo nota. Pallida era in un primo momento,
come la nebbia sospesa sul fiume, pallida come le orme del
mattino, e argentea come le ali dell’alba. Come l’ombra di
una rosa in uno specchio, rosa che fioriva sul ramo più alto
del Rosaio. Ma il Rosaio urlava all’Usignolo di premere più
forte sulla spina.
- Premi più forte, piccolo Usignolo – urlava il Rosario – o il
Giorno spunterà prima che la rosa sia completata.
Così l’Usignolo premette più forte sulla spina, e più forte si
fece il suo canto, esseri che cantava il venire al mondo della
passione nell’anima di un uomo e di una donna. Una tenue
striatura rosea si sparse nei petali del fiore, simile al rossore
che si spande sul volto dello sposo quando bacia le labbra
della sposa. Ma la spina non era giunta al cuore
dell’uccellino, e il cuore della rosa restava bianco, perché
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solo il sangue del cuore di un Usignolo può invermigliare il
cuore di una rosa. E il Rosario urlava all’Usignolo di
premere più forte sulla spina.
- Premi più forte, piccolo Usignolo, o il giorno spunterà
prima che la rosa sia completata.
Così l’Usignolo premette più forte sulla spina, e la spina gli
toccò il cuore, e un violento spasimo di dolore lo trafisse.
Più e più penoso era il dolore, e più e più selvaggio si faceva
il canto, poiché ora cantava dell’Amore che è reso perfetto
dalla Morte, e dell’Amore che non muore nella tomba. E la
stupenda rosa diventò vermiglia, come la rosa del cielo
d’Oriente. Vermiglia la fascia dei petali intorno alla corolla,
e vermiglio come il rubino era il suo cuore. Ma la voce
dell’Usignolo si fece più debole, e le sue piccole ali
iniziarono a sbattere, e un velo discese suoi occhi. Più e più
debole si fece il suo canto, e qualche cosa lo soffocava in
gola come un pianto convulso. Allora proruppe in un
ultimo slancio di musica. La bianca Luna lo ascoltò, e
dimenticò l’alba, ed esitò nel cielo. La rosa rossa lo udì, e
fremé tutta d’estasi, e aprì i suoi petali alla fredda aria del
mattino. L’eco lo ripetè nel suo antro color porpora sui colli,
e risvegliò dai loro sogni i pastori dormienti. Ondeggiò fra i
giunchi del fiume, ed essi portarono il suo messaggio al
mare.
- Guarda! Guarda! – gridò il Rosario – la rosa è perfetta, ora!
Ma l’Usignolo non rispose, perché stava steso morto
nell’erba alta, con la spina nel cuore. A mezzogiorno lo
Studente aprì la finestra e guardo fuori.
- Che sbalorditivo colpo di fortuna! – disse con enfasi. – Una
rosa rossa! Non ho mai visto una rosa come questa in tutta
la mia vita. È così bella che senza dubbio avrà un lungo
nome latino – si sporse, e la colse. Poi si mise il cappello, e
corse a casa del Professore con la rosa in mano. La figlia del
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Professore sedeva in veranda, aggomitolando della seta
azzurra su un arcolaio, e il suo cagnolino le stava disteso ai
piedi.
- Avevate promesso di ballare con me se vi avessi portato
una rosa rossa – urlò lo Studente – ecco la rosa più rossa di
tutto il mondo. La porterete stasera sul cuore e mentre
danzeremo insieme vi dichiarerà quando vi amo. Ma la
ragazza corrugò la fronte.
- Temo che non sia adatta al mio vestito – rispose – e poi, il
nipote del Ciambellano mi ha mandato in dono dei gioielli
veri, e tutti sanno che i gioielli valgono più dei fiori.
- In fede mia, siete davvero un’ingrata! – disse lo Studente in
un impeto d’ira; e gettò la rosa giù nella strada. Essa cadde
in un rivoletto, e la ruota di un carro vi passò sopra.
- Ingrata io? – ripetè la ragazza. – Ebbene, voi sapete che
cosa siete? Un grande screanzato, in fondo, né più né meno
che un semplice Studente. E non credo neppure che abbiate
delle fibbie d’argento sulle scarpe come il nipote del
Ciambellano. E s’alzò dalla sedia ed entrò in casa.
- Che balordaggine è l’Amore! – disse lo Studente
andandosene. – Non è utile neppure la metà della Logica,
perché non esprime nulla, promette sempre cose che non si
concretizzano e fa credere in cose che non sono vere. In
effetti, non è per niente pratico, e siccome nel tempo in cui
viviamo la praticità è tutto, tornerò alla Filosofia e studierò
la Metafisica. Così si chiuse dentro nella sua stanza, prese lo
dallo scaffale un vecchio libro polveroso, e si mise a leggere.
Assistevano a questa scena la farfalla, la luna, il ramarro, la
quercia e lo spirito dell’usignolo che ancora non si era
staccato dallo Studente. La prima a prendere la parola fu la
luna che disse: - Possiamo lasciare che questa storia finisca
così? Abbiamo avuto un sacrificio vano ed un giovane che
ha rafforzato la sua idea che l’Amore sia una balordaggine .
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–Certo - intervenne la farfalla -mi piacerebbe potergli
spiegare che Amore è ogni raggio di sole che inseguo, ogni
fiore su cui mi poso e che l’Amore è delicato e leggero come
il mio volo. Non fa richieste, non pretende sacrifici e men
che meno è misurabile con la sofferenza che provoca.
-I miei rami e le mie foglie fioriscono per Amore, senza che
io debba fare nulla che non sia accordarmi al flusso della
vita- disse la quercia. E il ramarro: -Già: è una ridicolaggine
soffrire per una rosa rossa poiché per le rose rosse
bisognerebbe solo gioire!
-Mi sembra un’affermazione davvero superficiale, amico
ramarro: che puoi dirmi allora dell’amore non corrisposto e
della sofferenza lancinante che questo può provocare al
cuore di un essere umano?- chiese allora lo spirito
dell’usignolo.
-Caro usignolo- rispose la farfalla -l’intento del tuo sacrificio
è quanto più nobile si possa immaginare e per questo il tuo
spirito è ora così luminoso. Il giovane studente, e forse tu
con lui, aveva però confuso l’Amore con il desiderio. Si può
desiderare fino a perdere la ragione, ma l’Amore non
offusca l’intelletto, anzi lo rende limpido come il più
limpido dei diamanti. Fu la luna a proseguire: -Ascolto ogni
sera poesie e canzoni di amanti infelici o al settimo cielo, e
con il mio volto pallido cerco sempre di spiegare loro che
l’unico posto dove cercare l’Amore è nel proprio cuore e
l’unico posto giusto dove riversarlo è l’universo intero.
L’usignolo allora disse :-Bene, da oggi accompagnerò quello
Studente, non per dargli rose rosse da donare alle fanciulle
ma per far fiorire il suo cuore come un giardino in cui tutti
possano trovare ristoro!
E così fu.
Dall’originale di Oscar Wilde
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LA CHIOCCIOLA E IL ROSAIO
Intorno al giardino c'era tutta una siepe di nocciuoli; al
di là della siepe, i campi e i prati, con le mucche e le pecore;
nel mezzo del giardino, un bel rosaio in fiore; e a' piedi del
rosaio, una chiocciola, la quale dentro non aveva poco,
poichè era piena di sè.
«Aspettate che venga la mia volta!» - diceva: «Farò ben
di meglio, io, che dar rose, nocciuole o latte, come il rosaio,
come i nocciuoli, come le mucche e le pecore.»
«E da te, infatti, ci aspettavamo moltissimo!» - diceva il
rosaio: «Ma, se la domanda è lecita, quando ci farai tu
vedere qualche cosa?»
«Io mi prendo tempo,» - replicava la chiocciola: «Avete
sempre furia, voialtri! E così non eccitate la curiosità con
l'aspettazione.»
L'anno dopo, la chiocciola stava circa allo stesso posto,
al sole, sotto il rosaio; e il rosaio metteva da capo i bocciuoli,
i quali fiorivano in rose sempre fresche, sempre nuove. La
chiocciola strisciò a mezzo fuor del guscio, stese le corna e
poi le ritirò.
«Tutto come l'anno passato. Nessun progresso. Il rosaio
s'è fermato alle rose e di meglio non sa fare.».
Passò l'estate e venne l'autunno; il rosaio continuò a dar
rose, sin che cadde la neve ed il tempo si fece umido e
freddo; e allora il rosaio si chinò al suolo: la chiocciola si
ficcò sotterra.
Poi cominciò un anno nuovo, e le rose tornarono a
sbocciare e tornò fuori anche la chiocciola.
«Ora, tu sei un vecchio rosaio,» - disse la chiocciola
«Devi sbrigarti e finirla, poi che hai dato al mondo tutto
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quello che avevi in te: se sia servito a qualche cosa, è
questione ch'io non ho avuto tempo di meditare; ma questo
intanto è chiaro e limpido: che tu non hai fatto niente di
niente per migliorare te stesso: se no, avresti dato qualche
cos'altro. Che puoi rispondere a questo? Tra poco sarai
ridotto un pezzo di legno secco. Capisci quel che ti dico?»
«Mi fai paura!» - rispose il rosaio. «Non ci avevo
pensato mai.»
«No, davvero; tu non ti sei affaticato di certo a pensare.
Ti sei nemmeno domandato perchè fiorisci e come avviene
la tua fioritura? Perchè le cose vanno così e non in altro
modo?»
«No,» - disse il rosaio. «Io ho fiorito nella gioia perchè
non potevo altrimenti. Il sole era così caldo, l'aria così
fresca... Bevevo le pure gocciole di rugiada e la forte pioggia
violenta: respiravo, vivevo! Fuor della terra, sorgeva in me
una forza; dall'alto, scendeva in me una forza; ed io ne
risentivo una gioia sempre nuova, e sempre così grande, che
dovevo fiorire e fiorire. Era la mia vita quella; nè potevo fare
altrimenti!
«Hai menato una vita molto comoda!» - osservò la
chiocciola.
«Oh, sì. Tutto mi fu donato,» - disse il rosaio: «Ma a te
fu donato di più. Tu sei una di quelle nature pensose,
profonde, riccamente dotate, le quali vogliono far
meravigliare il mondo».
«Oh, questo non mi passa nemmeno per la mente!» esclamò la chiocciola. «Il mondo, per me, è nulla. Che ci ho
da fare io col mondo? Ho abbastanza di me stessa e di
quello che ho dentro.»
«Ma non dobbiamo tutti, su questa terra, dare agli altri
il meglio che abbiamo, donare quello ch'è in nostro potere?
Certo, io non ho dato altro che rose. Ma tu, con tutte le tue
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belle qualità, che cos'hai tu dato al mondo? che intendi di
dargli?»
«Che gli ho dato? che intendo di dargli? Ci sputo sopra
io, al mondo. Non merita nulla: non è affar mio. Continua a
dar rose tu, se vuoi: tu non puoi fare di meglio. E diano i
nocciuoli il loro frutto, e le mucche e le pecore il latte; essi
hanno il loro pubblico; ma io ho il mio, dentro di me. Io
rientro in me, e vi rimango: il mondo per me è meno di
nulla.»
E così dicendo, la chiocciola, rientrò nella sua casetta e
si chiuse l'uscio dietro.
«È triste,!» - disse il rosaio: «Io non potrei rintanarmi
così dentro di me, nemmeno se volessi: bisogna che continui
a dar rose. E i petali cadono, e il vento li porta via... Ma vidi
una volta una rosa nel libro di preghiere di una mamma; ed
una delle mie rose stette sul seno d'una bella giovinetta, ed
un'altra... un bambinetto la baciò, persino, nella pienezza
della sua gioia. Ciò mi fece tanto bene a vedere: mi fu una
vera benedizione; ed ora è tutto il mio ricordo, la mia vita!»
Il rosaio continuò a fiorire, nella sua innocenza, mentre
la chiocciola passava il tempo oziando, rintanata in casa: il
mondo non era affar suo.
E gli anni passavano.
La chiocciola era divenuta polvere nella polvere, ed il
rosaio terra nella terra; la rosa della ricordanza, nel libro di
preghiere, era sbiadita; nel giardino fiorivano nuovi rosai, e
sotto i rosai vivevano nuove chiocciole, strisciando ancora
nelle loro case, e sputando sul mondo, che non era affar
loro.
E se ricominciassimo la storia e la rileggessimo tutta per
bene da capo?
"Tanto, non muta mai", dirà qualcuno. E invece, nel
mondo delle fiabe, tutto è possibile...
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Allora, potremmo dire alla chiocciola: "Forse vuoi
sputare sul mondo perché il mondo ti crede più brutta di
una rosa, e gli vuoi far dispetto? Ma se c'è qualcuno che
elogia le rose, e disprezza le chiocciole, quegli fa l'errore di
fermarsi alla superficie delle cose, e di non andare oltre una
prima occhiata. Le rose esprimono con forme e colori ciò che
tu esprimi conla tua danza...Quella stessa forza di cui
parlava il rosaio...Quella forza, sentila dentro di te, e
regalala al mondo, che te ne è grato..."
La chiocciola, dunque, stavolta, scivolò felice sulla
foglia del rosaio, che gliene regalò un pezzetto per merenda,
e le chiese di danzare per lui.
Dall'originale di Hans Christian Andersen
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HANSEL E GRETHEL
C'era una volta...un povero taglialegna che viveva in una
casupola sul limitare del bosco. L'uomo aveva due bambini,
Hansel e Grethel, nati dalla sua precedente moglie che era
morta qualche anno prima. L'anno precedente aveva ripreso
moglie: ma la nuova moglie non sopportava i due figliastri.
Egli non aveva di che sfamarsi; riusciva a stento a procurare
il pane per sua moglie e i suoi due bambini: Hansel e
Grethel. Infine giunse un tempo in cui non poteva più
provvedere neanche a questo e non sapeva più a che santo
votarsi. Una sera, mentre si voltava inquieto nel letto, la
moglie gli disse: -Ascolta marito mio, domattina all'alba
prendi i due bambini, dai a ciascuno un pezzetto di pane e
conducili fuori in mezzo al bosco, nel punto dov'è più fitto;
accendi loro un fuoco, poi vai via e li lasci soli laggiù. Non
possiamo nutrirli più a lungo-. -No moglie mia- disse
l'uomo -non ho cuore di abbandonare i miei cari bambini
nel bosco, le bestie feroci li sbranerebbero subito.- -Se non lo
fai- disse la donna -moriremo tutti quanti di fame.- E non lo
lasciò in pace finché‚ egli non acconsentì.
Anche i due bambini non potevano dormire per la fame, e
avevano sentito quello che la madre aveva detto al padre.
Grethel pensò che per loro fosse finita e incominciò a
piangere amaramente, ma Hansel disse: -Stai zitta Grethel,
non ti crucciare, ci penserò io-. Si alzò, si mise la
giacchettina, aprì l'uscio da basso e sgattaiolò fuori. La luna
splendeva chiara e i ciottoli bianchi rilucevano come monete
nuove di zecca. Hansel si chinò, ne ficcò nella taschina della
giacca quanti potè farne entrare e se ne tornò a casa. Consolati Grethel e riposa tranquilla- disse; si rimise di
nuovo a letto e si addormentò.
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Allo spuntar del giorno, ancor prima che sorgesse il sole, la
madre venne e li svegliò entrambi: -Alzatevi bambini,
vogliamo andare nel bosco; qui c'è un pezzetto di pane per
ciascuno di voi, ma siate saggi e conservatelo per
mezzogiorno-. Grethel mise il pane sotto il grembiule
perché Hansel aveva le pietre in tasca, poi si
incamminarono verso il bosco. Quando ebbero fatto un
pezzetto di strada: Hansel si fermò e si volse a guardare la
casa; così fece per più volte. Il padre disse: -Hansel, che cos'è
che ti volti a guardare e perché‚ ti fermi? Su, muoviti!-. -Ah,
babbo, guardo il mio gattino bianco che è sul tetto e vuole
dirmi addio.- Disse la madre: -Ehi, sciocco, non è il tuo
gattino, è il primo sole che brilla sul comignolo-. Hansel
però non aveva guardato il gattino, ma aveva buttato ogni
volta sulla strada uno dei sassolini lucidi che aveva in tasca.
Quando giunsero in mezzo al bosco, il padre disse: -Ora
raccogliete legna, bambini, voglio accendere un fuoco per
non gelare-. Hansel e Grethel raccolsero rami secchi e ne
fecero un mucchietto. Poi accesero il fuoco e quando la
fiamma si levò alta, la madre disse: -Adesso stendetevi
accanto al fuoco e dormite, noi andiamo a spaccare legna nel
bosco; aspettate fino a quando non torniamo a prendervi-.
Hansel e Grethel rimasero accanto al fuoco fino a
mezzogiorno, poi ciascuno mangiò il proprio pezzetto di
pane. Credevano che il padre fosse ancora nel bosco perché‚
udivano i colpi d'accetta; invece era un ramo che egli aveva
legato a un albero e che il vento sbattéva di qua e di là. Così
attesero fino a sera, ma il padre e la madre non tornavano e
nessuno veniva a prenderli. Quando fu notte fonda Grethel
incominciò a piangere, ma Hansel disse: -Aspetta soltanto
un poco, finché‚ sorga la luna-. E quando la luna sorse, prese
Grethel per mano; i ciottoli brillavano come monete nuove
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di zecca e indicavano loro il cammino. Camminarono tutta
la notte e quando fu mattina giunsero alla casa patema. Il
padre si rallegrò di cuore quando vide i suoi bambini,
poiché gli era dispiaciuto doverli lasciare soli; la madre finse
anch'essa di rallegrarsi, ma segretamente ne era furiosa.
Non passò molto tempo e il pane tornò a mancare in casa, e
Hansel e Grethel udirono una sera la madre che diceva al
padre: -Una volta i bambini hanno ritrovato il cammino e io
ho lasciato correre: ma adesso non c'è di nuovo più niente,
rimane solo una mezza pagnotta in casa; devi condurli
domani più addentro nel bosco, perché non ritrovino la
strada: per noi non c'è altro rimedio-. L'uomo si sentì
stringere il cuore e pensò: "Sarebbe meglio se dividessi
l'ultimo boccone con i tuoi bambini". Ma siccome aveva già
ceduto una volta, non potè dire di no. Quando i bambini
ebbero udito quel discorso, Hansel si alzò per raccogliere di
nuovo i ciottoli, ma quando giunse alla porta, la madre
l'aveva chiusa. Tuttavia consolò Grethel e disse: -Dormi,
cara Grethel, il buon Dio ci aiuterà-.
Allo spuntar del giorno ebbero il loro pezzetto di pane,
ancora più piccolo della volta precedente. Per strada Hansel
lo sbriciolò in tasca; si fermava sovente e gettava una
briciola per terra. -Perché‚ ti fermi sempre, Hansel, e ti
guardi intorno?- disse il padre. -Cammina!- -Ah! Guardo il
mio piccioncino che è sul tetto e vuole dirmi addio.- Sciocco- disse la madre -non è il tuo piccione, è il primo sole
che brilla sul comignolo.- Ma Hansel sbriciolò tutto il suo
pane e gettò le briciole per via. La madre li condusse ancora
più addentro nel bosco, dove non erano mai stati in vita
loro. Là dovevano di nuovo sedere accanto al fuoco e
dormire e alla sera i genitori sarebbero venuti a prenderli. A
mezzogiorno Grethel divise il proprio pane con Hansel, che
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aveva sparso tutto il suo per via. Ma passò mezzogiorno e
passò anche la sera senza che nessuno venisse dai poveri
bambini. Hansel consolò Grethel e disse: -Aspetta che sorga
la luna: allora vedrò le briciole di pane che ho sparso; ci
mostreranno la via di casa-.
La luna sorse, ma quando Hansel cercò le briciole non le
trovò: i mille e mille uccellini del bosco le avevano viste e le
avevano beccate. Hansel pensava di trovare ugualmente la
via di casa e si portava dietro Grethel, ma ben presto si
persero nel grande bosco; camminarono tutta la notte e tutto
il giorno, poi si addormentarono per la gran stanchezza. Poi
camminarono ancora tutta una giornata, ma non riuscirono
a uscire dal bosco, e avevano tanta fame, perché‚ non
avevano nient'altro da mangiare che un po' di bacche
trovate per terra. Il terzo giorno, quand'ebbero camminato
fino a mezzogiorno, giunsero a una casina fatta di pane e
ricoperta di focaccia, con le finestre di zucchero trasparente.
-Ci siederemo qui e mangeremo a sazietà- disse Hansel. -Io
mangerò un pezzo di tetto; tu, Grethel, mangia un pezzo di
finestra: è dolce.Quando Grethel incominciò a rosicchiare lo zucchero, una
voce sottile gridò dall'interno:-Chi mi mangia la casina
zuccherosa e sopraffina?-I bambini risposero:-E' il vento che
piega ogni stelo, il bel bambino venuto dal cielo.- E
continuarono a mangiare. Grethel tirò fuori tutto un vetro
rotondo e Hansel staccò un enorme pezzo di focaccia dal
tetto. Ma d'un tratto la porta della casa si aprì e una vecchia
decrepita venne fuori piano piano. Hansel e Grethel si
spaventarono tanto che lasciarono cadere quello che
avevano in mano. Ma la vecchia scosse il capo e disse: -Ah,
cari bambini, come siete giunti fin qui? Venite dentro con
61
me, siete i benvenuti-. Prese entrambi per mano e li
condusse nella sua casetta.
Fu loro servita una buona cena, latte e frittelle, mele e noci;
poi furono preparati due bei lettini bianchi, e Hansel e
Grethel si coricarono e pensavano di essere in Paradiso. Ma
la vecchia era una strega cattiva che attendeva con
impazienza l'arrivo dei bambini e, per attirarli, aveva
costruito la casetta di pane. Quando un bambino cadeva
nelle sue mani, lo uccideva, lo cucinava e lo mangiava; e per
lei quello era un giorno di festa. Era proprio felice che
Hansel e Grethel fossero capitati lì. Di buon mattino, prima
che i bambini fossero svegli, ella si alzò, andò ai loro lettini,
e quando li vide riposare così dolcemente, si rallegrò e
mormorò fra s‚: -Saranno un buon bocconcino per me!-. Poi
afferrò Hansel e lo rinchiuse in una stia. Quando questi si
svegliò, si trovò circondato da una grata, come un pollo da
ingrassare, e poteva fare solo pochi passi. Poi la vecchia
svegliò Grethel con uno scossone e le gridò: -Alzati,
poltrona, prendi dell'acqua e vai in cucina a preparare
qualcosa di buono; tuo fratello è là nella stia e voglio
ingrassarlo per poi mangiarmelo; tu devi dargli da
mangiare-. Grethel si spaventò e pianse, ma dovette fare
quello che voleva la strega. Ora ad Hansel venivano cucinati
ogni giorno i cibi più squisiti, poiché‚ doveva ingrassare;
Grethel invece non riceveva altro che gusci di gambero.
Ogni giorno la vecchia veniva e diceva: -Hansel, sporgi le
dita, che senta se presto sarai grasso-. Ma Hansel, che si era
accorto che la strega non ci vedeva bene, le sporgeva sempre
un ossicino ed ella si meravigliava che non volesse proprio
ingrassare. Dopo quattro settimane, una sera disse a
Grethel: -Vai a prendere dell'acqua, svelta; grasso o magro
che sia, domani ammazzerò il tuo fratellino e lo cucinerò;
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nel frattempo mi metterò a impastare il pane da cuocere nel
forno-. Con il cuore grosso, Grethel portò l'acqua nella quale
doveva essere cucinato Hansel. Dovette poi alzarsi di buon
mattino, accendere il fuoco e appendere il paiolo pieno
d'acqua. -Ora fa' attenzione- disse la strega. -Accendo il
fuoco nel forno per cuocere il pane.- Grethel era in cucina e
piangeva a calde lacrime mentre pensava: "Ci avessero
divorato le bestie feroci nel bosco! Almeno saremmo morti
insieme senza dover sopportare questa pena, e io non
dovrei far bollire l'acqua che deve servire per la morte di
mio fratello. Buon Dio, aiuta noi, miseri bambini!- La
vecchia gridò: -Grethel, vieni subito qui al forno!- e quando
Grethel arrivò, disse: -Dai un'occhiata dentro se il pane è
ben cotto e dorato; i miei occhi sono deboli e io non arrivo a
vedere fin là. E se anche tu non ci riesci, siediti sull'asse: ti
spingerò dentro, così potrai controllare meglio-.
Ma la perfida strega aveva chiamato Grethel perché‚
pensava, una volta spintala dentro al forno, di chiuderlo e di
farla arrostire per mangiarsi pure lei. Ma Dio ispirò alla
fanciulla un'idea, ed ella disse: -Non so proprio come fare,
fammi vedere tu per prima: siediti sull'asse e io ti spingerò
dentro-. La vecchia si sedette e, siccome era leggera, Grethel
potè spingerla dentro, il più in fondo possibile; poi chiuse in
fretta la porta e mise il paletto di ferro. Allora la vecchia
incominciò a gridare e a lamentarsi nel forno bollente, ma
Grethel corse via, da Hansel, non prima di aver gettato un
secchio d’acqua fredda sul fuoco, per spegnerlo, affinché la
strega fosse prigioniera, ma non rischiasse di essere
bruciata.
Andò da Hansel, gli aprì la porticina della gabbia e gridò: Salta fuori, Hansel, siamo liberi!-. Allora Hansel saltò fuori,
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come un uccello quando gli aprono la gabbia. Ed essi
piansero di gioia e si baciarono.
“Dov’è la strega cattiva?” chiese Hansel “L’ho chiusa dentro
il forno, però ho spento il fuoco, per non ucciderla” rispose
Grethel. “Già. Non possiamo lasciarla morire”, sospirò
Hansel, “altrimenti diventeremmo come lei”. “Già” ne
convenne Grethel, “ma se apriremo il forno lei ci farà
nuovamente prigionieri, con qualche incantesimo dei suoi”.
Mentre riflettevano sul da farsi, un corvo dal piumaggio
nero e luminoso entrò nella casetta ed esclamò: “Lasciate
che mi presenti, ragazzi miei. Sono Mastro Corvo,
messaggero alato del bosco. Passando da queste parti ho per
caso udito la vostra conversazione. Penso che per una
questione così delicata potreste rivolgervi al grande Faggio.
E’ lui che più d’ogni altro conosce la legge, qui nel bosco, lui
saprà decidere con equità sul da farsi.” “E dove si trova il
Faggio di cui parli?” chiese Hansel. “Venite con me, vi ci
condurrò io”.
Il corvo li guidò nel bosco e, non molto lontano dalla
casetta, nel bel mezzo d’una radura, s’ergeva il saggio
albero, vigile, coi suoi lunghi rami eretti verso il cielo. Come
s’appressarono, egli li apostrofò: “Cosa vi mena al mio
cospetto, fanciulli?” La sua voce era calda e gentile. Mastro
Corvo s’andò ad appollaiare su un suo ramo in alto in alto e
gli sussurrò tutta la vicenda dei due fratellini. Il Faggio si
commosse e li spruzzò tutti con la sua magica polverina, in
segno di solidarietà. Poi si mise a pensare a cosa fare con la
strega. Voleva che smettesse di mangiare bambini e di far
loro tanta paura, ma mai l’avrebbe uccisa. Così parlò:
“Bambini, Mastro Corvo, ecco la mia decisione: la strega
deve stare in un posto dove non possa nuocere al alcuno,
per molti anni. Il posto migliore è per il momento dentro il
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mio tronco, ove potrò prendermi personalmente cura di lei.
Non esistono persone cattive, solo persone che la sofferenza
ha reso cattive. Se lei un giorno parlerà del suo dolore, forse
smetterà di odiare tanto i bambini.”. “Anche la nostra
mamma lo diceva sempre” sussurrò Grethel. “Qual è il suo
dolore, grande Faggio?” chiese Hansel, che aveva intuito
qualcosa,“E’ una vecchia storia” proseguì Faggio. “Ella
venne abbandonata dai suoi egoisti genitori nel bosco da
piccina, proprio come voi, venne rapita da una strega cattiva
che poi morì e dalla quale ella ereditò il librone degli
incantesimi. Così visse da sola nel bosco, cercando di
sopravvivere alla miseria, ai brutti ricordi e alla solitudine”.
“Niente di strano se si comporta così male, allora”, concluse
tutta seria Grethel, rivelando il suo animo nobile. “Quanto
a voi, bambini, se vi piacerà, potrete restare nella casetta del
bosco. Io, Mastro Corvo e tutti gli amici del bosco ci
prenderemo cura di voi. Inoltre, tutta la casetta è piena di
perle e di pietre preziose: quelle basteranno a farvi vivere
agiatamente. Infine, c’è una scorciatoia, dietro la casa, che
arriva dritta dritta fino al villaggio, dove potrete andare a
scuola. “Sììì!!” Strillarono in coro Hansel e Grethel. Così
venne deciso, e, tutti insieme, Faggio, Mastro Corvo, gli
amici del bosco, Hansel e Grethel cominciarono la loro
nuova felice vita insieme.
Dall'originale dei Fratelli Grimm
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BABA – JAGA
C'erano un tempo un uomo e una donna. L'uomo rimase
vedovo e sposò un'altra donna; ma dalla prima moglie
aveva avuto una figlia. La cattiva matrigna non voleva bene
alla figliastra, la batteva e pensava come poteva fare per
liberarsene del tutto.
Un giorno il padre partì, e la matrigna disse alla bambina:
"Va' da tua zia, mia sorella, e chiedile ago e filo, per cucirti
una camicetta".
Ma questa zia era una "baba-jaga", gamba d'osso.
Però la bambina non era stupida, e andò prima da un'altra
zia, sorella della sua vera madre.
"Buongiorno, zietta!"
"Buongiorno, cara! Qual buon vento ti porta?"
"La mia matrigna mi ha detto di andare da sua sorella a
chiedere ago e filo, per
cucirmi una camicetta."
La zia le disse: "Nipotina mia, là dove andrai ci sarà una
betulla che vorrà graffiarti sugli occhi: tu legala con un
nastrino; ci sarà un portone che cigolerà e vorrà sbatterti in
faccia: tu versagli un po' d'olio sui cardini, ci saranno dei
cani che vorranno morderti: tu getta loro del pane; e un
gatto vorrà
cavarti gli occhi: tu dagli un po' di prosciutto".
La bambina andò: eccola che cammina, cammina e
finalmente arriva. C'era una capanna; dentro, la "baba-jaga"
gamba d'osso, seduta, fila.
"Buongiorno, zietta!"
"Buongiorno, carina!"
"Mi ha mandato da te la mamma a chiederti ago e filo, per
cucirmi una camicetta."
"Benissimo, intanto, mettiti a filare."
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Ecco che la bambina si sedette al telaio, mentre la "babajaga" uscì e disse alla sua aiutante:
"Va', scalda il bagno e lava la mia nipotina, ma bada di farlo
per benino: me la voglio mangiare per colazione".
La bambina se ne restò seduta più morta che viva, tutta
spaventata, e pregò l'aiutante:
"Non accendere più legna dell'acqua che versi, e l'acqua
portala con un setaccio", e le regalò un fazzoletto.
La "baba-jaga" aspettava; poi andò alla finestra e domandò:
"Stai filando, nipotina, stai filando mia piccina?"
"Sto filando, cara zia, sto filando".
La "baba-jaga" si allontanò e la bambina diede il prosciutto
al gatto e gli chiese: "Non si può fuggire di qui in qualche
modo?"
"Eccoti un pettinino e un asciugamano" disse il gatto,
"prendili e scappa; la "baba-jaga" ti inseguirà, ma tu poggia
l'orecchio a terra e appena senti che s'avvicina, getta via
prima l'asciugamano: nascerà un fiume, largo largo; se la
"baba-jaga" riuscirà ad attraversarlo e ricomincerà ad
inseguirti, tu poggia di nuovo l'orecchio al suolo e, quando
senti che s' avvicina, getta il pettinino:n nascerà un bosco,
fitto fitto; quello non potrà oltrepassarlo davvero!"
La bambina prese l'asciugamano e il pettinino e fuggì: i cani
la volevano sbranare, ma essa gettò loro il pane, e quelli la
lasciarono passare; il portone voleva sbattere e chiudersi,
ma essa gli versò un po' d'olio sui cardini, e quello la lasciò
passare; la betulla voleva strapparle gli occhi, ma la
bambina la legò con un nastrino, e quella la lasciò andare.
Intanto il gatto si mise al telaio a filare: ma, più che filare,
fece un gran pasticcio! La "baba-jaga" si avvicinò alla
finestra e domandò:
"Stai filando, nipotina, stai filando, mia piccina?"
"Sto filando, cara zia, sto filando!" rispose brusco il gatto.
67
La "baba-jaga" si precipitò nella capanna, vide che la
bambina era fuggita e giù botte al gatto! Lo sgrido perché
non aveva graffiato la bambina sugli occhi.
"E' tanto tempo che ti servo" rispose il gatto, "e non mi hai
mai dato nemmeno un ossicino; lei invece mi ha dato un
pezzo di prosciutto!"
La "baba-jaga" si scagliò contro i cani, il portone la betulla e
l'aiutante, e giù a picchiare e a sgridare tutti! I cani le
dissero:
"Ti serviamo da tanto tempo e non ci hai mai dato neppure
una crosta bruciacchiata; lei invece ci ha dato il pane!".
La betulla disse: "E' tanto che ti servo, e non mi hai legata
neppure con un filo; lei invece mi ha ornata con un
nastrino".
L'aiutante disse: "Ti ho servita per tanto tempo, e tu non mi
hai regalato nemmeno uno straccio; lei, invece, mi ha
regalato un fazzoletto".
La "baba-jaga" gamba d'osso balzò rapidamente a cavallo
del mortaio, lo incitò col pestello, lo guidò con la scopa e si
gettò all'inseguimento della bambina.
La bambina poggiò l'orecchio a terra e sentì che la "babajaga" l'inseguiva e s'avvicinava, prese l'asciugamano e lo
buttò via: nacque un fiume largo largo!
La "babajaga" arrivò al fiume e per la rabbia digrignò i denti,
tornò a casa, prese i suoi buoi e li sospinse verso il fiume: i
buoi se lo bevvero tutto.
La "baba-jaga" si lanciò di nuovo all'inseguimento. La
bambina poggiò l'orecchio al suolo, sentì che la "baba-jaga"
era vicina, e gettò il pettinino; nacque un bosco, fitto da far
paura! La "baba-jaga" cominciò a rosicchiarlo, ma, per
quanto facesse, non riuscì a rosicchiarlo tutto e tornò
indietro.
68
Intanto il padre era tornato a casa e aveva chiesto: "Dov'è
mia figlia?"
"E' andata dalla zia" aveva risposto la matrigna.
Un po' più tardi tornò a casa anche la bambina.
"Dove sei stata?" le chiese il padre. "Ah, piccolo padre!" dice
lei, "La mamma mi ha mandato dalla zia a chiedere ago e
filo, per cucirmi una camicetta, ma la zia è una "baba-jaga" e
voleva mangiarmi."
"Come hai fatto a scappare, figlia mia?" E la bambina
raccontò l’accaduto per filo e per segno..
Il padre, quando ebbe saputo tutto, dapprima si arrabbiò
con la moglie e le impose di andare in pellegrinaggio, nel
bosco, dove avrebbe riflettuto sulle sue azioni e vissuto in
affidamento agli spiriti di natura del luogo per tutto il
tempo necessario a rinsavire.
Poi pensò a quanto sconsiderata potesse essere stata da
parte sua una scelta simile: come aveva fatto ad innamorarsi
e a sposare una donna che sapeva amare così poco? Non
sarà stato che forse anche lui era incapace d’amare, dopo la
morte della sua adorata prima moglie? Cominciò a
piangere, lentamente, e pianse fino a che non sentì il cuore
diventare leggero. Poi abbracciò stretto stretto la figlia e le
chiese perdono. Ed ella lo perdonò.
Da quel giorno padre e figlia vissero sereni; a festeggiar con
loro anch'io son stato, molto idromele ho bevuto; ma sui
baffi m'è colato, nella bocca nulla è andato e così sobrio son
restato! Evviva!
Dall'originale di Nikolaj Afanasiev
69
PUCCETTINO
C'era una volta un taglialegna e una taglialegna, i quali
avevano sette figliuoli, tutti maschi: il maggiore aveva dieci
anni, il minore sette. Farà forse caso di vedere come un
taglialegna avesse avuto tanti figliuoli in così poco tempo:
ma egli è, che la sua moglie era svelta nelle sue cose, e
quando ci si metteva, non faceva meno di due figliuoli alla
volta.
E perché erano molto poveri, i sette ragazzi davano loro un
gran pensiero, per la ragione che nessuno di essi era in
grado di guadagnarsi il pane.
La cosa che maggiormente li tormentava, era che il minore
veniva su delicato e non parlava mai: e questo che era un
segno manifesto di bontà del suo carattere, lo scambiavano
per un segno di stupidaggine.
Il ragazzo era minuto di persona; e quando venne al mondo,
non passava la grossezza di un dito pollice; per cui lo
chiamarono Puccettino.
Capitò un'annata molto trista, nella quale la carestia fu così
grande, che quella povera gente risolvettero di disfarsi de'
loro figliuoli.
Una sera che i bambini erano a letto, e che il taglialegna
stava nel canto del fuoco, disse, col cuore che gli si
spezzava, alla sua moglie:
"Come tu vedi, non abbiamo più da dar da mangiare ai
nostri figliuoli: e non mi regge l'animo di vedermeli morir di
fame innanzi agli occhi: oramai io sono risoluto a menarli
nel bosco e farveli sperdere; né ci vorrà gran fatica, perché,
mentre essi si baloccheranno a far dei fastelli, noi ce la
daremo a gambe, senza che abbiano tempo di andarsene".
70
"Ah!", gridò la moglie, "e puoi tu aver tanto cuore da
sperdere da te stesso le tue creature?"
Il marito ebbe un bel tornare a battere sulla miseria, in cui si
trovavano; ma la moglie non voleva acconsentire a nessun
patto. Era povera, ma era madre: peraltro, ripensando
anch'essa al dolore che avrebbe provato se li avesse veduti
morire di fame, finì col rassegnarvisi, e andò a letto
piangendo.
Puccettino aveva sentito tutti i loro discorsi: e avendo
capito, dal letto, che ragionavano di affari, si levò in punta
di piedi, sgattaiolando sotto lo sgabello di suo padre, per
potere ascoltare ogni cosa senz'esser visto.
Quindi ritornò a letto, e non chiuse un occhio nel resto della
nottata, rimuginando quello che doveva fare. Si levò a
giorno, e andò sul margine di un ruscello, dove si riempì la
tasca di sassolini bianchi: poi chiotto chiotto se ne tornò a
casa.
Partirono, ma Puccettino non disse nulla ai suoi fratelli di
quello che sapeva.
Entrarono dentro una foresta foltissima, dove alla distanza
di due passi non c'era modo di vedersi l'uno coll'altro. Il
taglialegna si messe a tagliar legne, e i ragazzi a raccogliere
delle frasche per far dei fastelli.
Il padre e la madre, vedendoli intenti al lavoro, si
allontanarono adagio adagio, finché se la svignarono per un
viottolo fuori di mano. Quando i ragazzi si videro soli, si
misero a strillare e a piangere forte forte.
Puccettino li lasciò berciare, essendo sicuro che a ogni modo
sarebbero tornati a casa; perché egli, strada facendo, aveva
lasciato cadere lungo la via i sassolini bianchi che s'era
messi nella tasca. "Non abbiate paura di nulla, fratelli miei",
disse loro, "il babbo e la mamma ci hanno lasciati qui soli;
ma io vi rimenerò a casa: venitemi dietro."
71
Essi infatti lo seguirono, ed egli li menò per la stessa strada
che avevano fatta, andando al bosco. Da principio non
ebbero coraggi d'entrarvi: e si misero in orecchio alla porta
di casa per sentire quello che dicevano fra loro, il padre e la
madre.
Ora bisogna sapere che quando il taglialegna e sua moglie
rientrarono in casa, trovarono che il signore del villaggio
aveva mandato loro dieci scudi, di cui era debitore da molto
tempo, e sui quali non ci contavano più. Questo bastò per
rimettere un po' di fiato in corpo a quella povera gente, che
era proprio a tocco e non tocco per morir di fame. Il
taglialegna mandò subito la moglie dal macellaro. E siccome
era molto tempo che non s'erano sfamati, essa comprò tre
volte più di carne di quella che ne sarebbe abbisognata per
la cena di due persone.
Quando furono pieni, la moglie disse: "Ohimè! dove
saranno ora i nostri figliuoli? se fossero qui potrebbero farsi
tondi coi nostri avanzi! Ma tant'è, Guglielmo, se' stato tu che
hai voluto smarrirli: ma io l'ho detto sempre che ce ne
saremmo pentiti. Che faranno ora nella foresta? Ohimè! Dio
mio! i lupi forse a quest'ora l'hanno bell'e divorati. Proprio
non bisogna aver cuore, come te, per isperdere i figliuoli a
questo modo!...".
Il taglialegna perse la pazienza, perché la moglie tornò a
ripetere più di venti volte che egli se ne sarebbe pentito, e
che essa l'aveva di già detto e ridetto: e minacciò di
picchiarla se non si fosse chetata.
Questo non voleva dire che il taglialegna non potesse essere
anche più addolorato della moglie; ma essa lo tormentava
troppo: ed egli somigliava a tanti altri, che se la dicono
molto colle donne che parlano con giudizio, ma non
possono soffrire quelle che hanno sempre ragione. La
taglialegna si struggeva in pianti, e seguitava sempre a dire:
72
"Ohimè! dove saranno ora i miei bambini? i miei poveri
bambini?". Una volta, fra le altre, lo disse così forte, che i
ragazzi, che erano dietro l'uscio, la sentirono e gridarono
tutti insieme: "Siamo qui! siamo qui!". Essa corse subito ad
aprir l'uscio e, abbracciandoli, disse:
"Che contentezza a rivedervi, miei cari figliuoli! Chi lo sa
come siete stanchi, e che fame avete! e tu, Pieruccio, guarda
un po' come ti sei inzaccherato! vien qua, che ti spillaccheri".
Pieruccio era il maggiore dei figliuoli e la madre gli voleva
più bene che agli altri, perché era rosso di capelli come lei.
Si messero a tavola e mangiarono con un appetito, che
fecero proprio consolazione al babbo e alla mamma, ai quali
raccontarono, parlando quasi tutti nello stesso tempo, la
gran paura che avevano avuta nella foresta. Quella buona
gente era tutta contenta di rivedere i figliuoli in casa; ma la
contentezza durò finché durarono i dieci scudi. Quando
questi finirono, tornarono al sicutera delle miserie, e allor
decisero di smarrirli daccapo; e per andare sul sicuro,
pensarono di condurli molto più lontani della prima volta.
Peraltro di questa cosa non poterono parlarne con tanta
segretezza, che Puccettino non sentisse tutto; il quale pensò
di cavarsene fuori col solito ripiego: se non che, quantunque
si alzasse sul far del giorno per andare in cerca di sassolini
bianchi, rimase proprio come quello, e non poté far nulla,
perché trovò l'uscio di casa serrato a doppia mandata.
Egli non sapeva davvero che cosa stillarsi, quando ecco che
la madre dette a ciascuno di loro un pezzo di pane per
colazione. Allora gli venne in capo che di quel pane avrebbe
potuto servirsene, invece dei sassolini, seminando i
minuzzoli lungo la strada per dove sarebbero passati. E si
messe il pane in tasca.
73
Il padre e la madre li condussero nel punto più folto e più
oscuro della foresta: e quando ci furono arrivati, essi presero
una scappatoia e via.
Puccettino non se ne fece né in qua né in là, perché sapeva
di poter ritrovare facilmente la strada coll'aiuto dei
minuzzoli sparsi; ma figuratevi come rimase, quando si
accorse che i minuzzoli glieli avevano beccati gli uccelli.
Eccoli dunque tutti afflitti, perché più camminavano e più si
perdevano nella foresta. Intanto si fece notte e si alzò un
vento da far paura. Pareva ad essi di sentire da tutte le parti
urli di lupi, che si avvicinavano per mangiarli. Non avevano
fiato né per discorrere, né per voltarsi indietro.
Venne poi una grand'acqua che li bagnò fin sotto la pelle: a
ogni passo sdrucciolavano e cascavano nella mota: e quando
si rizzavano tutti infangati, non sapevano dove mettersi le
mani.
Puccettino montò in cima a un albero per vedere se
scuopriva paese; e guardando da ogni parte, vide un
lumicino piccino, come quello di una candela, il quale era
lontano lontano, molto al di là della foresta.
Scese dall'albero: e quando fu in terra, non vide più nulla.
Questa cosa gli diede un gran dolore. Nonostante,
camminando innanzi coi suoi fratelli, verso quella parte
dove aveva veduto il lumicino, finì col rivederlo da capo
mentre usciva fuori del bosco. Arrivarono finalmente alla
casa dove si vedeva questo lume: non senza provare delle
grandi strette al cuore, perché di tanto in tanto lo perdevano
di vista, segnatamente quando camminavano in qualche
pianura molto bassa.
Picchiarono a una porta: una buona donna venne loro ad
aprire, e domandò loro che cosa volevano. Puccettino disse
che erano poveri ragazzi che s'erano spersi nella foresta, e
che chiedevano da dormire per amor d'Iddio. La donna,
74
vedendoli tutti così carini, si messe a piangere, e disse:
"Ohimè! poveri miei figliuoli, dove siete mai capitati? Ma
non sapete che questa è la casa dell'Orco che mangia tutti i
bambini?".
"Ah, signora", rispose Puccettino, il quale tremava come una
foglia, e così i suoi fratelli. "Che cosa volete che facciamo? Se
non ci pigliate in casa, è sicuro che i lupi stanotte ci
mangeranno. E in tal caso, è meglio che ci mangi questo
signore. Forse se voi lo pregate, potrebbe darsi che avesse
compassione di noi." La moglie dell'Orco, sperando di
poterli nascondere a suo marito fino alla mattina dopo, li
lasciò entrare e li menò a riscaldarsi intorno a un buon
fuoco, dove girava sullo spiede un montone tutt'intero, che
doveva servire per la cena dell'Orco. Mentre cominciavano a
riscaldarsi, sentirono battere tre o quattro colpi screanzati
alla porta. Era l'Orco che tornava.
In men d'un baleno, la moglie li nascose tutti sotto il letto ed
andò ad aprire. L'Orco domandò subito se la cena era lesta e
il vino levato di cantina: e senza perder tempo si mise a
tavola. Il montone non era ancora cotto e faceva sempre
sangue, e per questo gli parve anche più buono. Poi,
fiutando di qua e di là, cominciò a dire che sentiva odore di
carne viva.
"Sarà forse", disse la moglie, "quel vitello che ho spellato or
ora, che vi mette per il naso quest'odore." "E io dico che
sento l'odore di carne viva", riprese l'Orco guardando la
moglie di traverso, "e qui ci deve essere qualche
sotterfugio!..." Nel dir così si alzò da tavola e andò difilato
verso il letto. "Ah!", egli gridò, "tu volevi dunque
ingannarmi, brutta strega? Non so chi mi tenga dal fare un
boccone anche di te. Buon per te, che sei vecchia e tigliosa!
Ecco qui della selvaggina, che mi capita in buon punto per
far trattamento a tre Orchi miei amici, che verranno da me
75
in questi giorni." E li tirò fuori di sotto il letto, uno dietro
l'altro. Quei poveri bambini si buttarono in ginocchio,
chiedendogli perdono, ma avevano da fare col più crudele
di tutti gli Orchi, il quale, facendo finta di sentirne
compassione, li mangiava di già cogli occhi prima del
tempo, dicendo alla moglie che sarebbero stati una pietanza
delicata, in specie se gli avesse accomodati con una buona
salsa. Andò a prendere un coltellaccio, e avvicinandosi a
quei poveri figliuoli, lo affilava sopra una lunga pietra che
egli teneva nella mano sinistra. E ne aveva già agguantato
uno, quando la moglie gli disse: "Che ne volete voi fare a
quest'ora? non sarebbe meglio aspettare a domani?".
"Chetati, te!", riprese l'Orco. "Così saranno più frolli." "Ma ve
ne avanza ancora tanta della carne! C'è qui un vitello, un
montone e un mezzo maiale..." "Hai ragione", disse l'Orco,
"rimpinzali dunque per bene, perché non abbiano a
smagrire, e portali a letto." Quella buona donna, fuor di sé
dalla contentezza, dette loro da cena: ma essi non poterono
mangiare a cagione della gran paura che avevano addosso.
In quanto all'Orco, ricominciò a bere, soddisfattissimo di
aver trovato di che regalare ai suoi amici. Vuotò una
dozzina di bicchieri di più del solito, finché il vino gli die' al
capo e fu obbligato ad andare a letto. L'Orco aveva sette
figliuole, che erano sempre bambine, le quali erano tutte di
un bel colorito, perché, come il padre, si cibavano di carne
cruda; ma avevano degli occhiettini grigi e tondi, e il naso a
punta e una bocca larghissima, con una rastrelliera di denti
lunghi, affilati e staccati l'uno dall'altro. Non erano ancora
diventate cattive: ma promettevano bene, perché di già
mordevano i fanciulli per succhiare il sangue. Le avevano
mandate a dormire di buon'ora, ed erano tutte e sette in un
gran letto, ciascuna con una corona d'oro sulla testa. Nella
stessa camera c'era un altro letto della medesima grandezza.
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Fu appunto in questo letto che la moglie dell'Orco messe a
dormire i sette ragazzi; e dopo andò a coricarsi accanto a
suo marito.
Puccettino, che s'era avviso che le figlie dell'Orco portavano
una corona d'oro in capo, e che aveva sempre paura che
l'Orco non si ripentisse di averli sgozzati subito, si levò
verso mezzanotte, e prendendo i berretti dei fratelli ed il
suo, andò pian pianino a metterli sul capo delle sette figlie
dell'Orco, dopo aver loro levata la corona d'oro, che pose sul
capo suo e de' suoi fratelli, perché l'Orco li scambiasse per le
proprie figlie, e pigliasse le sue figlie per i fanciulli che
voleva sgozzare. E la cosa andò appuntino com'egli se l'era
figurata; perché l'Orco, svegliatosi sulla mezzanotte, si pentì
di aver differito al giorno dopo quello che poteva aver fatto
la sera stessa.
Saltò dunque il letto bruscamente, e prendendo il
coltellaccio: "Andiamo un po' a vedere", disse, "come stanno
queste birbe; e facciamola finita una volta per tutte". Quindi
salì a tastoni nella camera delle sue figlie, e si avvicinò al
letto dove erano i ragazzi, i quali dormivano tutti, meno
Puccettino, che ebbe una gran paura quando sentì l'Orco che
gli tastava la testa, come l'aveva già tastata ai suoi fratelli.
L'Orco sentendo la corona d'oro, disse:
"Ora la facevo bella davvero! Si vede proprio che ieri sera ne
ho bevuto mezzo dito di più".
Allora andò all'altro letto, e avendo sentito i berretti dei
ragazzi:
"Eccoli", disse, "questi monellacci! Lavoriamo di fine". E nel
dir così, senza esitare, tagliò la gola alle sue sette figliuole.
Contentissimo del fatto suo, andò di nuovo a coricarsi
accanto alla moglie. Appena che Puccettino sentì l'Orco che
russava, svegliò i suoi fratelli e disse loro di vestirsi subito e
di seguirlo. Scesero in punta di piedi nel giardino e
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scavalcarono il muro. Corsero a gambe quasi tutta la notte,
tremando come foglie, e senza sapere dove andavano.
Quando l'Orco si svegliò, disse alla moglie: "Va' un po' a
vestire quei monelli di ieri sera". L'Orchessa restò molto
meravigliata della bontà insolita di suo marito, e non le
passò neanche dalla mente che per vestirli egli volesse
intendere un'altra cosa, credendo in buona fede di doverli
andare a vestire. Salì dunque di sopra, e rimase senza fiato
in corpo, vedendo le sue sette figliuole scannate e immerse
nel proprio sangue. Cominciò subito dallo svenirsi, essendo
questo il primo espediente, a cui in simili casi ricorrono
tutte le donne. L'Orco, temendo che la moglie non mettesse
troppo tempo a far quello che le aveva ordinato, salì di
sopra anche lui per darle una mano; e non rimase meno
sconcertato alla vista di quello spettacolo orrendo.
"Ah! che ho mai fatto?", gridò. "Ma quei disgraziati me la
pagheranno, e subito!" E senza mettere tempo in mezzo,
gettò una brocca d'acqua sul naso della moglie, e così
avendola fatta tornare in sé: "Dammi subito", disse, "i miei
stivali di sette chilometri, perché io li voglio raggiungere". E
uscì fuori all'aperta campagna, e dopo aver corso di qua e di
là, finalmente infilò la strada che battevano per l'appunto
quei poveri ragazzi, che erano forse distanti non più di
cento passi dalla casa paterna.
Essi videro l'Orco che passava di montagna in montagna,
traversando i fiumi colla stessa facilità come se fossero stati
rigagnoli.
Puccettino avendo occhiata una roccia incavata, lì vicino al
luogo dove si trovavano, vi fece nascondere i sei fratelli, e vi
si nascose anch'esso, senza perdere peraltro di vista tutte le
mosse dell'Orco.
L'Orco che cominciava a sentirsi rifinito dalla strada fatta
(perché gli stivali di sette chilometri son molto faticosi per
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chi li porta), pensò di ripigliar fiato, e il cielo volle che
andasse per l'appunto a sedersi sopra la roccia, dove quei
ragazzi si erano nascosti.
E siccome era stanco morto, dopo essersi sdraiato si
addormentò, e si messe a russare con tanto fracasso, che i
poveri ragazzi ebbero la stessa paura di quando lo videro
col coltellaccio in mano, in atto di far loro la festa.
Ma Puccettino non ebbe tutta questa paura, e disse ai fratelli
di scappare a gambe verso casa, mentre l'Orco dormiva
come un ghiro; e di non stare in pena per lui. Essi non se lo
fecero dir due volte, e in pochi minuti arrivarono a casa.
Puccettino intanto si avvicinò all'Orco: gli levò adagino gli
stivali, e se l'infilò per sé. Questi stivali erano molto grandi e
molto larghi, ma perché eran fatati, avevano la virtù
d'ingrandirsi e di rimpicciolirsi, secondo la gamba di chi li
calzava: per cui, gli tornavano precisi, come se fossero stati
fatti per il suo piede. Eglì andò di carriera alla casa
dell'Orco, dove trovò la moglie che piangeva per le figlie
uccise. "Vostro marito", le disse Puccettino, "si trova in un
gran pericolo: è cascato fra le mani di una banda di
assassini, che hanno giurato di ucciderlo, se non consegna
loro tutto il suo oro e il suo argento. Mentre gli stavano col
pugnale alla gola, esso mi ha visto, e mi ha pregato di venir
qui per avvertirvi della sua trista condizione e per invitarvi
a darmi tutto quello che egli possiede di prezioso, senza
ritenervi nulla, perché caso diverso, lo uccideranno
senz'ombra di misericordia. E siccome il tempo stringe, egli
ha voluto che prendessi i suoi stivali di sette chilometri,
come vedete, e non solo perché mi spicciassi, ma anche
perché possiate accertarvi che non sono un imbroglione." La
buona donna, tutta spaventata, gli diede ogni cosa che
aveva; perché l'Orco, in fin dei conti, era un buon marito,
quantunque fosse ghiotto di bambini. Puccettino, col carico
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addosso di tutte le ricchezze dell'Orco, tornò a casa del
padre, dove fu accolto con grandissima festa.
C'è per altro della gente che non crede che la cosa finisse
così; e pretendono che Puccettino non commettesse mai
questo furto a danno dell'Orco: e che solo non si facesse
scrupolo di prendergli gli stivali di sette chilometri, perché
egli se ne serviva unicamente per dare la caccia ai ragazzi.
Questi tali accertano di aver saputo la verità proprio sul
posto, per essersi trovati a mangiare e bere nella locanda
vicina alla stessa casa del taglialegna.
Raccontano, dunque, che quando Puccettino ebbe infilato gli
stivali dell'Orco, si diresse pel bosco alla ricerca d’altri
sfortunati come lui e i suoi fratelli, abbandonati da genitori
troppo egoisti per meritare dei bambini tanto buoni e
gentili. Lui e codesti altri infatti, s’andavano a sostenere che
la fame non ti può mai far abbandonare quelli che ami e non
v’è ragione che tenga, non mariti violenti o fami nere, no
niente, semmai ci può essere un impegno chiesto ai figli di
lavorare tutti, o magari farne un po’ meno di sette alla volta,
chissà.
Così, radunati i ragazzi ramenghi del bosco, questa gente
raccontava ch’essi costruirono prima una spelonca, poi una
casa vera e propria, con dei magnifici giardini, che fosse da
riparo e usbergo per tutti. Le regole che la governavano
erano Accoglienza e Lavoro: ciascuno di essi, a turno,
indossava i famosi coturni e prestava servigi, ora al re, ora ai
principi, ora alla gente del paese, come postino e
ambasciatore. Col danaro ricavato si mandava tutti avanti
La Casa di Puccettino, con gli agi necessari sì, ma
soprattutto con tanto amore, perché è proprio detto che
questi ragazzini si prodigavano per far sentire ben accolti i
80
nuovi arrivati, per rassicurarli ed insegnar loro nuovamente
la fiducia nel prossimo.
Puccettino, dal canto suo, andò alla casa del padre a
riprendere i fratelli ed essi lo seguirono di buon grado. A
nulla valsero le lacrime della madre: “Potevi pensarci prima
di abbandonarci”, le risposero. “E’ stato vostro padre!” urlò
disperata la meschina. “Potevi decidere di restare con noi
nel bosco se lui ti faceva tanta paura da non poterti opporre
alla sua sventata decisione” ribattè Pieruccio, quello rosso di
capelli come lei. “Ma saremmo morti di fame e di stenti” si
lagnò quella. “Ti sembriamo morti noi?!” le chiesero, ma
non era una domanda vera. Detto questo si voltarono tutti,
chiusero la porta e non tornarono più.
Però quella gente diceva anche che, raggiunta la maggiore
età, Puccettino avesse perdonato alla madre e al padre
l’orribil gesto commesso, s’era addivenuto a pensare, a
cagione dell’ignoranza. “Padre, perdona loro perché non
sanno quello che fanno”, raccontano fosse solito ripetere ai
nuovi trovatelli che bussavano alla sua porta, sorridendo,
usando le parole di Nostro Signore Gesù, mentre piantava
carote nell’orto.
La storia di questo piccolo eroe, che i francesi chiamano
Petit Poucet, perché era grande appena come il dito pollice,
è stata forse inventata apposta per dar ragione e autorità a
quell'antico proverbio che dice: "Gli uomini non si misurano
a canne!"
Dall'originale di Perrault tradotto da Collodi
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L'ACCIARINO
Per la strada maestra veniva marciando un soldato:
Uno, due! Uno, due! - Aveva sulle spalle il suo bravo zaino e
al fianco la spada, perchè era stato alla guerra ed ora se ne
tornava a casa sua. Sulla strada maestra, s'imbattè in una
vecchia strega, brutta da far paura, col labbro inferiore che
le pendeva giù sino a mezzo il petto. Disse la strega: «Buona
sera, soldato! Che bella spada tu hai! e che zaino! Sei
proprio un vero soldato! E io ti dico che avrai tanto danaro
quanto mai ne puoi desiderare.»
«Grazie tante, vecchia strega!» - disse il soldato.
«Vedi quel grosso albero?» - disse la strega, e accennava
ad uno di quelli che fiancheggiavano la strada: «Dentro è
tutto vuoto. Se tu sali sino alla vetta, vedrai un buco, per il
quale ti puoi calar giù in fondo all'albero. Ti legherò una
corda alla cintola per tirarti su quando chiamerai.»
«Bene: e che ci avrei da fare giù, dentro all'albero?» domandò il soldato.
«Che ci avresti da fare? Toh! Prenderti il danaro!» rispose la strega. «Hai da sapere che appena sarai in fondo
al tronco, ti troverai in un ampio sotterraneo; ma laggiù,
però, è chiaro come di giorno, perchè ci ardono più di cento
lampade. Là vedrai tre porte: padrone tu di aprirle, perchè
le chiavi son nella toppa. Se vai nella prima stanza, vedrai in
mezzo dell'impiantito un grande scrigno: su questo scrigno
sta accovacciato un cane con un par d'occhi grandi come
scodelle. Ma non te ne devi fare nè in qua nè in là. Ti darò il
mio grembiale di rigatino, e tu stendilo per terra; poi, va'
diritto al cane, prendilo e posalo sul grembiale; apri lo
scrigno, e togline quanto danaro vuoi: è tutto rame sonante.
Se però preferisci l'argento, non hai che da andare nella
seconda stanza. Là ci sta un cane, che ha un par d'occhi
82
grandi come le mole da molino; ma tu a questo non hai da
badare: posalo sopra il mio grembiale, e prenditi quanto
danaro vuoi. Che se poi, invece, tu vuoi oro, ne trovi quanto
ne puoi portare e molto più; basta tu vada nella terza stanza.
Solo che il cane, il quale sta sopra al terzo scrigno, ha certi
occhi, che ognuno è grande come un torrione rotondo.
Quello, vedi, è un cane!... Ma tu devi fare come se non fosse
affar tuo. Posalo sul mio grembiale, e allora non ti farà nulla,
e tu potrai prenderti tutto l'oro che vuoi.»
«Eh, non mi dispiace,» - disse il soldato: «Ma a te, poi,
vecchia strega, che dovrò io dare in pagamento? Perchè
qualche cosa, m'immagino, tu vorrai anche per te.»
«No,» - disse la strega. «Per conto mio, non voglio
nemmeno un soldo. Mi basta tu mi riporti un vecchio
acciarino, che la mia nonna dimenticò laggiù, l'ultima volta
che ci andò.»
Disse il soldato: «Bene. Legami la corda alla vita.»
Disse la strega: «Eccola; e questo è il mio grembiale di
rigatino.»
Allora il soldato s'arrampicò sull'albero, sino su in
vetta, e poi si lasciò scivolare giù per il cavo del tronco sino
in fondo; ed ecco che si trovò in un vasto sotterraneo, come
aveva detto la strega per l'appunto, dove ardevano più di
cento lampade.
Apre la prima porta. Uh, che cagnaccio! È lì
accovacciato, che lo guarda fisso con un par d'occhi grandi
come due scodelle.
«Guardate che brava bestiola!» - disse il soldato; e lo
posò sul grembiale della strega; prese tante monete di rame
quante ne potè far entrare nelle tasche, richiuse lo scrigno, ci
rimise sopra il cane, e passò alla seconda stanza. Ohi, là!
Eccoti quest'altro cane con gli occhi grandi come mole da
molino.
83
«Che c'è bisogno di guardarmi fisso a cotesto modo?» disse il soldato: «Bada che tu non abbia ad accecare!» E posò
il cane sul grembiale della strega. Quando vide tutto
quell'argento ch'era nello scrigno, buttò via in fretta e furia
le monete di rame che aveva prese avanti, e riempì
d'argento tasche e zaino. Poi andò nella terza stanza. Uh!
che orrore! Quel cagnaccio aveva davvero gli occhi come
torrioni, e giravano giravano come ruote.
«Buona sera a lei!» - disse il soldato, e fece il saluto con
la mano al cheppì, perchè una bestia simile non l'aveva mai
veduta davvero. Quando l'ebbe esaminato un po' più da
vicino: «Ora basta!» - disse; lo sollevò, lo mise a terra ed
aperse lo scrigno. Bontà divina! Che massa d'oro c'era là
dentro! Tanto da comprare tutta la città di Copenaghen e
tutte le caramelle della pasticcera, e tutti i soldatini di
piombo, e le fruste, e i cavalli a dondolo del mondo intero.
Ah, che massa di danaro! E il soldato, via subito tutto
l'argento di cui aveva riempite tasche e zaino, e dentro oro,
invece! Oro in ogni tasca, nella giberna, nello zaino, nel
cheppì, nelle trombe degli stivali, da per tutto, tanto che non
poteva quasi più camminare. Ora sì, che ne aveva del
danaro! Rimise il cane sullo scrigno, richiuse la porta, e poi
gridò, affacciandosi al cavo dell'albero: «Tirami su, ohe!
vecchia strega!»
«L'acciarino, ce l'hai?» - domandò la strega.
«Hai ragione!» - disse il soldato: «M'era proprio uscito
di mente.» E andò, e lo prese.
La vecchia lo tirò su, e in un momento egli fu di nuovo
sulla strada maestra, con le tasche, gli stivaloni, lo zaino, il
cheppì, tutti pieni d'oro.
«Che vuoi tu fare di questo acciarino?» - domandò il
soldato.
84
«Ciò non ti riguarda,» - rispose la strega: «Il tuo danaro,
l'hai avuto: dammi dunque il mio acciarino.»
«Marameo!» - fece il soldato: «O mi dici subito quel che
vuoi fare, o cavo la spada e ti taglio la testa!»
«No!» - disse la strega.
E il soldato le tagliò la testa, e la lasciò lì sulla strada.
Mise tutto il danaro nel grembiale di rigatino, ne fece un
involto e se lo caricò sulle spalle; si cacciò in tasca
l'acciarino, e via difilato in città.
Che magnifica città era quella! Ed egli andò niente
meno che alla primissima locanda, si fece dare le più belle
stanze, e ordinò tutti i piatti di cui era più ghiotto; perchè,
oramai, era ricco a palate, con tutto quell'oro che aveva. Il
facchino della locanda, ch'ebbe a lustrargli gli stivali, li
trovò, a dir vero, un po' vecchi e logori per un signore a quel
modo; ma egli non aveva ancora avuto tempo per
comprarsene di nuovi: il giorno dopo si procurò scarpe e
vestiti adatti al suo stato. Ora, il nostro soldato era dunque
divenuto un ricco signore; e la gente gli raccontava di tutte
le belle cose che c'erano da vedere nella città, e del Re, e
della Principessa sua figliuola, bella come il sole.
«E dove si va per poterla vedere?» - domandò il
soldato.
«Vederla non si può, in nessun modo!» - dissero tutti a
una voce. «Abita un grande castello di rame, con tante e
tante cinte di muraglie e tante e tante torri: non ci può
andare altri che il Re; perchè fu predetto che avrebbe
sposato un soldato semplice, ed il Re non può tollerare una
cosa simile.»
«Mi piacerebbe di vederla!» - pensò il soldato; ma,
naturalmente, non c'era da ottenere permessi.
Intanto, passava allegramente le sue giornate: andava a
teatro ogni sera, puntualmente; girava in carrozza per i
85
giardini reali, e dava molto danaro ai poveri; e qui, almeno,
faceva bene. Non aveva mica dimenticato i giorni della sua
prima giovinezza, nè quel che voglia dire essere senza un
soldo. Era ricco ora, e aveva bei vestiti, e s'era fatto molti
amici, i quali tutti dicevano ch'era un bravo giovanotto e un
vero gentiluomo: e ciò al soldato faceva molto piacere.
Siccome, però, danaro ne spendeva ogni giorno e mai ne
guadagnava, si trovò ridotto, una bella mattina, a non aver
più che due soldi; e così dovette sloggiare dall'elegante
quartiere che aveva abitato sino allora, e andar a stare in
uno sgabuzzino sotto il tetto; e gli toccò lustrarsi da sè gli
stivali, e ogni tanto darvi anche qualche punto con un ago
da stuoie. Gli amici non venivano più a trovarlo, perchè
c'era da salir troppe scale.
Una sera, ch'era buio pesto ed egli non aveva nemmeno
di che comprarsi un mozzicone di candela, si rammentò a
un tratto d'un pezzetto d'esca, il quale doveva essere ancora
nella scatola dell'acciarino, da quel giorno che l'aveva
portato su dal cavo dell'albero, dove la strega lo aveva
mandato. Cavò fuori esca e acciarino; ma proprio nel
momento che, battendo sulla pietra focaia, ne faceva
sprizzare la scintilla, eccoti che si spalanca la porta, e gli si
presenta quel cane che aveva un par d'occhi grandi come
due scodelle, quello ch'egli aveva veduto nel sotterraneo, e
gli dice: «Che mi comanda il mio Padrone?»
«Che affare è questo?» - disse il soldato: «Ecco un
curioso acciarino, d'un genere che non mi dispiace, se
battendolo posso avere tutto quello che voglio! - Portami un
po' di danaro!» - disse al cane; e il cane, vssst! via come il
vento; e vssst! rieccotelo con una grossa borsa tra i denti,
tutta piena di danaro.
Il soldato sapeva ora che meraviglioso acciarino fosse
quello. Se batteva un colpo solo, subito veniva il cane che
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stava sullo scrigno delle monete di rame; se batteva due
colpi, veniva quello ch'era a guardia dell'argento; se ne
batteva tre, veniva quello ch'era a guardia dell'oro. - E allora
il soldato tornò nel bel quartierino di prima, tornò ben
vestito; e allora tutti i suoi buoni amici lo riconobbero
subito, perchè, già, gli volevano un mondo di bene.
Un giorno disse tra sè: «È curiosa che non si possa mai
arrivare a vederla, questa Principessa. Dicono tutti che sia
tanto bella... Ma a che serve, se ha da star sempre rinchiusa
nel castello di rame dalle mille torri? Che non m'abbia a
riuscire di vederla una volta? Dov'è il mio acciarino?» Battè
sulla pietra focaia, e vssst! eccoti il cane con gli occhi grandi
come due scodelle.
«Veramente, è quasi mezzanotte,» - disse il soldato:
«ma pure mi piacerebbe di vedere la Principessa, non fosse
che per un minuto.»
Non aveva finito di dirlo, che il cane, via di corsa! era
bell'e fuor dell'uscio; e prima che il soldato se n'avvedesse,
era già di ritorno con la Principessa. Essa gli stava seduta
sul dorso e dormiva: non c'era da sbagliarla; si vedeva
subito ch'era una vera Principessa, tanto era bella. Il soldato
non potè far a meno di darle un bacio: non si è soldati per
nulla. Ma il cane tornò via di corsa con la Principessa.
La mattina dopo, mentre il Re e la Regina erano a
colazione, la Principessa raccontò uno strano sogno, che
aveva fatto la notte prima, di un cane e di un soldato, - di un
cane ch'era venuto a prenderla, e di un soldato che l'aveva
baciata.
«Non ci mancherebbe altro!» - esclamò la Regina.
E fu ordinato ad una vecchia dama di corte di montare
la guardia, la notte dopo, presso al letto della Principessa,
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per vedere se si trattasse veramente d'un sogno, o che altro
potesse mai essere.
Il soldato si struggeva dal desiderio di rivedere un'altra
volta la Principessa; e così, il cane tornò nella notte, la prese,
e via di corsa, più presto che potè. Ma la vecchia dama si
mise le galosce, e corse quanto il cane. Quando l'ebbe visto
entrare in un gran casamento, pensò: «Ora, so io dov'è!» - e
con un pezzetto di gesso fece una croce sulla porta; poi andò
a casa, e si coricò. Intanto il cane tornò con la Principessa;
ma quando vide che sull'uscio della casa dove abitava il
soldato c'era una croce, prese anch'esso un pezzetto di gesso
e fece tanto di croci, su tutti gli usci della città. E fu una bella
trovata, perchè così la dama non poteva più riconoscere
l'uscio del soldato, se tutti gli usci avevano la loro croce.
La mattina all'alba, eccoti il Re e la Regina, con la
vecchia dama di corte e tutti gli ufficiali, venuti a vedere
dove fosse stata la Principessa. «Ci siamo!» - disse il Re,
quando vide il primo uscio con la croce di gesso.
«No, caro marito; è qui!» - disse la Regina, additando
un altr'uscio, dove c'era pure una croce.
«Ma ce n'è una anche lì! E un'altra lì!» - gridarono tutti,
perchè, da qualunque parte si volgessero, tutti gli usci
avevano la loro croce. E così videro ch'era inutile continuare
le ricerche, perchè non sarebbero approdate a nulla.
La Regina, però, era una donna molto accorta, una
donna fuor del comune, la quale sapeva fare qualche cosa di
più che andare attorno in carrozza. Prese le sue forbicione
d'oro, tagliò un bel pezzetto di broccato, ne fece un bel
sacchettino, lo riempì di fior di farina fine fine, e lo appese
sulla schiena della Principessa; e poi, nel fondo del
sacchetto, fece un forellino, così che la farina si avesse a
spargere per tutto dove la Principessa passava.
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La notte, il cane tornò, prese la Principessa, e via dal
soldato, il quale le voleva oramai molto bene, ed era molto
dispiacente di non essere principe e di non poterla sposare.
Il cane non si avvide della farina, che s'era sparsa per
tutta la strada, dal castello sin sotto alla finestra del soldato,
dove aveva dato la scalata al muro, sempre reggendo la
Principessa sul dorso. E così, al mattino, il Re e la Regina
vennero a risapere dove la loro figliuola fosse stata; e il
soldato fu preso e messo in prigione.
E in prigione gli toccò stare. Ah, che buio e che noia là
dentro! E, per giunta, sentirsi dire: «Domani sarai
impiccato!» C'era poco da stare allegri, davvero; e pensare
che aveva lasciato l'acciarino alla locanda! La mattina,
dall'inferriata della prigione, scorgeva già la gente che
s'affrettava fuor di porta, per vederlo impiccare; e sentiva le
trombe, e lo scalpiccìo dei soldati che sfilavano. Tutti
correvano: anzi, un garzone di calzolaio, ch'era tra la folla,
col suo grembiale di cuoio e certe ciabatte sgangherate,
correva tanto, che una delle ciabatte gli sgusciò via e andò a
battere proprio contro il muro, dietro al quale stava il nostro
soldato, affacciato all'inferriata.
«Ohi là, ragazzo mio! Che c'è bisogno di scalmanarsi a
cotesto modo?» - gli gridò il soldato: «Tanto senza di me
non incominciano! Ma se vuoi fare una corsa sino al mio
alloggio, a prendermi il mio acciarino, ti darò' quattro soldi.
Devi adoperare le gambe della domenica, però!»
Al garzone del calzolaio, quattro soldi facevano molto
comodo; per ciò andò via di carriera, e in quattro e
quattr'otto tornò con l'acciarino. - E allora... e allora, state a
sentire quel che avvenne.
Fuori della città, era rizzata una grande forca; e intorno
ci stavano i soldati e molte migliaia di spettatori; e il Re e la
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Regina erano seduti su di un ricchissimo trono, rimpetto ai
Giudici e al Consiglio della Corona. Il soldato era già sul
palco; ma quando stavano per mettergli la corda al collo,
domandò di parlare: ad un povero condannato prima del
supplizio era sempre concesso di esprimere un ultimo
innocente desiderio, ed egli disse che si struggeva di fumare
una pipa di tabacco, e sperava gli fosse accordato, poi ch'era
l'ultima fumatina, che dava in questo mondo.
Il Re non seppe negargli questa piccola grazia; e allora
il soldato cavò l'acciarino e battè la pietra una, due, tre
volte... Che è, che non è, eccoti a un tratto tutti e tre i cani,
quello con gli occhi come scodelle, quello con gli occhi come
mole da molino e quello con gli occhi come torrioni.
«Aiutatemi un po' ora, che non m'impicchino!» - disse il
soldato.
I cani non se lo fecero dir due volte: si avventarono ai
Giudici ed ai Consiglieri della Corona, e chi afferrando per
uno stinco, chi per una spalla, e chi per il naso, li buttarono
tutti a gambe all'aria, e ne fecero un massacro.
«Non voglio!» - diceva il Re; ma il cagnaccio più grande
prese lui e la Regina e li scaraventò dietro agli altri. Allora
poi, anche le guardie ebbero paura, e tutto il popolo si diede
a gridare: «Soldatino, soldatino caro, sii tu nostro Re e
marito della nostra bella Reginotta!»
Misero il soldato nella carrozza del Re, e i tre cani
andavano innanzi come staffette e gridavano: Evviva!, i
ragazzi fischiavano, ponendosi due dita in bocca, e i soldati
presentavano le armi. La Principessa uscì dal suo castello di
rame e divenne Regina; le feste nuziali durarono una
settimana intera, e i tre cani, seduti a tavola con gli altri,
spalancavano tanto d'occhi, ancora più del solito, a tutto
quel che vedevano.
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Ma le notti che seguirono, il soldato non riusciva a
chiudere occhio, ché in sogno vedeva sempre la vecchia
strega.
Vedeva, intorno a lei, i diavoli che l'avevano aiutata a
stregare l'acciarino e a creare i tre cani incantati che lo
servivano.
Poi, accadde che, anche di giorno, tutte le volte che il
soldato toccava una moneta, la sentisse bruciare del fuoco
dell'inferno. Decise allora di distruggere l'acciarino. Appena
questo fu sbriciolato, ecco i tre cani diventare tre cagnolini
che gli scodinzolavano attorno, e le monete diventare
fagiuoli...
mai minestra di fagiuoli fu più gustosa di quella! E, da
quel momento in poi, il soldato e la proincipessa furono
forse un po' più poveri, ma tanto più felici....
Dall'originale di Hans Christian Andersen
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PELLE D’ASINO
C'era una volta un re che aveva una moglie dai capelli d'oro
e così bella che sulla terra non ce n'era un'altra come lei.
Accadde un giorno che la regina si ammalò e, accorgendosi
di morire, chiamò il re e gli disse:
- Mi devi promettere che, se riprenderai moglie, sposerai
solo una donna che sia bella come me e che abbia i capelli
d'oro come i miei.
Appena il re ebbe promesso, la bella regina chiuse gli occhi
e spirò
Il re per molto tempo non riuscì a darsi pace e non pensò
affatto a riprendere moglie, ma i suoi consiglieri alla fine gli
dissero:
- Non potete fare a meno, maestà, di riprendere moglie,
poiché il popolo ha bisogno di una regina.
Dopo di che furono mandati messaggeri per ogni dove, a
cercare una sposa che fosse bella e bionda come la regina
morta; ma la ricerca fu vana e i messaggeri ritornarono
indietro mortificati senza essere riusciti a concludere nulla.
Il re aveva una figlia che era bella come la madre e come lei
aveva lunghi capelli d'oro. Quando ella crebbe, il re disse ai
suoi consiglieri che avrebbe dato sua figlia in moglie al più
anziano di loro e che dopo la sua morte ella sarebbe
divenuta regina. Quando il più anziano lo seppe, ne fu
felice: la figlia del re, invece, rimase spaventata dalla
decisione del padre, e, sperando di riuscire a fargli cambiare
idea, così disse:
- Prima che io ubbidisca al tuo desiderio, mi devi far fare tre
vestiti: uno d'oro come il sole, l'altro argento come la luna e
il terzo lucente come le stelle. Inoltre desidero un mantello
composto da tante pelli quanti sono gli animali del regno, in
modo che ognuno di essi vi sia rappresentato.
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La principessa pensava che fossero cose impossibili e che
nel frattempo forse le sarebbe riuscito di smuovere il re dal
suo proposito. Il re però non vi rinunciò e le donne più abili
del suo regno dovettero tessere tre vestiti: uno d'oro come il
sole, l'altro d'argento come la luna e il terzo lucente come le
stelle; i suoi cacciatori dovettero cacciare tutte le bestie del
regno e prendere a ognuna un pezzo di pelle o di pelliccia.
Alla fine, quando tutto fu pronto, il re mandò a prendere i
tre abiti meravigliosi e il mantello, li stese davanti a sé e
disse:
- Domani si farà il matrimonio.
Quando la principessa vide che non c'era speranza di
smuovere il padre dalla sua decisione, stabilì di fuggire. Di
notte, mentre tutti dormivano, si alzo, e dal suo tesoro scelse
tre oggetti che le erano particolarmente cari: un anello d'oro,
un piccolo fuso d'oro e un piccolo arcolaio pure d'oro; poi
mise in un guscio di noce i tre vestiti color del sole, della
luna e delle stelle, e, gettandosi addosso il mantello fatto coi
mille pezzi di pelli, si annerì il viso e le mani con la
fuliggine. Quindi, raccomandandosi a Dio, partì e viaggio
tutta la notte. Non conosceva la strada e vagò a lungo senza
meta. Cammina cammina, a un certo punto si trovò in una
foresta piena di alberi e cespugli. C'era un tale intrico di rovi
e di spine che la bimba non poté più proseguire: Inoltre era
molto buio ed elle ormai si sentiva molto stanca; allora si
fermò e scelse il cavo di un albero per passarvi la notte.
Civette e strani uccelli notturni mandavano rauche strida.
La fanciulla aveva paura, ma a un certo punto vinta dalla
stanchezza, cadde in un sonno profondo. Al mattino il sole
si levò e, mentre ella continuava a dormire, il re di un paese
vicino attraversò la foresta, con tutto il suo seguito, per
andare a caccia; inseguendo la selvaggina venne a trovarsi
proprio dove la fanciulla s'era addormentata. Quando i suoi
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cani s'imbatterono in quell'albero, si misero ad abbaiare e a
ringhiare così furiosamente da richiamare l'attenzione del
re, il quale si rivolse ai suoi cacciatori dicendo:
- Fate presto. Andate a vedere quale animale selvatico si
nasconde là dentro e portatemelo qui subito.
I cacciatori ubbidirono e quando ritornarono dissero:
- Nel cavo di quell'albero abbiamo trovato un essere
sorprendente di cui non abbiamo mai veduto l'uguale: la
sua pelle è di mille colori, ed è li fermo, immerso in un
sonno profondo.
Il re disse:
- Cercate di prenderlo vivo e legatelo alla carrozza.
Appena i cacciatori afferrarono la fanciulla, essa si svegliò
atterrita e supplicò con voce tremante:
- Sono una poveretta, abbandonata dal padre e senza madre,
abbiate pietà di me e portatemi con voi!
- Vieni - le dissero allora e la condussero dal re.
Questi guardò meravigliato quell'esserino sparito e
tremante e l'affidò ai cacciatori, perché la ristorassero. Essi le
diedero il soprannome di " Pelle d'asino", per via del suo
strano e ispido mantello. Mossi a pietà dal suo pianto la
portarono alla reggia, le diedero un sottoscala per dormire,
dove non c'era nemmeno un finestrino da cui penetrasse un
raggio di sole. Le dissero che doveva fare la sguattera in
cucina. Suo compito era portare l'acqua e la legna per fare il
fuoco, spennare i polli, pelare le patate, levare la cenere
dalle stufe; insomma, doveva fare tutti i lavori più umili e
faticosi. Per un certo tempo Pelle d'asino visse miseramente
in questo modo, ma un giorno seppe che nella grande sala
del castello davano una festa e chiese alla cuoca:
- Posso andare un momento a vedere? Mi metterò in un
cantuccio fuori dalla porta e sbircerò per il buco della
serratura...
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La cuoca rispose:
- Vai pure, ma ritorna fra mezz'ora perché devi levare la
cenere dalla stufa e lavare le stoviglie.
Pelle d'asino prese una lucerna, corse nel sottoscala, si levò
il mantello di pelli e si lavo ben bene per togliere la fuliggine
dal viso e dalle mani e pettinò i lunghi capelli biondi in
modo che tutta la sua bellezza fosse visibile. Quindi apri il
guscio di noce e ne tolse il vestito d'oro come il sole. Appena
pronta, con il cuore che le batteva d'ansia e di gioia, entrò
nella sala da ballo: tutti le fecero largo, pensando che fosse
una principessa sconosciuta. Il re stesso venne da lei e,
prendendole la mano, la fece ballare; pensava che mai aveva
veduto una fanciulla così bionda, così bella e così gentile.
Appena il ballo finì, la fanciulla fece un inchino e, prima che
il re se ne rendesse conto, sparì. Essa era ritornata di corsa
nel suo sottoscala e, levatosi presto presto lo splendido
vestito, si era di nuovo tinta con la fuliggine il viso e le mani
e aveva indossato il mantellaccio di mille pezzi, diventando
di nuovo Pelle d'asino. Era appena giunta in cucina e si era
messa a tagliere la cenere dalla stufa, quando la cuoca le
disse:
- Lasciala stare fino a domani: piuttosto prepara la cena al re
in vece mia, mentre io vado di sopra a dare un'occhiata; ma
bada bene di non lasciar cascare un capello nella minestra,
perché il re andrebbe su tutte la furie.
Pelle d'asino cucinò la cena del re, preparando la minestra
più buona che sapeva fare. Appena fu cotta, la fanciulla
andò a prendere il suo anellino d'oro e ve lo buttò dentro.
Quando la festa fu finita il re ordinò che gli servissero la
cena, e, assaggiata la minestra, pensò che non aveva mai
mangiato nulla di più buono in vita sua. L'aveva quasi finita
quando vide un anello d'oro brillare nel piatto e, non
riuscendo a capire come mai fosse lì, fece chiamare la cuoca.
95
Quando la cuoca sentì che volevano ebbe paura e disse a
Pelle d'asino:
- Sei sicura di non aver lasciato cadere un capello nella
minestra?
Tremando, si presentò al re, che le chiese chi aveva cucinato
la cena. La cuoca rispose con un filo di voce:
- Sono stata io.
- Non è vero, perché la minestra è migliore del solito.
Allora la cuoca mormorò, facendosi rossa:
- Devo confessare che non sono stata io, ma Pelle d'asino:
Il re fece chiamare Pelle d'asino e, quando la fanciulla fu alla
sua presenza, le chiese:
- Chi sei?
- Io sono una povera fanciulla senza padre né madre, che tu
hai accolta per pietà - rispose.
Il re domandò di nuovo:
- Dove hai preso questo anello che ho trovato nella minestra
e come mai possiedi un gioiello così prezioso?
Pelle d'asino rispose:
- Non ne so niente.
Il re minacciò di cacciarla via se non diceva la verità, ma
Pelle d'asino ostinata ripeteva sempre le medesime parole:
- Non ne so niente.
- Torna in cucina - disse infine il re rassegnato.
Pelle d'asino corse a rifugiarsi nel suo sgabuzzino. Passato
un po' di tempo vi fu un altro ballo. Bellissime dame con
abiti meravigliosi e splendide collane entrarono nei saloni
del castello; ma il re non le guardava neppure e continuava
a pensare alla fanciulla misteriosa che aveva incontrato
durante il primo ballo. Intanto nella cucina c'era un
momento di calma perché tutto quello che era necessario
per la festa era già pronto. Allora Pelle d'asino chiese alla
cuoca:
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- Posso andare a vedere la festa?
- Va pure, Pelle d'asino, ma ritorna presto. Devi cucinare
quella minestra che è piaciuta al re, perché io non so farla
come te! - rispose la cuoca.
Pelle d'asino, tutta contenta, fece le scale di corsa ed entrò
nel suo sgabuzzino. Si sfilò il mantellaccio rattoppato, si
lavò e indosso il vestito argenteo come la luna. Si pettinò i
bei capelli biondi che nella luce della sera erano ancora più
splendenti del solito. Poi, in punta di piedi, sali in fretta le
scale e si presentò nella sala da ballo. Quando entrò tutti
tacquero all'istante e i paggi si inchinarono al suo passaggio.
Le fanciulle la guardavano con invidia, mentre i giovani non
si stancavano di rimirare la sua splendida bellezza. Il re
stesso si alzò dal trono e le venne incontro. Felice di
rivederla, la prese per mano e la invitò a danzare. Appena il
ballo fu finito la fanciulla, ricordandosi della promessa fatta
alla cuoca, s'allontanò in fretta. Il re e i cortigiani non fecero
in tempo a seguirla, che ella era già in fondo alle scale.
Entrata nello sgabuzzino si tolse l'abito d'argento e dopo
esseri cambiata tornò in fretta in cucina a fare la minestra.
Anche questa volta volle prepararla con gran cura. La cuoca
intanto era andata di sopra e dal buco della serratura
guardava quando accadeva nella sala da ballo. Pelle d'asino
approfittò della sua assenza per andare a prendere il suo
piccolo fuso d'oro e quindi lo mise nel piatto destinato al re.
Quando il re mangiò la minestrina, la trovò ancora migliore
della prima volta e di nuovo mandò a chiamare la cuoca. La
donna entrò tremando nella sala del banchetto.
- Chi ha fatto questa minestra ? - le chiese il re.
La cuoca non seppe più cosa rispondere e indietreggiò rossa
e confusa in un angolo della stanza.
- Vieni qui! - tuonò il re. - E parla !
La povera cuoca dovette confessare ancora una volta che la
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minestra l'aveva preparata Pelle d'asino.
- Fatela venire subito alla mia presenza ! - intimò allora ai
servi e questi corsero a chiamarla.
Giunta al cospetto del re, la fanciulla, disse di non sapere
nulla del fuso d'oro e il re dovette rinunciare a capire da
dove provenisse la fanciulla misteriosa. " Voglio dare ancora
una festa da ballo e se questa volta la bella fanciulla fuggirà
ancora, la farò ricercare in tutto il regno e la ritroverò a ogni
costo " Si disse il re e, infatti, dopo pochi giorni ordinò che
venissero fatti i preparativi per il più grande e importante
ballo dell'anno. Pelle d'asino questa volta mise l'abito che
luceva come le stelle e con quello entrò nella sala da ballo. Il
re, che l'attendeva impaziente ballò di nuovo con lei e
guardandola, pensava che non aveva mai visto una fanciulla
così bionda, cosi bella, così gentile. Mentre ballavano, senza
che la fanciulla se ne accorgesse, le infilò al dito un piccolo
anello d'oro. Quando la danza finì il re cercò di trattenerla,
ma ella si liberò dalla stretta e corse via così veloce, che
scomparve in un baleno agli occhi di tutti né alcuno riuscì a
trattenerla. Pelle d'asino nel frattempo s'era rifugiata nel
sottoscala. Poiché era rimasta al ballo molto più a lungo
della solita mezz'ora, non ebbe il tempo di levarsi il bel
vestito e quindi cercò di nasconderlo infilandovi sopra il
mantello di pelli; non riuscì neanche ad annerirsi bene il
viso e le mani e nella fretta un dito rimase bianco. Corse
quindi in cucina, preparò la minestra per il re e, mentre la
cuoca era di sopra, vi mese dentro l'aspo d'oro. Più tardi,
quando il re trovò il girello in fondo alla minestra, fece
venire Pelle d'asino e vide che aveva un dito bianco... e al
dito c'era l'anello che egli le aveva infilato mentre ballavano.
La prese per mano e la tenne stretta, e quando ella cercò di
liberarsi e di scappare, il mantello di pelli le scivolò e il
vestito lucente come le stelle apparve nel suo splendore,
98
mentre sulle spalle scendevano i bei capelli d'oro: Pelle
d’asino era davanti al re in tutta la sua bellezza, i suoi occhi
guardarono finalmente quelli del re e un sorriso illuminò il
suo viso ancora di più . Il re allora disse:
- Pelle
d’asino, perché ti sei nascosta da me tanto a lungo?
- Dovete sapere, Sire, che io sono già fuggita una volta da un
matrimonio voluto solo per il mio rango di principessa.
Dovete anche sapere che ciò che mi ha nascosta ai vostri
occhi non è questa pelle multicolore ma il velo che, posato
sul vostro cuore, vi faceva cercare vestiti d’oro e d’argento e
mani di principessa. Io sono sempre stata la stessa, ma i
vostri occhi non potevano vedere ciò che il vostro cuore non
voleva guardare. Chiudete quindi gli occhi, e sappiate che
ciò che vedrete riaprendoli dipende solo da voi. Dite, volete
ancora che io sia al vostro fianco?
Così dicendo Pelle d’asino portò la mano del re a sfiorare il
mantello di pelli; il re, ad occhi chiusi, si chiese per un
istante se quello non fosse un trucco o un incantesimo
studiato per ghermirlo, ma il suo cuore parlò per primo e
disse:
- Pelle d'asino, se vorrai sarai la mia cara sposa e noi non ci
lasceremo mai più.
Si celebrarono le nozze e gli sposi vissero felici e contenti
fino alla fine dei loro giorni.
Dall’originale dei fratelli Grimm
99
IL PESCIOLINO D’ ORO
Sul mare-oceano, sull'isola di Bujan, c'era una volta una
piccola casetta, un' izba decrepita. In questa izba vivevano
un vecchio con la sua vecchietta. Vivevano in grande
povertà: il vecchio fabbricava le reti e andava al mare per
prendere i pesci. Ne prendeva solo quanto ne bastava per il
vitto quotidiano.
Una volta, chissà come, il vecchio gettò la sua rete, cominciò
a tirare e si accorse che era molto pesante, come mai gli era
capitato.
Tira e tira, riuscì a tirar fuori la rete. Guardò: la rete era
vuota; c’era in tutto un pesciolino, ma non un semplice
pesciolino: era un pesciolino tutto d’oro.
Il pesciolino pregò il vecchio con voce umana: “Non
prendermi, vecchietto! E’ meglio se mi lasci andare nel mare
azzurro; io ti sarò riconoscente: farò quello che vorrai”.
Il vecchio pensò e ripensò, poi disse: « Che bisogno ho di te?
Va’ pure a passeggio nel tuo mare!».
Gettò il pesciolino d’oro nel mare e tornò a casa.
La vecchia gli chiese: “ Hai preso molti pesci, vecchio?”
“In tutto ho preso solo un pesciolino d’oro, ma l'ho ributtato
in mare. Mi pregò con insistenza. Lasciami andare, mi disse,
nell’azzurro mare ed io ti ricompenserò, farò tutto quello
che vorrai! Ho avuto compassione del pesce, non ho voluto
da lui un riscatto ma l’ho lasciato libero a sua volontà”
“ Vecchio demonio! Ti era capitata tra le mani una vera
fortuna e tu non hai saputo prenderla.”
La vecchia si incattivì, insultò il vecchio da mattina a sera,
non lo lasciò in pace:
“Dovevi chiedergli almeno un po’ di pane. Qui abbiamo
solo delle croste secche: che mangerai?”.
100
Il vecchio non si trattenne, andò dal pesciolino d'oro per
chiedergli del pane.
Arrivò alla riva, e gridò con voce forte:
“Pesciolino, pesciolino! Mettiti con la coda in mare e con la
testa verso di me”.
Il pesciolino nuotò a riva: “Di che cosa hai bisogno,
vecchio?” . “La vecchia si è arrabbiata, mi ha mandato a
chiedere del pane.”
“Torna a casa: ci sarà del pane fin che ne vuoi”.
Il vecchio tornò a casa: “E allora, vecchia, c'e il pane?”.
“Di pane ce n'e finchè vuoi. Ma ecco il guaio. Il mastello si è
rotto, e non so dove lavare la biancheria. Va' dal pesciolino e
chiedigli un nuovo mastello.”
Il vecchio andò al mare: “Pesciolino, pesciolino! Mettiti con
la coda in mare e con la testa verso di me”.
Il pesciolino arrivò: “Che vuoi vecchio?” .
“La vecchia mi ha mandato per chiedere un nuovo
mastello.”
“Bene, avrai il mastello”.
Il vecchio tornò a casa, stava ancora sulla porta, che la
vecchia di nuovo si gettò contro di lui, lo investì gridando
“Va dal pesce d'oro, chiedigli di costruirci una nuova izba,
non si può più vivere nella nostra, appena la guardi va in
pezzi!”
E il vecchio tornò sul mare: “Pesciolino, pesciolino! Mettiti
con la coda in mare e con la testa verso di me!”.
Il pesciolino arrivò nuotando, si mise con la testa verso di
lui e la coda in mare. “Che cosa vuoi, vecchio?”.
“Costruisci per noi una nuova izba; la vecchia si lamenta e
grida, non mi lascia in pace; non voglio, dice, vivere più in
questa izba vecchia, appena la guardi, va in pezzi!”
“Non rattristarti, vecchio! Va' a casa, e prega Dio. Tutto sarà
fatto.”
101
Tornò il vecchio. Nel suo cortile c’è una izba nuova, di legno
di quercia, tutta con trafori e ornamenti.
Gli corre incontro la vecchia, arrabbiata più di prima,
impreca e litiga più di prima:
“Ah tu, vecchio cane, imbecille! Non sei capace di servirti
della fortuna. Ti ho chiesto un'izba, e tu, ecco, sarà fatto! No,
invece! Va' di nuovo dal pesce d'oro e digli che io non
voglio più essere contadina, ma moglie del governatore, in
modo che la gente mi obbedisca, e quando le persone mi
incontrano mi facciano l’inchino fino alla cintola!”.
Andò il vecchio al mare e gridò con grossa voce:
“Pesciolino, pesciolino! Mettiti con la coda in mare e con la
testa verso di me.”
Nuotò a riva il pesciolino, si mise con la coda in mare e la
testa verso il vecchio: “Che cosa vuoi, vecchio?” .
Rispose il vecchio: “La vecchia non mi dà pace, è del tutto
impazzita. Non vuole essere più contadina, ma moglie del
governatore!”.
“Bene, non affliggerti! Torna a casa, prega Dio, tutto sarà
fatto!”
Tornò a casa il vecchio, e invece dell'izba adesso c'è una casa
di pietra, una casa di tre piani.Nel cortile i servitori corrono
di qua e di là, in cucina i cuochi battono e lavorano, la
vecchia in un prezioso abito di broccato sta seduta su un'alta
poltrona e dà ordini.
“Salute, moglie!”, disse il vecchio.
“Ah tu, rozzo ignorante ! Come osi chiamar me tua moglie,
me, la moglie del governatore? Ehi, gente, portate questo
contadinaccio nella scuderia e frustatelo quanto più potete.”
Subito i servitori accorsero, presero il vecchio per la
collottola e lo trascinarono nella scuderia. Cominciarono gli
scudieri a frustarlo, e lo frustarono a tal punto che egli a
mala pena poteva reggersi sulle gambe.
102
Dopo di che la vecchia gli diede l' incarico di portinaio,
ordinò che gli fosse data una scopa, e che pulisse il cortile.
Ordinò anche che gli fosse dato da mangiare a da bere in
cucina.
Mala vita per il vecchietto! Per tutto il giorno deve scopare il
cortile, e non appena trovano che c’è qualche punto non
pulito bene, subito nella scuderia, e giù frustate!
“Che strega!” pensa il Vecchio. "Ha avuto una fortuna, e
adesso si mette a grufolare come un porco, e non mi
considera più neppure suo marito!"
Passò molto tempo, poco tempo, la vecchia si annoiò di
essere moglie del governatore e, fece chiamare il vecchio, e
gli ordinò:
“Va', vecchio demonio, dal pesciolino d'oro, e digli che non
voglio più essere moglie di governatore, ma zarina!”
Andò il vecchio al mare: “Pesciolino, pesciolino! Mettiti con
la coda in mare e con la testa verso di me”.
Arrivò il pesciolino d'oro nuotando: “Di che cosa hai
bisogno, vecchio?”
“Ecco, mia moglie è del tutto impazzita, più di prima. Non
si contenta più di essere la moglie del governatore, adesso
vuole essere zarina.”
“Non affliggerti, vecchio! Va' a casa, e prega Dio. Tutto sarà
fatto.”
Il vecchio tornò a casa e invece del palazzo di prima trovò
un alto palazzo dal tetto d' oro, con intorno le sentinelle che
fanno il presentat'arm. Davanti al palazzo c'è un verde
prato. Nel prato ci sono i soldati, in fila. La vecchia è vestita
da zarina, viene fuori sul balcone con i generali e i boiari, e
fa la rassegna delle truppe, sta attenta al cambio delle
sentinelle. Rullano i tamburi, suona la musica, i soldati
gridano “Hurrà”.
103
Passò molto tempo, poco tempo, la vecchia si annoiò di
essere zarina e ordinò di chiamare il vecchio, che si
presentasse davanti ai suoi occhi luminosi.
Ci fu una grande confusione, i generali si danno da fare, i
boiari corrono, non sanno dove sbattere la testa: “Quale
vecchio?”.
A gran fatica riuscirono a trovarlo nel cortile delle
immondizie, e lo portarono dalla regina.
“Ascolta, vecchio demonio!” gli dice la vecchia. “Va' dal
pesciolino d'oro a digli: non voglio più essere zarina, ma
voglio essere la signora dei mari, in modo che tutti i mari e
tutti i pesci mi ubbidiscano.”
Il vecchio tentò di rifiutarsi, ma che vuoi farci? La zarina ti
fa staccar la testa! Con il cuore stretto, andò al mare, e disse:
«Pesciolino, pesciolino, mettiti con la coda in mare e la testa
verso di me”.
Ma il pesciolino d'oro non si vede, proprio non si vede! Il
vecchio lo chiama una seconda volta. Di nuovo, niente! Lo
chiama una terza volta, e a un tratto il mare si gonfia e
muggisce; prima era tutto sereno, pulito, e ora tutto nero. Il
vecchio capisce che quello è il segno che la situazione aveva
davvero superato ogni limite, decide così di chiedere al
pesciolino d’oro l’unica cosa che gli sembrava davvero
sensata.
I1 pesciolino nuotò a riva: “Che vuoi, vecchio?” .
”La vecchia è diventata ancora più pazza; non vuole più
essere zarina, vuole essere la signora del mare, dominare su
tutte le acque, comandare a tutti i pesci”.
Il pesciolino d'oro non disse nulla al vecchio, si voltò e
sprofondò nel mare.
Il vecchio tornò a casa, guardò e non credette ai suoi occhi: il
palazzo era come se non ci fosse mai stato, al suo posto
stava la vecchia izba decrepita, e nell'izba stava seduta la
104
vecchia, con il suo vecchio sarafan' stracciato e la testa tra le
mani.
Ritornarono a vivere come prima, il vecchio ritornò alla sua
pesca in mare; solo che, per quante volte gettasse le reti in
acqua, non riuscì più a prendere il pesciolino d'oro. Finchè
un bel giorno un viandante magro da fare spavento bussò
alla izba e chiese alla vecchia del pane e del vino; la vecchia
stava per cacciarlo via dicendo che loro non avevano che
pochi pezzi di pane secco da mangiare, quando
improvvisamente il vecchio le si parò davanti e disse: “Ora
basta, non posso più assistere al tuo comportamento avido e
stolto. Ricorda che quando potevi avere tutto non sei stata
capace di carità e compassione perché queste virtù non
dipendono da quanto possiedi ma solo dalla purezza del
tuo cuore. Il tozzo di pane secco che noi abbiamo è un tesoro
per chi muore di fame.” Così spezzò il pane, e nel vedere
quel gesto la vecchia si commosse profondamente e prese
coscienza di quanto fosse stata ingorda e ingiusta, così andò
a prendere anche l’ultimo goccio di vino che era rimasto
nella dispensa per darlo allo straniero. Fu allora che
successe una cosa straordinaria: il corpo del vagabondo
cominciò a rimpicciolire e a coprirsi di squame d’oro, finchè
non fu chiaro che proprio lì davanti a lui si trovava il
famoso pesciolino. Il vecchio immediatamente lo raccolse e
lo mise in un catino per riportarlo al mare; non si dissero
nulla, ma il vecchio capì che quella era stata una seconda
occasione. Fu così che da quel giorno non mancò più cibo
nella casa dei vecchietti e chi non aveva di che sfamarsi o
coprirsi sapeva che lì avrebbe potuto trovare un rifugio.
Dall’originale di Aleksander Puskin
105
NEVINA E FIORDAPRILE
Una principessa chiamata Nevina che viveva sola col padre
Gennaio.
Lassù, nel candore perpetuo, abbagliante, inaccessibile agli
uomini, il Re Gennaio preparava la neve con una chimica
nota a lui solo; Nevina la modellava su piccole forme tolte
dagli astri e dalle stelle alpine, poi, quando la cornucopia
era piena, la vuotava secondo il comando del padre ai
quattro punti dell'orizzonte. E la neve si diffondeva sul
mondo.
Nevina era pallida e diafana, bella come una fata: le sue
chiome erano appena bionde, d'un biondo imitato dalla
Stella Polare, il suo volto, le sue mani avevano il candore
della neve non ancora caduta, l'occhio era cerulo come
l'azzurro dei ghiacciai.
Nevina talvolta era triste.
Nelle ore di riposo, quando la notte era serena e stellata e il
padre Gennaio sospendeva l'opera per dormire
nell'immensa barba fluente, Nevina s'appoggiava ai
balaustri di ghiaccio, chiudeva il mento tra le mani e fissava
l'orizzonte lontano, sognando.
Una rondine ferita che valicava le montagne, per recarsi
nelle terre del sole, era caduta nelle sue mani, che l’avevano
confortata e poi guarita; prima di riprendere il suo viaggio,
la rondine le aveva raccontato del mare, dei fiori, dei
palmizi, della primavera senza fine. E Nevina da quel
giorno sognava le terre non viste.
Una notte decise di partire. Passò cauta sulla barba fluente
di Gennaio, lasciò il ghiaccio e la neve eterna, prese la via
106
della valle, si trovò fra gli abeti. Gli gnomi che la vedevano
passare diafana, fosforescente nelle tenebre della foresta,
interrompevano le danze, sostavano cavalcioni sui rami,
fissandola con occhi curiosi e ridarelli.
“Nevina!”
“Nevina! Dove vai?”
Nevina, danza con noi!”
“Nevina, non ci lasciare!”
E gli Spiritelli benigni le facevano ressa intorno, tentavano
di arrestarle il passo abbracciandole con tutta forza la
caviglia, cercavano di imprigionarle i piedi leggeri entro
rami d'edera e di felce.
Nevina sorrideva, sorda ai richiami affettuosi, toglieva dalla
cornucopia d'argento una falda di neve, la diffondeva
intorno, liberandosi dei piccoli compagni di gioco. E
proseguiva il cammino diafana, silenziosa, leggera come le
ali delle farfalle.
Giunse a valle, fu sulla grande strada.
L'aria si mitigava. Un senso d'affanno opprimeva il cuore di
Nevina; per respirare toglieva dalla cornucopia una falda di
neve, la diffondeva intorno, ritrovava le forze e il respiro
nell'aria fatta gelida subitamente.
Proseguì rapida, percorse gran tratto di strada. Ad un
crocevia sostò in estasi, con gli occhi abbagliati. Le si apriva
dinnanzi uno spazio ignoto, una distesa azzurra e senza
fine, come un altro cielo tolto alla volta celeste, disteso in
terra, trattenuto, agitato ai lembi da mani invisibili. Nevina
proseguì sbigottita. La terra intorno mutava. Anemoni,
garofani, mimose, violette, reseda, narcisi, giacinti,
giunchiglie, gelsomini, tuberose, fin dove l'occhio giungeva,
dal colle al mare, mal frenati dai muri e dalle siepi dei
giardini, i fiori straripavano come un fiume di petali dove
emergevano le case e gli alberi.
107
Gli ulivi distendevano il loro velo d'argento, i palmizi
svettavano diritti, eccelsi come dardi scagliati nell'azzurro.
Nevina volgeva gli occhi estasiati sulle cose mai viste,
dimenticava di diffondere la neve; poi l'affanno la
riprendeva, toglieva una falda, si formava intorno una zona
di fiocchi candidi e d'aria gelida che le ridava il respiro. E i
fiori, gli ulivi, le palme guardavano pur essi con meraviglia
la giovinetta diafana che trasvolava in un turbine niveo e
rabbrividivano al suo passaggio.
Un giovane bellissimo, dal giustacuore verde e violetto,
apparve innanzi a Nevina, fissandola con occhi inquieti,
vietandole il passo:
“Chi sei?”
“Nevina sono. Figlia di Gennaio.”
“Ma non sai, dunque, che questo non è il regno di tuo
padre? Io sono Fiordaprile, e non t'è lecito avanzare sulle
mie terre. Ritorna al tuo ghiacciaio, pel bene tuo e pel mio!”
Nevina fissava il principe con occhi tanto supplici e dolci
che Fiordaprile si sentì commosso.
“Fiordaprile, lasciami avanzare! Mi fermerò poco. Voglio
toccare quella neve azzurra, verde, rossa, violetta che
chiamate fiori, voglio immergere le mie dita in quel cielo
capovolto che è il mare!”
Fiordaprile la guardò sorridendo; assentì col capo:
“Andiamo, dunque. Ti farò vedere tutto il mio regno.”
Proseguirono insieme, tenendosi per mano, fissandosi negli
occhi, estasiati e felici. Ma via via che Nevina avanzava, una
zona bigia offuscava l'azzurro del cielo, un turbine di fiocchi
candidi copriva i giardini meravigliosi. Passarono in un
villaggio festante; contadini e contadine danzavano sotto i
mandorli in fiore. Nevina volle che Fiordaprile la facesse
danzare: entrarono in ballo; ma la brigata si disperse con un
brivido, i suoni cessarono, l'aria si fece di gelo; e dal cielo
108
fatto bigio cominciarono a scendere, con la neve odorosa dei
mandorli, i petali gelidi della neve, la vera neve che Nevina
diffondeva al suo passaggio. I due dovettero fuggire tra le
querele irose della brigata. Giunti poco lungi, volsero il capo
e videro il paese di nuovo festante sotto il cielo rifatto
sereno...
“Nevina, ti voglio sposare!”
“I tuoi sudditi non vorranno una regina che diffonde il
gelo.”
“Non importa. La mia volontà sarà fatta.”
Avanzarono ancora, tenendosi per mano, fissandosi negli
occhi, immemori e felici... Ma ad un tratto Nevina s 'arrestò
coprendosi di un pallore più diafano.”Fiordaprile!
Fiordaprile! ... Non ho più neve!”
E tentava con le dita - invano - il fondo della cornucopia.
“Fiordaprile! ... Mi sento morire! .. . Portami al confine...
Fiordaprile!... Non reggo più!”
Nevina si piegava, veniva meno. Fiordaprile tentò di
sorreggerla, la prese fra le braccia, la portò di peso, correndo
verso la valle.
“Nevina! Nevina!” Nevina non rispondeva. Si faceva
diafana più ancora. Il suo volto prendeva la trasparenza
iridata della bolla che sta per dileguare.
“Nevina! Rispondi!”
Fiordaprile la coprì col mantello di seta per difenderla dal
sole ardente, proseguì correndo, arrivò nella valle, per
affidarla al vento di tramontana. Ma quando sollevò il
mantello Nevina non c'era più. Fiordaprile si guardò
intorno smarrito, pallido, tremante. Dov'era? L'aveva
perduta per via? Alzò le mani al volto, in atto disperato; poi
il suo sguardo s'illuminò. Vide Nevina dall'altra parte della
valle che salutava con la mano protesa, sorridente.
109
Un suo vecchio precettore, il vento di tramontana, la
sospingeva pei sentieri nevosi, verso i ghiacciai, verso il
regno del padre Gennaio. Così cantava :
“Fiordaprile, Nevina
Non la vostra volontà solamente avete da realizzar,
Non la vostra volontà solamente avete da realizzar
la volontà della Natura avete da ricordar
la volontà della Natura avete da ricordar
le sue leggi, coraggio, potete rispettar
Fiordaprile! Fiordaprile! Non rinunceresti mai all’esaltante
distesa multicolore dei fiori d’aprile, al mare che s’increspa
sotto la brezza di maggio, al sole di giugno, al lento
risveglio della Terra dopo il riposo dell’inverno.
Nevina! Nevina! Non rinunceresti mai alla tua neve soffice e
leggera, che modella forme e pupazzi per l’allegria tutta
bianca dell’inverno. necessario è il riposo dell’inverno,
necessario è che la neve scenda giù, copra i campi e
imbianchi i campanili.
Così è l’alternarsi delle stagioni”.
“Oh Nevina, Nevina” disse Fiordaprile “Come ho potuto
dimenticare la saggezza che ora ritrovo. La mia gioia è già
perfetta, il nostro matrimonio già esiste da secoli, se penso a
come collaboriamo dall’eternità, a come ci amiamo
lavorando l’una per l’altro”
“Oh Fiordaprile, Fiordaprile” disse Nevina “Per amore di te,
custodirò la terra come una coperta preziosa, ogni sera del
mio tempo la rimboccherò per i tuoi prati dai mille colori,
cosicché quando vedrai spuntare le prime gemme, sentirai il
nostro amore fiorire insieme ad esse”.
“Oh Nevina, Nevina” disse Fiordaprile “Per amore di te
ogni gemma ed ogni fiore avrà petali dalle incredibili
sfumature, il profumo dei bocciuoli empirà l’aria tutta e
Mastro Tramontana porterà a te di questi odori e di questi
110
colori e così tu saprai, ancora una volta, che il nostro amore
è per sempre!”
“E così sia!” li salutò felice Mastro Tramontana. “Ma ogni
tanto sarà bene che vi incontriate” “Si!!!” urlarono in coro
Nevina e Fiordaprile.
Questo spiega come mai ci siano giorni di gennaio tanto
assolati e giorni d’aprile in cui spira un vento proprio gelido
e come mai, certi anni, questi giorni siano più numerosi del
solito: Nevina e Fiordaprile stanno facendo le loro vacanze
insieme.
Dall'originale di Guido Gozzano
111
IL GUARDIANO DI PORCI
C'era una volta un povero principe, il quale aveva un
regno piccino piccino; sempre grande abbastanza, però, per
poter prendere moglie; e questo per l'appunto egli voleva.
Veramente, l'andar a domandare alla figliuola
dell'Imperatore: «Mi vuoi per marito?» - fu un po' temerario
da parte sua. Pure egli l'osò, perchè il suo nome era famoso
sin nelle più remote contrade, e cento e cento principesse
sarebbero state felici di dirgli di sì. Che credete, in vece, che
rispondesse lei?
State attenti, e sentirete.
Sulla tomba del padre di questo principe, cresceva un
rosaio... Ah, che rosaio era quello! Fioriva soltanto ogni
cinque anni, ed anche allora portava una sola rosa: ma una
rosa dal profumo così soave, che faceva dimenticar tutte le
cure e tutti i crucci. Il principe possedeva anche un
usignuolo, il quale sapeva cantare tanto bene, che pareva
racchiudesse nella piccola gola tutte le più belle melodie
dell'universo. La rosa e l'usignuolo erano i doni destinati
alla principessa; e perciò le furono spediti, chiusi in grandi
custodie d'argento.
L'Imperatore li fece portare alla sua presenza nella sala
grande, dove la principessa, in mancanza di meglio, stava
giocando alle visite con le sue damigelle. Quand'ella vide le
grandi custodie d'argento coi doni, battè le mani dalla gioia.
«Ah, se ci fosse dentro un gattino!...» - diss'ella: ma
apparve in vece la magnifica rosa.
«Com'è bella, com'è ben fatta.» - esclamarono tutte le
dame.
«È più che bella,» - dichiarò l'Imperatore: «è stupenda.»
Ma la principessa l'odorò, e per poco non iscoppiò in
lacrime.
112
«Oh, papà,» - disse: «ma non è artificiale: è una rosa
vera!»
«Bah!» - fecero tutti i cortigiani: «Una rosa vera!»
«Bene, vediamo che cosa c'è nell'altra custodia, prima di
andare in collera!» - disse l'Imperatore; ed allora apparve
l'usignuolo; e cantò così mirabilmente, che proprio non si
potè trovarci nulla a ridire.
«Superbe! Charmant!» - esclamarono tutte le dame,
perchè tra loro chiacchieravano sempre in francese, e l'una
peggio dell'altra, a dir vero.
«Ah! come quest'uccello mi rammenta lo stipo
armonico della povera Imperatrice, di santa memoria!» disse un vecchio cavaliere: «È proprio lo stesso tono, la
stessa espressione!»
«È vero!» - disse l'Imperatore, e pianse come un
bambino.
«Questo, almeno, non sarà un uccello vero!» - disse la
principessa.
«Sì, Altezza; è un uccello vero,» - risposero quelli che
l'avevano portato.
«E allora, lo si lasci volar via!» - ordinò la principessa;
ed a nessun costo volle permettere che il principe venisse
alla corte.
Ma il principe non era uomo da perdersi d'animo per
così poco. Si tinse il viso di nero, si tirò il berretto sugli
occhi, e picchiò all'uscio.
«Buon giorno, Imperatore!» - disse: «Potrei ottenere un
impiego nel castello?»
«Eh, caro mio, ce ne sono tanti che cercano impiego!» rispose l'Imperatore. «Lascia vedere, però. Sì, al momento,
ho proprio bisogno di qualcuno che mi guardi i maiali: ne
ho un branco enorme, qui, dei maiali...»
113
E così il principe fu nominato guardiano imperiale dei
porci: gli fu assegnato un bugigattolo vicino al porcile, e là
doveva stare. Per tutta la giornata si mise lì a lavorare, e
quando venne la sera, aveva già terminata una bella
pentolina. Intorno all'orlo, ci aveva attaccati certi bubbolini,
i quali, appena la pentolina bolliva, si mettevano a sonare
meravigliosamente il motivo di quella vecchia canzonetta,
che incomincia:
Ah, mio povero Agostino,
Tutto è andato, andato, andato!
Ma il più meraviglioso si era che, mettendo il dito tra
mezzo al fumo che usciva dalla pentola, si poteva sentire
all'odore quello che cuoceva su tutti i focolari della città.
Altro che la rosa! Questa sì, ch'era una meraviglia!
Passò di lì la principessa, passeggiando con le
damigelle: e quando udì la melodia, si fermò, e fece il viso
ridente, perchè anch'ella sapeva sonare: Ah, mio povero
Agostino! Era anzi la sola cosa che sapesse sonare, ma con un
dito solo.
«È la canzone che so anch'io!» esclamò: «Dev'essere un
porcaro educato quello lì! Andate e domandategli quanto
costa lo strumento.»
E così una delle dame d'onore dovette correre sino
laggiù; ma prima infilò un paio di zoccoli, per non
insudiciarsi le scarpine.
«Quanto vuoi di codesta pentola?» - domandò la dama.
«Voglio dieci baci dalla principessa!» - rispose il
porcaro.
«Dio ci scampi e liberi!» - esclamò la dama.
«Ah, per meno non la posso dare!» - dichiarò il porcaro.
«Ebbene, che cosa ha detto?» - domandò la principessa.
114
«In verità che non posso nemmeno ripeterlo!» - rispose
la dama d'onore: «È troppo orribile.»
«Allora, puoi dirmelo in un orecchio...» - E quella glielo
disse all'orecchio.
«Che sgarbato!» - fece la principessa; e si allontanò in
fretta. Ma appena ebbe fatto pochi passi, i bubbolini
ricominciarono a sonare così deliziosamente:
Ah, mio povero Agostino,
Tutto è andato, andato, andato!
che la principessa non seppe resistere: - «Senti,» - ordinò:
«domandagli se vuole dieci baci dalle mie dame d'onore.»
«No, grazie!» - disse il guardiano: «Dieci baci dalla
principessa, o mi tengo la mia pentola.»
«Che noioso!» - disse la principessa: «Allora bisogna
che vi mettiate all'ingiro a pararmi, che almeno nessuno
abbia a vedere.
E le damigelle le si misero tutte in cerchio d'attorno,
tenendo bene allargate le gonne: il porcaro ebbe i dieci baci;
e la principessa, la pentola.
Che bellezza! Tutto il giorno e tutta la sera bisognava
che la pentola bollisse. Non c'era focolare in tutta la città, di
cui non si sapesse che vi si cucinava, tanto nella casa del
cavaliere, quanto in quella del calzolaio. Le damigelle
ballavano e battevano le mani dalla gioia.
«Sappiamo chi mangerà la zuppa di latte e chi le
frittelle, chi la farinata e chi le costolette! Com'è divertente!»
«Divertentissimo!» - assentì la credenziera capo
dell'Impero.
115
«Sì, ma acqua in bocca, però! Sono o non sono la
figliuola dell'Imperatore?»
«Dio guardi! L'Altezza Vostra può fidarsi di noi!» dissero tutte insieme.
Il guardiano di porci, vale a dire il principe (ma
nessuno sapeva, naturalmente, ch'ei fosse ben altro che un
porcaro), non lasciò però passare la giornata senza
fabbricare qualche cosa di nuovo; e fabbricò un sonaglio.
Quando lo si agitava, incominciava a snocciolare tutti i
valzer, tutte le polche e tutte le tarantelle che sieno mai state
inventate da che mondo è mondo.
«Ma questo è davvero stupendo!» - disse la principessa,
quando venne a passare di lì: «Non ho udito mai
meccanismo più meraviglioso. Andate, e domandategli
quanto costa questo strumento. Ma badiamo: baci non ne do
più!»
«Domanda cento baci dalla principessa...» - riferì la
dama ch'era andata ad informarsene.
«Io dico che quello lì è pazzo!» - e la principessa
indispettita tirò innanzi. Ma, fatti pochi passi appena, si
fermò. «Bisogna pur incoraggiare l'arte...» - disse: «Non per
nulla son la figliuola dell'Imperatore! Ditegli che gli darò
dieci baci come ieri; e che il resto potrà prenderselo dalle
mie dame.»
«Ma noi lo facciamo così malvolentieri!...» arrischiarono le dame.
«Che sciocchezze!» - disse la principessa: «Se mi lascio
baciare io, potete ben fare altrettanto voi. Per qualche cosa,
mi pare, vi mantengo e vi pago!» E così, la dama d'onore
ebbe a tornare dal porcaro.
«Cento baci dalla principessa,» - insistè lui, «o mi tengo
la roba mia.»
116
«State dinanzi a pararmi!» - diss'ella; e tutte le dame
fecero cerchio, ed il porcaro incominciò a baciarla.
«Che cos'è tutto quel chiasso laggiù, accanto al
porcile?» - si domandò l'Imperatore, ch'era salito sull'altana.
Si stropicciò gli occhi e si aggiustò le lenti. «Lì c'è di sicuro
lo zampino delle dame d'onore. Voglio vederci chiaro da
me.» Passò in fretta un dito dentro alle pantofole, per tirarle
su meglio dietro, - perchè aveva il vizio di acciaccarle col
calcagno, - e giù a precipizio.
Misericordia, che corsa fu quella!
Appena giunse nel cortile, si mise a camminare pian
piano. Del resto, le dame erano troppo affaccendate a
contare i baci, per vedere che tutto andasse bene e che il
porcaro non ne avesse a ricevere uno di più nè uno di meno;
e non si avvidero dell'Imperatore. Questi si alzò in punta di
piedi...
«Che faccenda è questa?» - gridò, quando vide i due che
si baciavano; e tirò loro una pantofola sul capo, proprio nel
momento che il porcaro riceveva l'ottantesimo bacio.
«Via di qua!» - tuonò l'Imperatore, su tutte le furie: e
tanto la principessa quanto il guardiano di porci furono
scacciati dall'Impero.
Ed eccola lì a piangere, mentre il porcaro la
rimproverava e la pioggia veniva giù a torrenti.
«Ah, povera me, povera me!» - sospirava la principessa:
«Avessi almeno accettato per marito il bel principe, che ora
non sarei ridotta a questa miseria! Ah, come sono
disgraziata!»
Il guardiano di porci andò dietro ad un albero; si lavò
via dalla faccia la tinta nera, si tolse di dosso gli abiti
cenciosi, ed apparve in tutta la pompa principesca, così
117
bello, che la principessa non potè far a meno d'inchinarsi
dinanzi a lui.
«Tu mi hai messo al punto di doverti disprezzare!» diss'egli: «Non hai voluto accettare un principe onorato, non
t'intendi di rose nè d'usignuoli; ma poi, per un balocco, hai
consentito a baciare un guardiano di porci. Ora non hai se
non il castigo che ti sei meritata.»
E andò nel suo regno, chiuse la porta e tirò il catenaccio;
ed ella, rimasta di fuori, ben potè cantare:
Ah, mio povero Agostino,
Tutto è andato, andato, andato!
Ma quando ebbe cantato ottanta volte il ritornello, fra
singhiozzi e lacrime, il principe uscì dal castello, e le disse:”
Credo che ormai abbiate ben imparato la lezione,e, se volete,
potete darmi gli ultimi venti baci che non mi deste...Ma solo
se volete, ché in cambio non avrete niente....”
La principessa non se lo fece dire due volte, e buttò le
braccia al collo del principe, dicendogli:” In fondo, mi
piacevate anche quando eravate un guardiano di
porci...Tenetemi con voi, e farò io i lavori umili, adesso, per
starvi vicino...”
Il perdono è una gran buona medicina, per ogni cuore:
il principe perdonò la principessa, il Re perdonò tutti e due,
e il ritornello della canzone, da allora, cambiò in
Ah, mio caro Agostino,
Tutto è andato, e il bello è arrivato!
Dall'originale di Hans Christian Andersen
118
POLLICINO
Moltissimo tempo fa, quando si filava ancora la lana, nelle
campagne vivevano due poveri contadini, marito e moglie.
Sebbene fossero molto poveri, desideravano moltissimo
d'avere un figlio.
“Pensa, moglie mia - sospirava l'uomo - come la casa
sarebbe più allegra se ci tenesse compagnia vicino al fuoco
un bel bambino!” “Ahimè! Marito mio - rispose la moglie
fermando il suo arcolaio - anche io ne sarei molto felice.
Anche se fosse molto piccolo, guarda, non più grande del
mio pollice, l'accoglierei con gioia.”
Qualche mese dopo, con loro grande felicità, nacque un
figlio. Era ben fatto ed aveva una bella voce, ma di taglia
piccolissima, non più grande dell'unghia di suo padre.
Il ragazzo non divenne mai grande. Aveva un'intelligenza
viva, era anche molto abile, riusciva in tutto quello che si
attingeva a fare. I suoi genitori, anche se in un primo tempo
si erano preoccupati, si erano presto adattati alla sua piccola
statura e lo avevano soprannominato con affetto Pollicino.
Vegliavano su questo piccolo uomo che avevano tanto
desiderato, affinché non gli mancasse nulla.
Un giorno suo padre, mentre si apprestava a partire per
abbattere alcuni alberi, sospirò:
“Se avessi almeno qualcuno che mi aiutasse a condurre la
carretta!”
“Papà! - gridò Pollicino - Lasciatemi guidare la carretta da
solo. Vi raggiungerò nella radura e voi intanto
guadagnerete tempo.”
“Ma tu sei piccolo! - esclamò il padre sorridendo - Come
potrai guidare il cavallo e prendere le redini?”
“Ho un'idea - gridò il piccolo uomo - la mamma attaccherà
il cavallo, poi mi isserà fino all'altezza della testa ed io
119
scivolerò all'interno del suo orecchio. Il cavallo mi conosce
bene e non avrà certamente paura, così io lo guiderò al
luogo dove avrai tagliato la legna.”
Il padre diede infine il suo consenso, la madre attaccò il
cavallo. Il ragazzo lo guidò come un vero carrettiere,
fermandosi saggiamente agli incroci.
Quando fu in vista della radura incrociò due stranieri che
chiacchieravano. Poiché udirono una voce essi si voltarono.
“Hoo! Hoo! Là! Là! Stiamo per arrivare mio bravo Zeffiro”
gridò in quel momento Pollicino ben nascosto nel suo strano
nascondiglio.
“Sangue di Bacco! Sto sognando! - disse uno dei due - una
carretta che se ne va da sola: si sente la voce del guidatore e
non si vede nessuno”. “Seguiamola, non c'è dubbio che si
tratta di qualche stregoneria”.
Il pesante veicolo si fermò di colpo davanti alla catasta di
legna.
Davanti agli occhi dei due curiosi il contadino s'avvicinò al
cavallo e gli tolse dall'orecchio il minuscolo omino che, tutto
vispo, venne a sedersi su un fuscello di paglia a qualche
metro dai due uomini.
Nel vedere questo personaggio in miniatura così audace e
pieno di risorse, i due uomini ne rimasero colpiti.
Alla fine uno dei due s'avvicinò al contadino e gli disse:
“Brav'uomo, vendeteci vostro figlio. Gli faremo guadagnare
una fortuna facendolo vedere nelle fiere dei grandi villaggi”
“Vendere il mio caro figlioletto? Non se ne parla nemmeno”
rispose indignato il contadino.
Ma Pollicino, approfittando della distrazione dei due
compari, occupati a contare i loro scudi, gli sussurrò:
“Papà, accetta il denaro di questi due furfanti che vogliono
sfruttarmi, io scapperò prestissimo, te lo prometto”.
120
Il brav'uomo, con il cuore un po' grosso, lo vendette quindi
per due bei scudi d'oro.
Rapidamente saltò sulla falda del vestito di uno dei due
compari, s'arrampicò sulla sua spalla e infine s'installò sul
bordo del suo cappello.
Camminarono così tutta la giornata e allorquando
arrivarono al bordo di un campo appena mietuto, Pollicino
all'improvviso gridò:
“Lasciatemi scendere a terra, vedo laggiù un coniglio
selvatico preso al laccio, con il quale potremo fare un buon
pranzo. Ve lo mostrerò”. Allettato e senza alcun sospetto,
l'uomo lo posò in terra. Agile come un'anguilla, Pollicino si
infilò nel buco di un topo campagnolo gridando: “Buona
sera signori e buon viaggio, ma senza di me”. Curiosi i due
uomini se ne partirono imprecando. Pollicino decise di
attendere l'alba al riparo di un guscio vuoto di lumaca.
Dormiva profondamente quando un brusio di voci lo
svegliò. Due ladri si erano fermati a due passi da lui. Uno di
loro diceva:
“Come potremo rubare a questo ricco prete?” “Vi dirò io
come fare - gridò molto forte Pollicino - portatemi con voi e
io vi aiuterò. Abbassate gli occhi, sono qui vicino”
“Come, sei tu, piccolo diavoletto, che pretendi d'aiutarci?”
dissero i due ladroni scoppiando a ridere. “Io scivolo con
facilità tra le sbarre della camera del prete - spiegò Pollicino
- poi, una volta entrato, vi passo tutto quello che volete”.
“Tu non sei uno stupido - disse uno dei due uomini
collocandolo sulla sua spalla - che la fortuna ci assista, ma
affrettiamoci perché si sta alzando la luna”.
Arrivati al presbiterio, Pollicino vi entrò e si mise a gridare:
“Volete tutti i luigi d'oro e i lingotti d'argento?-“
Stupiti i ladri lo supplicarono immediatamente di parlare a
voce bassa, perché un tal chiasso rischiava di svegliare il
121
prete. Ma Pollicino fece orecchie da mercante ai consigli dei
due banditi e gridò a gran voce: “Decidetevi perdiana! I
quadri e l'argenteria vi interessano o no?”
La cuoca che aveva il sonno leggero, udendo quel beccano,
scese dal letto, accese la candela alle braci del focolare e si
precipitò in direzione dell'ufficio.
Quando entrò nella stanza la trovò vuota. I ladri, spaventati,
erano fuggiti da sotto la finestra, mentre Pollicino, tutto
tranquillo, si era rifugiato in una mangiatoia del granaio
vicino. La brava donna, rassicurata, tornò a dormire.
Al mattino, all'alba, la serva incaricata di dar da mangiare
alle bestie s'impossessò di una bracciata di fieno per nutrire
le mucche. Quella che aveva il vitellino ad allattare si gettò
avidamente sulla mangiatoia e, hop! Pollicino, svegliatosi,
fu precipitato fino in fondo allo stomaco nauseabondo del
ruminante che ingurgitava grosse quantità di fieno.
“Basta fieno, basta erba! Soffoco!” gridò Pollicino.
Presa da gran spavento nel sentire la mucca parlare, la
povera serva cadde riversa chiamando il prete al soccorso.
“Miio braavo papa..drone, la la.. nos...tra mu..mu...mmucca
paarla que..que..sta mamaa..ttina!” - balbettò la brava
donna.
“Vediamo, figlia mia, voi sognate!” gridò stupito il prete
alzando la sottana nella stalla tutta sporca.
Ma la voce risuonò di nuovo. Il prete si fece subito il segno
della croce. “E' senza dubbio una manovra del diavolo”.
Cosparse abbondantemente d'acqua santa la stalla, la mucca
e la serva.
Dopodiché (non si è mai troppo prudenti) decise di far
abbattere l'animale perché continuava ostinatamente a
gridare.
Effettivamente Pollicino aveva paura di morire soffocato.
122
La povera mucca fu dunque sacrificata e il suo stomaco fu
gettato in un mucchio di detriti. Pollicino soffrì molto ad
uscire da quel ventre maleodorante. Finalmente respirò il
suo primo sbuffo d'aria fresca, sennonché un lupo affamato
inghiotti lo stomaco della mucca ed il suo contenuto.
Ecco di nuovo il nostro sfortunato piccolo uomo in un
nuovo nascondiglio poco confortevole ed inoltre tutto buio.
Egli quindi mormorò:
“Caro lupo, nell'ultima casa del villaggio c'è una dispensa
ben fornita. Quando arriva la notte entra dentro dal tubo di
scarico, potrai così riempirti la pancia a sazietà”. “Questo
lungo digiuno - borbottò tra se il lupo - mi dà allucinazioni,
infatti sento alcune voci... bah! Il consiglio non è poi così
cattivo, seguiamolo”.
Lo seguì così bene che quando volle andarsene il suo ventre
troppo pieno gli impedì di passare attraverso il tubo. Era
rimasto in trappola.
Pollicino si mise subito a gridare, mettendo in subbuglio la
casa:”
Caro papà, ammazzate questo lupo che mi tiene prigioniero
nella sua pancia!”
Così avvenne e Pollicino ritrovò i suoi genitori felici di
rivederlo.
Poi il padre prese a parlare: “Pollicino, sono stato uno
sciocco a venderti ai due viandanti. E sono stato anche un
pessimo esempio se tu, figlio mio, hai potuto anche solo
pensare che due luigi valessero il nostro amore, la nostra
famiglia. Nulla al mondo è più importante di questo.
L’onesta povertà non ha in sé nulla di biasimevole. Non
così il vendere le persone come se fossero oggetti. Osserva
inoltre quanta sofferenza si è generata da questa
sconsiderata mia azione: io e tua madre disperati per la tua
assenza, le tremende avventure che ti sono capitate e i rischi
123
di morire che hai corso, l’uccisione di due animali innocenti,
la mucca e il lupo…”
“Oh padre, come avete ragione”
disse Pollicino
asciugandosi le lacrime e stringendosi forte al suo cuore.
“D’altra parte, ora stai diventando grande, e sia io che la
mamma capiamo il tuo desiderio di viaggiare. Troveremo
insieme dei sistemi sicuri che ti permettano di esplorare il
mondo. Intanto, grazie alla tua collaborazione nel lavoro , e
alla tua intelligenza, i nostri guadagni miglioreranno”
“Bene – disse la mamma – ed io veglierò affinché le vostre
azioni siano sempre oneste, l’intelligenza non si trasformi in
furbizia o in tentativi d’ingannare il prossimo, per
mascalzone che sia: ciò che conta è che ognuno di noi sappia
di poter contare sull’amorevole presenza dell’altro. Il resto
verrà da solo”.
Si abbracciarono stretti stretti tutti e tre e da allora
compirono solo buone azioni.
Dall'originale dei Fratelli Grimm
124
LA PRINCIPESSINA SUL PISELLO
C'era una volta un principe, che voleva sposare una
principessa; ma aveva ad essere proprio una principessa
vera. Fece dunque il giro del mondo per trovarla: - nè di
principesse c'era penuria: ma non poteva mai sincerarsi se
fossero vere principesse; sempre qualche cosa in esse gli
pareva sospetto. E così se ne tornò a casa, afflittissimo per
non aver trovato quello che desiderava.
Una sera, il tempo era orribile; i lampi s'incrociavano, il
tuono rumoreggiava, la pioggia cadeva a torrenti: uno
spavento! Fu picchiato alla porta della città, ed il vecchio re
si affrettò ad aprire.
Era una principessa. Ma, Dio mio! com'era conciata
dalla pioggia e dal vento! L'acqua le gocciolava dai capelli e
dalle vesti, le entrava dall'orlo delle scarpe e le usciva dalle
suole. Pure, dichiarò di essere una vera principessa.
«Non dubitare che tra poco lo sapremo!» - pensò la
vecchia regina; ma non disse nulla. Andò nella camera,
disfece il letto, e mise un pisello sul fondo del fusto. Poi
prese venti materasse e le distese sul pisello, e poi venti
piumini, e li pose sopra alle materasse. E fu quello il letto
destinato alla principessa.
La mattina dopo le domandarono come avesse passata
la notte.
«Oh, malissimo!» - rispose: «Non ho quasi potuto
chiuder occhio in tutta la notte. Sa Iddio che ci fosse nel
letto! Ci sentivo qualche cosa di duro, che m'ha ridotto la
pelle tutta lividure. Un martirio!»
Dalla risposta si comprese subito ch'era una vera
principessa, poi che aveva sentito un pisello a traverso a
venti materasse ed a venti piumini. Chi, se non una
principessa, può avere la pelle così delicata?
125
Il principe, ben persuaso ch'era una principessa vera, la
tolse in moglie; ed il pisello fu posto nel museo, ove
dev'essere ancora, se nessuno l'ha rubato.
Perchè la storia, vedete, è vera quanto la principessa.
Le vere principesse hanno l'animo delicato come la loro
pelle, e alla giovane non garbava affatto di essere stata scelta
in moglie a causa del suo rango e non per se stessa. Dunque,
la sera delle nozze, ella confessò, per finta, allo sposo ,
d'essere una semplice contadina, che, abituata a dormir
sulla paglia, aveva trovato scomode le troppe materasse,
non certo il pisello, come invece aveva creduto la Regina
Madre.
Il principe, che invero ormai la amava per il suo animo,
e non per il suo rango, le disse: “Sposa mia, che tu sia
principessa o contadina poco conta; e, se ti è più comoda la
paglia, ebbene, questa notte dormiremo nel fienile!”
La principessa, allora, rise così forte da non poter più
mentire al suo sposo, e, nel museo, accanto al pisello fu
posto un ciuffo di paglia, a ricordare che ciò che conta è
l'amore tra le anime, non certo i vestiti di cui si circondano
su questa terra....
Dall'originale di Hans Christian Andersen
126
IL PRINCIPE RANOCCHIO
Nei tempi antichi, quando ancora non si conosceva la forza
creativa dei pensieri fatti e delle parole dette, c'era un re, le
cui figlie erano tutte belle, ma la più giovane era così bella
che perfino il sole, che pure ha visto tante cose, sempre si
meravigliava, quando le brillava in volto. Vicino al castello
del re c'era un gran bosco tenebroso e nel bosco, sotto un
vecchio tiglio, c'era una fontana: nelle ore più calde del
giorno, la principessina andava nel bosco e sedeva sul ciglio
della fresca sorgente; e quando si annoiava, prendeva una
palla d'oro, la buttava in alto e la ripigliava; e questo era il
suo gioco preferito.
Ora avvenne un giorno che la palla d'oro della principessa
non ricadde nella manina ch'essa tendeva in alto, ma cadde
a terra e rotolò proprio nell'acqua. La principessa la seguì
con lo sguardo, ma la palla sparì, e la sorgente era profonda,
profonda a perdita d'occhio. Allora la principessa cominciò
a piangere, e pianse sempre più forte, e non si poteva
proprio consolare. E mentre così piangeva, qualcuno le
gridò: - Che hai, principessa? Tu piangi da far pietà ai sassi.
Ella si guardò intorno, per vedere donde venisse la voce, e
vide un ranocchio, che sporgeva dall'acqua la grossa testa
deforme. - Ah, sei tu, vecchio sciaguattone! - disse, - piango
per la mia palla d'oro, che m'è caduta nella fonte.
- Chétati e non piangere, - rispose il ranocchio, - ci penso io;
ma che cosa mi darai, se ti ripesco il tuo balocco?
- Quello che vuoi, caro ranocchio, - diss’ella, - i miei vestiti,
le mie perle e i miei gioielli, magari la mia corona d'oro.
Il ranocchio rispose: - Le tue vesti, le perle e i gioielli e la tua
corona d'oro io non li voglio: ma se mi vorrai bene, se potrò
essere il tuo amico e compagno di giochi, seder con te alla
tua tavolina, mangiare dal tuo piattino d'oro, bere dal tuo
127
bicchierino, dormire nel tuo lettino: se mi prometti questo;
mi tufferò e ti riporterò la palla d'oro.
- Ah sì, - diss’ella, - ti prometto tutto quel che vuoi, purché
mi riporti la palla.
Ma pensava: « Cosa va blaterando questo stupido
ranocchio, che sta nell'acqua a gracidare coi suoi simili, e
non può essere il compagno di una creatura umana! »
Ottenuta la promessa, il ranocchio mise la testa sott'acqua, si
tuffò e poco dopo tornò remigando alla superficie; aveva in
bocca la palla e la buttò sull'erba. La principessa, piena di
gioia aI vedere il suo bel giocattolo, lo prese e corse via.
- Aspetta, aspetta! - gridò il ranocchio: - prendimi con te, io
non posso correre come fai tu.
Ma a che gli giovò gracidare con quanta fiato aveva in gola!
La principessa non 1'ascoltò, corse a casa e ben presto aveva
dimenticata la povera bestia, che dovette rituffarsi nella sua
fonte. Il giorno dopo, quando si fu seduta a tavola col re e
tutta la corte, mentre mangiava dal suo piattino d'oro plitsch platsch, plitsch platsch - qualcosa salì balzelloni la
scala di marmo, e quando fu in cima bussò alla porta e
gridò: - Figlia di re, piccina, aprimi!
Ella corse a vedere chi c'era fuori, ma quando aprì si vide
davanti il ranocchio. Allora sbatacchiò precipitosamente la
porta, e sedette di nuovo a tavola, piena di paura. Il re si
accorse che le batteva forte il cuore, e disse: - Di che cosa hai
paura, bimba mia? Davanti alla porta c'è forse un gigante
che vuol rapirti?
- Ah no, - rispose ella, - non è un gigante, ma un brutto
ranocchio.
- Che cosa vuole da te?
- Ah, babbo mio, ieri, mentre giocavo nel bosco vicino alla
fonte, la mia palla d'oro cadde nell'acqua. E perché
piangevo tanto, il ranocchio me l'ha ripescata; e perché ad
128
ogni costo lo volle, gli promisi che sarebbe diventato il mio
compagno; ma non avrei mai pensato che potesse uscire da
quell'acqua. Adesso è fuori e vuol venire da me.
Intanto si udì bussare per la seconda volta e gridare:
- Figlia di re, piccina, aprimi!
Non sai più quel che ieri m'hai detto
vicino alla fresca fonte?
Figlia di re, piccina, aprimi!
Allora il re disse: - Quel che hai promesso, devi mantenerlo;
va' dunque, e apri -. Ella andò e aprì la porta; il ranocchio
entrò e, sempre dietro a lei, saltellò fino alla sua sedia. Lì si
fermò e gridò: - Sollevami fino a te.
La principessa esitò, ma il re le ordinò di farlo. Appena fu
sulla sedia, il ranocchio volle salire sul tavolo e quando fu
sul tavolo disse: - Adesso avvicinami il tuo piattino d'oro,
perché mangiamo insieme.
La principessa obbedì, ma si vedeva benissimo che lo faceva
controvoglia. Il ranocchio mangiò con appetito, ma a lei
quasi ogni boccone rimaneva in gola. Infine egli disse: - Ho
mangiato a sazietà e sono stanco; adesso portami nella tua
cameretta e metti in ordine il tuo lettino di seta: andremo a
dormire.
La principessa si mise a piangere: aveva paura del freddo
ranocchio, che non osava toccare e che ora doveva dormire
nel suo bel lettino pulito. Ma il re andò in collera e disse: Non devi disprezzare chi ti ha aiutato nel momento del
bisogno.
Allora ella prese la bestia con due dita, la portò di sopra e la
mise in un angolo. Ma quando fu a letto, il ranocchio venne
saltelloni e disse: - Sono stanco, voglio dormir bene come te:
tirami su, o lo dico a tuo padre.
Allora la principessa capì che doveva porre rimedio alla
situazione che aveva creato con la sua promessa vana,
129
perché altrimenti sarebbe stata schiava per sempre del suo
errore. Prese il ranocchio, lo piazzò sul letto e gli disse: Ranocchio, ascoltami: ho sbagliato a farti una promessa che
non avevo intenzione di mantenere e ti chiedo perdono. Ero
così convinta che quella palla d’oro rappresentasse la cosa
più preziosa del mondo che nel perderla mi sono sentita
disperare e ho agito in modo meschino, pensando che tu,
dal fondo del tuo stagno, non avresti mai potuto pretendere
qualcosa da me. Ora so che non c’è nulla di tanto prezioso
da valere il rispetto di me stessa e delle altre creature. Ti
cederò il mio lettino e mangerai alla mia tavola, ma devo
dirti che l’amicizia che tu mi hai chiesto in pegno non è
possibile conquistarla con patti o promesse. Saremo amici
quando i nostri occhi si guarderanno con limpidezza e i
nostri spiriti sapranno capirsi senza parole.
Il ranocchio, allora, improvvisamente ricordò: ricordò di
quando i suoi occhi avevano incontrato quelli luminosi di
un amico e fece per saltare giù dal letto. Quando cadde a
terra, non era più un ranocchio: era un principe dai begli
occhi ridenti. Raccontò alla principessa che era stato stregato
da una cattiva maga e nessuno avrebbe potuto liberarlo se
non un pensiero puro e luminoso. Ascoltando le parole
della principessa aveva ricordato il suo fido scudiero Enrico
e la bellezza dell’amicizia che li legava lo aveva liberato. Poi
si addormentarono. La mattina dopo, quando il sole li
svegliò, arrivò una carrozza con otto cavalli bianchi, che
avevano pennacchi bianchi sul capo e i finimenti d'oro; e
dietro c'era lo scudiero del giovane re, il fedele Enrico. Il
fedele Enrico si era così afflitto, quando il suo re era stato
trasformato in ranocchio, che si era fatto mettere tre cerchi
di ferro intorno al cuore, perché non gli scoppiasse
dall'angoscia. Ma ora la carrozza doveva portare il giovane
re nel suo regno; il fedele Enrico vi fece entrare il giovane,
130
salì dietro ed era pieno di gioia per la liberazione. Quando
ebbero fatto un tratto di strada, il principe udì uno schianto,
come se dietro a lui qualcosa si fosse rotto. Allora si volse e
gridò:- Rico, qui va in pezzi il cocchio!
-No, padrone, non è il cocchio,
bensì un cerchio del mio cuore,
ch'era immerso in gran dolore,
quando dentro alla fontana
tramutato foste in rana.
Per due volte ancora si udì uno schianto durante il viaggio;
e ogni volta il principe pensò che il cocchio andasse in pezzi;
e invece erano soltanto i cerchi, che saltavano via dal cuore
del fedele Enrico, perché il suo amico era libero e felice.
Dall’originale dei Fratelli Grimm
131
LA VOLPE E LA CICOGNA
Pareva proprio che la volpe e la cicogna fossero buone
amiche.
Un tempo si vedevano spesso, e un giorno la volpe invitò a
pranzo la cicogna;
per farle uno scherzo, le servì della minestra in una scodella
poco profonda:
la volpe leccava facilmente, ma la cicogna riusciva soltanto a
bagnare la punta
dei lungo becco e dopo pranzo era più affamata di prima.
"Mi spiace!" - disse la volpe - "La minestra non è di tuo
gradimento?".
“Non avere scrupoli”- rispose la cicogna –“ anzi spero che
vorrai restituirmi presto la visita e venire a pranzo da me”.
Arrivò il giorno.
Le due amiche sedettero a tavola, ma le pietanze erano
preparate in vasi dal collo lungo e stretto nei quali la volpe
non riusciva ad infilare il muso. Tutto ciò che potè fu leccare
l’esterno del vaso.
“Non ho scrupoli, per il pranzo”- disse la cicogna-“Chi la fa
l’aspetti.”
La volpe rimase seduta alla tavola della cicogna. Era
seriamente dispiaciuta dell’accaduto, perché solo ora capiva
come l’amica si fosse sentita, quando lei le aveva riservato il
medesimo trattamento. Neanche la cicogna andava fiera del
disappunto arrecato alla volpe, poiché ad entrambe
importava una sola cosa: essere amiche.
Così si abbracciarono felici, promettendosi di essere sempre
rispettose della natura l’una dell’altra. La vera amicizia
prevale sulla furbizia.
Dall'originale di Esopo
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SCARPETTE ROSSE
C'era una volta una povera orfana che non aveva scarpe.
La bimba conservava tutti gli stracci che riusciva a trovare
finchè un bel giorno riuscì a confezionarsi un paio di
scarpette rosse. Erano rozze, ma le piacevano. La facevano
sentire ricca nonostante trascorresse, fino a sera inoltrata, le
sue giornate a cercare cibo nei boschi.
Un giorno, mentre percorreva faticosamente una strada,
vestita dei suoi stracci e con le scarpette rosse ai piedi, una
carrozza dorata le si fermò accanto.
La vecchia signora che la occupava le disse che l'avrebbe
portata a casa con sé e l'avrebbe trattata come una sua
figlioletta.
Così andarono nella dimora della vecchia signora ricca, e là
furono lavati e pettinati i capelli della bambina. Le furono
dati biancheria fine, un bell'abito di lana e calze bianche e
lucide scarpe nere.
Quando la bambina chiese dei suoi vecchi abiti, e in
particolare delle scarpette rosse, la vecchia le rispose che,
sudici e ridicoli com'erano, li aveva gettati nel fuoco.
La bimba era molto triste perché quelle umili scarpette rosse
che aveva fatto con le proprie mani le avevano dato la più
grande felicità. Ora era costretta a stare sempre ferma e
tranquilla, a parlare senza saltellare e soltanto se
interrogata.
Un fuoco segreto le si accese nel cuore e continuò a
desiderare più di ogni altra cosa le sue vecchie scarpette
rosse. Poiché la bambina era abbastanza grande da ricevere
la cresima, la vecchia signora la portò da un vecchio
calzolaio zoppo, per acquistare una paio di scarpe speciali
per l'occasione. In vetrina facevano bella mostra di sé un
paio di scarpe rosse confezionate con la pelle più morbida
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che si possa trovare. La bimba, spinta dal suo cuore
affamato, subito le scelse.
La vecchia signora ci vedeva così male che non si accorse
del colore e glie le comprò. Il vecchio calzolaio strizzò
l'occhio alla piccola e le incartò le scarpe.
Il giorno dopo, in chiesa, tutti rimasero sorpresi da quelle
scarpe rosse che brillavano come mele lustrate, come cuori,
come prugne ben lavate. Ma alla bimba piacevano sempre
di più.
In giornata la vecchia signora venne a sapere delle scarpette
rosse della sua pupilla.
"Non mettere mai più quelle scarpe" le ordinò minacciosa.
Ma la domenica dopo la bambina non potè fare a meno di
mettersi le scarpette rosse, e poi si avviò alla chiesa con la
vecchia signora. Sulla porta della chiesa c'era un vecchio
soldato con il braccio al collo. S'inchinò, chiese il permesso
di spolverare le scarpe e toccò le suole cantando una
canzoncina che le fece venire il solletico ai piedi.
"Ricordati di restare per il ballo" e le strizzò l'occhio.
Anche questa volta tutti guardarono con sospetto le
scarpette rosse della bambina.
Ma a lei piacevano tanto quelle scarpe lucenti, rosse come
lamponi, come melagrane, che non riusciva a pensare ad
altro. Era tutta intenta a girare e rigirare i piedini, tanto che
si dimenticò di cantare.
Quando uscirono dalla chiesa, il vecchio soldato esclamò:
"Che belle scarpette da ballo!".
A quelle parole la bambina prese a piroettare e non riuscì
più a fermarsi, tanto che parve avesse perduto
completamente il controllo di sé. Danzò una gavotta e poi
una csarda e poi un valzer, volteggiando attraverso i campi.
Il cocchiere della vecchia signora si lanciò all'inseguimento
della bambina, la prese e la riportò nella carrozza, ma i
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piedini che indossavano le scarpette rosse continuavano a
piroettare nell'aria. Quando riuscirono a togliergliele,
finalmente i piedi della bambina si quietarono.
Di ritorno a casa, la vecchia signora lanciò le scarpette rosse
su uno scaffale altissimo e ordinò alla bambina di non
toccarle mai più. Ma lei non riusciva a fare a meno di
guardarle e desiderarle. Per lei erano ancora la cosa più
bella che si trovasse sulla faccia della terra.
Poco tempo dopo, mentre la signora era malata, la bambina
strisciò nella stanza in cui si trovavano le scarpette rosse. Le
guardò, là in alto sullo scaffale, le contemplò, e la
contemplazione si trasformò in potente desiderio, tanto che
la bambina prese le scarpe dallo scaffale e subito se le infilò,
pensando che non sarebbe accaduto nulla di male.
Ma non appena le ebbe ai piedi subito si sentì sopraffatta
dal desiderio di danzare. Danzò uscendo dalla stanza, e poi
lungo le scale, prima una gavotta, poi un csarda e poi un
valzer vertiginoso. La bambina era in estasi, e si accorse di
essere nei guai solo quando volle girare a sinistra e le scarpe
la costrinsero a girare a destra, e volle danzare in tondo e
quelle la obbligarono a proseguire. E poi la portarono giù
per la strada, attraverso i campi melmosi e nella foresta
scura.
Appoggiato a un albero c'era il vecchio soldato dalla barba
rossiccia, con il braccio al collo.
"Oh che belle scarpette da ballo!" esclamò.
Terrorizzata, la bambina cercò di sfilarsi le scarpe, ma più
tirava e più quelle aderivano ai piedi. E così danzò e danzò
sulle più alte colline e attraverso le valli, sotto la pioggia e
sotto la neve e sotto la luce abbagliante del sole. Danzò nelle
notti più nere e all'alba, danzò fino al tramonto. Ma era
terribile: per lei non esisteva riposo. Danzò in un cimitero e
là uno spirito pronunciò queste parole: "Danzerai con le tue
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scarpette rosse fino a che non diventerai come un fantasma,
uno spettro, finchè la pelle non penderà sulle ossa, finchè di
te non resteranno che visceri danzanti. Danzerai di porta in
porta per tutti i villaggi, e busserai tre volte a ogni porta, e
quando la gente ti vedrà, temerà per la sua vita". La
bambina chiese pietà, ma prima che potesse insistere le
scarpette rosse la trascinarono via. Danzò sui rovi,
attraverso le correnti, sulle siepi, e danzando danzando
arrivò a casa, e c'erano persone in lutto. La vecchia signora
era morta.
Ma lei continuava a danzare.
Entrò danzando nella foresta dove viveva il boia della città.
E la mannaia appesa al muro prese a tremare sentendola
avvicinare.
"Per favore" pregò il boia mentre danzava sulla sua porta,
"Per favore mi tagli le scarpe per liberarmi da questo
tremendo fato". E con la mannaia il boia tagliò le cinghie
delle scarpette rosse. Ma queste le restavano ai piedi. E lei lo
pregò di tagliarle i piedi, perché così la sua vita non valeva
nulla.
Il boia la guardò impietosito, così piccola e così
sprovveduta. “Sembra un artifizio del demonio. Dove hai
preso questo scarpette?” “Dal vecchio calzolaio, giù, in
paese” “Uhm, Si dice che sia un vecchio e zoppo diavolo
che, per vendicarsi della sua deformità, voglia rendere
deformi quanti più esseri possibile” “Già ma perché io, me
misera, me sfortunata?” “Pensaci bene, se per caso non hai
voluto queste scarpette con troppa insistenza, prima del
maleficio” “Sì è così. Mi ricordavano un paio di scarpette
che io da sola m’ero fatta, quando povera e derelitta vivevo
nei boschi Era l’unica cosa bella che avessi” “Ma poi, dopo
aver incontrato la vecchina, non sei stata più al freddo non
eri più povera. Perché volevi ancora quelle scarpette?”
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“Perché erano belle” rispose senza pensare la bambina “E
davvero per la bellezza di un paio d’oggetti può valere la
pena di perdere i propri preziosi piedini? Fu come se la
bimba rinsavisse tutto d’un colpo. Rivide la sua amata
benefattrice morta senza un saluto, rivide l’orribile calzolaio
zoppo che le faceva l’occhiolino, il terrorizzante soldato
dalla barba rossiccia che incontrava in strane circostanze e
non faceva altro che ripeterle quanto belle fossero quelle
comuni scarpette rosse. Sì un artifizio del demonio, certo,
ma se fosse stata un po’ meno vanitosa esse non le
avrebbero causato tanti guai, specie dopo la prima volta,
quando l’avevano costretta a ballare per boschi e campi.
“Ora so cosa è importante per me!” esclamò. “Ora so che la
felicità che proviene dagli oggetti non è vera felicità, ma che
addirittura talvolta può trasformarsi in una tragedia!”.
Improvvisamente, a quelle parole, le scarpette lasciarono
liberi i piedini della bambina, il cui animo, già rasserenato,
si sollevò ancor di più.
Così il boia non fu costretto a tagliarle i piedi.
E le scarpette rosse continuarono a danzare attraverso la
foresta e sulla collina e oltre, fino a sparire alla vista.
La bambina decise di studiare per fare la maestra e mai più
desiderò delle scarpette rosse.
Si dice che il boia decise quella sera di cambiar mestiere,
cosa che già da un po’ di tempo pensava di fare, e di
mettersi a fare il contadino.
Dall'originale di Hans Christian Andersen
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RICCIDORO
C'erano una volta tre Orsi, che vivevano in una casina nel
bosco. C'era Babbo Orso grosso grosso, con una voce grossa
grossa; c'era Mamma Orsa grossa la metà, con una voce
grossa la metà; e c'era un Orsetto piccolo piccolo con una
voce piccola piccola. Una mattina i tre Orsi facevano
colazione e Mamma Orsa disse: - La pappa e troppo calda,
ora. Andiamo a fare una passeggiata nel bosco, mentre la
pappa diventa fredda. Così i tre Orsi andarono a fare una
passeggiata nel bosco. Mentre erano via, arrivò una piccola
bimba chiamata Riccidoro. Quando vide la casetta nel
bosco, si domandò chi mai potesse vivere là dentro, e
picchiò alla porta. Nessuno rispose, e la bimba picchiò
ancora. Nessuno rispose: Riccidoro allora aprì la porta ed
entrò. E là, nella piccola stanza, vide una tavola
apparecchiata per tre. C'era una scodella grossa grossa, una
scodella grossa la metà e una scodella piccola piccola.
Riccidoro assaggiò la pappa della scodella grossa grossa:
-Oh! E' troppo calda!- disse.
Assaggiò la pappa della scodella grossa la metà: - Oh! E'
troppo fredda!
Poi assaggiò la pappa della scodella piccola piccola: - Oh !
Questa sì che va bene ! - E se la mangiò tutta.
Poi entrò in un'altra stanza, e là vide tre seggiole. C'era una
seggiola grossa grossa, c'era una seggiola grossa la metà e
c'era una seggiola piccola piccola. Riccidoro si sedette sulla
seggiola grossa grossa: -Oh! Questa è troppo dura! - disse.
Si sedette sulla seggiola grossa la metà: - Oh! Questa è
troppo molle!
Poi si sedette sulla seggiola piccola piccola:- Oh! Questa sì
che va bene! -E vi si sedette con tanta forza, che la ruppe.
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Entrò allora in un'altra stanza e là vide tre letti. C'era un
letto grosso grosso, c'era un letto grosso la metà, e c'era un
letto piccolo piccolo. Riccidoro si stese sul letto grosso
grosso: - Oh! Questo e troppo duro! -disse.
Provo il letto grosso la metà: - Oh! Questo e troppo molle!
lnfine provò il letto piccolo piccolo: -Oh! Questo si che va
bene! -sospirò, e subito prese sonno.
Mentre Riccidoro dormiva i tre Orsi tornarono dalla
passeggiata nel bosco.
Guardarono la tavola, e Babbo Orso grosso grosso disse con
la sua voce grossa grossa:- QUALCUNO HA ASSAGGIATO
LA MIA PAPPA .
Mamma Orsa grossa la metà disse con la sua voce grossa la
metà: -Qualcuno ha assaggiato la mia pappa !
L'Orsetto piccolo piccolo disse con la sua voce piccola
piccola: - Qualcuno ha assaggiato la mia pappa e se l'e mangiata
tutta!-
I tre Orsi entrarono nella camera accanto.
Babbo Orso grosso grosso guardò la sua seggiola e disse con
la sua voce grossa grossa: - QUALCUNO Sl E' SEDUTO
SULLA MIA SEGGIOLA !
Mamma Orsa grossa la metà disse con la sua voce grossa la
metà: - Qualcuno si è seduto sulla mia seggiola !
E l'Orsetto piccolo piccolo gridò con la sua voce piccola
piccola: - Qualcuno si è seduto sulla mia seggiola e l'ha rotta!
I tre Orsi entrarono infine nella camera da letto.
Babbo Orso grosso grosso disse con la sua voce grossa
grossa: - QUALCUNO Sl E' STESO SUL MIO LETTO!
Mamma Orsa grossa la metà disse con la sua voce grossa la
metà: - Qualcuno si è steso sul mio letto!
E l'Orsetto piccolo piccolo gridò con la sua voce piccola
piccola: - Qualcuno si è steso sul mio letto, ed eccola qui!
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La voce acuta dell'Orsetto piccolo piccolo svegliò Riccidoro,
e voi potete ben immaginare come si spaventò nel vedere i
tre Orsi che la guardavano. Balzò giù dal letto, attraversò la
stanza di corsa, quando si trovò di fronte proprio papà Orso
che le sbarrava il passo. Riccidoro dalla paura si mise
accucciata con la testa tra le ginocchia e rimase lì immobile.
-Papà, ma che animale è?- disse l’Orso piccolo piccolo.
- UHM.. NON LO SO, GUARDA CHE BUFFA PELLICCIA
DORATA HA SULLA TESTA-Quello che è certo- disse Mamma Orsa -è che si tratta di un
cucciolo, l’odore è inconfondibile! Su, Papà Orso, non la
spaventare e lascia fare a me- E Mamma Orsa prese tra le
braccia la piccola Riccidoro. –Allora, buffo cuccioletto, vuoi
dirci da dove vieni e perché sei entrata qui?Riccidoro nel sentire il tono gentile della Mamma Orsa si
tranquillizzò un po’ e riuscì a dire: - Sono Riccidoro, vivo
nel bosco : ho visto un riparo tranquillo e sono entrata…
-LO SAI- disse Papà Orso – CHE E’ SEMPRE BENE
CHIEDERE PERMESSO PER ENTRARE IN UNA CASA, E
CHE NON BISOGNEREBBE ENTRARE SE NON INVITATI
A FARLO?- Riccidoro non rispose e abbassò gli occhi.
-E anche prima di mangiare tutta la pappa di un orsetto
bisognerebbe chiedere il permesso, vero papà?- disse l’Orso
piccolo piccolo. Riccidoro era mortificata e disse : -Se volete
vado a raccogliervi delle buone bacche da mangiare tutte
per voi…Mamma Orsa sorrise: -Se vuoi farlo va bene, e sappi che da
oggi in poi ci sarà sempre una ciotola di pappa, una
seggiolina ed un lettino anche per te!- Grazie!- disse Riccidoro felice, e corse nel bosco veloce a
cercare le bacche migliori.
Dall’omonima fiaba popolare
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