lette e rilette - Carote e Lilla
Transcript
lette e rilette - Carote e Lilla
LETTE E RILETTE 24 Favole classiche rivestite di lieto fine INDICE Introduzione ……………………………………………………….3 Barbablù…………………………………………………………….4 Il pifferaio magico………………………………………………….11 La ricottina ………………………………………………………….15 L’abete……………………………………………………………….17 L’intrepido soldatino di stagno……………………………………28 Jack e il fagiolo magico……………………………………………..34 La cicala e la formica………………………………………………..40 La piccina dei fiammiferi……………………………………………42 L’usignuolo e la rosa…………………………………………………46 La chiocciola e il rosaio………………………………………………54 Hansel e Gretel……………………………………………………… 58 Baba-jaga………………………………………………………………66 Puccettino……………………………………………………………..70 L’acciarino…………………………………………………………….82 Pelle d’asino…………………………………………………………..92 Il pesciolino d’oro……………………………………………………100 Nevina e Fiordaprile…………………………………………………106 Il guardiano di porci…………………………………………………112 Pollicino……………………………………………………………… 119 La principessina sul pisello…………………………………………125 Il principe ranocchio…………………………………………………127 La volpe e la cicogna…………………………………………………132 Scarpette rosse………………………………………………………. 133 Riccidoro…………………………………………………………….. 138 2 INTRODUZIONE Carta dei diritti degli appassionati di favole lettori ed ascoltatori di ogni età Art. 1 Ogni lettore od ascoltatore di ogni età ha il diritto al lieto fine della favola che legge o ascolta. Per lieto fine si intende non solo una conclusione felice del racconto, ma anche un finale che dia un insegnamento coerente con i valori più elevati dell'esistere e del vivere. Ogni bambino di ogni età ha il diritto di ascoltare una favola che lo faccia dormire sereno. Ogni lettore di fiabe ha il diritto di leggere storie che lo facciano sentire a suo agio, che non creino in lui il dubbio se sia o no opportuno leggere una favola del genere al suo ascoltatore, bambino di ogni età. Art.2 Ogni lettore od ascoltatore di ogni età ha il diritto di riscrivere il finale della favola che legge, ovvero di aggiungere o modificare passaggi in essa contenuti che non siano in linea con la propria idea di lieto fine, lieto svolgersi della narrazione. Art. 3 La favola nasce dai racconti orali popolari. Con un intervento dell'avente diritto, cioè chiunque, volto a dare, attraverso la favola, bagliori di luce, non si fa altro che affermare l'appartenenza di ognuno all'Umanità, poichè si contribuisce all'arricchimento e all'evoluzione del suo patrimonio culturale con il proprio personale apporto. Art. 4 Ogni lettore od ascoltatore di ogni età ha il diritto di affidarsi totalemnte alla favola che legge o ascolta. tale diritto è garantito dall'intrinseca bontà della favola, apportatavi da una riscrittura attenta alla sensibilità dei bambini di ogni età. Ai sensi della presente carta, abbiamo riscritto 24 favole famose, assicurando loro un lieto finale. Ci auguriamo che questo sia solo l'inizio , che porterà a riscrivere tutta la realtà. Associazione Carote e Lillà www.carotelilla.it 3 BARBABLU’ C'era una volta un uomo tanto ricco quando brutto. Egli possedeva palazzi in città, ville in campagna, scuderie piene di cavalli, forzieri colmi di monete d'oro, ma aveva la barba blu, una barba che gli dava un aspetto così terribile che tutte le ragazze scappavano non appena lo vedevano. Aveva già chiesto la mano di parecchie fanciulle, poiché desiderava sposarsi; ma tutte lo avevano rifiutato. Tuttavia egli non si stancava e continuava a cercare moglie. Nella sua stessa città viveva una gran dama che aveva due figlie molto belle, e Barbablù ( tutti lo chiamavano così ) ne chiese una in sposa: non gli importava se la maggiore o la minore.La gran dama esitò: ella aveva anche due figli maschi ai quali avrebbe voluto preparare l'avvenire; ma, rimasta vedova, era caduta in povertà. Un matrimonio con un uomo ricco come Barbablù sarebbe stato la fortuna per tutti…Non volendo forzare la volontà delle sue ragazze, le lasciò libere di accettare o no. Ma nessuna delle due si sentiva il coraggio di compiere quel passo. Tanto più che, si diceva, Barbablù era già stato sposato altre volte, ma non si sapeva dove le sue mogli fossero andate a finire. Allora Barbablù incominciò a coprire le due ragazze di regali: fiori,gioielli meravigliosi, le invitò insieme alla madre in una sua villa dove, per una settimana, si susseguirono feste da ballo, battute di caccia, banchetti…Infine la figlia minore concluse che quell'uomo non aveva poi la barba tanto blu…e in quattro e quattr'otto decise di sposarlo. Le nozze furono celebrate con grande sfarzo, e la sposina si sentì molto orgogliosa quando poté mostrare alle sue amiche il meraviglioso palazzo dove abitava. Un giorno Barbablù annunciò a sua moglie che doveva assentarsi da 4 casa per alcuni affari. Tuttavia desiderava che nel frattempo lei si divertisse con le sue amiche, e le invitasse a palazzo: - Ti lascio le chiavi di tutte le porte, di tutti i forzieri, di tutti gli armadi - disse togliendo di tasca un tintinnante mazzo di chiavi. - Adopera come vuoi il servizio di vasellami e le posate d'oro e d'argento; fruga nei ripostigli, saccheggia la dispensa. Ma per nessun motivo al mondo dovrai aprire la porticina che si trova in fondo alla galleria e che si apre con questa chiavetta d'oro. Guai a te se entrerai in quello stanzino: dovrai pentirtene amaramente! Così dicendo, consegnò il mazzo di chiavi alla moglie.Questa ebbe subito una grande curiosità di vedere che cosa si nascondesse nel misterioso stanzino. Tuttavia promise di essere ubbidiente e di adoperare tutte le chiavi meno quella d'oro. Barbablù salì in carrozza e partì; subito dopo la ragazza invitò sua sorella Anna e tutte le sue amiche ad andare a farle visita. Invitò anche i due fratelli, ma questi promisero che sarebbero venuti soltanto il giorno dopo. Il corteo delle ragazze, con la sposina in testa, percosse le sale e le gallerie del sontuoso palazzo e di continuo risuonavano degli " Oh " di meraviglia davanti alle ricchezze che venivano alla luce: tazze di diaspro e di cristallo, piatti d'oro e d'argento…Finalmente non restò più da visitare che lo stanzino in fondo alla galleria, e la sposina esitò parecchio, stingendo fra le dita la chiave d'oro…poi pensò che era meglio lasciar partire le amiche; rimasta sola, avrebbe potuto soddisfare la curiosità senza che nessuno se ne accorgesse. Infatti, dopo i convenevoli la sorella Anna andò a dormire al piano di sopra, e la sposina poté dirigersi senza far rumore verso la stanza misteriosa. Infilò la chiave nella toppa, la girò dolcemente, entrò, ma…orrore! 5 Un grosso cespo ancora insanguinato e una scure affilata gettata sulla paglia stavano a dimostrare che in quello stanzino si entrava soltanto per morire…Ora sul ceppo ballavano i topi, ma in un angolo giacevano diversi corpi di donne: tutte con la testa tagliata. Le mogli scomparse di Barbablù…Inorridita, la sposina si portò le mani agli occhi per non vedere più; ma in quel gesto la chiavetta le sfuggi di mano e cadde in una pozza di sangue. La raccolse e fuggì via, dopo aver richiuso accuratamente la porta; poi si rifugiò in camera sua tremando da capo a piedi. Guardò la chiavicina maledetta e vide che era sporca di sangue. Subito cercò di asciugarla e di pulirla, ma non vi riuscì. La chiave era fatata, e le macchie di sangue cancellate da una parte, ricomparivano da un'altra. Atterrita, pensava di fuggire dal palazzo, ma proprio quella notte Barbablù vi fece ritorno. La sposina simulò di accoglierlo lietamente, ma in cuor suo si sentiva morire per la paura. Barbablù non chiese la restituzione delle chiavi e andò a dormire senza domande, ma al mattino dopo, assumendo un piglio che non prometteva niente di buono, chiese: -Hai adoperato la chiave che ti avevo proibito di usare? Vuoi restituirmela, ora? La ragazza porse la chiave con mani tremanti, e Barbablù vide subito che era macchiata. - Perché c'è del sangue su questa chiave? - Proprio non lo so… - Ebbene, lo so io! - gridò ferocemente l'uomo. - Tu mi hai disobbedito e sei entrata nello stanzino. Perciò vi ritornerai, e questa volta per sempre, perché io ti taglierò la testa e ti metterò a fianco delle altre donne che furono curiose come te. 6 La povera ragazza a quelle parole divenne pallida come una morta e si buttò in ginocchio: - Perdonatemi! - singhiozzo. - Io non lo dirò a nessuno ciò che ho veduto. - Tutte le donne sono pettegole così come sono curiose; solo quando ti avrò tagliato la testa, sarò veramente sicuro che non parlerai. - Vi prometto che vi obbedirò sempre! Vi prometto che non dirò una sola parola. Barbablù ridendo sgangheratamente, disse: - Ti ho veduto alla prova! E adesso sono stanco di ciarle: vieni con me perché la tua ultima ora è suonata. Fece per afferrare la giovane per i capelli, ma ella si ritrasse: - Non potete farmi morire senza che io abbia prima raccomandato la mia anima a Dio. Lasciatemi sola, affinché io possa pregare in pace. Barbablù esitò, ma sebbene fosse un uomo crudele e feroce, non osò opporre un rifiuto. - Va bene, - replicò. - Ti concedo un quarto d'ora di tempo: non di più. Io, intanto, andrò ad affilare la scure. Si allontanò verso il terribile stanzino, e la povera moglie corse a svegliare la sorella Anna. - Mia cara sorella - supplicò - sali sulla torre e guarda se vedi i nostri fratelli. Dovrebbero arrivare questa mattina. Se li vedi fa cenno che si affettino, per carità. La sorella Anna corse subito alla finestra della torre, mentre la sposina aspettava col cuore in gola. Nel frattempo Barbablù, che aveva finito di affilare la scure, incominciò a gridare. - Il quarto d'ora è ormai trascorso. Affrettati a scendere: altrimenti salgo io! - Ancora un attimo - rispose la sposina, e chiese con ansia: - Cara sorella Anna, non vedi nessuno? 7 - Nessuno - rispondeva Anna. - Vedo soltanto i ruscelli luccicare e l'erba verdeggiante. “Ecco” pensava la giovane, “adesso morirò in un modo orribile, e nessuno saprà che fine ho fatto, proprio come le altre mogli di Barbablù!” e lacrime amare le scorrevano sulle guance. “Adesso, dai!” una voce che che sembrava più un sussurro arrivò all’orecchio della ragazza, che si voltò senza vedere nessuno. Lo spavento della morte incombente era talmente forte che la giovane non ci pensò troppo e continuò a piangere. “Non so …” un’altra voce rispose alla prima, “Come sarebbe ‘non so’! Non vedi come piange?”; “Già, sotto la minaccia della scure siamo tutti bravi a pentirci!” intervenne una terza voce. “Ma! Artemisia, cosa dici? Ricordati chi siamo…”. La ragazza, senza smettere di piangere, disse “Già, chi siete? Da dove arrivano queste voci?”. “Bene, visto che ci hai sentite significa che dobbiamo presentarci…”. Una luce color di violetta luccicò davanti agli occhi della giovane, “Io sono Ottilia, prima moglie di Barbablù”, “Ed io Artemisia, seconda moglie di Barbablù”, fece eco una luce dorata, “Ed infine io sono Agata” una terza luce verde brillò. La giovane sposa smise finalmente di piangere e fissò le tre luci a bocca aperta “Ma…come?”. Artemisia spiegò: “Si, lo sappiamo, hai visto i nostri corpi in quello stanzino, ma ciò non significa che non esistiamo più”. “Infatti”, proseguì Agata “siamo diventate spiriti di luce, con un compito che fino ad oggi ci era sconosciuto. Quando ti abbiamo vista entrare nello stanzino abbiamo capito che è arrivato per noi il momento di essere utili”. - Hai finito si o no? Sono stanco di aspettare. Se non scendi tu,salirò io. Urlava intanto Barbablù. - Un momento, un solo momento - rispondeva la sposina piangendo e, rivolgendosi 8 alle tre luci,“Ma come potete aiutarmi…Barbablù ha affilato la scure e non riuscirò mai a sfuggirgli! Tutta colpa della mia sciocca curiosità!”. “Calmati ora!” disse Ottilia “Barbablù è solo un vecchio spauracchio, una comparsa di seconda categoria! Questa storia della scure ci ha proprio stancate! Devi sapere che se tu non fossi entrata in quello stanzino oggi, lui avrebbe trovato un’altra scusa per poterti eliminare, così come ha fatto con alcune di noi”. “Già” incalzò Agata, “pensaci: non ha alcun senso che un uomo uccida la moglie poiché lei ha disubbidito. Forse il tuo vero errore è stato un altro…”. La giovane si asciugò gli occhi dicendo: “Io non ero innamorata di Barbablù, ma i regali ed il miraggio di una vita di agi mi hanno offuscato la vista…”. Le tre luci brillarono un po’ più forte “Pensavo di far bene anche per i miei fratelli” proseguì la giovane, “ma loro sicuramente sono in grado di cavarsela da soli, e inoltre non mi hanno certo chiesto di prendermi carico del loro futuro…”. “Esatto! E a proposito di fratelli…” dissero in coro Ottilia, Artemisia ed Agata, e veloci come lampi nel cielo si diressero verso il bosco davanti al castello. In quel momento si udirono i passi pesanti di Barbablù che saliva le scale. Egli spalancò la porta con un calcio, mentre la sposa chiedeva un'ultima volta: -Sorella Anna, vedi nessuno? -Vedo…due cavalieri…Si, si, sono proprio i nostri fratelli! Anna si strappo la sciarpa dalle spalle e incominciò da agitarla dalla finestra facendo cenno ai due giovani di affrettarsi. Essi irruppero nel cortile e salirono i gradini a quattro a quattro… Appena in tempo, perché Barbablù aveva afferrato la sposa per i capelli e stava trascinandola verso l'orribile stanzino. 9 I giovani gli balzarono addosso con le spade sguainate, e un attimo dopo egli giaceva a terra morto, mentre la sorella con le mani ancora giunte sul cuore, non sapeva se ridere o piangere. Solo la giovane sposa si accorse di tre luci brillanti che avevano accompagnato i fratelli verso il castello e che ora attendevano lo spirito di Barbablù per accompagnarlo verso un altro mondo … Poi quel terribile spavento passò, e anche Barbablù fu dimenticato, come succede sempre ai cattivi. La moglie ereditò tutti i suoi beni, e con quelli poté regalare una dote alla sorella Anna che sposò un gentiluomo buono e ricco; aiutò i due bravi fratelli a crearsi un avvenire; Infine anche lei scelse un onesto e affettuoso marito che la consolò di tutti i dispiaceri provati con Barbablù. 10 IL PIFFERAIO MAGICO Hamelin è una piccola e strana città della Prussia, arroccata su un colle gaio e fiorito. Tutte le strade scendono di là verso un ampio fiume.Vi fu un tempo in cui la gente qui viveva senza pensieri. Ma un brutto giorno avvenne una terribile invasione: topi, topi ovunque... e così gagliardi da spaventare i gatti più coraggiosi! Mordevano i neonati nelle culle, divoravano in un battibaleno enormi forme di cacio, leccavano la salsa sotto gli occhi delle cuoche, pappavano interi barili di sardine e... fischiavano, stridevano cosi forte, da coprire persino le chiacchiere delle donne. Fssch.....sgrr... ssch! Il loro sibilo era in cinquanta e più toni, dai più gravi ai più acuti. Fu da allora che gli abitanti di Hamelin cominciarono ad ispirare un' immensa pietà! Il sindaco, disperato, arrivò ad offrire mille fiorini a chi fosse riuscito a liberare il paese da un simile incubo. Una mattina arrivò in città un forestiero: era secco e allampanato, aveva negli occhi una luce strana e sul volto lo stesso colore giallognolo del cielo di Hamelin in quella fosca giornata di novembre. I suoi occhi guizzavano come le fiammelle delle candele quando vi si butta il sale e l'uomo misterioso si mise a suonare. Ed ecco, alla terza nota, un rosicchio assordante levarsi d'improvviso: grasc... crosc... grig... sgrr... e milioni e milioni di topi riversarsi sulle strade. Sbucavano a frotte dalle case, codine dritte e baffetti a punta, saltellando, 11 ruzzolando, traballando, famiglie intere a dozzine, a ventine; mogli e mariti, fratelli e sorelle, topi bianchi e neri, grigi e rigati, grassi e magri, tutti dietro al pifferaio che suonava e suonava facendo scorrere le lunghe dita nervose sul suo magico strumento. ....Tutti dietro a quella musica che diceva pressappoco cosi " O topi, il mondo non è che una grande credenza.. " e somigliava al rumorino del cacio quando vien grattato, delle mele mature pestate ben bene nel mortaio per ricavarne il sidro, di vasi di conserva scoperchiati, di fiaschi di sciroppo stappati, di barattoli di burro sfasciati .... E via e via fin dentro le acque gelide del fiume, dove annegarono tutti allegramente. Che scampanio in città, che festa per le strade! Ora che l'incubo era finito, la gioia di un tempo era tornata nei cuori della gente di Hamelin. Ed ecco, tra la folla, farsi largo il pifferaio - Sono venuto a riscuotere i miei mille fiorini - disse senza esitazione. Il Sindaco impallidì. - Mille fiorini? E dovrei sborsarli a quel vagabondo? Già già - rispose beffardo - chi affoga non risuscita... se volete un boccale di vino da bagnarvi la bocca, non vi sarà negato, quanto ai mille fiorini, non era che una burletta .... cinquanta saranno anche troppi! - Giusto, giusto! - gridò la folla. Un lampo di collera passò negli occhi del forestiero. Egli non disse nulla e si allontanò, ma riapparve subito dopo nella piazza principale. Allora sotto gli sguardi di una piccola folla attonita, aggrinzò le labbra, soffiò dentro il piffero magico e ne trasse tre dolcissime note....Subito un brusio festoso, un batter di manine, un calpestio di 12 zoccoletti, un rimbalzar di voci fresche echeggiò nella piazza e.... decine, centinaia di bambini con le guancette rosee e gli occhietti vispi, biondi e bruni, paffuti e mingherlini, si misero in marcia dietro il pifferaio. Invano padri e madri, balie e nutrici cercarono di trattenere le loro creature, i loro piedi restavano incollati ai ciottoli della piazza e le loro labbra non avevano voce... Il pifferaio attraversò la città poi si volse. - Verso il fiume? domanderete voi. Ebbene no, questa volta si diresse dalla parte opposta, verso la grande montagna. Giunto fin là, il fianco del monte si apri ed egli vi entrò seguito da tutti i bambini. Poi lentamente la parete si richiuse. A nulla servì il pianto delle madri, che ogni giorno raggiungevano la montagna e appoggiavano gli orecchi contro la roccia per cercare di udire la voce dei loro bambini....La montagna era fredda e silenziosa e non si sarebbe riaperta mai più, se non fosse stato che le madri un bel giorno finirono le loro lacrime e videro che la disperazione non aveva riportato indietro il loro piccoli. – Ma come è potuto accadere – disse una mamma – che abbiamo lasciato che il dolore entrasse nella nostra cittadina felice? – ; – E’ colpa dei topi! – disse una; – E’ tutta colpa di quel vagabondo con gli occhi di brace! – disse un’altra, – No, è tutta colpa del sindaco, che non lo ha voluto pagare! – disse una terza – No è colpa della folla, che ha incitato il sindaco a non pagare il vagabondo! – . E così videro che nella folla urlante c’erano anche loro e la disperazione del senso di colpa le invase. Fu in quel preciso istante che la montagna compassionevole mandò un soffio leggero sulla testa delle mamme e il vento dell’equanimità liberò i loro pensieri. Perdonarono se stesse per non aver potuto 13 trattenere i loro piccoli. Perdonarono il sindaco, spossato dalle pressioni dei suoi cittadini, per non aver capito che quell’uomo con gli occhi di brace non avrebbe portato nulla di buono. Perdonarono il vagabondo, del quale non conoscevano la storia, per essere stato catturato dall’oscurità. Perdonarono i topi, spinti dall’istinto alla sopravvivenza, per aver sconvolto la loro città. E così, come se guardassero un riflesso su un lago tranquillo, videro che ciascuno aveva la sua parte nell’accaduto, come sempre succede nella vita. Il vento della montagna allora passò tra le fronde degli alberi e qualche nota sottile vibrò nell’aria, finché il rumore delle foglie, dei fili d’erba e dei tronchi sfiorati dal vento non divenne una musica dolcissima e luminosa. Voci di bimbi e rumore di piedini si unirono alla musica e finalmente la porta di pietra si aprì ed ogni piccolo riabbracciò la sua mamma, tra baci e lacrime di gioia. Restava solo un bimbo che nessuno aveva mai visto, con gli occhi limpidi come il mare, l’aria spaurita e nella manina un piccolo flauto di legno. La moglie del sindaco lo prese con se, e da quel giorno nella cittadina di Hamelin risuonò la musica delicata e gioiosa di un piccolo flauto di legno. 14 LA RICOTTINA C'era una volta una contadinella che si chiamava Mariettina. Un pastore le regalò una ricotta. La ragazzina, tutta contenta, mise la ricottina in un cestello che si pose in testa e si diresse al mercato. Strada facendo pensava: - Ora vado al mercato, vendo la ricotta, con i soldi ricavati compro una gallina che mi farà tante uova. Con i soldi ricavati comprerò una coniglia che mi farà tanti coniglietti, poi li venderò e comprerò un maiale che ingrasserò bene. Lo venderò e comprerò una mucca che mi farà tanti vitellini e vendendoli guadagnerò molti soldi. Mi comprerò tanti abiti eleganti e una bella casetta con balconcino, così quando mi affaccerò, tutti mi saluteranno con un inchino: - Buongiorno signorina! Mariettina era tanto convinta che un giorno si sarebbe trovata in quella situazione che, senza accorgersene, fece un bell'inchino. Naturalmente la ricotta che aveva sul capo cadde a terra e così Mariettina si trovò a fissare a bocca aperta il bel disastro combinato. – Ma perché sono stata così distratta? Caspita che bella occasione che ho perso! Che ne sarà del mio balconcino, e dei miei bei vestiti? – Mariettina si ricordò nel pronunciare quelle parole di una frase che la sua nonna le ripeteva spesso: “Lo sai che il tuo angelo custode è sempre vicino a te, vero Mariettina? Lui ti parla sempre, solo che non usa la voce per farlo… ”. E così cominciò a pensare che il suo Angelo sicuramente le voleva dire qualcosa tramite quella ricotta finita in terra – Forse avere molti bei vestiti e guadagnare molti soldi non è la strada buona per me, e il mio Angelo ha voluto farmelo capire così, visto che ho sempre la testa tra le nuvole! – si diceva Mariettina. – Ma d’ora in poi avrò gli occhi bene 15 aperti e non mi farò più scappare le parole non dette del mio Angelo – . In quel momento passò di lì il pastore che aveva regalato la ricotta a Mariettina. – Buongiorno signorina! Vedo che non siete arrivata al mercato per vendere la ricotta, e vedo anche che la ricotta non ha fatto una bella fine. Io sto andando giù in città perché c’è un uomo buono che mi sta insegnando a leggere e scrivere, se volete vi do un passaggio fino al mercato, ho con me altre ricotte che potreste vendere – Mariettina alla parola ‘scrivere’ aveva avuto un piccolo sussulto e non ebbe dubbi che quello era il suo Angelo che apriva le ali . “Scrivere … come mi piacerebbe imparare ! Certo con tutta la mia fantasia ne avrei di storie da raccontare, e il mio Angelo mi suggerirebbe le parole giuste da usare per rasserenare i cuori dei grandi e dei piccini”. – Posso venire con voi? – Disse subito – Ma non per vendere le ricotte, per imparare a scrivere! - E così senza esitare un solo istante Mariettina saltò sul carretto del pastore sapendo che il suo Angelo certamente sorrideva. Dall’omonima fiaba popolare 16 L'ABETE C'era una volta nel bosco un piccolo abete, che avrebbe dovuto essere molto contento della propria sorte: era bello, e in ottima posizione; aveva sole e aria quanta mai ne potesse desiderare, e amici più grandi di lui, pini ed abeti, che gli stavan d'attorno a tenergli compagnia. Ma egli non aveva che una smania sola: crescere. Non gli importava di sole caldo nè di aria fresca; nè si curava dei contadinelli che gli passavano dinanzi chiacchierando, quando venivano al bosco in cerca di fragole e di more. Spesso, quando ne avevano colto tutto un panierino, o quando avevan fatto una coroncina di fragole, infilate su di una paglia, venivano a sedere accanto al piccolo abete, e dicevano: «Com'è grazioso, così piccolino!» - Ma all'abete quel complimento poco garbava. L'anno appresso era cresciuto di un nodo intero, e l'anno dopo ancora, di un altro; perchè negli abeti dal numero dei nodi si può sempre dire il numero degli anni che sono cresciuti. «Oh, se fossi alto come quell'albero laggiù!» - sospirava il piccolo abete: «Allora sì, che stenderei i miei bravi rami in lungo e in largo, e dalla mia vetta guarderei per tutto il mondo. Allora gli uccelli potrebbero fare il nido tra le mie fronde, e, quando tira vento, potrei accennare a dondolarmi superbamente anch'io come i grandi.» Non trovava piacere nel calore del sole, negli uccellini, nelle nuvole di porpora che passavano sul suo capo mattina e sera. Tal volta, nell'inverno, quando la neve era sparsa per tutto bianca e scintillante, una lepre veniva correndo a tutto spiano, e saltava pari pari sopra l'abete. Oh, gli faceva una rabbia... Ma gl'inverni passarono, uno dopo l'altro; e, quando giunse il terzo, il piccolo abete era divenuto così alto, che la lepre fu obbligata in vece a girargli attorno. 17 «Oh, crescere, crescere, divenir grandi, divenir vecchi! Ecco la sola cosa bella di questo mondo! - pensava il piccolo abete. Ogni autunno solevano venire i taglialegna a segare gli alberi più alti; e così fecero anche quell'anno. Il piccolo abete, che oramai si era fatto bello alto, rabbrividiva dallo spavento, perchè i grandi alberi maestosi piombavano a terra con fracasso; e poi avevan mozzati tutti i rami, così che rimanevano nudi, lunghi e sottili, da non riconoscerli nemmeno più. E poi erano caricati sui barocci, e i cavalli li trascinavano fuori dal bosco. Dove andavano? che destino li aspettava? A primavera, quando venivano le rondini e la cicogna, l'alberello domandava loro: «Sapete dove li abbiano portati? Non li avete incontrati per via?» Le rondini nulla ne sapevano; ma la cicogna, fatta pensosa, scrollava il capo e diceva: «Sì, credo di saperne qualche cosa. Ho incontrato molti bastimenti nuovi, tornando dall'Egitto; e i bastimenti avevano certi alberi alti... M'immagino che fossero quelli. Odoravano di pino. Posso darti la mia parola ch'erano maestosi, molto maestosi.» «Oh, se fossi grande abbastanza da andar per mare! Che roba è questo mare? A che somiglia?» «Sarebbe troppo lungo a spiegare...» - e la cicogna se ne andava per i fatti suoi. «Godi la tua gioventù,» - dicevano i raggi di sole: «Rallegrati della tua nuova altezza, della vita giovanile che è dentro di te.» E il vento baciava l'alberello, e la rugiada lo bagnava di lacrime; ma il piccolo abete non comprendeva. All'avvicinarsi del Natale, furono tagliati certi abeti giovani giovani, taluni anche più giovani e più bassi del nostro alberello, il quale era in continua agitazione, dalla gran voglia che aveva di andarsene. Questi piccoli alberi, ed 18 erano per l'appunto i più belli, si caricavano intatti, con tutti i loro rami, sopra i barocci, per portarli fuori del bosco. «Ma dove vanno tutti?» - domandava l'abete: «Non sono più alti di me; uno, anzi, era molto più piccino. E perchè a questi non tagliano i rami? Dove li portano?» «Noi sì, che lo sappiamo! Noi sì, noi sì!» - pigolarono i passeri. «Laggiù, in città, noi guardiamo dentro dalle finestre. Noi sì, sappiamo dove li portano, noi sì! Oh bisogna vedere come li rivestono, con che lusso, con che splendore! Abbiamo guardato dentro dalle finestre, ed abbiamo veduto come li piantino nel mezzo della stanza calda e li adornino delle cose più belle - mele dorate, noci, dolci, balocchi, e centinaia e centinaia di candeline colorate.» «E poi? e poi?» domandava l'abete, e tremava persino, dalla vetta alle radici, per la grande ansietà: «E poi? che cosa avviene poi?» «Poi? non abbiamo veduto altro. Ah, ma era una bellezza!» «Chi sa ch'io non sia destinato un giorno ad una simile gloria?» - gridò l'albero allegramente: «È ancora meglio che viaggiar per mare. Ah, che struggimento! Vorrei che fosse oggi Natale! Oramai sono grande e grosso come quelli che furono menati via l'anno passato. Ah, mi par mill'anni d'essere sul baroccio! Mi par mill'anni d'essere nella stanza calda, tra tutta quella pompa, tra quello splendore! E poi? Già, deve poi venire qualche cosa di più bello ancora: se no, perchè mi adornerebbero a quel modo? deve venire poi una grandezza, una gloria anche maggiore; ma quale? Oh, che struggimento, che struggimento! Non so nemmen io che cos'abbia per soffrire così!» «Gioisci e contentati di noi!» - dicevano l'aria e il sole: «Rallegrati della tua fresca giovinezza nella foresta!» 19 Ma l'abete non si rallegrava punto: non faceva che crescere e crescere, inverno e estate, sempre più verde, d'un bel verde cupo. La gente diceva: «Che bell'albero!» - e, a Natale, fu tagliato prima di tutti gli altri. L'ascia andò profonda, sino al midollo, e l'albero cadde a terra con un sospiro; provava un dolore, una sensazione di sfinimento, non poteva davvero pensare a felicità: è così triste lasciare il posto dove si è nati e cresciuti... Sapeva che non avrebbe rivisti mai più i vecchi compagni, i piccoli cespugli ed i fiori ch'erano lì attorno - nemmeno gli uccelli, forse... Ah, il distacco fu tutt'altro che lieto! L'albero non tornò in sè che quando fu scaricato in un cortile insieme con molti altri, e sentì dire: «Questo sì, ch'è magnifico: non voglio vederne altri. Prendiamo questo.» Vennero due domestici in livrea gallonata, e portarono l'albero in una grande splendida sala. Le pareti erano tutte coperte di quadri, e presso una enorme stufa stavano due vasi della Cina con due leoni dorati sul coperchio: c'erano due poltrone a dondolo, e divani di broccato, e grandi tavole cariche di bei libri con le figure; e balocchi che valevano cento volte cento lire - almeno, così dicevano i bambini. E l'abete fu posto in un grande mastello pieno di sabbia; ma nessuno avrebbe detto che fosse un mastello, perchè era stato ricoperto di stoffa verde, e collocato nel mezzo d'un bel tappeto a colori. Ah, come tremava, ora, il nostro abete! Che sarebbe accaduto? I domestici, ed anche le signorine di casa, incominciarono ad ornarlo. Ad un ramo appesero tante piccole reti intagliate nella carta colorata, ed ogni rete era piena di dolci; noci e mele dorate pendevano qua e là, che parevano nate sull'albero; e più di cento candeline, bianche, rosse e verdi, erano attaccate ai rami. Bambole, che sembravan vive - l'abete non ne aveva mai 20 vedute, di simili, prima d'allora, - si dondolavano tra mezzo al fogliame; e su in alto, sulla vetta dell'albero, era inchiodata una stella di similoro. Insomma, una bellezza, come non se ne vedono. «Questa sera,» - dicevan tutti: «Questa sera ha da esser bello, tutto illuminato!» «Ah!» - pensava l'albero: «Mi par mill'anni che venga sera, e che i lumicini sien tutti accesi! Quando sarà? Son curioso di sapere se gli alberi verranno dal bosco per vedermi! E i passeri? Chi sa se voleranno contro ai vetri delle finestre? Chi sa come crescerò, qui, tutto adorno così, estate e inverno!» Sì, l'aveva per l'appunto inzeccata! Ma, a forza di allungare la vetta e di struggersi dal desiderio, s'era buscato un fortissimo mal di tronco; ed il mal di tronco è cattivo per gli alberi, come il mal di capo per gli uomini. Finalmente le candeline furono accese. Che luccichìo! Che bellezza! L'albero tremava tanto, per tutti i rami, che una delle candele appiccò il fuoco ad un ramoscello verde, il quale n'ebbe una buona sbucciatura. «Per amor di Dio!» - gridarono le signorine, e si precipitarono a spegnere il fuoco. Ora l'albero non osava più nemmeno tremare. Ah, che spavento! Stava fermo fermo per non dar fuoco a qualcuno de' suoi bei gingilli... E poi, tutti quei lumi lo stordivano. In quella le porte del salotto furono spalancate, ed una frotta di bimbi irruppe correndo, come se volessero rovesciare l'albero ed ogni cosa: i grandi li seguirono, con più calma. I piccini rimasero muti, a bocca aperta... oh, ma per un minuto soltanto: poi, principiarono a fare un chiasso così indiavolato, che la stanza ne rimbombava; e si misero a ballare rumorosamente intorno all'albero, e tutti i regali furono colti dai rami, uno dopo l'altro. 21 «Che fanno?» - pensava l'albero: «Ed ora, che cosa accadrà?» Le candele andavano consumandosi, e quando erano tutte bruciate, sino al ramo, si spegnevano. Dopo che furono spente, fu permesso ai bambini di spogliare l'albero. Ah, ci si avventarono sopra con una furia, che tutti i rami scricchiolarono. Se la vetta non fosse stata assicurata al soffitto per mezzo della stellina di similoro, sarebbe certo caduto a terra. I bambini ballavano per la stanza con i bei balocchi nuovi. Nessuno guardava più l'albero, all'infuori della vecchia bambinaia, che gli si accostò e spiò tra i rami; ma soltanto per vedere se mai un fico od una mela vi fosse rimasta dimenticata. «Una novella! una novella!» - gridarono i bambini, e strascinavano verso l'albero un piccolo signore grasso; ed egli vi si sedette sotto: «Così saremo in un bel bosco verde,» - disse; «e l'albero avrà la fortuna di sentire la novella. Ma non ve ne posso raccontare che una sola. Volete quella di Ivede-Avede, oppure quella di Zucchettino-Durettino, che cadde giù dallo scalino, ma poi tornò su, e fu rimesso in onore e sposò la Principessa?» «Ivede-Avede!» - gridarono alcuni. «ZucchettinoDurettino!» - urlarono gli altri; e ci furono strilli e ci furono anche pianti. L'abete solo rimaneva zitto zitto e pensava: «O io? Che non ci abbia ad entrare?» Ma egli aveva avuto la sua parte nei divertimenti della serata, ed aveva dato, oramai, quello che da lui si voleva. E il signore grasso raccontò di Zucchettino, che era caduto giù dallo scalino, ma poi era salito ai più alti onori ed aveva sposato la Principessa. E i bambini batterono le mani e gridarono: «Un'altra! un'altra! Raccontane un'altra!» perchè ora volevano la novella di Ivede-Avede; ma 22 dovettero accontentarsi di quella di Zucchettino. L'abete se ne stava zitto zitto, tutto pensieroso: mai gli uccelli del bosco avevano raccontato una storia simile. «Zucchettino era caduto, e pure era tornato in onore, ed aveva sposato la Principessa! Sì, così accade nel mondo!» - pensava l'abete, e credeva che fosse tutto vero verissimo: quegli che aveva raccontato la storia era un signore così per bene!... «Dopo tutto, chi può dire mai nulla? Forse che anch'io cadrò, e poi sposerò una Principessa!» Ed in tanto si rallegrava tutto al pensiero d'essere adornato di nuovo, la sera dopo, con tanti lumicini e tanti balocchi, e frutta e lustrini: «Domani non tremerò mica più!» - pensava: «Sarò, in vece, tutto felice del mio splendore. Domani, sentirò di nuovo la storia di Zucchettino-Durettino, e forse, chi sa? imparerò anche quell'altra, di Ivede-Avede...» E l'albero rimase fermo tutta la notte, a pensare. La mattina entrarono i domestici e la cameriera. «Ecco che ora ricomincia il mio splendore!» - pensò l'albero. Ma, in vece, fu portato fuori del salotto, e su per la scala, sin nel solaio, in un angolo buio, dove nemmeno arrivava un raggio di sole. «Che significa questa faccenda?» - pensò l'albero: «Che vogliono che faccia qui ? Ed ora, che cosa accadrà?» E si appoggiò al muro, e stette lì a pensare, a pensare. E tempo n'ebbe sin troppo, perchè passarono i giorni e le notti, e mai che venisse alcuno; e quando finalmente uno capitò, non fu se non per deporre in un angolo certe grandi casse. Così l'albero rimaneva ora del tutto nascosto: probabilmente, lo avevano dimenticato. «Fuori è inverno, ora» - pensava l'albero: «la terra è dura e coperta di neve, e non potrebbero piantarmi; sarà per questo che mi tengono qui al riparo sin che non torni la primavera. Quanti riguardi! Che buona gente! Ah, se non 23 fosse questo buio e questa terribile solitudine!.... Mai che si veda nemmeno un leprattino! Era bello, però, il bosco, quando c'era la neve alta, e la lepre passava correndo; sì, anche quando mi passava sopra d'un salto... Allora, mi faceva arrabbiare... Che malinconia in questa solitudine!» «Piip, piip!» - disse a un tratto un topolino, e fece qualche passo avanti; e poi ne venne subito un altro, piccolino piccolino. Fiutarono l'abete, e si ficcarono tra mezzo ai rami. «Fa tanto freddo...» - dissero i due topolini: «Se non fosse freddo, si starebbe abbastanza comodi quassù; non le pare, vecchio abete?» «Non son punto vecchio,» - disse l'abete: «Ce ne sono molti e molti più vecchi di me.» «Di dove viene?» - domandarono i topolini «E che nuove porta?» (Erano terribilmente curiosi.) «Ci racconti, la prego, del più bel paese del mondo. C'è stato lei? È stato nella dispensa, dove ci sono i formaggi sopra gli scaffali, e i prosciutti pendono dalla travatura, dove si può ballare sui pacchi di candele, dove si va dentro magri e si esce grassi grassi?» «Non conosco questo paese;» - rispose l'abete: «Ma conosco il bosco, dove il sole splende e gli uccelli cantano.» E allora raccontò del tempo della sua giovinezza. I topolini, che non avevano mai udito nulla di simile, stavano attenti; poi dissero: «Quante cose ha vedute lei, signor abete, e come dev'essere stato felice!» «Io?» - esclamò l'abete, e ripensò a tutto quello che aveva raccontato: «Sì, davvero che quelli erano tempi felici!» Ma poi raccontò della sera di Natale, quand'era tutto carico di dolci e di candeline. «Oh!» - disse il topo più piccino: «Come dev'essere stato felice lei, nonno abete!» 24 «Ma non sono nonno, non sono vecchio io!» - disse l'abete: «Sono uscito dal bosco appena quest'inverno. Sono nel fiore dell'età; gli è soltanto che sono cresciuto un po' in fretta.» «Che magnifiche novelle sa raccontare lei!» - disse il topolino. E la notte dopo, vennero con altri quattro topolini a sentire quello che l'albero sapeva raccontare così bene; e più raccontava, e più chiaro gli si riaffacciava il ricordo di tutto, e pensava: «Quelli erano tempi lieti! Ma possono tornare. Anche Zucchettino-Durettino cadde dallo scalino, ma poi sposò la Principessina.» E allora l'abete ripensò ad una graziosa betulla, che cresceva nella foresta; per l'abete, quell'alberella era una vera Principessa. «Chi è Zucchettino-Durettino?» - domandò il topo più piccolo. L'abete gliene raccontò tutta la storia. La ricordava parola per parola; e i topolini, dalla gioia, per poco non gli saltarono sino in vetta. La notte dopo, vennero addirittura in frotta; e la domenica comparvero persino due ratti; ma questi dissero che la storia non era bella, e ai topolini ciò rincrebbe, perchè ora non piaceva più tanto nemmeno a loro. «Non ne sa altre, novelle?» - domandarono i ratti. «Non so che questa;» - rispose l'albero: «La udii nella più bella serata della mia vita: non sapevo, allora, quanto fossi felice.» «È una storia molto meschina. Non ne sa una di prosciutti e di candele di sego? non sa storielle di dispensa?» «No,» - disse l'albero. «E allora, servi devoti!» - dissero i ratti; e tornarono alle loro famiglie. Anche i topolini alla fine se ne andarono; e l'abete sospirò, e disse: «Era bello, però, quando mi stavano 25 tutti attorno, quei cari topolini così allegri, ed ascoltavano i miei racconti. Ora, è finita anche questa. Ma mi ricorderò di essere contento quando mi levano di qui». Quando lo levarono? Mah! Fu una mattina che la gente di casa venne su a frugare per tutto il solaio: le grandi casse furono scostate, e l'albero fu scovato fuori: veramente, lo buttarono a terra con certo mal garbo; ma poi un domestico lo strascinò subito sulla scala, alla luce del giorno. «Ah! la vita ricomincia!» - pensò l'abete. Sentì la prima aria fresca, i primi raggi di sole, e si trovò fuori, in un cortile. Tutto ciò era accaduto così rapidamente, che l'albero aveva dimenticato di guardare a se stesso: c'era tanto da guardare intorno a lui!... Il cortile confinava con un giardino; e nel giardino, tutto era in fiore: le rose pendevano fresche e profumate al disopra del piccolo steccato; i gigli erano in piena fioritura, e le rondini gridavano «Videvit! Videvit! Viene mio marito-marit!» Ma non intendevano già con questo di parlare dell'abete. «Ora sì, che vivrò!» - disse l'abete tutto allegro, e distese un po' più le braccia... Ma, ahimè! Erano tutte secche e gialle; ed egli si vide buttato là, in un angolo, tra le ortiche e le male erbacce. Sulla vetta aveva ancora la stella di similoro, che scintillava al sole. Nel cortile giocavano due di quegli allegri fanciulli che avevano ballato intorno all'albero la sera di Natale, e lo avevano tanto ammirato. Il più piccino corse a strappargli la stellina dorata. «Guarda che cosa c'è attaccato a quel brutto alberaccio!» - disse il bambino; e calpestò le rame, che scricchiolarono sotto alle sue scarpette. L'albero guardò a tutti i fiori lussureggianti, a tutti gli splendori del giardino, e poi guardò a se stesso, e gli dolse di non essere rimasto nell'angolo buio del solaio: ripensò alla sua fresca giovinezza nel bosco; alla lieta notte di 26 Natale; ai topolini, che avevano ascoltato con tanto piacere la novella di Zucchettino. «È finita! è finita!» - disse il vecchio albero: «Almeno avessi goduto quando potevo! È finita, finita, finita!» Venne un domestico, segò l'albero in pezzi, e ne fece una fascina. La fascina mandò una bella fiamma sotto la caldaia che bolliva, e sospirò profondamente; ed ogni sospiro era come un lieve scoppiettìo. I bambini, che giocavano lì attorno, corsero a mettersi dinanzi al fuoco; e guardavano, e facevano: «Puff Puff!» Ma ad ognuno di quegli scoppiettii, che era un profondo sospiro, l'albero pensava ad una bella giornata d'estate nel bosco, o ad una notte d'inverno, quando le stelle scintillavano sopra gli abeti; pensava alla sera di Natale ed alla novella di Zucchettino, l'unica novella che avesse mai sentita, l'unica che avesse mai saputo raccontare... E finalmente, l'abete fu tutto finito di bruciare. Poco dopo i bambini giocavano nel giardino, ed il più piccolo aveva appuntata sul petto una stella dorata, proprio quella che l'abete aveva portata nella più bella serata della sua vita. Era finita, ora: finita la vita dell'albero, e finita anche la novella: finita, finita, finita, come accade di tutte le novelle. Finita, e iniziata di nuovo, come accade nella vita, in cui tutto si trasforma. La cenere del camino fu portata via dal vento e arrivò proprio in un bosco, dove l'acqua della pioggia la sciolse nel terreno. I sospiri dell'abete che bruciava la seguirono, e lo spirito dell'abete tornò a casa, nel bosco, a mescolarsi col vento che accarezzava i giovani abeti....E diceva:"Non abbiate fretta di crescere, ma apprezzate ogni momento come fosse il più importante della vostra vita....E non desiderate le luci della città: le stelle mandano una luce mille volte più radiosa..." Dall' originale di Hans Christian Andersen 27 L'INTREPIDO SOLDATINO DI STAGNO C'erano una volta venticinque soldatini tutti fratelli, perchè tutti fusi fuor dallo stesso vecchio cucchiaio di stagno. Avevano il fucile in ispalla, la divisa rossa e turchina, proprio bella, e tutti guardavano diritto dinanzi a sè. La prima cosa che udirono al mondo, quando fu tolto il coperchio della scatola, fu il grido: «Soldatini di stagno!» Chi aveva gridato così, battendo le mani, era un ragazzo, e i soldatini gli erano stati regalati per il suo natalizio. Egli li mise tutti sulla tavola: ogni soldato era identico agli altri; soltanto, per quello che era stato fuso l'ultimo, non era rimasto stagno abbastanza, e così gli era venuta una gamba sola; ma egli stava altrettanto saldo sull'unica gamba, quanto gli altri, che ne avevano due; e fu appunto questo soldatino che si distinse. Sulla tavola, sulla quale si trovavano, c'erano molti altri balocchi; ma quello che più attirava lo sguardo era un grazioso castello di cartone. A traverso alle piccole finestre, si poteva vedere dentro, nella sala. Dinanzi al castello, certi alberelli erano piantati attorno ad un pezzettino di specchio, che doveva raffigurare un limpido lago; e sul lago nuotavano specchiandosi alcuni piccoli cigni di cera. Tutto questo era molto bellino; il più bello di tutto, però, era una piccola signora, ritta vicino al portone aperto del castello; anch'essa di cartone, ma con un vestito di velo leggerissimo, ed un sottile nastrino azzurro sulle spalle, posto a mo' di sciarpa: nel mezzo del nastro era appuntata una stellina lucente, grande come tutto il suo viso. La signora arrotondava con grazia le braccia al di sopra del capo, perchè era una ballerina, e teneva un piede così alto, per aria, che il soldato, non vedendolo, credette che anche lei avesse una gamba sola. 28 «Quella mi andrebbe bene per moglie!» - pensò: «Ma è troppa aristocratica per me: abita un castello, ed io non ho che una scatola, che debbo dividere con altri ventiquattro compagni: non sarebbe casa per lei. Voglio vedere, però, se mi riesce di fare la sua conoscenza.» - E si distese quant'era lungo dietro ad una tabacchiera, che stava anch'essa sulla tavola. Di lì poteva osservare comodamente la bella donnina, che non si stancava mai di starsene ritta su una gamba sola, senza mai perdere l'equilibrio. Venuta la sera, gli altri soldatini di stagno furono riposti nella loro scatola, e quelli di casa andarono a letto. Allora i balocchi incominciarono a giocare per conto loro: un po' facevano è arrivato l'ambasciatore, un po' il lupo e le pecore, o la festa da ballo. I soldati strepitavano dentro alla scatola, perchè avrebbero voluto unirsi anch'essi al gioco, ma non riuscivano a sollevare il coperchio. Lo schiaccianoci faceva le tombole, e la pietra romana si sbizzarriva in mille ghirigori sulla lavagna. Fecero un chiasso tale, che il canarino si destò ed unì il suo canto all'allegria generale, ma sempre in versi però. I soli che non si mossero dal posto furono il soldatino e la ballerina. Essa rimase ritta come un cero sulla punta d'un piede, con le braccia levate al di sopra del capo; egli, altrettanto imperterrito sull'unica gamba, non le tolse un istante gli occhi di dosso. Battè la mezzanotte, e tac!... saltò il coperchio della tabacchiera; ma non c'era tabacco dentro, c'era un diavolino nero, perchè era un balocco a sorpresa. «Soldatino,» - disse il diavolo nero: «A forza di guardare, ti consumerai gli occhi!» Ma il soldatino fece come se non avesse udito. «Sì, aspetta domani, caro!» - ammonì il diavolino. Quando venne il mattino e i fanciulli si alzarono, il soldatino di stagno fu posato sul davanzale della finestra, e, 29 fosse il diavolo nero od un colpo di vento, la finestra si spalancò a un tratto, e il soldatino precipitò dal terzo piano a capofitto nel vuoto. Fu una tombola tremenda: tese l'unica gamba all'aria, e rimase a baionetta in giù, con l'elmo fitto tra le pietre del selciato. La domestica ed il ragazzino corsero subito giù a cercarlo; gli andarono vicino che quasi lo pestavano, e pure non riuscirono a vederlo. Se il soldatino avesse gridato: «Eccomi qui!» - l'avrebbero subito raccattato; ma, essendo in divisa, non gli parve decoroso mettersi a gridare. Incominciò a piovere; i goccioloni, radi da prima, si fecero sempre più fitti, sin che venne un vero acquazzone. Quando spiovve, capitarono due monelli. «Guarda, guarda!» - esclamò l'uno: «Un soldatino di stagno! Facciamolo andare a vela!» Fecero una barchetta con un pezzo di giornale, ci misero il soldato e lo vararono nel rigagnolo della via. I due ragazzi gli correvano appresso battendo le mani. Cielo, aiutami! Che onde c'erano in quel rigagnolo e che corrente terribile! La pioggia doveva proprio esser caduta a torrenti! La barchetta di carta beccheggiava forte forte, e tal volta girava così rapidamente, che il soldato sussultava. Ma rimaneva intrepido, però, nè mutava colore; guardava sempre fisso davanti a sè e teneva il fucile in ispalla. Improvvisamente, la barca scivolò in un tombino; e lì poi era buio pesto, come nella sua scatola. «Dove sarò mai capitato?» - pensava: «Sì, sì, quest'è tutta opera del diavolo nero. Ah, se ci fosse qui, nella barchetta, la donnina del castello, mi sentirei tutto consolato, per buio che fosse!» In quella, sbucò un vecchio ratto, che nel tombino aveva la sua casa. 30 «Hai il passaporto?» - domandò il ratto: «Fuori il passaporto!» Ma il soldato rimase muto e si contentò di tener l'arma ancora più salda. La barchetta seguitava, e il ratto dietro. Uh! come digrignava i denti, e come gridava a tutti i fuscelli, a tutte le pagliuzze: «Fermatelo! fermatelo! Non ha pagato pedaggio, non ha presentato passaporto!» La corrente divenne sempre più forte: il soldatino incominciava a veder chiaro già prima d'essere fuori del tombino; ma, proprio nel medesimo tempo, sentì uno scroscio tale, che avrebbe fatto tremare anche il cuore dell'uomo più valoroso. Figuratevi che il rigagnolo, appena fuori di quel passaggio, si buttava in un largo canale con un salto altrettanto pericoloso per la barchetta quanto sarebbe per noi la cascata del Niagara. Oramai, il pericolo era così vicino, che egli non poteva più evitarlo. La barchetta precipitò; il povero soldatino si tenne ritto, alla meglio, perchè nessuno potesse dire d'averlo nemmeno veduto batter palpebra. La barca girò su se stessa tre o quattro volte, si riempì d'acqua sino all'orlo, sì ch'era sul punto di calare al fondo: il soldato era nell'acqua sino al collo, e la barca sprofondava sempre più giù, sempre più giù: la carta inzuppata era lì per isfasciarsi: già l'acqua si richiudeva sopra il capo del soldato... Egli pensò allora alla graziosa ballerina, che non avrebbe mai più riveduto, e un ritornello gli risonò agli orecchi: Soldato, dove vai? La morte incontrerai! La carta si lacerò ed il soldato cadde di sotto; ma proprio in quel momento, un grosso pesce lo inghiottì. 31 Allora sì, che si trovò al buio davvero! Si stava ben peggio lì che nel tombino, e pigiati poi... Ma il soldato rimase imperterrito, e, anche così lungo disteso, mantenne pur sempre il fucile in ispalla. Il pesce non si chetava un momento: correva qua e là con certi guizzi terribili; alla fine, si fermò e parve traversato come da un baleno: e allora qualcuno gridò forte: «Oh! il soldato di stagno!» Il pesce era stato pescato, e poi portato al mercato e venduto, ed era capitato in cucina, dove la cuoca l'aveva aperto con un grande coltello. Allora la cuoca prese il soldato con due dita a traverso il corpo e lo portò in salotto dove tutti vollero vedere quest'uomo meraviglioso, che aveva viaggiato nel ventre d'un pesce. Ma non per questo egli mise superbia: fu posto sulla tavola, e là... - Davvero che in questo mondo si danno certi casi meravigliosi!... - Il soldatino di stagno si trovò per l'appunto nello stesso identico salotto di dov'era partito, si vide attorno gli stessi bambini, e vide sulla tavola, tra gli stessi balocchi, lo splendido castello con la bella ballerina, che se ne stava sempre ritta sulla punta di un piede ed alzava l'altro per aria, intrepida anche lei. Il nostro soldatino ne fu tanto commosso, che avrebbe pianto lacrime di stagno, se non gli fosse parso vergogna. Egli la guardò, ed essa guardò lui, ma non si dissero nulla. A un tratto, uno dei bambini più piccini afferrò il soldato e lo gettò nella stufa, così, proprio senza un perchè al mondo. Anche di ciò doveva aver colpa il diavolo nero della scatola. Il soldatino si trovò tutto illuminato e sentì un terribile calore: egli stesso non riusciva a distinguere se fosse il fuoco vero e proprio, o l'immenso, ardente suo amore. Non gli era rimasto più un briciolo di colore: fosse poi conseguenza del 32 viaggio o delle emozioni nessuno avrebbe potuto dire. La ballerina lo guardava ed egli guardava lei; e si sentiva struggere, ma rimaneva imperterrito, col fucile in ispalla. In quella, una porta si spalancò; il vento investì la signorina, ed essa, volando come una silfide, andò proprio difilata nel caminetto presso il soldato: una vivida fiamma... e poi, più nulla. Il soldato si strusse sino a diventare un mucchietto informe, e il giorno dopo, quando la domestica venne a portar via la cenere, lo trovò ridotto come un cuoricino di stagno. Della bambolina non rimaneva altro che la piccola stella, ma tutta bruciata, nera come il carbone. "Vedi cosa hai fatto?" Disse la sorella del bambino, che cercava nel camino il soldatino e la ballerina. "Adesso sai che, anche se il divaolo ti consigliò di far morire quelo valoroso soldatino, non riusciì però ad uccidere il suo amore... L'amore del soldato e della ballerina non è bruciato: è ancora qui, in questa casa, a guidare le tue mani a fare un bel disegno, che appenderemo sopra il camino....Un soldato e una ballerina, che viaggiano per il mondo nella loro barchetta...." Dall'originale di Hans Christian Andersen 33 JACK E IL FAGIOLO MAGICO In una casetta di pietra vivevano, molti e poi molti anni fa, una povera vedova e il suo unico figlio, che si chiamava Giacomino. Non possedevano che una mucca. La mucca dava loro ogni giorno una certa quantità di latte, e con la vendita del latte i due campavano, seppure miseramente. Ma la mucca invecchiava, e allora la vedova l'affidò al figlio perché la portasse al mercato, dove avrebbe potuto venderla. Lungo la strada, Giacomino s'imbatté in un viandante, un tipo curioso, che propose al giovane un baratto. "Stammi bene a sentire", disse. "Se mi dai la tua mucca, io in cambio ti do cinque fagioli magici. Decidi". Giacomino ci rifletté su un bel po'. Non sapeva come comportarsi. Alla fine, attratto dalla supposta magia di quei fagioli, accettò: cedette la mucca ed ebbe i fagioli. Giunto a casa, la madre si mise le mani nei capelli. "Ma tu sei ammattito, figlio mio! E adesso con che cosa vivremo? Con i soldi avremmo comperato una mucca giovane, che ci avrebbe dato del buon latte fresco. Così invece siamo alla fame. Sciagurato ragazzo, non dovevo fidarmi di te!". Incollerita, la donna afferrò i cinque fagioli e li fece volare fuori dalla finestra. Poi entrambi andarono a dormire, senza nemmeno cenare. L'indomani, non appena Giacomino, alzatosi, andò alla finestra, scorse, nel punto in cui erano stati gettati i fagioli, una pianta gigantesca. Un fagiolo così alto che non se ne vedeva la cima. 34 "Allora quei fagioli erano magici davvero", pensò, "se in una sola notte hanno fatto crescere questa pianta smisurata. Voglio arrampicarmi per andare a vedere fin dove arriva". Trovatosi al di sopra delle nuvole, Giacomino dette uno sguardo attorno, e vide un castello. Con precauzione si staccò dalla pianta, constatò che le nuvole reggevano il suo peso, procedendo su di esse si diresse al castello e vi entrò. Mettevano un po' di paura l'androne, gli scaloni, le sale. Mentre egli s'incuriosiva nell'immaginare chi ne fosse il proprietario, si sentì dire da un vocione: "E tu che sei venuto a fare, qui? Chi sei?". "Mi sono perso", mentì Giacomino, "ed è da ieri che non mangio. Sapeste che fame che ho!". Il vocione apparteneva alla padrona di casa, che era un'orchessa, cioè la moglie d'un orco. Ma, mentre l'orco era un violento, lei era mite, e provò simpatia per il ragazzo che le stava di fronte. Perciò si dette da fare: offrì a Giacomino del latte caldo, e dei buoni dolcetti con lo zucchero sopra. Ma ecco che, all'improvviso, la casa rintronò, e si udirono dei passi pesanti come quelli d'un elefante. "Presto, nasconditi, è l'orco che sta arrivando", disse il donnone. Mentre Giacomino trovava un rifugio, l'orco entrò dalla porta, mettendosi di traverso, sennò non ci sarebbe passato. Poi si stese su una poltrona larga quattro metri. Annusò, e sentì profumo di carne umana. "Ci dev'essere un bambino, in questa casa", sbottò. Dal forno dove si era rifugiato, Giacomino tremava di paura. "Un bambino?", finse di stupirsi l'orchessa. "Tu straluni ogni giorno di più. Di che bambini e bambini vai cianciando? Stai diventando vecchio, mio caro". E intanto, per distrarre il 35 consorte, gli mise davanti la cena, che consisteva in un capretto e in un barilotto di vino. Saziatosi, l'orco cominciò a contare monete d'oro, cavandole da due sacchi. Zecchini, marenghi, fiorini. Un vero tesoro. Conta e riconta, alla fine si addormentò. Allora Giacomino sgusciò dal forno, e riempì un sacchetto di quelle monete. Poi tornò al fagiolo che lo aveva fatto salire fin là, vi si abbrancò e prese a discendere. "Meno male che l'orchessa era andata a prepararsi il letto", pensava. "Altrimenti come avrei potuto fuggire, per di più con tutto questo denaro?". Ai piedi della pianta, ecco la madre di Giacomino, piangente e preoccupata per l'assenza del figlio. "Dove sei stato, dove? Vuoi proprio farmi morire d'angoscia?". "Sono stato dove mi ha portato la pianta cresciuta dai fagioli magici. Ci credi, adesso, che erano magici?". E le mise davanti il bel gruzzolo sottratto nella casa dell'orco. Con quelle monete, madre e figlio vissero finalmente senza problemi, almeno per un bel po'. Ma anche se erano tante, le monete finirono. Perciò Giacomino decise di tornare ad arrampicarsi sul fagiolo, raggiungere il castello dell'orco e prenderne altre. Per non farsi scorgere dall'orchessa, di nuovo trovò rifugio nel forno. Risuonarono fragorosi i passi dell'orco che, appena entrato, fiutò l'aria e fiutò la presenza d'un bambino. E di nuovo la moglie a dirgli: "Ma è proprio una fissazione! Tu straluni sempre peggio. Bisognerà chiamare il medico, un giorno o l'altro". Lo diceva convinta, l'orchessa, perché non aveva visto nessun forestiero da quelle parti. Così convinta, che l'orco si tranquillizzò e, cavatosi dall'enorme tasca del giaccone una 36 gallina, si dette ad accarezzarla. Sotto quelle carezze, la gallina si accovacciò e fece, seduta stante, due uova d'oro. "Se ce la faccio, me la porto via", pensava Giacomino dal suo nascondiglio. Così, non appena l'orco prese a russare, con un balzo afferrò la gallina e, tenendola ben stretta, dalla torre del castello balzò sulle nuvole e raggiunse la cima della pianta. Ma questa volta la fuga fu complicata. "Al ladro, al ladro!", gridava infatti la gallina, starnazzando. Per fortuna le foglie della pianta nascosero ben presto Giacomino dalla vista dell'orco che aveva cominciato a inseguirlo, e il ragazzo atterrò sano e salvo. "Tutto lì?", si stupì la madre. "Solo una gallina gli hai portato via?". "Aspetta". Giacomino l'accarezzò, come aveva visto fare all'orco, e la gallina depose due uova d'oro massiccio. "La nostra fortuna è fatta, ragazzo mio!", esclamò la madre. "Lo so bene", rispose Giacomino, che era più in gamba di quanto lei supponesse. Grazie alle uova d'oro, Giacomino poté ordinare la costruzione d'un palazzo, dove entrambi andarono ad abitare. Un palazzo nel cui interno furono disposti quadri, arazzi, argenterie, vasellami, e le cui porte non venivano mai chiuse. Tutti potevano entrarvi e ristorarsi, soprattutto i diseredati: perché Giacomino aveva buon cuore, e non dimenticava i tempi difficili della sua povertà. Un triste giorno, però, la madre di Giacomino cadde ammalata, di un male che i medici non riuscivano a capire. Era come se non le importasse più di vivere. Aveva perduto il sorriso. Non provava entusiasmo per nulla. Inoltre rifiutava il cibo, e perciò deperiva, chiusa in una profonda malinconia. 37 Giacomino fece venire a palazzo clowns e giullari perché, con i loro giochi, con i loro scherzi, le risollevassero il morale. Ma non ci fu nulla da fare. Decise allora di tornare nel castello dell'orco, sperando di trovarvi in qualche modo un rimedio. Si arrampicò di nuovo sul fagiolo, raggiunse il castello, e qui, senza farsi scorgere da nessuno, si rifugiò dentro una pentola e attese gli eventi. Ed eccolo, l'orco, giungere con i suoi passi pesanti. Cenò, poi trasse da una cassapanca un'arpa magica, e lo strumento iniziò a suonare, da solo, una melodia dolcissima: così dolce che l'orco, dopo aver sorriso e poi riso di gusto, si addormentò. Lesto, Giacomino scattò fuori dalla pentola, prese al volo l'arpa e fuggì verso il fagiolo per ridiscendere a terra. Ma l'arpa non voleva saperne di lasciarsi rapire. "Padrone, padrone!", gridava rivolta all'orco. "Svegliati. Mi stanno rubando!". E Giacomino: "Zitta! Taci una buona volta. Ti porterò dove starai molto meglio di qui". E intanto correva. La pianta si avvicinava, però si avvicinava anche l'orco, che gli era quasi alle calcagna. Come Dio volle, il ragazzo raggiunse prima la chioma, poi il fusto della pianta e, con il fiato grosso e il cuore che gli batteva forte, cominciò a scendere, a lasciarsi scivolare verso il basso. Non aveva ancora toccato terra, che l'arpa si mise a suonare una nuova melodia, ancora più dolce. Ed ecco, per incanto, la madre di Giacomino sorridere, farsi incontro al figlio, abbracciarlo. Sembrava addirittura ringiovanita, ed era di sicuro guarita, grazie a quel suono. Tuttavia Giacomino non ebbe tempo di rallegrarsi, perché s'accorse che la pianta oscillava. Oscillava sotto il peso dell'orco che, 38 trovata la strada, scendeva a riprendersi l'arpa, e si può immaginare quanto fosse arrabbiato. Non c'era un minuto da perdere. Giacomino corse a prendere una scure e vibrò contro il fagiolo molti colpi ben assestati. Gli stivaloni dell'orco erano già in vista, quando la pianta cedette, trascinando l'orco in un burrone. Inutilmente l'orchessa lo cercò per ogni dove: egli era caduto giù, a terra, ai piedi della pianta e lì giaceva esanime. La madre di Giacomino si avvicinò al gigante: egli era gravemente ferito. La sua recente infermità le aveva fatto conoscere le sofferenze della malattia e capire a fondo che ammalarsi dipende molto più dall’animo che dal corpo, ed ora era ben decisa ad evitare che l’enorme essere che le era disteso innanzi morisse Perciò fece chiamare i più bravi medici del regno, perché si prodigassero nelle migliori cure. Poi si rivolse a Giacomino: “Figlio mio adorato, durante questo lungo periodo di malattia ho riflettuto e compreso la gravità delle azioni che hai compiuto nel regno del gigante con la mia complicità. Ora l’orco sta per morire a causa nostra.” Giacomino la guardò con attenzione ed ella continuò: “Perdonami se ti ho tratto in inganno, se ti ho fatto credere che il denaro, la ricchezza fossero più importanti di un animo candido, della vita stessa. Nulla ha più valore della vita, che appartiene a tutti gli esseri, dal più grande al più minuscolo che esista. Ora non ci resta che pregare affinché l’orco si salvi!”. E Orco si salvò. Ormai guarito, e divenuto assai gentile dopo la guarigione, prese Oca ed Arpa e salì sul monte più alto del paese dal quale, con un enorme balzo, tornò a casa, felice di riabbracciare la sua famiglia. Dall'originale di Richard Walker 39 LA CICALA E LA FORMICA L'estate passava felice per la cicala che si godeva il sole sulle foglie degli alberi e cantava, cantava, cantava. Venne il freddo e la cicala imprevidente, si trovò senza un rifugio e senza cibo. Si ricordò che la formica per tutta l'estate aveva accumulato provviste nella sua calda casina sotto terra. Andò a bussare alla porta della formica. La formica si fece sulla porta reggendo una vecchia lampada ad olio. - Cosa vuoi? - chiese con aria infastidita. - Ho freddo, ho fame….- balbettò la cicala. Dietro di lei si vedeva la campagna innevata. Anche il cappello della cicala ed il violino erano pieni di neve. - Ma davvero? - brontolò la formica - lo ho lavorato tutta l'estate per accumulare il cibo per l'inverno. Tu che cosa hai fatto in quelle giornate di sole? - Io ho cantato! - Hai cantato? - Bene… adesso balla! La formica richiuse la porta e tornò al calduccio della sua casetta, mentre la cicala, con il cappello ed il violino coperti di neve, si allontanava, ad ali basse, nella campagna. La formica stava bene, lì al caldo, questo è sicuro, ma c’era un silenzio, intorno a lei, così spesso da tagliarsi col coltello!! La formica cominciò a canticchiare, perché il silenzio, reso 40 ancora più spesso dalla coltre di neve fuori dell’ uscio, le dava sempre più noia…Ma le note le uscivano di bocca stentate, stonate, e cantare la faceva star peggio di prima! Allora si decise a uscire, e, nera nera contro la neve bianca, si avventurò nella campagna, a cercare la cicala. La trovò accanto ad un albero, ormai infreddolita e in fin di vita. -Vieni con me, vieni!- le disse, e, sostenendola, la portò in casa. -Credo proprio che quest’inverno ci faremo una buona compagnia: quello che io so fare, tu non lo sai, e ciò che sai fare tu, a me non riesce! Siamo proprio come il sole e la pioggia, che ci vogliono tutte e due per far bella la campagna! Dall'originale di Jean de la Fontaine 41 LA PICCINA DEI FIAMMIFERI Faceva un freddo terribile, nevicava e calava la sera l'ultima sera dell'anno, per l'appunto, la sera di San Silvestro. In quel freddo, in quel buio, una povera bambinetta girava per le vie, a capo scoperto, a piedi nudi. Veramente, quand'era uscita di casa, aveva certe babbucce; ma a che le eran servite? Erano grandi grandi - prima erano appartenute a sua madre, - e così larghe e sgangherate, che la bimba le aveva perdute, traversando in fretta la via, per iscansare due carrozze, che s'incrociavano con tanta furia... Una non s'era più trovata, e l'altra se l'era presa un monello, dicendo che ne avrebbe fatto una culla per il suo primo figliuolo. E così la bambina camminava coi piccoli piedi nudi, fatti rossi e turchini dal freddo: aveva nel vecchio grembiale una quantità di fiammiferi, e ne teneva in mano un pacchetto. In tutta la giornata, non era riuscita a venderne uno; nessuno le aveva dato un soldo; aveva tanta fame, tanto freddo, e un visetto patito e sgomento, povera creaturina... I fiocchi di neve le cadevano sui lunghi capelli biondi, sparsi in bei riccioli sul collo; ma essa non pensava davvero ai riccioli! Tutte le finestre scintillavano di lumi; per le strade si spandeva un buon odorino d'arrosto; era la vigilia del capo d'anno: a questo pensava. Nell'angolo formato da due case, di cui l'una sporgeva innanzi sulla strada, sedette abbandonandosi, rannicchiandosi tutta, tirandosi sotto le povere gambine. Il freddo la prendeva sempre più, ma non osava tornare a casa: riportava tutti i fiammiferi e nemmeno un soldino. Il babbo l'avrebbe certo picchiata; e, del resto, forse che non faceva freddo anche a casa? Abitavano proprio sotto il tetto, ed il vento ci soffiava tagliente, sebbene le fessure più larghe 42 fossero turate, alla meglio, con paglia e cenci. Le sue manine erano quasi morte dal freddo. Ah, quanto bene le avrebbe fatto un piccolo fiammifero! Se si arrischiasse a cavarne uno dallo scatolino, ed a strofinarlo sul muro per riscaldarsi le dita... Ne cavò uno, e trracc! Come scoppiettò! come bruciò! Mandò una fiamma calda e chiara come una piccola candela, quando la parò con la manina. Che strana luce! Pareva alla piccina d'essere seduta dinanzi ad una grande stufa di ferro, con le borchie e il coperchio di ottone lucido: il fuoco ardeva così allegramente, e riscaldava così bene!... La piccina allungava già le gambe, per riscaldare anche quelle... ma la fiamma si spense, la stufa scomparve, - ed ella si ritrovò là seduta, con un pezzettino di fiammifero bruciato tra le mani. Ne accese un altro: anche questo bruciò, rischiarò e il muro, nel punto in cui la luce batteva, divenne trasparente come un velo. La bambina vide proprio dentro nella stanza, dove la tavola era apparecchiata, con una bella tovaglia d'una bianchezza abbagliante, e con finissime porcellane; nel mezzo della tavola, l'oca arrostita fumava, tutta ripiena di mele cotte e di prugne. Il più bello poi fu che l'oca stessa balzò fuor del piatto, e, col trinciante ed il forchettone piantati nel dorso, si diede ad arrancare per la stanza, dirigendosi proprio verso la povera bambina... Ma il fiammifero si spense, e non si vide più che il muro opaco e freddo. Accese un terzo fiammifero. La piccolina si trovò sotto ad un magnifico albero, ancora più grande e meglio ornato di quello che aveva veduto, a traverso ai vetri dell'uscio, nella casa del ricco negoziante, la sera di Natale. Migliaia di lumi scintillavano tra i verdi rami, e certe figure colorate, come quelle che si vedono esposte nelle mostre dei negozii, guardavano la piccina. Ella stese le mani... e il fiammifero si 43 spense. I lumicini di Natale volarono su in alto, sempre più in alto; ed ella si avvide allora ch'erano le stelle lucenti. Una stella cadde, e segnò una lunga striscia di luce sul fondo oscuro del cielo. «Qualcuno muore!» - disse la piccola, perchè la sua vecchia nonna (l'unica persona al mondo che l'avesse trattata amorevolmente, - ma ora anche essa era morta,) la sua vecchia nonna le aveva detto: «Quando una stella cade, un'anima sale a Dio.» Strofinò contro il muro un altro fiammifero, che mandò un grande chiarore all'intorno; ed in quel chiarore la vecchia nonna apparve, tutta raggiante, e mite, e buona... «Oh, nonna!» - gridò la piccolina: «Prendimi con te! So che tu sparisci, appena la fiammella si spegne, come sono spariti la bella stufa calda, l'arrosto fumante, e il grande albero di Natale!» - Presto presto, accese tutti insieme i fiammiferi che ancora rimanevano nella scatolina: voleva trattenere la nonna. I fiammiferi diedero tanta luce, che nemmeno di pieno giorno è così chiaro: la nonna non era stata mai così bella, così grande... Ella prese la bambina tra le braccia, ed insieme volarono su, verso lo Splendore e la Gioia, su, in alto, in alto, dove non c'è più fame, nè freddo, nè angustia, - e giunsero presso Dio. Ma nell'angolo tra le due case, allo spuntare della fredda alba, fu veduta la piccina, con le gotine rosse ed il sorriso sulle labbra, - morta assiderata nell'ultima notte del vecchio anno. La prima alba dell'anno nuovo passò sopra il cadaverino, disteso là, con le scatole dei fiammiferi, di cui una era quasi tutta bruciata. «Ha cercato di scaldarsi...» dissero. Ma nessuno seppe tutte le belle cose che aveva vedute; nessuno seppe tra quanta luce era entrata, con la vecchia nonna, nella gioia della nuova Alba. Nessuno, forse, 44 tranne un abimba, che notò quel viso disteso, quel sorriso d'angelo che ancora aleggiava sulla bocca della piccina. "E' diventata un angelo?" chiese alla mamma. "No, bambina mia" ella le rispose. "Lo è sempre stata...e la sua breve vita, trascorsa nella sofferenza, è servita ad insegnarci a guardare oltre le nostre tavole imbandite, i nostri caminetti scoppiettanti, e atendere la mano per aiutare chi soffre..." Dall'originale di Hans Christina Andersen 45 L’ USIGNUOLO E LA ROSA - Ha detto che ballerà con me se le porterò delle rose rosse – si lamentava il giovane Studente – ma in tutto il mio giardino non c’è una sola rosa rossa. Dal suo nido nella quercia lo ascoltò l’Usignolo, e guardò attraverso le foglie, e si meravigliò: - Non ho una rosa rossa in tutto il mio giardino! – si lamentava lo Studente, e i suoi begli occhi erano pieni di lacrime. - Ah, da qual sciocchezze dipende la felicità! Ho letto gli scritti di tutti i sapienti, conosco tutti i segreti della filosofia, ciononostante la mancanza di una rosa rossa sconvolge la mia vita! - Ecco finalmente un vero innamorato – disse l’Usignolo. – Notte dopo notte ho cantato di lui, nonostante non lo conoscessi: notte dopo notte ho favoleggiato la sua storia alle stelle, e ora lo vedo. I suoi capelli sono scuri come i boccoli del giacinto, e le sue labbra sono rosse come la rosa del suo desiderio; la sofferenza ha reso il suo volto simile a pallido avorio e il dolore gli ha impresso il suo sigillo sulla fronte. - Il Principe dà un ballo domani sera – sibilava il giovane Studente – e la mia amata vi andrà. Se le porterò una rosa rossa ballerà con me fino all’alba. Se le porterò una rosa rossa la terrò fra le mie braccia ed ella piegherà il capo sulla mia spalla, e la mia mano stringerà la sua. Ma non c’è una rosa rossa in tutto il mio giardino, e così io siederò solo, ed ella passerà dinnanzi a me senza fermarsi. Non avrà nessuna cura di me. E il mio cuore si farà a pezzi. - Ecco certamente un vero innamorato – disse l‘Usignolo. – Ciò che io canto, egli lo patisce, ciò che per me è gioia, per lui è pena. Davvero l’Amore è una cosa straordinaria. È più 46 prezioso degli smeraldi e degli splendidi opali. Perle e granati non possono comperarlo, e non è in vendita sulla piazza del mercato. Non possono comprarlo i mercanti, né pesarlo le bilance dell’oro. - I musicanti siederanno nella galleria – proferiva il giovane Studente – e suoneranno i loro strumenti, e la mia amata ballerà al suono dell’arpa e del violino. Ballerà così leggera che i suoi piedi non toccheranno intorno. Ma con me non danzerà, perché io non ho una rosa rossa da offrirle e si gettò sull’erba, si chiuse il volto tra le mani, e versò lacrime. - Perché piange? – chiese la Farfalla, che piroettava qua e là inseguendo un raggio di sole. - Già, perché? – sussurrò una Pratolina al suo vicino, con voce sommessa e tenera. - Piange per una rosa rossa – disse l’Usignolo. - Per una rosa rossa! – esclamarono quelli. – Che ridicolaggine! – e il Ramarro, che era un po’ sprezzante, rise di gusto. Ma l’Usignolo comprendeva il segreto dolore dello Studente, e restava taciturno sulla quercia, a pensare sul mistero dell’Amore. D’improvviso distese le sue brune ali e volò, si librò nell’aria. Passò attraverso il boschetto come un’ombra, e come un’ombra svolazzò sul giardino. Al centro dell’aiuola erbosa s’ergeva un bellissimo Rosaio, e non appena l’Usignolo lo vide volò sopra di lui e si posò su un ramo. - Dammi una rosa rossa – supplicò – e ti canterò la mia canzone più dolce. Ma il Rosaio scosse il capo. - Le mie rose sono bianche – ribatté – bianche come vuole la schiuma del mare, e più bianche della neve sulla montagna. Ma va da mio fratello che cresce accanto all’antica meridiana, e forse ti darà quel che desideri. 47 Allora l’Usignolo volò sul Rosario che germogliava accanto all’antica meridiana. - Dammi una rosa rossa – supplicò – e ti canterò la mia canzone più dolce. Ma il Rosario scosse il capo. - Le mie rose sono gialle – affermò - gialle come i capelli della sirena che siede sopra un trono d’ambra, e più gialle del narciso che sboccia nel prato prima che il mietitore giunga con la sua falce. Ma va da mio fratello che germoglia sotto la finestra delle Studente, e forse ti darà quel che desideri. Allora l’Usignolo volò sul Rosaio che cresceva sotto la finestra dello Studente. - Dammi una rosa rossa – supplicò – e ti canterò la mia canzone più dolce. Ma il Rosario scosse il capo. - Le mie rose sono rosse – rispose – rosse come i piedi della colomba, e più rosse dei grandi ventagli di corallo che oscillano nelle grotte degli oceani. Ma l’inverno ha ghiacciato le mie vene e il gelo ha dilaniato i miei boccioli, e l’uragano ha spezzato i miei rami, e non avrò più rose quest’anno. - Una sola rosa rossa è tutto ciò che ti chiedo! – urlò l’Usignolo. – Non c’è proprio nessun sistema per averla? - Un modo c’è – rispose il Rosario – ma è così terribile che non ho il coraggio di dirtelo. - Dimmelo – implorò l’Usignolo – io non ho paura. - Se vuoi una rosa rossa – disse il Rosaio – sei costretto a formarla con la musica al lume della luna, e colorarla col sangue del tuo cuore. Devi cantare per me col petto contro una spina. Tutta la notte devi cantare per me, e la spina deve trafiggere il tuo cuore, e il tuo sangue vivo deve scendere nelle mie vene e diventare mio. 48 - La morte è un prezzo alto da pagare per una rosa rossa – si dolse l’Usignolo – e la vita è così cara a tutti. È dolce tardare nel bosco verde, e ammirare il Sole nel cocchio d’oro, e la luna nel suo cocchio d’argento. Dolce è il profumo della vitalba, e dolci le campanule azzurre che si celano nella valle, e l’erica che fiorisce sul colle. Ma l’Amore è più prezioso della Vita, e cos’è mai il cuore di un uccellino equiparato al cuore di un uomo? Così piegò le ali brune nel volo, e si librò nell’aria. Passò attraverso il giardino come un’ombra, e come un’ombra volò sopra il boschetto. Lo Studente era ancora steso nell’erba, là dove lo aveva lasciato, e il pianto non s’era ancora rasciugato dai suoi occhi. - Sii felice – gli urlò l’Usignolo. – Sii felice! Avrai la tua rosa rossa! Io la formerò con la musica al lume della luna, e la colorerò col sangue del mio cuore. Tutto ciò che ti chiedo in cambio è d’essere un vero innamorato, perché l’Amore è il più giudizioso della Filosofia, per quando saggia essa sia, e il più autorevole del Potere, per quando potente esso sia. Sono color di fiamma le sue ali, color di fiamma è il suo corpo. Le sue labbra sono dolci come il miele, e simile all’incenso è il suo alito. Lo Studente alzò lo sguardo dall’erba e si pose ad ascoltare, ma non gli era possibile capire ciò che l’Usignolo gli diceva, dopo che capiva solo parole che sono scritte sui libri. Ma la quercia capì, e si addolorò, poiché voleva bene al piccolo Usignolo che si era costruito il nido fra i suoi rami. - Cantami un’ultima canzone – gli bisbigliò. – Mi sentirò molto sola quando te ne sarai andata. Così l’Usignolo cantò per la Quercia, e la voce era come l’acqua che si sparge gorgogliante da un’anfora d’argento. Finita che fu la canzone, lo Studente s’alzò, e trasse di tasca un taccuino e una matita. 49 - Questa creatura ha stile. - Disse a se stesso – è un fatto che non si può contestare, ma avrà inoltre sentimenti? Ho timore di no. In verità, è come la maggior parte degli artisti, tutta forma, nessuna lealtà. Non si offrirebbe in sacrificio per gli altri. Pensa solamente alla musica, e tutti sanno che l’arte è egoista. Bisogna in ogni modo ammettere che ha note incantevoli nella sua voce. Peccato che non significano nulla, e non abbiamo alcun’utilità pratica. E andò in camera, e si stese sul suo piccolo letto, e cominciò nuovamente a pensare alla sua amata, e dopo un po’ di tempo, s’addormentò. E quando la Luna spiccò nei cieli l’Usignolo volò dal Rosaio, e pose il suo petto contro la spina. Tutta la notte cantò col petto contro la spina, e la fredda Luna di cristallo si chinò ad udirlo. Tutta la notte cantò, e la spina si spingeva sempre più profonda nel suo petto, e il suo sangue vitale fluiva da lui. Prima cantò dell’amore che germoglia nel cuore di un fanciullo e di una fanciulla. E sul ramo più alto del Rosaio fiorì una rosa magnifica, petalo dopo petalo come nota dopo nota. Pallida era in un primo momento, come la nebbia sospesa sul fiume, pallida come le orme del mattino, e argentea come le ali dell’alba. Come l’ombra di una rosa in uno specchio, rosa che fioriva sul ramo più alto del Rosaio. Ma il Rosaio urlava all’Usignolo di premere più forte sulla spina. - Premi più forte, piccolo Usignolo – urlava il Rosario – o il Giorno spunterà prima che la rosa sia completata. Così l’Usignolo premette più forte sulla spina, e più forte si fece il suo canto, esseri che cantava il venire al mondo della passione nell’anima di un uomo e di una donna. Una tenue striatura rosea si sparse nei petali del fiore, simile al rossore che si spande sul volto dello sposo quando bacia le labbra della sposa. Ma la spina non era giunta al cuore dell’uccellino, e il cuore della rosa restava bianco, perché 50 solo il sangue del cuore di un Usignolo può invermigliare il cuore di una rosa. E il Rosario urlava all’Usignolo di premere più forte sulla spina. - Premi più forte, piccolo Usignolo, o il giorno spunterà prima che la rosa sia completata. Così l’Usignolo premette più forte sulla spina, e la spina gli toccò il cuore, e un violento spasimo di dolore lo trafisse. Più e più penoso era il dolore, e più e più selvaggio si faceva il canto, poiché ora cantava dell’Amore che è reso perfetto dalla Morte, e dell’Amore che non muore nella tomba. E la stupenda rosa diventò vermiglia, come la rosa del cielo d’Oriente. Vermiglia la fascia dei petali intorno alla corolla, e vermiglio come il rubino era il suo cuore. Ma la voce dell’Usignolo si fece più debole, e le sue piccole ali iniziarono a sbattere, e un velo discese suoi occhi. Più e più debole si fece il suo canto, e qualche cosa lo soffocava in gola come un pianto convulso. Allora proruppe in un ultimo slancio di musica. La bianca Luna lo ascoltò, e dimenticò l’alba, ed esitò nel cielo. La rosa rossa lo udì, e fremé tutta d’estasi, e aprì i suoi petali alla fredda aria del mattino. L’eco lo ripetè nel suo antro color porpora sui colli, e risvegliò dai loro sogni i pastori dormienti. Ondeggiò fra i giunchi del fiume, ed essi portarono il suo messaggio al mare. - Guarda! Guarda! – gridò il Rosario – la rosa è perfetta, ora! Ma l’Usignolo non rispose, perché stava steso morto nell’erba alta, con la spina nel cuore. A mezzogiorno lo Studente aprì la finestra e guardo fuori. - Che sbalorditivo colpo di fortuna! – disse con enfasi. – Una rosa rossa! Non ho mai visto una rosa come questa in tutta la mia vita. È così bella che senza dubbio avrà un lungo nome latino – si sporse, e la colse. Poi si mise il cappello, e corse a casa del Professore con la rosa in mano. La figlia del 51 Professore sedeva in veranda, aggomitolando della seta azzurra su un arcolaio, e il suo cagnolino le stava disteso ai piedi. - Avevate promesso di ballare con me se vi avessi portato una rosa rossa – urlò lo Studente – ecco la rosa più rossa di tutto il mondo. La porterete stasera sul cuore e mentre danzeremo insieme vi dichiarerà quando vi amo. Ma la ragazza corrugò la fronte. - Temo che non sia adatta al mio vestito – rispose – e poi, il nipote del Ciambellano mi ha mandato in dono dei gioielli veri, e tutti sanno che i gioielli valgono più dei fiori. - In fede mia, siete davvero un’ingrata! – disse lo Studente in un impeto d’ira; e gettò la rosa giù nella strada. Essa cadde in un rivoletto, e la ruota di un carro vi passò sopra. - Ingrata io? – ripetè la ragazza. – Ebbene, voi sapete che cosa siete? Un grande screanzato, in fondo, né più né meno che un semplice Studente. E non credo neppure che abbiate delle fibbie d’argento sulle scarpe come il nipote del Ciambellano. E s’alzò dalla sedia ed entrò in casa. - Che balordaggine è l’Amore! – disse lo Studente andandosene. – Non è utile neppure la metà della Logica, perché non esprime nulla, promette sempre cose che non si concretizzano e fa credere in cose che non sono vere. In effetti, non è per niente pratico, e siccome nel tempo in cui viviamo la praticità è tutto, tornerò alla Filosofia e studierò la Metafisica. Così si chiuse dentro nella sua stanza, prese lo dallo scaffale un vecchio libro polveroso, e si mise a leggere. Assistevano a questa scena la farfalla, la luna, il ramarro, la quercia e lo spirito dell’usignolo che ancora non si era staccato dallo Studente. La prima a prendere la parola fu la luna che disse: - Possiamo lasciare che questa storia finisca così? Abbiamo avuto un sacrificio vano ed un giovane che ha rafforzato la sua idea che l’Amore sia una balordaggine . 52 –Certo - intervenne la farfalla -mi piacerebbe potergli spiegare che Amore è ogni raggio di sole che inseguo, ogni fiore su cui mi poso e che l’Amore è delicato e leggero come il mio volo. Non fa richieste, non pretende sacrifici e men che meno è misurabile con la sofferenza che provoca. -I miei rami e le mie foglie fioriscono per Amore, senza che io debba fare nulla che non sia accordarmi al flusso della vita- disse la quercia. E il ramarro: -Già: è una ridicolaggine soffrire per una rosa rossa poiché per le rose rosse bisognerebbe solo gioire! -Mi sembra un’affermazione davvero superficiale, amico ramarro: che puoi dirmi allora dell’amore non corrisposto e della sofferenza lancinante che questo può provocare al cuore di un essere umano?- chiese allora lo spirito dell’usignolo. -Caro usignolo- rispose la farfalla -l’intento del tuo sacrificio è quanto più nobile si possa immaginare e per questo il tuo spirito è ora così luminoso. Il giovane studente, e forse tu con lui, aveva però confuso l’Amore con il desiderio. Si può desiderare fino a perdere la ragione, ma l’Amore non offusca l’intelletto, anzi lo rende limpido come il più limpido dei diamanti. Fu la luna a proseguire: -Ascolto ogni sera poesie e canzoni di amanti infelici o al settimo cielo, e con il mio volto pallido cerco sempre di spiegare loro che l’unico posto dove cercare l’Amore è nel proprio cuore e l’unico posto giusto dove riversarlo è l’universo intero. L’usignolo allora disse :-Bene, da oggi accompagnerò quello Studente, non per dargli rose rosse da donare alle fanciulle ma per far fiorire il suo cuore come un giardino in cui tutti possano trovare ristoro! E così fu. Dall’originale di Oscar Wilde 53 LA CHIOCCIOLA E IL ROSAIO Intorno al giardino c'era tutta una siepe di nocciuoli; al di là della siepe, i campi e i prati, con le mucche e le pecore; nel mezzo del giardino, un bel rosaio in fiore; e a' piedi del rosaio, una chiocciola, la quale dentro non aveva poco, poichè era piena di sè. «Aspettate che venga la mia volta!» - diceva: «Farò ben di meglio, io, che dar rose, nocciuole o latte, come il rosaio, come i nocciuoli, come le mucche e le pecore.» «E da te, infatti, ci aspettavamo moltissimo!» - diceva il rosaio: «Ma, se la domanda è lecita, quando ci farai tu vedere qualche cosa?» «Io mi prendo tempo,» - replicava la chiocciola: «Avete sempre furia, voialtri! E così non eccitate la curiosità con l'aspettazione.» L'anno dopo, la chiocciola stava circa allo stesso posto, al sole, sotto il rosaio; e il rosaio metteva da capo i bocciuoli, i quali fiorivano in rose sempre fresche, sempre nuove. La chiocciola strisciò a mezzo fuor del guscio, stese le corna e poi le ritirò. «Tutto come l'anno passato. Nessun progresso. Il rosaio s'è fermato alle rose e di meglio non sa fare.». Passò l'estate e venne l'autunno; il rosaio continuò a dar rose, sin che cadde la neve ed il tempo si fece umido e freddo; e allora il rosaio si chinò al suolo: la chiocciola si ficcò sotterra. Poi cominciò un anno nuovo, e le rose tornarono a sbocciare e tornò fuori anche la chiocciola. «Ora, tu sei un vecchio rosaio,» - disse la chiocciola «Devi sbrigarti e finirla, poi che hai dato al mondo tutto 54 quello che avevi in te: se sia servito a qualche cosa, è questione ch'io non ho avuto tempo di meditare; ma questo intanto è chiaro e limpido: che tu non hai fatto niente di niente per migliorare te stesso: se no, avresti dato qualche cos'altro. Che puoi rispondere a questo? Tra poco sarai ridotto un pezzo di legno secco. Capisci quel che ti dico?» «Mi fai paura!» - rispose il rosaio. «Non ci avevo pensato mai.» «No, davvero; tu non ti sei affaticato di certo a pensare. Ti sei nemmeno domandato perchè fiorisci e come avviene la tua fioritura? Perchè le cose vanno così e non in altro modo?» «No,» - disse il rosaio. «Io ho fiorito nella gioia perchè non potevo altrimenti. Il sole era così caldo, l'aria così fresca... Bevevo le pure gocciole di rugiada e la forte pioggia violenta: respiravo, vivevo! Fuor della terra, sorgeva in me una forza; dall'alto, scendeva in me una forza; ed io ne risentivo una gioia sempre nuova, e sempre così grande, che dovevo fiorire e fiorire. Era la mia vita quella; nè potevo fare altrimenti! «Hai menato una vita molto comoda!» - osservò la chiocciola. «Oh, sì. Tutto mi fu donato,» - disse il rosaio: «Ma a te fu donato di più. Tu sei una di quelle nature pensose, profonde, riccamente dotate, le quali vogliono far meravigliare il mondo». «Oh, questo non mi passa nemmeno per la mente!» esclamò la chiocciola. «Il mondo, per me, è nulla. Che ci ho da fare io col mondo? Ho abbastanza di me stessa e di quello che ho dentro.» «Ma non dobbiamo tutti, su questa terra, dare agli altri il meglio che abbiamo, donare quello ch'è in nostro potere? Certo, io non ho dato altro che rose. Ma tu, con tutte le tue 55 belle qualità, che cos'hai tu dato al mondo? che intendi di dargli?» «Che gli ho dato? che intendo di dargli? Ci sputo sopra io, al mondo. Non merita nulla: non è affar mio. Continua a dar rose tu, se vuoi: tu non puoi fare di meglio. E diano i nocciuoli il loro frutto, e le mucche e le pecore il latte; essi hanno il loro pubblico; ma io ho il mio, dentro di me. Io rientro in me, e vi rimango: il mondo per me è meno di nulla.» E così dicendo, la chiocciola, rientrò nella sua casetta e si chiuse l'uscio dietro. «È triste,!» - disse il rosaio: «Io non potrei rintanarmi così dentro di me, nemmeno se volessi: bisogna che continui a dar rose. E i petali cadono, e il vento li porta via... Ma vidi una volta una rosa nel libro di preghiere di una mamma; ed una delle mie rose stette sul seno d'una bella giovinetta, ed un'altra... un bambinetto la baciò, persino, nella pienezza della sua gioia. Ciò mi fece tanto bene a vedere: mi fu una vera benedizione; ed ora è tutto il mio ricordo, la mia vita!» Il rosaio continuò a fiorire, nella sua innocenza, mentre la chiocciola passava il tempo oziando, rintanata in casa: il mondo non era affar suo. E gli anni passavano. La chiocciola era divenuta polvere nella polvere, ed il rosaio terra nella terra; la rosa della ricordanza, nel libro di preghiere, era sbiadita; nel giardino fiorivano nuovi rosai, e sotto i rosai vivevano nuove chiocciole, strisciando ancora nelle loro case, e sputando sul mondo, che non era affar loro. E se ricominciassimo la storia e la rileggessimo tutta per bene da capo? "Tanto, non muta mai", dirà qualcuno. E invece, nel mondo delle fiabe, tutto è possibile... 56 Allora, potremmo dire alla chiocciola: "Forse vuoi sputare sul mondo perché il mondo ti crede più brutta di una rosa, e gli vuoi far dispetto? Ma se c'è qualcuno che elogia le rose, e disprezza le chiocciole, quegli fa l'errore di fermarsi alla superficie delle cose, e di non andare oltre una prima occhiata. Le rose esprimono con forme e colori ciò che tu esprimi conla tua danza...Quella stessa forza di cui parlava il rosaio...Quella forza, sentila dentro di te, e regalala al mondo, che te ne è grato..." La chiocciola, dunque, stavolta, scivolò felice sulla foglia del rosaio, che gliene regalò un pezzetto per merenda, e le chiese di danzare per lui. Dall'originale di Hans Christian Andersen 57 HANSEL E GRETHEL C'era una volta...un povero taglialegna che viveva in una casupola sul limitare del bosco. L'uomo aveva due bambini, Hansel e Grethel, nati dalla sua precedente moglie che era morta qualche anno prima. L'anno precedente aveva ripreso moglie: ma la nuova moglie non sopportava i due figliastri. Egli non aveva di che sfamarsi; riusciva a stento a procurare il pane per sua moglie e i suoi due bambini: Hansel e Grethel. Infine giunse un tempo in cui non poteva più provvedere neanche a questo e non sapeva più a che santo votarsi. Una sera, mentre si voltava inquieto nel letto, la moglie gli disse: -Ascolta marito mio, domattina all'alba prendi i due bambini, dai a ciascuno un pezzetto di pane e conducili fuori in mezzo al bosco, nel punto dov'è più fitto; accendi loro un fuoco, poi vai via e li lasci soli laggiù. Non possiamo nutrirli più a lungo-. -No moglie mia- disse l'uomo -non ho cuore di abbandonare i miei cari bambini nel bosco, le bestie feroci li sbranerebbero subito.- -Se non lo fai- disse la donna -moriremo tutti quanti di fame.- E non lo lasciò in pace finché‚ egli non acconsentì. Anche i due bambini non potevano dormire per la fame, e avevano sentito quello che la madre aveva detto al padre. Grethel pensò che per loro fosse finita e incominciò a piangere amaramente, ma Hansel disse: -Stai zitta Grethel, non ti crucciare, ci penserò io-. Si alzò, si mise la giacchettina, aprì l'uscio da basso e sgattaiolò fuori. La luna splendeva chiara e i ciottoli bianchi rilucevano come monete nuove di zecca. Hansel si chinò, ne ficcò nella taschina della giacca quanti potè farne entrare e se ne tornò a casa. Consolati Grethel e riposa tranquilla- disse; si rimise di nuovo a letto e si addormentò. 58 Allo spuntar del giorno, ancor prima che sorgesse il sole, la madre venne e li svegliò entrambi: -Alzatevi bambini, vogliamo andare nel bosco; qui c'è un pezzetto di pane per ciascuno di voi, ma siate saggi e conservatelo per mezzogiorno-. Grethel mise il pane sotto il grembiule perché Hansel aveva le pietre in tasca, poi si incamminarono verso il bosco. Quando ebbero fatto un pezzetto di strada: Hansel si fermò e si volse a guardare la casa; così fece per più volte. Il padre disse: -Hansel, che cos'è che ti volti a guardare e perché‚ ti fermi? Su, muoviti!-. -Ah, babbo, guardo il mio gattino bianco che è sul tetto e vuole dirmi addio.- Disse la madre: -Ehi, sciocco, non è il tuo gattino, è il primo sole che brilla sul comignolo-. Hansel però non aveva guardato il gattino, ma aveva buttato ogni volta sulla strada uno dei sassolini lucidi che aveva in tasca. Quando giunsero in mezzo al bosco, il padre disse: -Ora raccogliete legna, bambini, voglio accendere un fuoco per non gelare-. Hansel e Grethel raccolsero rami secchi e ne fecero un mucchietto. Poi accesero il fuoco e quando la fiamma si levò alta, la madre disse: -Adesso stendetevi accanto al fuoco e dormite, noi andiamo a spaccare legna nel bosco; aspettate fino a quando non torniamo a prendervi-. Hansel e Grethel rimasero accanto al fuoco fino a mezzogiorno, poi ciascuno mangiò il proprio pezzetto di pane. Credevano che il padre fosse ancora nel bosco perché‚ udivano i colpi d'accetta; invece era un ramo che egli aveva legato a un albero e che il vento sbattéva di qua e di là. Così attesero fino a sera, ma il padre e la madre non tornavano e nessuno veniva a prenderli. Quando fu notte fonda Grethel incominciò a piangere, ma Hansel disse: -Aspetta soltanto un poco, finché‚ sorga la luna-. E quando la luna sorse, prese Grethel per mano; i ciottoli brillavano come monete nuove 59 di zecca e indicavano loro il cammino. Camminarono tutta la notte e quando fu mattina giunsero alla casa patema. Il padre si rallegrò di cuore quando vide i suoi bambini, poiché gli era dispiaciuto doverli lasciare soli; la madre finse anch'essa di rallegrarsi, ma segretamente ne era furiosa. Non passò molto tempo e il pane tornò a mancare in casa, e Hansel e Grethel udirono una sera la madre che diceva al padre: -Una volta i bambini hanno ritrovato il cammino e io ho lasciato correre: ma adesso non c'è di nuovo più niente, rimane solo una mezza pagnotta in casa; devi condurli domani più addentro nel bosco, perché non ritrovino la strada: per noi non c'è altro rimedio-. L'uomo si sentì stringere il cuore e pensò: "Sarebbe meglio se dividessi l'ultimo boccone con i tuoi bambini". Ma siccome aveva già ceduto una volta, non potè dire di no. Quando i bambini ebbero udito quel discorso, Hansel si alzò per raccogliere di nuovo i ciottoli, ma quando giunse alla porta, la madre l'aveva chiusa. Tuttavia consolò Grethel e disse: -Dormi, cara Grethel, il buon Dio ci aiuterà-. Allo spuntar del giorno ebbero il loro pezzetto di pane, ancora più piccolo della volta precedente. Per strada Hansel lo sbriciolò in tasca; si fermava sovente e gettava una briciola per terra. -Perché‚ ti fermi sempre, Hansel, e ti guardi intorno?- disse il padre. -Cammina!- -Ah! Guardo il mio piccioncino che è sul tetto e vuole dirmi addio.- Sciocco- disse la madre -non è il tuo piccione, è il primo sole che brilla sul comignolo.- Ma Hansel sbriciolò tutto il suo pane e gettò le briciole per via. La madre li condusse ancora più addentro nel bosco, dove non erano mai stati in vita loro. Là dovevano di nuovo sedere accanto al fuoco e dormire e alla sera i genitori sarebbero venuti a prenderli. A mezzogiorno Grethel divise il proprio pane con Hansel, che 60 aveva sparso tutto il suo per via. Ma passò mezzogiorno e passò anche la sera senza che nessuno venisse dai poveri bambini. Hansel consolò Grethel e disse: -Aspetta che sorga la luna: allora vedrò le briciole di pane che ho sparso; ci mostreranno la via di casa-. La luna sorse, ma quando Hansel cercò le briciole non le trovò: i mille e mille uccellini del bosco le avevano viste e le avevano beccate. Hansel pensava di trovare ugualmente la via di casa e si portava dietro Grethel, ma ben presto si persero nel grande bosco; camminarono tutta la notte e tutto il giorno, poi si addormentarono per la gran stanchezza. Poi camminarono ancora tutta una giornata, ma non riuscirono a uscire dal bosco, e avevano tanta fame, perché‚ non avevano nient'altro da mangiare che un po' di bacche trovate per terra. Il terzo giorno, quand'ebbero camminato fino a mezzogiorno, giunsero a una casina fatta di pane e ricoperta di focaccia, con le finestre di zucchero trasparente. -Ci siederemo qui e mangeremo a sazietà- disse Hansel. -Io mangerò un pezzo di tetto; tu, Grethel, mangia un pezzo di finestra: è dolce.Quando Grethel incominciò a rosicchiare lo zucchero, una voce sottile gridò dall'interno:-Chi mi mangia la casina zuccherosa e sopraffina?-I bambini risposero:-E' il vento che piega ogni stelo, il bel bambino venuto dal cielo.- E continuarono a mangiare. Grethel tirò fuori tutto un vetro rotondo e Hansel staccò un enorme pezzo di focaccia dal tetto. Ma d'un tratto la porta della casa si aprì e una vecchia decrepita venne fuori piano piano. Hansel e Grethel si spaventarono tanto che lasciarono cadere quello che avevano in mano. Ma la vecchia scosse il capo e disse: -Ah, cari bambini, come siete giunti fin qui? Venite dentro con 61 me, siete i benvenuti-. Prese entrambi per mano e li condusse nella sua casetta. Fu loro servita una buona cena, latte e frittelle, mele e noci; poi furono preparati due bei lettini bianchi, e Hansel e Grethel si coricarono e pensavano di essere in Paradiso. Ma la vecchia era una strega cattiva che attendeva con impazienza l'arrivo dei bambini e, per attirarli, aveva costruito la casetta di pane. Quando un bambino cadeva nelle sue mani, lo uccideva, lo cucinava e lo mangiava; e per lei quello era un giorno di festa. Era proprio felice che Hansel e Grethel fossero capitati lì. Di buon mattino, prima che i bambini fossero svegli, ella si alzò, andò ai loro lettini, e quando li vide riposare così dolcemente, si rallegrò e mormorò fra s‚: -Saranno un buon bocconcino per me!-. Poi afferrò Hansel e lo rinchiuse in una stia. Quando questi si svegliò, si trovò circondato da una grata, come un pollo da ingrassare, e poteva fare solo pochi passi. Poi la vecchia svegliò Grethel con uno scossone e le gridò: -Alzati, poltrona, prendi dell'acqua e vai in cucina a preparare qualcosa di buono; tuo fratello è là nella stia e voglio ingrassarlo per poi mangiarmelo; tu devi dargli da mangiare-. Grethel si spaventò e pianse, ma dovette fare quello che voleva la strega. Ora ad Hansel venivano cucinati ogni giorno i cibi più squisiti, poiché‚ doveva ingrassare; Grethel invece non riceveva altro che gusci di gambero. Ogni giorno la vecchia veniva e diceva: -Hansel, sporgi le dita, che senta se presto sarai grasso-. Ma Hansel, che si era accorto che la strega non ci vedeva bene, le sporgeva sempre un ossicino ed ella si meravigliava che non volesse proprio ingrassare. Dopo quattro settimane, una sera disse a Grethel: -Vai a prendere dell'acqua, svelta; grasso o magro che sia, domani ammazzerò il tuo fratellino e lo cucinerò; 62 nel frattempo mi metterò a impastare il pane da cuocere nel forno-. Con il cuore grosso, Grethel portò l'acqua nella quale doveva essere cucinato Hansel. Dovette poi alzarsi di buon mattino, accendere il fuoco e appendere il paiolo pieno d'acqua. -Ora fa' attenzione- disse la strega. -Accendo il fuoco nel forno per cuocere il pane.- Grethel era in cucina e piangeva a calde lacrime mentre pensava: "Ci avessero divorato le bestie feroci nel bosco! Almeno saremmo morti insieme senza dover sopportare questa pena, e io non dovrei far bollire l'acqua che deve servire per la morte di mio fratello. Buon Dio, aiuta noi, miseri bambini!- La vecchia gridò: -Grethel, vieni subito qui al forno!- e quando Grethel arrivò, disse: -Dai un'occhiata dentro se il pane è ben cotto e dorato; i miei occhi sono deboli e io non arrivo a vedere fin là. E se anche tu non ci riesci, siediti sull'asse: ti spingerò dentro, così potrai controllare meglio-. Ma la perfida strega aveva chiamato Grethel perché‚ pensava, una volta spintala dentro al forno, di chiuderlo e di farla arrostire per mangiarsi pure lei. Ma Dio ispirò alla fanciulla un'idea, ed ella disse: -Non so proprio come fare, fammi vedere tu per prima: siediti sull'asse e io ti spingerò dentro-. La vecchia si sedette e, siccome era leggera, Grethel potè spingerla dentro, il più in fondo possibile; poi chiuse in fretta la porta e mise il paletto di ferro. Allora la vecchia incominciò a gridare e a lamentarsi nel forno bollente, ma Grethel corse via, da Hansel, non prima di aver gettato un secchio d’acqua fredda sul fuoco, per spegnerlo, affinché la strega fosse prigioniera, ma non rischiasse di essere bruciata. Andò da Hansel, gli aprì la porticina della gabbia e gridò: Salta fuori, Hansel, siamo liberi!-. Allora Hansel saltò fuori, 63 come un uccello quando gli aprono la gabbia. Ed essi piansero di gioia e si baciarono. “Dov’è la strega cattiva?” chiese Hansel “L’ho chiusa dentro il forno, però ho spento il fuoco, per non ucciderla” rispose Grethel. “Già. Non possiamo lasciarla morire”, sospirò Hansel, “altrimenti diventeremmo come lei”. “Già” ne convenne Grethel, “ma se apriremo il forno lei ci farà nuovamente prigionieri, con qualche incantesimo dei suoi”. Mentre riflettevano sul da farsi, un corvo dal piumaggio nero e luminoso entrò nella casetta ed esclamò: “Lasciate che mi presenti, ragazzi miei. Sono Mastro Corvo, messaggero alato del bosco. Passando da queste parti ho per caso udito la vostra conversazione. Penso che per una questione così delicata potreste rivolgervi al grande Faggio. E’ lui che più d’ogni altro conosce la legge, qui nel bosco, lui saprà decidere con equità sul da farsi.” “E dove si trova il Faggio di cui parli?” chiese Hansel. “Venite con me, vi ci condurrò io”. Il corvo li guidò nel bosco e, non molto lontano dalla casetta, nel bel mezzo d’una radura, s’ergeva il saggio albero, vigile, coi suoi lunghi rami eretti verso il cielo. Come s’appressarono, egli li apostrofò: “Cosa vi mena al mio cospetto, fanciulli?” La sua voce era calda e gentile. Mastro Corvo s’andò ad appollaiare su un suo ramo in alto in alto e gli sussurrò tutta la vicenda dei due fratellini. Il Faggio si commosse e li spruzzò tutti con la sua magica polverina, in segno di solidarietà. Poi si mise a pensare a cosa fare con la strega. Voleva che smettesse di mangiare bambini e di far loro tanta paura, ma mai l’avrebbe uccisa. Così parlò: “Bambini, Mastro Corvo, ecco la mia decisione: la strega deve stare in un posto dove non possa nuocere al alcuno, per molti anni. Il posto migliore è per il momento dentro il 64 mio tronco, ove potrò prendermi personalmente cura di lei. Non esistono persone cattive, solo persone che la sofferenza ha reso cattive. Se lei un giorno parlerà del suo dolore, forse smetterà di odiare tanto i bambini.”. “Anche la nostra mamma lo diceva sempre” sussurrò Grethel. “Qual è il suo dolore, grande Faggio?” chiese Hansel, che aveva intuito qualcosa,“E’ una vecchia storia” proseguì Faggio. “Ella venne abbandonata dai suoi egoisti genitori nel bosco da piccina, proprio come voi, venne rapita da una strega cattiva che poi morì e dalla quale ella ereditò il librone degli incantesimi. Così visse da sola nel bosco, cercando di sopravvivere alla miseria, ai brutti ricordi e alla solitudine”. “Niente di strano se si comporta così male, allora”, concluse tutta seria Grethel, rivelando il suo animo nobile. “Quanto a voi, bambini, se vi piacerà, potrete restare nella casetta del bosco. Io, Mastro Corvo e tutti gli amici del bosco ci prenderemo cura di voi. Inoltre, tutta la casetta è piena di perle e di pietre preziose: quelle basteranno a farvi vivere agiatamente. Infine, c’è una scorciatoia, dietro la casa, che arriva dritta dritta fino al villaggio, dove potrete andare a scuola. “Sììì!!” Strillarono in coro Hansel e Grethel. Così venne deciso, e, tutti insieme, Faggio, Mastro Corvo, gli amici del bosco, Hansel e Grethel cominciarono la loro nuova felice vita insieme. Dall'originale dei Fratelli Grimm 65 BABA – JAGA C'erano un tempo un uomo e una donna. L'uomo rimase vedovo e sposò un'altra donna; ma dalla prima moglie aveva avuto una figlia. La cattiva matrigna non voleva bene alla figliastra, la batteva e pensava come poteva fare per liberarsene del tutto. Un giorno il padre partì, e la matrigna disse alla bambina: "Va' da tua zia, mia sorella, e chiedile ago e filo, per cucirti una camicetta". Ma questa zia era una "baba-jaga", gamba d'osso. Però la bambina non era stupida, e andò prima da un'altra zia, sorella della sua vera madre. "Buongiorno, zietta!" "Buongiorno, cara! Qual buon vento ti porta?" "La mia matrigna mi ha detto di andare da sua sorella a chiedere ago e filo, per cucirmi una camicetta." La zia le disse: "Nipotina mia, là dove andrai ci sarà una betulla che vorrà graffiarti sugli occhi: tu legala con un nastrino; ci sarà un portone che cigolerà e vorrà sbatterti in faccia: tu versagli un po' d'olio sui cardini, ci saranno dei cani che vorranno morderti: tu getta loro del pane; e un gatto vorrà cavarti gli occhi: tu dagli un po' di prosciutto". La bambina andò: eccola che cammina, cammina e finalmente arriva. C'era una capanna; dentro, la "baba-jaga" gamba d'osso, seduta, fila. "Buongiorno, zietta!" "Buongiorno, carina!" "Mi ha mandato da te la mamma a chiederti ago e filo, per cucirmi una camicetta." "Benissimo, intanto, mettiti a filare." 66 Ecco che la bambina si sedette al telaio, mentre la "babajaga" uscì e disse alla sua aiutante: "Va', scalda il bagno e lava la mia nipotina, ma bada di farlo per benino: me la voglio mangiare per colazione". La bambina se ne restò seduta più morta che viva, tutta spaventata, e pregò l'aiutante: "Non accendere più legna dell'acqua che versi, e l'acqua portala con un setaccio", e le regalò un fazzoletto. La "baba-jaga" aspettava; poi andò alla finestra e domandò: "Stai filando, nipotina, stai filando mia piccina?" "Sto filando, cara zia, sto filando". La "baba-jaga" si allontanò e la bambina diede il prosciutto al gatto e gli chiese: "Non si può fuggire di qui in qualche modo?" "Eccoti un pettinino e un asciugamano" disse il gatto, "prendili e scappa; la "baba-jaga" ti inseguirà, ma tu poggia l'orecchio a terra e appena senti che s'avvicina, getta via prima l'asciugamano: nascerà un fiume, largo largo; se la "baba-jaga" riuscirà ad attraversarlo e ricomincerà ad inseguirti, tu poggia di nuovo l'orecchio al suolo e, quando senti che s' avvicina, getta il pettinino:n nascerà un bosco, fitto fitto; quello non potrà oltrepassarlo davvero!" La bambina prese l'asciugamano e il pettinino e fuggì: i cani la volevano sbranare, ma essa gettò loro il pane, e quelli la lasciarono passare; il portone voleva sbattere e chiudersi, ma essa gli versò un po' d'olio sui cardini, e quello la lasciò passare; la betulla voleva strapparle gli occhi, ma la bambina la legò con un nastrino, e quella la lasciò andare. Intanto il gatto si mise al telaio a filare: ma, più che filare, fece un gran pasticcio! La "baba-jaga" si avvicinò alla finestra e domandò: "Stai filando, nipotina, stai filando, mia piccina?" "Sto filando, cara zia, sto filando!" rispose brusco il gatto. 67 La "baba-jaga" si precipitò nella capanna, vide che la bambina era fuggita e giù botte al gatto! Lo sgrido perché non aveva graffiato la bambina sugli occhi. "E' tanto tempo che ti servo" rispose il gatto, "e non mi hai mai dato nemmeno un ossicino; lei invece mi ha dato un pezzo di prosciutto!" La "baba-jaga" si scagliò contro i cani, il portone la betulla e l'aiutante, e giù a picchiare e a sgridare tutti! I cani le dissero: "Ti serviamo da tanto tempo e non ci hai mai dato neppure una crosta bruciacchiata; lei invece ci ha dato il pane!". La betulla disse: "E' tanto che ti servo, e non mi hai legata neppure con un filo; lei invece mi ha ornata con un nastrino". L'aiutante disse: "Ti ho servita per tanto tempo, e tu non mi hai regalato nemmeno uno straccio; lei, invece, mi ha regalato un fazzoletto". La "baba-jaga" gamba d'osso balzò rapidamente a cavallo del mortaio, lo incitò col pestello, lo guidò con la scopa e si gettò all'inseguimento della bambina. La bambina poggiò l'orecchio a terra e sentì che la "babajaga" l'inseguiva e s'avvicinava, prese l'asciugamano e lo buttò via: nacque un fiume largo largo! La "babajaga" arrivò al fiume e per la rabbia digrignò i denti, tornò a casa, prese i suoi buoi e li sospinse verso il fiume: i buoi se lo bevvero tutto. La "baba-jaga" si lanciò di nuovo all'inseguimento. La bambina poggiò l'orecchio al suolo, sentì che la "baba-jaga" era vicina, e gettò il pettinino; nacque un bosco, fitto da far paura! La "baba-jaga" cominciò a rosicchiarlo, ma, per quanto facesse, non riuscì a rosicchiarlo tutto e tornò indietro. 68 Intanto il padre era tornato a casa e aveva chiesto: "Dov'è mia figlia?" "E' andata dalla zia" aveva risposto la matrigna. Un po' più tardi tornò a casa anche la bambina. "Dove sei stata?" le chiese il padre. "Ah, piccolo padre!" dice lei, "La mamma mi ha mandato dalla zia a chiedere ago e filo, per cucirmi una camicetta, ma la zia è una "baba-jaga" e voleva mangiarmi." "Come hai fatto a scappare, figlia mia?" E la bambina raccontò l’accaduto per filo e per segno.. Il padre, quando ebbe saputo tutto, dapprima si arrabbiò con la moglie e le impose di andare in pellegrinaggio, nel bosco, dove avrebbe riflettuto sulle sue azioni e vissuto in affidamento agli spiriti di natura del luogo per tutto il tempo necessario a rinsavire. Poi pensò a quanto sconsiderata potesse essere stata da parte sua una scelta simile: come aveva fatto ad innamorarsi e a sposare una donna che sapeva amare così poco? Non sarà stato che forse anche lui era incapace d’amare, dopo la morte della sua adorata prima moglie? Cominciò a piangere, lentamente, e pianse fino a che non sentì il cuore diventare leggero. Poi abbracciò stretto stretto la figlia e le chiese perdono. Ed ella lo perdonò. Da quel giorno padre e figlia vissero sereni; a festeggiar con loro anch'io son stato, molto idromele ho bevuto; ma sui baffi m'è colato, nella bocca nulla è andato e così sobrio son restato! Evviva! Dall'originale di Nikolaj Afanasiev 69 PUCCETTINO C'era una volta un taglialegna e una taglialegna, i quali avevano sette figliuoli, tutti maschi: il maggiore aveva dieci anni, il minore sette. Farà forse caso di vedere come un taglialegna avesse avuto tanti figliuoli in così poco tempo: ma egli è, che la sua moglie era svelta nelle sue cose, e quando ci si metteva, non faceva meno di due figliuoli alla volta. E perché erano molto poveri, i sette ragazzi davano loro un gran pensiero, per la ragione che nessuno di essi era in grado di guadagnarsi il pane. La cosa che maggiormente li tormentava, era che il minore veniva su delicato e non parlava mai: e questo che era un segno manifesto di bontà del suo carattere, lo scambiavano per un segno di stupidaggine. Il ragazzo era minuto di persona; e quando venne al mondo, non passava la grossezza di un dito pollice; per cui lo chiamarono Puccettino. Capitò un'annata molto trista, nella quale la carestia fu così grande, che quella povera gente risolvettero di disfarsi de' loro figliuoli. Una sera che i bambini erano a letto, e che il taglialegna stava nel canto del fuoco, disse, col cuore che gli si spezzava, alla sua moglie: "Come tu vedi, non abbiamo più da dar da mangiare ai nostri figliuoli: e non mi regge l'animo di vedermeli morir di fame innanzi agli occhi: oramai io sono risoluto a menarli nel bosco e farveli sperdere; né ci vorrà gran fatica, perché, mentre essi si baloccheranno a far dei fastelli, noi ce la daremo a gambe, senza che abbiano tempo di andarsene". 70 "Ah!", gridò la moglie, "e puoi tu aver tanto cuore da sperdere da te stesso le tue creature?" Il marito ebbe un bel tornare a battere sulla miseria, in cui si trovavano; ma la moglie non voleva acconsentire a nessun patto. Era povera, ma era madre: peraltro, ripensando anch'essa al dolore che avrebbe provato se li avesse veduti morire di fame, finì col rassegnarvisi, e andò a letto piangendo. Puccettino aveva sentito tutti i loro discorsi: e avendo capito, dal letto, che ragionavano di affari, si levò in punta di piedi, sgattaiolando sotto lo sgabello di suo padre, per potere ascoltare ogni cosa senz'esser visto. Quindi ritornò a letto, e non chiuse un occhio nel resto della nottata, rimuginando quello che doveva fare. Si levò a giorno, e andò sul margine di un ruscello, dove si riempì la tasca di sassolini bianchi: poi chiotto chiotto se ne tornò a casa. Partirono, ma Puccettino non disse nulla ai suoi fratelli di quello che sapeva. Entrarono dentro una foresta foltissima, dove alla distanza di due passi non c'era modo di vedersi l'uno coll'altro. Il taglialegna si messe a tagliar legne, e i ragazzi a raccogliere delle frasche per far dei fastelli. Il padre e la madre, vedendoli intenti al lavoro, si allontanarono adagio adagio, finché se la svignarono per un viottolo fuori di mano. Quando i ragazzi si videro soli, si misero a strillare e a piangere forte forte. Puccettino li lasciò berciare, essendo sicuro che a ogni modo sarebbero tornati a casa; perché egli, strada facendo, aveva lasciato cadere lungo la via i sassolini bianchi che s'era messi nella tasca. "Non abbiate paura di nulla, fratelli miei", disse loro, "il babbo e la mamma ci hanno lasciati qui soli; ma io vi rimenerò a casa: venitemi dietro." 71 Essi infatti lo seguirono, ed egli li menò per la stessa strada che avevano fatta, andando al bosco. Da principio non ebbero coraggi d'entrarvi: e si misero in orecchio alla porta di casa per sentire quello che dicevano fra loro, il padre e la madre. Ora bisogna sapere che quando il taglialegna e sua moglie rientrarono in casa, trovarono che il signore del villaggio aveva mandato loro dieci scudi, di cui era debitore da molto tempo, e sui quali non ci contavano più. Questo bastò per rimettere un po' di fiato in corpo a quella povera gente, che era proprio a tocco e non tocco per morir di fame. Il taglialegna mandò subito la moglie dal macellaro. E siccome era molto tempo che non s'erano sfamati, essa comprò tre volte più di carne di quella che ne sarebbe abbisognata per la cena di due persone. Quando furono pieni, la moglie disse: "Ohimè! dove saranno ora i nostri figliuoli? se fossero qui potrebbero farsi tondi coi nostri avanzi! Ma tant'è, Guglielmo, se' stato tu che hai voluto smarrirli: ma io l'ho detto sempre che ce ne saremmo pentiti. Che faranno ora nella foresta? Ohimè! Dio mio! i lupi forse a quest'ora l'hanno bell'e divorati. Proprio non bisogna aver cuore, come te, per isperdere i figliuoli a questo modo!...". Il taglialegna perse la pazienza, perché la moglie tornò a ripetere più di venti volte che egli se ne sarebbe pentito, e che essa l'aveva di già detto e ridetto: e minacciò di picchiarla se non si fosse chetata. Questo non voleva dire che il taglialegna non potesse essere anche più addolorato della moglie; ma essa lo tormentava troppo: ed egli somigliava a tanti altri, che se la dicono molto colle donne che parlano con giudizio, ma non possono soffrire quelle che hanno sempre ragione. La taglialegna si struggeva in pianti, e seguitava sempre a dire: 72 "Ohimè! dove saranno ora i miei bambini? i miei poveri bambini?". Una volta, fra le altre, lo disse così forte, che i ragazzi, che erano dietro l'uscio, la sentirono e gridarono tutti insieme: "Siamo qui! siamo qui!". Essa corse subito ad aprir l'uscio e, abbracciandoli, disse: "Che contentezza a rivedervi, miei cari figliuoli! Chi lo sa come siete stanchi, e che fame avete! e tu, Pieruccio, guarda un po' come ti sei inzaccherato! vien qua, che ti spillaccheri". Pieruccio era il maggiore dei figliuoli e la madre gli voleva più bene che agli altri, perché era rosso di capelli come lei. Si messero a tavola e mangiarono con un appetito, che fecero proprio consolazione al babbo e alla mamma, ai quali raccontarono, parlando quasi tutti nello stesso tempo, la gran paura che avevano avuta nella foresta. Quella buona gente era tutta contenta di rivedere i figliuoli in casa; ma la contentezza durò finché durarono i dieci scudi. Quando questi finirono, tornarono al sicutera delle miserie, e allor decisero di smarrirli daccapo; e per andare sul sicuro, pensarono di condurli molto più lontani della prima volta. Peraltro di questa cosa non poterono parlarne con tanta segretezza, che Puccettino non sentisse tutto; il quale pensò di cavarsene fuori col solito ripiego: se non che, quantunque si alzasse sul far del giorno per andare in cerca di sassolini bianchi, rimase proprio come quello, e non poté far nulla, perché trovò l'uscio di casa serrato a doppia mandata. Egli non sapeva davvero che cosa stillarsi, quando ecco che la madre dette a ciascuno di loro un pezzo di pane per colazione. Allora gli venne in capo che di quel pane avrebbe potuto servirsene, invece dei sassolini, seminando i minuzzoli lungo la strada per dove sarebbero passati. E si messe il pane in tasca. 73 Il padre e la madre li condussero nel punto più folto e più oscuro della foresta: e quando ci furono arrivati, essi presero una scappatoia e via. Puccettino non se ne fece né in qua né in là, perché sapeva di poter ritrovare facilmente la strada coll'aiuto dei minuzzoli sparsi; ma figuratevi come rimase, quando si accorse che i minuzzoli glieli avevano beccati gli uccelli. Eccoli dunque tutti afflitti, perché più camminavano e più si perdevano nella foresta. Intanto si fece notte e si alzò un vento da far paura. Pareva ad essi di sentire da tutte le parti urli di lupi, che si avvicinavano per mangiarli. Non avevano fiato né per discorrere, né per voltarsi indietro. Venne poi una grand'acqua che li bagnò fin sotto la pelle: a ogni passo sdrucciolavano e cascavano nella mota: e quando si rizzavano tutti infangati, non sapevano dove mettersi le mani. Puccettino montò in cima a un albero per vedere se scuopriva paese; e guardando da ogni parte, vide un lumicino piccino, come quello di una candela, il quale era lontano lontano, molto al di là della foresta. Scese dall'albero: e quando fu in terra, non vide più nulla. Questa cosa gli diede un gran dolore. Nonostante, camminando innanzi coi suoi fratelli, verso quella parte dove aveva veduto il lumicino, finì col rivederlo da capo mentre usciva fuori del bosco. Arrivarono finalmente alla casa dove si vedeva questo lume: non senza provare delle grandi strette al cuore, perché di tanto in tanto lo perdevano di vista, segnatamente quando camminavano in qualche pianura molto bassa. Picchiarono a una porta: una buona donna venne loro ad aprire, e domandò loro che cosa volevano. Puccettino disse che erano poveri ragazzi che s'erano spersi nella foresta, e che chiedevano da dormire per amor d'Iddio. La donna, 74 vedendoli tutti così carini, si messe a piangere, e disse: "Ohimè! poveri miei figliuoli, dove siete mai capitati? Ma non sapete che questa è la casa dell'Orco che mangia tutti i bambini?". "Ah, signora", rispose Puccettino, il quale tremava come una foglia, e così i suoi fratelli. "Che cosa volete che facciamo? Se non ci pigliate in casa, è sicuro che i lupi stanotte ci mangeranno. E in tal caso, è meglio che ci mangi questo signore. Forse se voi lo pregate, potrebbe darsi che avesse compassione di noi." La moglie dell'Orco, sperando di poterli nascondere a suo marito fino alla mattina dopo, li lasciò entrare e li menò a riscaldarsi intorno a un buon fuoco, dove girava sullo spiede un montone tutt'intero, che doveva servire per la cena dell'Orco. Mentre cominciavano a riscaldarsi, sentirono battere tre o quattro colpi screanzati alla porta. Era l'Orco che tornava. In men d'un baleno, la moglie li nascose tutti sotto il letto ed andò ad aprire. L'Orco domandò subito se la cena era lesta e il vino levato di cantina: e senza perder tempo si mise a tavola. Il montone non era ancora cotto e faceva sempre sangue, e per questo gli parve anche più buono. Poi, fiutando di qua e di là, cominciò a dire che sentiva odore di carne viva. "Sarà forse", disse la moglie, "quel vitello che ho spellato or ora, che vi mette per il naso quest'odore." "E io dico che sento l'odore di carne viva", riprese l'Orco guardando la moglie di traverso, "e qui ci deve essere qualche sotterfugio!..." Nel dir così si alzò da tavola e andò difilato verso il letto. "Ah!", egli gridò, "tu volevi dunque ingannarmi, brutta strega? Non so chi mi tenga dal fare un boccone anche di te. Buon per te, che sei vecchia e tigliosa! Ecco qui della selvaggina, che mi capita in buon punto per far trattamento a tre Orchi miei amici, che verranno da me 75 in questi giorni." E li tirò fuori di sotto il letto, uno dietro l'altro. Quei poveri bambini si buttarono in ginocchio, chiedendogli perdono, ma avevano da fare col più crudele di tutti gli Orchi, il quale, facendo finta di sentirne compassione, li mangiava di già cogli occhi prima del tempo, dicendo alla moglie che sarebbero stati una pietanza delicata, in specie se gli avesse accomodati con una buona salsa. Andò a prendere un coltellaccio, e avvicinandosi a quei poveri figliuoli, lo affilava sopra una lunga pietra che egli teneva nella mano sinistra. E ne aveva già agguantato uno, quando la moglie gli disse: "Che ne volete voi fare a quest'ora? non sarebbe meglio aspettare a domani?". "Chetati, te!", riprese l'Orco. "Così saranno più frolli." "Ma ve ne avanza ancora tanta della carne! C'è qui un vitello, un montone e un mezzo maiale..." "Hai ragione", disse l'Orco, "rimpinzali dunque per bene, perché non abbiano a smagrire, e portali a letto." Quella buona donna, fuor di sé dalla contentezza, dette loro da cena: ma essi non poterono mangiare a cagione della gran paura che avevano addosso. In quanto all'Orco, ricominciò a bere, soddisfattissimo di aver trovato di che regalare ai suoi amici. Vuotò una dozzina di bicchieri di più del solito, finché il vino gli die' al capo e fu obbligato ad andare a letto. L'Orco aveva sette figliuole, che erano sempre bambine, le quali erano tutte di un bel colorito, perché, come il padre, si cibavano di carne cruda; ma avevano degli occhiettini grigi e tondi, e il naso a punta e una bocca larghissima, con una rastrelliera di denti lunghi, affilati e staccati l'uno dall'altro. Non erano ancora diventate cattive: ma promettevano bene, perché di già mordevano i fanciulli per succhiare il sangue. Le avevano mandate a dormire di buon'ora, ed erano tutte e sette in un gran letto, ciascuna con una corona d'oro sulla testa. Nella stessa camera c'era un altro letto della medesima grandezza. 76 Fu appunto in questo letto che la moglie dell'Orco messe a dormire i sette ragazzi; e dopo andò a coricarsi accanto a suo marito. Puccettino, che s'era avviso che le figlie dell'Orco portavano una corona d'oro in capo, e che aveva sempre paura che l'Orco non si ripentisse di averli sgozzati subito, si levò verso mezzanotte, e prendendo i berretti dei fratelli ed il suo, andò pian pianino a metterli sul capo delle sette figlie dell'Orco, dopo aver loro levata la corona d'oro, che pose sul capo suo e de' suoi fratelli, perché l'Orco li scambiasse per le proprie figlie, e pigliasse le sue figlie per i fanciulli che voleva sgozzare. E la cosa andò appuntino com'egli se l'era figurata; perché l'Orco, svegliatosi sulla mezzanotte, si pentì di aver differito al giorno dopo quello che poteva aver fatto la sera stessa. Saltò dunque il letto bruscamente, e prendendo il coltellaccio: "Andiamo un po' a vedere", disse, "come stanno queste birbe; e facciamola finita una volta per tutte". Quindi salì a tastoni nella camera delle sue figlie, e si avvicinò al letto dove erano i ragazzi, i quali dormivano tutti, meno Puccettino, che ebbe una gran paura quando sentì l'Orco che gli tastava la testa, come l'aveva già tastata ai suoi fratelli. L'Orco sentendo la corona d'oro, disse: "Ora la facevo bella davvero! Si vede proprio che ieri sera ne ho bevuto mezzo dito di più". Allora andò all'altro letto, e avendo sentito i berretti dei ragazzi: "Eccoli", disse, "questi monellacci! Lavoriamo di fine". E nel dir così, senza esitare, tagliò la gola alle sue sette figliuole. Contentissimo del fatto suo, andò di nuovo a coricarsi accanto alla moglie. Appena che Puccettino sentì l'Orco che russava, svegliò i suoi fratelli e disse loro di vestirsi subito e di seguirlo. Scesero in punta di piedi nel giardino e 77 scavalcarono il muro. Corsero a gambe quasi tutta la notte, tremando come foglie, e senza sapere dove andavano. Quando l'Orco si svegliò, disse alla moglie: "Va' un po' a vestire quei monelli di ieri sera". L'Orchessa restò molto meravigliata della bontà insolita di suo marito, e non le passò neanche dalla mente che per vestirli egli volesse intendere un'altra cosa, credendo in buona fede di doverli andare a vestire. Salì dunque di sopra, e rimase senza fiato in corpo, vedendo le sue sette figliuole scannate e immerse nel proprio sangue. Cominciò subito dallo svenirsi, essendo questo il primo espediente, a cui in simili casi ricorrono tutte le donne. L'Orco, temendo che la moglie non mettesse troppo tempo a far quello che le aveva ordinato, salì di sopra anche lui per darle una mano; e non rimase meno sconcertato alla vista di quello spettacolo orrendo. "Ah! che ho mai fatto?", gridò. "Ma quei disgraziati me la pagheranno, e subito!" E senza mettere tempo in mezzo, gettò una brocca d'acqua sul naso della moglie, e così avendola fatta tornare in sé: "Dammi subito", disse, "i miei stivali di sette chilometri, perché io li voglio raggiungere". E uscì fuori all'aperta campagna, e dopo aver corso di qua e di là, finalmente infilò la strada che battevano per l'appunto quei poveri ragazzi, che erano forse distanti non più di cento passi dalla casa paterna. Essi videro l'Orco che passava di montagna in montagna, traversando i fiumi colla stessa facilità come se fossero stati rigagnoli. Puccettino avendo occhiata una roccia incavata, lì vicino al luogo dove si trovavano, vi fece nascondere i sei fratelli, e vi si nascose anch'esso, senza perdere peraltro di vista tutte le mosse dell'Orco. L'Orco che cominciava a sentirsi rifinito dalla strada fatta (perché gli stivali di sette chilometri son molto faticosi per 78 chi li porta), pensò di ripigliar fiato, e il cielo volle che andasse per l'appunto a sedersi sopra la roccia, dove quei ragazzi si erano nascosti. E siccome era stanco morto, dopo essersi sdraiato si addormentò, e si messe a russare con tanto fracasso, che i poveri ragazzi ebbero la stessa paura di quando lo videro col coltellaccio in mano, in atto di far loro la festa. Ma Puccettino non ebbe tutta questa paura, e disse ai fratelli di scappare a gambe verso casa, mentre l'Orco dormiva come un ghiro; e di non stare in pena per lui. Essi non se lo fecero dir due volte, e in pochi minuti arrivarono a casa. Puccettino intanto si avvicinò all'Orco: gli levò adagino gli stivali, e se l'infilò per sé. Questi stivali erano molto grandi e molto larghi, ma perché eran fatati, avevano la virtù d'ingrandirsi e di rimpicciolirsi, secondo la gamba di chi li calzava: per cui, gli tornavano precisi, come se fossero stati fatti per il suo piede. Eglì andò di carriera alla casa dell'Orco, dove trovò la moglie che piangeva per le figlie uccise. "Vostro marito", le disse Puccettino, "si trova in un gran pericolo: è cascato fra le mani di una banda di assassini, che hanno giurato di ucciderlo, se non consegna loro tutto il suo oro e il suo argento. Mentre gli stavano col pugnale alla gola, esso mi ha visto, e mi ha pregato di venir qui per avvertirvi della sua trista condizione e per invitarvi a darmi tutto quello che egli possiede di prezioso, senza ritenervi nulla, perché caso diverso, lo uccideranno senz'ombra di misericordia. E siccome il tempo stringe, egli ha voluto che prendessi i suoi stivali di sette chilometri, come vedete, e non solo perché mi spicciassi, ma anche perché possiate accertarvi che non sono un imbroglione." La buona donna, tutta spaventata, gli diede ogni cosa che aveva; perché l'Orco, in fin dei conti, era un buon marito, quantunque fosse ghiotto di bambini. Puccettino, col carico 79 addosso di tutte le ricchezze dell'Orco, tornò a casa del padre, dove fu accolto con grandissima festa. C'è per altro della gente che non crede che la cosa finisse così; e pretendono che Puccettino non commettesse mai questo furto a danno dell'Orco: e che solo non si facesse scrupolo di prendergli gli stivali di sette chilometri, perché egli se ne serviva unicamente per dare la caccia ai ragazzi. Questi tali accertano di aver saputo la verità proprio sul posto, per essersi trovati a mangiare e bere nella locanda vicina alla stessa casa del taglialegna. Raccontano, dunque, che quando Puccettino ebbe infilato gli stivali dell'Orco, si diresse pel bosco alla ricerca d’altri sfortunati come lui e i suoi fratelli, abbandonati da genitori troppo egoisti per meritare dei bambini tanto buoni e gentili. Lui e codesti altri infatti, s’andavano a sostenere che la fame non ti può mai far abbandonare quelli che ami e non v’è ragione che tenga, non mariti violenti o fami nere, no niente, semmai ci può essere un impegno chiesto ai figli di lavorare tutti, o magari farne un po’ meno di sette alla volta, chissà. Così, radunati i ragazzi ramenghi del bosco, questa gente raccontava ch’essi costruirono prima una spelonca, poi una casa vera e propria, con dei magnifici giardini, che fosse da riparo e usbergo per tutti. Le regole che la governavano erano Accoglienza e Lavoro: ciascuno di essi, a turno, indossava i famosi coturni e prestava servigi, ora al re, ora ai principi, ora alla gente del paese, come postino e ambasciatore. Col danaro ricavato si mandava tutti avanti La Casa di Puccettino, con gli agi necessari sì, ma soprattutto con tanto amore, perché è proprio detto che questi ragazzini si prodigavano per far sentire ben accolti i 80 nuovi arrivati, per rassicurarli ed insegnar loro nuovamente la fiducia nel prossimo. Puccettino, dal canto suo, andò alla casa del padre a riprendere i fratelli ed essi lo seguirono di buon grado. A nulla valsero le lacrime della madre: “Potevi pensarci prima di abbandonarci”, le risposero. “E’ stato vostro padre!” urlò disperata la meschina. “Potevi decidere di restare con noi nel bosco se lui ti faceva tanta paura da non poterti opporre alla sua sventata decisione” ribattè Pieruccio, quello rosso di capelli come lei. “Ma saremmo morti di fame e di stenti” si lagnò quella. “Ti sembriamo morti noi?!” le chiesero, ma non era una domanda vera. Detto questo si voltarono tutti, chiusero la porta e non tornarono più. Però quella gente diceva anche che, raggiunta la maggiore età, Puccettino avesse perdonato alla madre e al padre l’orribil gesto commesso, s’era addivenuto a pensare, a cagione dell’ignoranza. “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”, raccontano fosse solito ripetere ai nuovi trovatelli che bussavano alla sua porta, sorridendo, usando le parole di Nostro Signore Gesù, mentre piantava carote nell’orto. La storia di questo piccolo eroe, che i francesi chiamano Petit Poucet, perché era grande appena come il dito pollice, è stata forse inventata apposta per dar ragione e autorità a quell'antico proverbio che dice: "Gli uomini non si misurano a canne!" Dall'originale di Perrault tradotto da Collodi 81 L'ACCIARINO Per la strada maestra veniva marciando un soldato: Uno, due! Uno, due! - Aveva sulle spalle il suo bravo zaino e al fianco la spada, perchè era stato alla guerra ed ora se ne tornava a casa sua. Sulla strada maestra, s'imbattè in una vecchia strega, brutta da far paura, col labbro inferiore che le pendeva giù sino a mezzo il petto. Disse la strega: «Buona sera, soldato! Che bella spada tu hai! e che zaino! Sei proprio un vero soldato! E io ti dico che avrai tanto danaro quanto mai ne puoi desiderare.» «Grazie tante, vecchia strega!» - disse il soldato. «Vedi quel grosso albero?» - disse la strega, e accennava ad uno di quelli che fiancheggiavano la strada: «Dentro è tutto vuoto. Se tu sali sino alla vetta, vedrai un buco, per il quale ti puoi calar giù in fondo all'albero. Ti legherò una corda alla cintola per tirarti su quando chiamerai.» «Bene: e che ci avrei da fare giù, dentro all'albero?» domandò il soldato. «Che ci avresti da fare? Toh! Prenderti il danaro!» rispose la strega. «Hai da sapere che appena sarai in fondo al tronco, ti troverai in un ampio sotterraneo; ma laggiù, però, è chiaro come di giorno, perchè ci ardono più di cento lampade. Là vedrai tre porte: padrone tu di aprirle, perchè le chiavi son nella toppa. Se vai nella prima stanza, vedrai in mezzo dell'impiantito un grande scrigno: su questo scrigno sta accovacciato un cane con un par d'occhi grandi come scodelle. Ma non te ne devi fare nè in qua nè in là. Ti darò il mio grembiale di rigatino, e tu stendilo per terra; poi, va' diritto al cane, prendilo e posalo sul grembiale; apri lo scrigno, e togline quanto danaro vuoi: è tutto rame sonante. Se però preferisci l'argento, non hai che da andare nella seconda stanza. Là ci sta un cane, che ha un par d'occhi 82 grandi come le mole da molino; ma tu a questo non hai da badare: posalo sopra il mio grembiale, e prenditi quanto danaro vuoi. Che se poi, invece, tu vuoi oro, ne trovi quanto ne puoi portare e molto più; basta tu vada nella terza stanza. Solo che il cane, il quale sta sopra al terzo scrigno, ha certi occhi, che ognuno è grande come un torrione rotondo. Quello, vedi, è un cane!... Ma tu devi fare come se non fosse affar tuo. Posalo sul mio grembiale, e allora non ti farà nulla, e tu potrai prenderti tutto l'oro che vuoi.» «Eh, non mi dispiace,» - disse il soldato: «Ma a te, poi, vecchia strega, che dovrò io dare in pagamento? Perchè qualche cosa, m'immagino, tu vorrai anche per te.» «No,» - disse la strega. «Per conto mio, non voglio nemmeno un soldo. Mi basta tu mi riporti un vecchio acciarino, che la mia nonna dimenticò laggiù, l'ultima volta che ci andò.» Disse il soldato: «Bene. Legami la corda alla vita.» Disse la strega: «Eccola; e questo è il mio grembiale di rigatino.» Allora il soldato s'arrampicò sull'albero, sino su in vetta, e poi si lasciò scivolare giù per il cavo del tronco sino in fondo; ed ecco che si trovò in un vasto sotterraneo, come aveva detto la strega per l'appunto, dove ardevano più di cento lampade. Apre la prima porta. Uh, che cagnaccio! È lì accovacciato, che lo guarda fisso con un par d'occhi grandi come due scodelle. «Guardate che brava bestiola!» - disse il soldato; e lo posò sul grembiale della strega; prese tante monete di rame quante ne potè far entrare nelle tasche, richiuse lo scrigno, ci rimise sopra il cane, e passò alla seconda stanza. Ohi, là! Eccoti quest'altro cane con gli occhi grandi come mole da molino. 83 «Che c'è bisogno di guardarmi fisso a cotesto modo?» disse il soldato: «Bada che tu non abbia ad accecare!» E posò il cane sul grembiale della strega. Quando vide tutto quell'argento ch'era nello scrigno, buttò via in fretta e furia le monete di rame che aveva prese avanti, e riempì d'argento tasche e zaino. Poi andò nella terza stanza. Uh! che orrore! Quel cagnaccio aveva davvero gli occhi come torrioni, e giravano giravano come ruote. «Buona sera a lei!» - disse il soldato, e fece il saluto con la mano al cheppì, perchè una bestia simile non l'aveva mai veduta davvero. Quando l'ebbe esaminato un po' più da vicino: «Ora basta!» - disse; lo sollevò, lo mise a terra ed aperse lo scrigno. Bontà divina! Che massa d'oro c'era là dentro! Tanto da comprare tutta la città di Copenaghen e tutte le caramelle della pasticcera, e tutti i soldatini di piombo, e le fruste, e i cavalli a dondolo del mondo intero. Ah, che massa di danaro! E il soldato, via subito tutto l'argento di cui aveva riempite tasche e zaino, e dentro oro, invece! Oro in ogni tasca, nella giberna, nello zaino, nel cheppì, nelle trombe degli stivali, da per tutto, tanto che non poteva quasi più camminare. Ora sì, che ne aveva del danaro! Rimise il cane sullo scrigno, richiuse la porta, e poi gridò, affacciandosi al cavo dell'albero: «Tirami su, ohe! vecchia strega!» «L'acciarino, ce l'hai?» - domandò la strega. «Hai ragione!» - disse il soldato: «M'era proprio uscito di mente.» E andò, e lo prese. La vecchia lo tirò su, e in un momento egli fu di nuovo sulla strada maestra, con le tasche, gli stivaloni, lo zaino, il cheppì, tutti pieni d'oro. «Che vuoi tu fare di questo acciarino?» - domandò il soldato. 84 «Ciò non ti riguarda,» - rispose la strega: «Il tuo danaro, l'hai avuto: dammi dunque il mio acciarino.» «Marameo!» - fece il soldato: «O mi dici subito quel che vuoi fare, o cavo la spada e ti taglio la testa!» «No!» - disse la strega. E il soldato le tagliò la testa, e la lasciò lì sulla strada. Mise tutto il danaro nel grembiale di rigatino, ne fece un involto e se lo caricò sulle spalle; si cacciò in tasca l'acciarino, e via difilato in città. Che magnifica città era quella! Ed egli andò niente meno che alla primissima locanda, si fece dare le più belle stanze, e ordinò tutti i piatti di cui era più ghiotto; perchè, oramai, era ricco a palate, con tutto quell'oro che aveva. Il facchino della locanda, ch'ebbe a lustrargli gli stivali, li trovò, a dir vero, un po' vecchi e logori per un signore a quel modo; ma egli non aveva ancora avuto tempo per comprarsene di nuovi: il giorno dopo si procurò scarpe e vestiti adatti al suo stato. Ora, il nostro soldato era dunque divenuto un ricco signore; e la gente gli raccontava di tutte le belle cose che c'erano da vedere nella città, e del Re, e della Principessa sua figliuola, bella come il sole. «E dove si va per poterla vedere?» - domandò il soldato. «Vederla non si può, in nessun modo!» - dissero tutti a una voce. «Abita un grande castello di rame, con tante e tante cinte di muraglie e tante e tante torri: non ci può andare altri che il Re; perchè fu predetto che avrebbe sposato un soldato semplice, ed il Re non può tollerare una cosa simile.» «Mi piacerebbe di vederla!» - pensò il soldato; ma, naturalmente, non c'era da ottenere permessi. Intanto, passava allegramente le sue giornate: andava a teatro ogni sera, puntualmente; girava in carrozza per i 85 giardini reali, e dava molto danaro ai poveri; e qui, almeno, faceva bene. Non aveva mica dimenticato i giorni della sua prima giovinezza, nè quel che voglia dire essere senza un soldo. Era ricco ora, e aveva bei vestiti, e s'era fatto molti amici, i quali tutti dicevano ch'era un bravo giovanotto e un vero gentiluomo: e ciò al soldato faceva molto piacere. Siccome, però, danaro ne spendeva ogni giorno e mai ne guadagnava, si trovò ridotto, una bella mattina, a non aver più che due soldi; e così dovette sloggiare dall'elegante quartiere che aveva abitato sino allora, e andar a stare in uno sgabuzzino sotto il tetto; e gli toccò lustrarsi da sè gli stivali, e ogni tanto darvi anche qualche punto con un ago da stuoie. Gli amici non venivano più a trovarlo, perchè c'era da salir troppe scale. Una sera, ch'era buio pesto ed egli non aveva nemmeno di che comprarsi un mozzicone di candela, si rammentò a un tratto d'un pezzetto d'esca, il quale doveva essere ancora nella scatola dell'acciarino, da quel giorno che l'aveva portato su dal cavo dell'albero, dove la strega lo aveva mandato. Cavò fuori esca e acciarino; ma proprio nel momento che, battendo sulla pietra focaia, ne faceva sprizzare la scintilla, eccoti che si spalanca la porta, e gli si presenta quel cane che aveva un par d'occhi grandi come due scodelle, quello ch'egli aveva veduto nel sotterraneo, e gli dice: «Che mi comanda il mio Padrone?» «Che affare è questo?» - disse il soldato: «Ecco un curioso acciarino, d'un genere che non mi dispiace, se battendolo posso avere tutto quello che voglio! - Portami un po' di danaro!» - disse al cane; e il cane, vssst! via come il vento; e vssst! rieccotelo con una grossa borsa tra i denti, tutta piena di danaro. Il soldato sapeva ora che meraviglioso acciarino fosse quello. Se batteva un colpo solo, subito veniva il cane che 86 stava sullo scrigno delle monete di rame; se batteva due colpi, veniva quello ch'era a guardia dell'argento; se ne batteva tre, veniva quello ch'era a guardia dell'oro. - E allora il soldato tornò nel bel quartierino di prima, tornò ben vestito; e allora tutti i suoi buoni amici lo riconobbero subito, perchè, già, gli volevano un mondo di bene. Un giorno disse tra sè: «È curiosa che non si possa mai arrivare a vederla, questa Principessa. Dicono tutti che sia tanto bella... Ma a che serve, se ha da star sempre rinchiusa nel castello di rame dalle mille torri? Che non m'abbia a riuscire di vederla una volta? Dov'è il mio acciarino?» Battè sulla pietra focaia, e vssst! eccoti il cane con gli occhi grandi come due scodelle. «Veramente, è quasi mezzanotte,» - disse il soldato: «ma pure mi piacerebbe di vedere la Principessa, non fosse che per un minuto.» Non aveva finito di dirlo, che il cane, via di corsa! era bell'e fuor dell'uscio; e prima che il soldato se n'avvedesse, era già di ritorno con la Principessa. Essa gli stava seduta sul dorso e dormiva: non c'era da sbagliarla; si vedeva subito ch'era una vera Principessa, tanto era bella. Il soldato non potè far a meno di darle un bacio: non si è soldati per nulla. Ma il cane tornò via di corsa con la Principessa. La mattina dopo, mentre il Re e la Regina erano a colazione, la Principessa raccontò uno strano sogno, che aveva fatto la notte prima, di un cane e di un soldato, - di un cane ch'era venuto a prenderla, e di un soldato che l'aveva baciata. «Non ci mancherebbe altro!» - esclamò la Regina. E fu ordinato ad una vecchia dama di corte di montare la guardia, la notte dopo, presso al letto della Principessa, 87 per vedere se si trattasse veramente d'un sogno, o che altro potesse mai essere. Il soldato si struggeva dal desiderio di rivedere un'altra volta la Principessa; e così, il cane tornò nella notte, la prese, e via di corsa, più presto che potè. Ma la vecchia dama si mise le galosce, e corse quanto il cane. Quando l'ebbe visto entrare in un gran casamento, pensò: «Ora, so io dov'è!» - e con un pezzetto di gesso fece una croce sulla porta; poi andò a casa, e si coricò. Intanto il cane tornò con la Principessa; ma quando vide che sull'uscio della casa dove abitava il soldato c'era una croce, prese anch'esso un pezzetto di gesso e fece tanto di croci, su tutti gli usci della città. E fu una bella trovata, perchè così la dama non poteva più riconoscere l'uscio del soldato, se tutti gli usci avevano la loro croce. La mattina all'alba, eccoti il Re e la Regina, con la vecchia dama di corte e tutti gli ufficiali, venuti a vedere dove fosse stata la Principessa. «Ci siamo!» - disse il Re, quando vide il primo uscio con la croce di gesso. «No, caro marito; è qui!» - disse la Regina, additando un altr'uscio, dove c'era pure una croce. «Ma ce n'è una anche lì! E un'altra lì!» - gridarono tutti, perchè, da qualunque parte si volgessero, tutti gli usci avevano la loro croce. E così videro ch'era inutile continuare le ricerche, perchè non sarebbero approdate a nulla. La Regina, però, era una donna molto accorta, una donna fuor del comune, la quale sapeva fare qualche cosa di più che andare attorno in carrozza. Prese le sue forbicione d'oro, tagliò un bel pezzetto di broccato, ne fece un bel sacchettino, lo riempì di fior di farina fine fine, e lo appese sulla schiena della Principessa; e poi, nel fondo del sacchetto, fece un forellino, così che la farina si avesse a spargere per tutto dove la Principessa passava. 88 La notte, il cane tornò, prese la Principessa, e via dal soldato, il quale le voleva oramai molto bene, ed era molto dispiacente di non essere principe e di non poterla sposare. Il cane non si avvide della farina, che s'era sparsa per tutta la strada, dal castello sin sotto alla finestra del soldato, dove aveva dato la scalata al muro, sempre reggendo la Principessa sul dorso. E così, al mattino, il Re e la Regina vennero a risapere dove la loro figliuola fosse stata; e il soldato fu preso e messo in prigione. E in prigione gli toccò stare. Ah, che buio e che noia là dentro! E, per giunta, sentirsi dire: «Domani sarai impiccato!» C'era poco da stare allegri, davvero; e pensare che aveva lasciato l'acciarino alla locanda! La mattina, dall'inferriata della prigione, scorgeva già la gente che s'affrettava fuor di porta, per vederlo impiccare; e sentiva le trombe, e lo scalpiccìo dei soldati che sfilavano. Tutti correvano: anzi, un garzone di calzolaio, ch'era tra la folla, col suo grembiale di cuoio e certe ciabatte sgangherate, correva tanto, che una delle ciabatte gli sgusciò via e andò a battere proprio contro il muro, dietro al quale stava il nostro soldato, affacciato all'inferriata. «Ohi là, ragazzo mio! Che c'è bisogno di scalmanarsi a cotesto modo?» - gli gridò il soldato: «Tanto senza di me non incominciano! Ma se vuoi fare una corsa sino al mio alloggio, a prendermi il mio acciarino, ti darò' quattro soldi. Devi adoperare le gambe della domenica, però!» Al garzone del calzolaio, quattro soldi facevano molto comodo; per ciò andò via di carriera, e in quattro e quattr'otto tornò con l'acciarino. - E allora... e allora, state a sentire quel che avvenne. Fuori della città, era rizzata una grande forca; e intorno ci stavano i soldati e molte migliaia di spettatori; e il Re e la 89 Regina erano seduti su di un ricchissimo trono, rimpetto ai Giudici e al Consiglio della Corona. Il soldato era già sul palco; ma quando stavano per mettergli la corda al collo, domandò di parlare: ad un povero condannato prima del supplizio era sempre concesso di esprimere un ultimo innocente desiderio, ed egli disse che si struggeva di fumare una pipa di tabacco, e sperava gli fosse accordato, poi ch'era l'ultima fumatina, che dava in questo mondo. Il Re non seppe negargli questa piccola grazia; e allora il soldato cavò l'acciarino e battè la pietra una, due, tre volte... Che è, che non è, eccoti a un tratto tutti e tre i cani, quello con gli occhi come scodelle, quello con gli occhi come mole da molino e quello con gli occhi come torrioni. «Aiutatemi un po' ora, che non m'impicchino!» - disse il soldato. I cani non se lo fecero dir due volte: si avventarono ai Giudici ed ai Consiglieri della Corona, e chi afferrando per uno stinco, chi per una spalla, e chi per il naso, li buttarono tutti a gambe all'aria, e ne fecero un massacro. «Non voglio!» - diceva il Re; ma il cagnaccio più grande prese lui e la Regina e li scaraventò dietro agli altri. Allora poi, anche le guardie ebbero paura, e tutto il popolo si diede a gridare: «Soldatino, soldatino caro, sii tu nostro Re e marito della nostra bella Reginotta!» Misero il soldato nella carrozza del Re, e i tre cani andavano innanzi come staffette e gridavano: Evviva!, i ragazzi fischiavano, ponendosi due dita in bocca, e i soldati presentavano le armi. La Principessa uscì dal suo castello di rame e divenne Regina; le feste nuziali durarono una settimana intera, e i tre cani, seduti a tavola con gli altri, spalancavano tanto d'occhi, ancora più del solito, a tutto quel che vedevano. 90 Ma le notti che seguirono, il soldato non riusciva a chiudere occhio, ché in sogno vedeva sempre la vecchia strega. Vedeva, intorno a lei, i diavoli che l'avevano aiutata a stregare l'acciarino e a creare i tre cani incantati che lo servivano. Poi, accadde che, anche di giorno, tutte le volte che il soldato toccava una moneta, la sentisse bruciare del fuoco dell'inferno. Decise allora di distruggere l'acciarino. Appena questo fu sbriciolato, ecco i tre cani diventare tre cagnolini che gli scodinzolavano attorno, e le monete diventare fagiuoli... mai minestra di fagiuoli fu più gustosa di quella! E, da quel momento in poi, il soldato e la proincipessa furono forse un po' più poveri, ma tanto più felici.... Dall'originale di Hans Christian Andersen 91 PELLE D’ASINO C'era una volta un re che aveva una moglie dai capelli d'oro e così bella che sulla terra non ce n'era un'altra come lei. Accadde un giorno che la regina si ammalò e, accorgendosi di morire, chiamò il re e gli disse: - Mi devi promettere che, se riprenderai moglie, sposerai solo una donna che sia bella come me e che abbia i capelli d'oro come i miei. Appena il re ebbe promesso, la bella regina chiuse gli occhi e spirò Il re per molto tempo non riuscì a darsi pace e non pensò affatto a riprendere moglie, ma i suoi consiglieri alla fine gli dissero: - Non potete fare a meno, maestà, di riprendere moglie, poiché il popolo ha bisogno di una regina. Dopo di che furono mandati messaggeri per ogni dove, a cercare una sposa che fosse bella e bionda come la regina morta; ma la ricerca fu vana e i messaggeri ritornarono indietro mortificati senza essere riusciti a concludere nulla. Il re aveva una figlia che era bella come la madre e come lei aveva lunghi capelli d'oro. Quando ella crebbe, il re disse ai suoi consiglieri che avrebbe dato sua figlia in moglie al più anziano di loro e che dopo la sua morte ella sarebbe divenuta regina. Quando il più anziano lo seppe, ne fu felice: la figlia del re, invece, rimase spaventata dalla decisione del padre, e, sperando di riuscire a fargli cambiare idea, così disse: - Prima che io ubbidisca al tuo desiderio, mi devi far fare tre vestiti: uno d'oro come il sole, l'altro argento come la luna e il terzo lucente come le stelle. Inoltre desidero un mantello composto da tante pelli quanti sono gli animali del regno, in modo che ognuno di essi vi sia rappresentato. 92 La principessa pensava che fossero cose impossibili e che nel frattempo forse le sarebbe riuscito di smuovere il re dal suo proposito. Il re però non vi rinunciò e le donne più abili del suo regno dovettero tessere tre vestiti: uno d'oro come il sole, l'altro d'argento come la luna e il terzo lucente come le stelle; i suoi cacciatori dovettero cacciare tutte le bestie del regno e prendere a ognuna un pezzo di pelle o di pelliccia. Alla fine, quando tutto fu pronto, il re mandò a prendere i tre abiti meravigliosi e il mantello, li stese davanti a sé e disse: - Domani si farà il matrimonio. Quando la principessa vide che non c'era speranza di smuovere il padre dalla sua decisione, stabilì di fuggire. Di notte, mentre tutti dormivano, si alzo, e dal suo tesoro scelse tre oggetti che le erano particolarmente cari: un anello d'oro, un piccolo fuso d'oro e un piccolo arcolaio pure d'oro; poi mise in un guscio di noce i tre vestiti color del sole, della luna e delle stelle, e, gettandosi addosso il mantello fatto coi mille pezzi di pelli, si annerì il viso e le mani con la fuliggine. Quindi, raccomandandosi a Dio, partì e viaggio tutta la notte. Non conosceva la strada e vagò a lungo senza meta. Cammina cammina, a un certo punto si trovò in una foresta piena di alberi e cespugli. C'era un tale intrico di rovi e di spine che la bimba non poté più proseguire: Inoltre era molto buio ed elle ormai si sentiva molto stanca; allora si fermò e scelse il cavo di un albero per passarvi la notte. Civette e strani uccelli notturni mandavano rauche strida. La fanciulla aveva paura, ma a un certo punto vinta dalla stanchezza, cadde in un sonno profondo. Al mattino il sole si levò e, mentre ella continuava a dormire, il re di un paese vicino attraversò la foresta, con tutto il suo seguito, per andare a caccia; inseguendo la selvaggina venne a trovarsi proprio dove la fanciulla s'era addormentata. Quando i suoi 93 cani s'imbatterono in quell'albero, si misero ad abbaiare e a ringhiare così furiosamente da richiamare l'attenzione del re, il quale si rivolse ai suoi cacciatori dicendo: - Fate presto. Andate a vedere quale animale selvatico si nasconde là dentro e portatemelo qui subito. I cacciatori ubbidirono e quando ritornarono dissero: - Nel cavo di quell'albero abbiamo trovato un essere sorprendente di cui non abbiamo mai veduto l'uguale: la sua pelle è di mille colori, ed è li fermo, immerso in un sonno profondo. Il re disse: - Cercate di prenderlo vivo e legatelo alla carrozza. Appena i cacciatori afferrarono la fanciulla, essa si svegliò atterrita e supplicò con voce tremante: - Sono una poveretta, abbandonata dal padre e senza madre, abbiate pietà di me e portatemi con voi! - Vieni - le dissero allora e la condussero dal re. Questi guardò meravigliato quell'esserino sparito e tremante e l'affidò ai cacciatori, perché la ristorassero. Essi le diedero il soprannome di " Pelle d'asino", per via del suo strano e ispido mantello. Mossi a pietà dal suo pianto la portarono alla reggia, le diedero un sottoscala per dormire, dove non c'era nemmeno un finestrino da cui penetrasse un raggio di sole. Le dissero che doveva fare la sguattera in cucina. Suo compito era portare l'acqua e la legna per fare il fuoco, spennare i polli, pelare le patate, levare la cenere dalle stufe; insomma, doveva fare tutti i lavori più umili e faticosi. Per un certo tempo Pelle d'asino visse miseramente in questo modo, ma un giorno seppe che nella grande sala del castello davano una festa e chiese alla cuoca: - Posso andare un momento a vedere? Mi metterò in un cantuccio fuori dalla porta e sbircerò per il buco della serratura... 94 La cuoca rispose: - Vai pure, ma ritorna fra mezz'ora perché devi levare la cenere dalla stufa e lavare le stoviglie. Pelle d'asino prese una lucerna, corse nel sottoscala, si levò il mantello di pelli e si lavo ben bene per togliere la fuliggine dal viso e dalle mani e pettinò i lunghi capelli biondi in modo che tutta la sua bellezza fosse visibile. Quindi apri il guscio di noce e ne tolse il vestito d'oro come il sole. Appena pronta, con il cuore che le batteva d'ansia e di gioia, entrò nella sala da ballo: tutti le fecero largo, pensando che fosse una principessa sconosciuta. Il re stesso venne da lei e, prendendole la mano, la fece ballare; pensava che mai aveva veduto una fanciulla così bionda, così bella e così gentile. Appena il ballo finì, la fanciulla fece un inchino e, prima che il re se ne rendesse conto, sparì. Essa era ritornata di corsa nel suo sottoscala e, levatosi presto presto lo splendido vestito, si era di nuovo tinta con la fuliggine il viso e le mani e aveva indossato il mantellaccio di mille pezzi, diventando di nuovo Pelle d'asino. Era appena giunta in cucina e si era messa a tagliere la cenere dalla stufa, quando la cuoca le disse: - Lasciala stare fino a domani: piuttosto prepara la cena al re in vece mia, mentre io vado di sopra a dare un'occhiata; ma bada bene di non lasciar cascare un capello nella minestra, perché il re andrebbe su tutte la furie. Pelle d'asino cucinò la cena del re, preparando la minestra più buona che sapeva fare. Appena fu cotta, la fanciulla andò a prendere il suo anellino d'oro e ve lo buttò dentro. Quando la festa fu finita il re ordinò che gli servissero la cena, e, assaggiata la minestra, pensò che non aveva mai mangiato nulla di più buono in vita sua. L'aveva quasi finita quando vide un anello d'oro brillare nel piatto e, non riuscendo a capire come mai fosse lì, fece chiamare la cuoca. 95 Quando la cuoca sentì che volevano ebbe paura e disse a Pelle d'asino: - Sei sicura di non aver lasciato cadere un capello nella minestra? Tremando, si presentò al re, che le chiese chi aveva cucinato la cena. La cuoca rispose con un filo di voce: - Sono stata io. - Non è vero, perché la minestra è migliore del solito. Allora la cuoca mormorò, facendosi rossa: - Devo confessare che non sono stata io, ma Pelle d'asino: Il re fece chiamare Pelle d'asino e, quando la fanciulla fu alla sua presenza, le chiese: - Chi sei? - Io sono una povera fanciulla senza padre né madre, che tu hai accolta per pietà - rispose. Il re domandò di nuovo: - Dove hai preso questo anello che ho trovato nella minestra e come mai possiedi un gioiello così prezioso? Pelle d'asino rispose: - Non ne so niente. Il re minacciò di cacciarla via se non diceva la verità, ma Pelle d'asino ostinata ripeteva sempre le medesime parole: - Non ne so niente. - Torna in cucina - disse infine il re rassegnato. Pelle d'asino corse a rifugiarsi nel suo sgabuzzino. Passato un po' di tempo vi fu un altro ballo. Bellissime dame con abiti meravigliosi e splendide collane entrarono nei saloni del castello; ma il re non le guardava neppure e continuava a pensare alla fanciulla misteriosa che aveva incontrato durante il primo ballo. Intanto nella cucina c'era un momento di calma perché tutto quello che era necessario per la festa era già pronto. Allora Pelle d'asino chiese alla cuoca: 96 - Posso andare a vedere la festa? - Va pure, Pelle d'asino, ma ritorna presto. Devi cucinare quella minestra che è piaciuta al re, perché io non so farla come te! - rispose la cuoca. Pelle d'asino, tutta contenta, fece le scale di corsa ed entrò nel suo sgabuzzino. Si sfilò il mantellaccio rattoppato, si lavò e indosso il vestito argenteo come la luna. Si pettinò i bei capelli biondi che nella luce della sera erano ancora più splendenti del solito. Poi, in punta di piedi, sali in fretta le scale e si presentò nella sala da ballo. Quando entrò tutti tacquero all'istante e i paggi si inchinarono al suo passaggio. Le fanciulle la guardavano con invidia, mentre i giovani non si stancavano di rimirare la sua splendida bellezza. Il re stesso si alzò dal trono e le venne incontro. Felice di rivederla, la prese per mano e la invitò a danzare. Appena il ballo fu finito la fanciulla, ricordandosi della promessa fatta alla cuoca, s'allontanò in fretta. Il re e i cortigiani non fecero in tempo a seguirla, che ella era già in fondo alle scale. Entrata nello sgabuzzino si tolse l'abito d'argento e dopo esseri cambiata tornò in fretta in cucina a fare la minestra. Anche questa volta volle prepararla con gran cura. La cuoca intanto era andata di sopra e dal buco della serratura guardava quando accadeva nella sala da ballo. Pelle d'asino approfittò della sua assenza per andare a prendere il suo piccolo fuso d'oro e quindi lo mise nel piatto destinato al re. Quando il re mangiò la minestrina, la trovò ancora migliore della prima volta e di nuovo mandò a chiamare la cuoca. La donna entrò tremando nella sala del banchetto. - Chi ha fatto questa minestra ? - le chiese il re. La cuoca non seppe più cosa rispondere e indietreggiò rossa e confusa in un angolo della stanza. - Vieni qui! - tuonò il re. - E parla ! La povera cuoca dovette confessare ancora una volta che la 97 minestra l'aveva preparata Pelle d'asino. - Fatela venire subito alla mia presenza ! - intimò allora ai servi e questi corsero a chiamarla. Giunta al cospetto del re, la fanciulla, disse di non sapere nulla del fuso d'oro e il re dovette rinunciare a capire da dove provenisse la fanciulla misteriosa. " Voglio dare ancora una festa da ballo e se questa volta la bella fanciulla fuggirà ancora, la farò ricercare in tutto il regno e la ritroverò a ogni costo " Si disse il re e, infatti, dopo pochi giorni ordinò che venissero fatti i preparativi per il più grande e importante ballo dell'anno. Pelle d'asino questa volta mise l'abito che luceva come le stelle e con quello entrò nella sala da ballo. Il re, che l'attendeva impaziente ballò di nuovo con lei e guardandola, pensava che non aveva mai visto una fanciulla così bionda, cosi bella, così gentile. Mentre ballavano, senza che la fanciulla se ne accorgesse, le infilò al dito un piccolo anello d'oro. Quando la danza finì il re cercò di trattenerla, ma ella si liberò dalla stretta e corse via così veloce, che scomparve in un baleno agli occhi di tutti né alcuno riuscì a trattenerla. Pelle d'asino nel frattempo s'era rifugiata nel sottoscala. Poiché era rimasta al ballo molto più a lungo della solita mezz'ora, non ebbe il tempo di levarsi il bel vestito e quindi cercò di nasconderlo infilandovi sopra il mantello di pelli; non riuscì neanche ad annerirsi bene il viso e le mani e nella fretta un dito rimase bianco. Corse quindi in cucina, preparò la minestra per il re e, mentre la cuoca era di sopra, vi mese dentro l'aspo d'oro. Più tardi, quando il re trovò il girello in fondo alla minestra, fece venire Pelle d'asino e vide che aveva un dito bianco... e al dito c'era l'anello che egli le aveva infilato mentre ballavano. La prese per mano e la tenne stretta, e quando ella cercò di liberarsi e di scappare, il mantello di pelli le scivolò e il vestito lucente come le stelle apparve nel suo splendore, 98 mentre sulle spalle scendevano i bei capelli d'oro: Pelle d’asino era davanti al re in tutta la sua bellezza, i suoi occhi guardarono finalmente quelli del re e un sorriso illuminò il suo viso ancora di più . Il re allora disse: - Pelle d’asino, perché ti sei nascosta da me tanto a lungo? - Dovete sapere, Sire, che io sono già fuggita una volta da un matrimonio voluto solo per il mio rango di principessa. Dovete anche sapere che ciò che mi ha nascosta ai vostri occhi non è questa pelle multicolore ma il velo che, posato sul vostro cuore, vi faceva cercare vestiti d’oro e d’argento e mani di principessa. Io sono sempre stata la stessa, ma i vostri occhi non potevano vedere ciò che il vostro cuore non voleva guardare. Chiudete quindi gli occhi, e sappiate che ciò che vedrete riaprendoli dipende solo da voi. Dite, volete ancora che io sia al vostro fianco? Così dicendo Pelle d’asino portò la mano del re a sfiorare il mantello di pelli; il re, ad occhi chiusi, si chiese per un istante se quello non fosse un trucco o un incantesimo studiato per ghermirlo, ma il suo cuore parlò per primo e disse: - Pelle d'asino, se vorrai sarai la mia cara sposa e noi non ci lasceremo mai più. Si celebrarono le nozze e gli sposi vissero felici e contenti fino alla fine dei loro giorni. Dall’originale dei fratelli Grimm 99 IL PESCIOLINO D’ ORO Sul mare-oceano, sull'isola di Bujan, c'era una volta una piccola casetta, un' izba decrepita. In questa izba vivevano un vecchio con la sua vecchietta. Vivevano in grande povertà: il vecchio fabbricava le reti e andava al mare per prendere i pesci. Ne prendeva solo quanto ne bastava per il vitto quotidiano. Una volta, chissà come, il vecchio gettò la sua rete, cominciò a tirare e si accorse che era molto pesante, come mai gli era capitato. Tira e tira, riuscì a tirar fuori la rete. Guardò: la rete era vuota; c’era in tutto un pesciolino, ma non un semplice pesciolino: era un pesciolino tutto d’oro. Il pesciolino pregò il vecchio con voce umana: “Non prendermi, vecchietto! E’ meglio se mi lasci andare nel mare azzurro; io ti sarò riconoscente: farò quello che vorrai”. Il vecchio pensò e ripensò, poi disse: « Che bisogno ho di te? Va’ pure a passeggio nel tuo mare!». Gettò il pesciolino d’oro nel mare e tornò a casa. La vecchia gli chiese: “ Hai preso molti pesci, vecchio?” “In tutto ho preso solo un pesciolino d’oro, ma l'ho ributtato in mare. Mi pregò con insistenza. Lasciami andare, mi disse, nell’azzurro mare ed io ti ricompenserò, farò tutto quello che vorrai! Ho avuto compassione del pesce, non ho voluto da lui un riscatto ma l’ho lasciato libero a sua volontà” “ Vecchio demonio! Ti era capitata tra le mani una vera fortuna e tu non hai saputo prenderla.” La vecchia si incattivì, insultò il vecchio da mattina a sera, non lo lasciò in pace: “Dovevi chiedergli almeno un po’ di pane. Qui abbiamo solo delle croste secche: che mangerai?”. 100 Il vecchio non si trattenne, andò dal pesciolino d'oro per chiedergli del pane. Arrivò alla riva, e gridò con voce forte: “Pesciolino, pesciolino! Mettiti con la coda in mare e con la testa verso di me”. Il pesciolino nuotò a riva: “Di che cosa hai bisogno, vecchio?” . “La vecchia si è arrabbiata, mi ha mandato a chiedere del pane.” “Torna a casa: ci sarà del pane fin che ne vuoi”. Il vecchio tornò a casa: “E allora, vecchia, c'e il pane?”. “Di pane ce n'e finchè vuoi. Ma ecco il guaio. Il mastello si è rotto, e non so dove lavare la biancheria. Va' dal pesciolino e chiedigli un nuovo mastello.” Il vecchio andò al mare: “Pesciolino, pesciolino! Mettiti con la coda in mare e con la testa verso di me”. Il pesciolino arrivò: “Che vuoi vecchio?” . “La vecchia mi ha mandato per chiedere un nuovo mastello.” “Bene, avrai il mastello”. Il vecchio tornò a casa, stava ancora sulla porta, che la vecchia di nuovo si gettò contro di lui, lo investì gridando “Va dal pesce d'oro, chiedigli di costruirci una nuova izba, non si può più vivere nella nostra, appena la guardi va in pezzi!” E il vecchio tornò sul mare: “Pesciolino, pesciolino! Mettiti con la coda in mare e con la testa verso di me!”. Il pesciolino arrivò nuotando, si mise con la testa verso di lui e la coda in mare. “Che cosa vuoi, vecchio?”. “Costruisci per noi una nuova izba; la vecchia si lamenta e grida, non mi lascia in pace; non voglio, dice, vivere più in questa izba vecchia, appena la guardi, va in pezzi!” “Non rattristarti, vecchio! Va' a casa, e prega Dio. Tutto sarà fatto.” 101 Tornò il vecchio. Nel suo cortile c’è una izba nuova, di legno di quercia, tutta con trafori e ornamenti. Gli corre incontro la vecchia, arrabbiata più di prima, impreca e litiga più di prima: “Ah tu, vecchio cane, imbecille! Non sei capace di servirti della fortuna. Ti ho chiesto un'izba, e tu, ecco, sarà fatto! No, invece! Va' di nuovo dal pesce d'oro e digli che io non voglio più essere contadina, ma moglie del governatore, in modo che la gente mi obbedisca, e quando le persone mi incontrano mi facciano l’inchino fino alla cintola!”. Andò il vecchio al mare e gridò con grossa voce: “Pesciolino, pesciolino! Mettiti con la coda in mare e con la testa verso di me.” Nuotò a riva il pesciolino, si mise con la coda in mare e la testa verso il vecchio: “Che cosa vuoi, vecchio?” . Rispose il vecchio: “La vecchia non mi dà pace, è del tutto impazzita. Non vuole essere più contadina, ma moglie del governatore!”. “Bene, non affliggerti! Torna a casa, prega Dio, tutto sarà fatto!” Tornò a casa il vecchio, e invece dell'izba adesso c'è una casa di pietra, una casa di tre piani.Nel cortile i servitori corrono di qua e di là, in cucina i cuochi battono e lavorano, la vecchia in un prezioso abito di broccato sta seduta su un'alta poltrona e dà ordini. “Salute, moglie!”, disse il vecchio. “Ah tu, rozzo ignorante ! Come osi chiamar me tua moglie, me, la moglie del governatore? Ehi, gente, portate questo contadinaccio nella scuderia e frustatelo quanto più potete.” Subito i servitori accorsero, presero il vecchio per la collottola e lo trascinarono nella scuderia. Cominciarono gli scudieri a frustarlo, e lo frustarono a tal punto che egli a mala pena poteva reggersi sulle gambe. 102 Dopo di che la vecchia gli diede l' incarico di portinaio, ordinò che gli fosse data una scopa, e che pulisse il cortile. Ordinò anche che gli fosse dato da mangiare a da bere in cucina. Mala vita per il vecchietto! Per tutto il giorno deve scopare il cortile, e non appena trovano che c’è qualche punto non pulito bene, subito nella scuderia, e giù frustate! “Che strega!” pensa il Vecchio. "Ha avuto una fortuna, e adesso si mette a grufolare come un porco, e non mi considera più neppure suo marito!" Passò molto tempo, poco tempo, la vecchia si annoiò di essere moglie del governatore e, fece chiamare il vecchio, e gli ordinò: “Va', vecchio demonio, dal pesciolino d'oro, e digli che non voglio più essere moglie di governatore, ma zarina!” Andò il vecchio al mare: “Pesciolino, pesciolino! Mettiti con la coda in mare e con la testa verso di me”. Arrivò il pesciolino d'oro nuotando: “Di che cosa hai bisogno, vecchio?” “Ecco, mia moglie è del tutto impazzita, più di prima. Non si contenta più di essere la moglie del governatore, adesso vuole essere zarina.” “Non affliggerti, vecchio! Va' a casa, e prega Dio. Tutto sarà fatto.” Il vecchio tornò a casa e invece del palazzo di prima trovò un alto palazzo dal tetto d' oro, con intorno le sentinelle che fanno il presentat'arm. Davanti al palazzo c'è un verde prato. Nel prato ci sono i soldati, in fila. La vecchia è vestita da zarina, viene fuori sul balcone con i generali e i boiari, e fa la rassegna delle truppe, sta attenta al cambio delle sentinelle. Rullano i tamburi, suona la musica, i soldati gridano “Hurrà”. 103 Passò molto tempo, poco tempo, la vecchia si annoiò di essere zarina e ordinò di chiamare il vecchio, che si presentasse davanti ai suoi occhi luminosi. Ci fu una grande confusione, i generali si danno da fare, i boiari corrono, non sanno dove sbattere la testa: “Quale vecchio?”. A gran fatica riuscirono a trovarlo nel cortile delle immondizie, e lo portarono dalla regina. “Ascolta, vecchio demonio!” gli dice la vecchia. “Va' dal pesciolino d'oro a digli: non voglio più essere zarina, ma voglio essere la signora dei mari, in modo che tutti i mari e tutti i pesci mi ubbidiscano.” Il vecchio tentò di rifiutarsi, ma che vuoi farci? La zarina ti fa staccar la testa! Con il cuore stretto, andò al mare, e disse: «Pesciolino, pesciolino, mettiti con la coda in mare e la testa verso di me”. Ma il pesciolino d'oro non si vede, proprio non si vede! Il vecchio lo chiama una seconda volta. Di nuovo, niente! Lo chiama una terza volta, e a un tratto il mare si gonfia e muggisce; prima era tutto sereno, pulito, e ora tutto nero. Il vecchio capisce che quello è il segno che la situazione aveva davvero superato ogni limite, decide così di chiedere al pesciolino d’oro l’unica cosa che gli sembrava davvero sensata. I1 pesciolino nuotò a riva: “Che vuoi, vecchio?” . ”La vecchia è diventata ancora più pazza; non vuole più essere zarina, vuole essere la signora del mare, dominare su tutte le acque, comandare a tutti i pesci”. Il pesciolino d'oro non disse nulla al vecchio, si voltò e sprofondò nel mare. Il vecchio tornò a casa, guardò e non credette ai suoi occhi: il palazzo era come se non ci fosse mai stato, al suo posto stava la vecchia izba decrepita, e nell'izba stava seduta la 104 vecchia, con il suo vecchio sarafan' stracciato e la testa tra le mani. Ritornarono a vivere come prima, il vecchio ritornò alla sua pesca in mare; solo che, per quante volte gettasse le reti in acqua, non riuscì più a prendere il pesciolino d'oro. Finchè un bel giorno un viandante magro da fare spavento bussò alla izba e chiese alla vecchia del pane e del vino; la vecchia stava per cacciarlo via dicendo che loro non avevano che pochi pezzi di pane secco da mangiare, quando improvvisamente il vecchio le si parò davanti e disse: “Ora basta, non posso più assistere al tuo comportamento avido e stolto. Ricorda che quando potevi avere tutto non sei stata capace di carità e compassione perché queste virtù non dipendono da quanto possiedi ma solo dalla purezza del tuo cuore. Il tozzo di pane secco che noi abbiamo è un tesoro per chi muore di fame.” Così spezzò il pane, e nel vedere quel gesto la vecchia si commosse profondamente e prese coscienza di quanto fosse stata ingorda e ingiusta, così andò a prendere anche l’ultimo goccio di vino che era rimasto nella dispensa per darlo allo straniero. Fu allora che successe una cosa straordinaria: il corpo del vagabondo cominciò a rimpicciolire e a coprirsi di squame d’oro, finchè non fu chiaro che proprio lì davanti a lui si trovava il famoso pesciolino. Il vecchio immediatamente lo raccolse e lo mise in un catino per riportarlo al mare; non si dissero nulla, ma il vecchio capì che quella era stata una seconda occasione. Fu così che da quel giorno non mancò più cibo nella casa dei vecchietti e chi non aveva di che sfamarsi o coprirsi sapeva che lì avrebbe potuto trovare un rifugio. Dall’originale di Aleksander Puskin 105 NEVINA E FIORDAPRILE Una principessa chiamata Nevina che viveva sola col padre Gennaio. Lassù, nel candore perpetuo, abbagliante, inaccessibile agli uomini, il Re Gennaio preparava la neve con una chimica nota a lui solo; Nevina la modellava su piccole forme tolte dagli astri e dalle stelle alpine, poi, quando la cornucopia era piena, la vuotava secondo il comando del padre ai quattro punti dell'orizzonte. E la neve si diffondeva sul mondo. Nevina era pallida e diafana, bella come una fata: le sue chiome erano appena bionde, d'un biondo imitato dalla Stella Polare, il suo volto, le sue mani avevano il candore della neve non ancora caduta, l'occhio era cerulo come l'azzurro dei ghiacciai. Nevina talvolta era triste. Nelle ore di riposo, quando la notte era serena e stellata e il padre Gennaio sospendeva l'opera per dormire nell'immensa barba fluente, Nevina s'appoggiava ai balaustri di ghiaccio, chiudeva il mento tra le mani e fissava l'orizzonte lontano, sognando. Una rondine ferita che valicava le montagne, per recarsi nelle terre del sole, era caduta nelle sue mani, che l’avevano confortata e poi guarita; prima di riprendere il suo viaggio, la rondine le aveva raccontato del mare, dei fiori, dei palmizi, della primavera senza fine. E Nevina da quel giorno sognava le terre non viste. Una notte decise di partire. Passò cauta sulla barba fluente di Gennaio, lasciò il ghiaccio e la neve eterna, prese la via 106 della valle, si trovò fra gli abeti. Gli gnomi che la vedevano passare diafana, fosforescente nelle tenebre della foresta, interrompevano le danze, sostavano cavalcioni sui rami, fissandola con occhi curiosi e ridarelli. “Nevina!” “Nevina! Dove vai?” Nevina, danza con noi!” “Nevina, non ci lasciare!” E gli Spiritelli benigni le facevano ressa intorno, tentavano di arrestarle il passo abbracciandole con tutta forza la caviglia, cercavano di imprigionarle i piedi leggeri entro rami d'edera e di felce. Nevina sorrideva, sorda ai richiami affettuosi, toglieva dalla cornucopia d'argento una falda di neve, la diffondeva intorno, liberandosi dei piccoli compagni di gioco. E proseguiva il cammino diafana, silenziosa, leggera come le ali delle farfalle. Giunse a valle, fu sulla grande strada. L'aria si mitigava. Un senso d'affanno opprimeva il cuore di Nevina; per respirare toglieva dalla cornucopia una falda di neve, la diffondeva intorno, ritrovava le forze e il respiro nell'aria fatta gelida subitamente. Proseguì rapida, percorse gran tratto di strada. Ad un crocevia sostò in estasi, con gli occhi abbagliati. Le si apriva dinnanzi uno spazio ignoto, una distesa azzurra e senza fine, come un altro cielo tolto alla volta celeste, disteso in terra, trattenuto, agitato ai lembi da mani invisibili. Nevina proseguì sbigottita. La terra intorno mutava. Anemoni, garofani, mimose, violette, reseda, narcisi, giacinti, giunchiglie, gelsomini, tuberose, fin dove l'occhio giungeva, dal colle al mare, mal frenati dai muri e dalle siepi dei giardini, i fiori straripavano come un fiume di petali dove emergevano le case e gli alberi. 107 Gli ulivi distendevano il loro velo d'argento, i palmizi svettavano diritti, eccelsi come dardi scagliati nell'azzurro. Nevina volgeva gli occhi estasiati sulle cose mai viste, dimenticava di diffondere la neve; poi l'affanno la riprendeva, toglieva una falda, si formava intorno una zona di fiocchi candidi e d'aria gelida che le ridava il respiro. E i fiori, gli ulivi, le palme guardavano pur essi con meraviglia la giovinetta diafana che trasvolava in un turbine niveo e rabbrividivano al suo passaggio. Un giovane bellissimo, dal giustacuore verde e violetto, apparve innanzi a Nevina, fissandola con occhi inquieti, vietandole il passo: “Chi sei?” “Nevina sono. Figlia di Gennaio.” “Ma non sai, dunque, che questo non è il regno di tuo padre? Io sono Fiordaprile, e non t'è lecito avanzare sulle mie terre. Ritorna al tuo ghiacciaio, pel bene tuo e pel mio!” Nevina fissava il principe con occhi tanto supplici e dolci che Fiordaprile si sentì commosso. “Fiordaprile, lasciami avanzare! Mi fermerò poco. Voglio toccare quella neve azzurra, verde, rossa, violetta che chiamate fiori, voglio immergere le mie dita in quel cielo capovolto che è il mare!” Fiordaprile la guardò sorridendo; assentì col capo: “Andiamo, dunque. Ti farò vedere tutto il mio regno.” Proseguirono insieme, tenendosi per mano, fissandosi negli occhi, estasiati e felici. Ma via via che Nevina avanzava, una zona bigia offuscava l'azzurro del cielo, un turbine di fiocchi candidi copriva i giardini meravigliosi. Passarono in un villaggio festante; contadini e contadine danzavano sotto i mandorli in fiore. Nevina volle che Fiordaprile la facesse danzare: entrarono in ballo; ma la brigata si disperse con un brivido, i suoni cessarono, l'aria si fece di gelo; e dal cielo 108 fatto bigio cominciarono a scendere, con la neve odorosa dei mandorli, i petali gelidi della neve, la vera neve che Nevina diffondeva al suo passaggio. I due dovettero fuggire tra le querele irose della brigata. Giunti poco lungi, volsero il capo e videro il paese di nuovo festante sotto il cielo rifatto sereno... “Nevina, ti voglio sposare!” “I tuoi sudditi non vorranno una regina che diffonde il gelo.” “Non importa. La mia volontà sarà fatta.” Avanzarono ancora, tenendosi per mano, fissandosi negli occhi, immemori e felici... Ma ad un tratto Nevina s 'arrestò coprendosi di un pallore più diafano.”Fiordaprile! Fiordaprile! ... Non ho più neve!” E tentava con le dita - invano - il fondo della cornucopia. “Fiordaprile! ... Mi sento morire! .. . Portami al confine... Fiordaprile!... Non reggo più!” Nevina si piegava, veniva meno. Fiordaprile tentò di sorreggerla, la prese fra le braccia, la portò di peso, correndo verso la valle. “Nevina! Nevina!” Nevina non rispondeva. Si faceva diafana più ancora. Il suo volto prendeva la trasparenza iridata della bolla che sta per dileguare. “Nevina! Rispondi!” Fiordaprile la coprì col mantello di seta per difenderla dal sole ardente, proseguì correndo, arrivò nella valle, per affidarla al vento di tramontana. Ma quando sollevò il mantello Nevina non c'era più. Fiordaprile si guardò intorno smarrito, pallido, tremante. Dov'era? L'aveva perduta per via? Alzò le mani al volto, in atto disperato; poi il suo sguardo s'illuminò. Vide Nevina dall'altra parte della valle che salutava con la mano protesa, sorridente. 109 Un suo vecchio precettore, il vento di tramontana, la sospingeva pei sentieri nevosi, verso i ghiacciai, verso il regno del padre Gennaio. Così cantava : “Fiordaprile, Nevina Non la vostra volontà solamente avete da realizzar, Non la vostra volontà solamente avete da realizzar la volontà della Natura avete da ricordar la volontà della Natura avete da ricordar le sue leggi, coraggio, potete rispettar Fiordaprile! Fiordaprile! Non rinunceresti mai all’esaltante distesa multicolore dei fiori d’aprile, al mare che s’increspa sotto la brezza di maggio, al sole di giugno, al lento risveglio della Terra dopo il riposo dell’inverno. Nevina! Nevina! Non rinunceresti mai alla tua neve soffice e leggera, che modella forme e pupazzi per l’allegria tutta bianca dell’inverno. necessario è il riposo dell’inverno, necessario è che la neve scenda giù, copra i campi e imbianchi i campanili. Così è l’alternarsi delle stagioni”. “Oh Nevina, Nevina” disse Fiordaprile “Come ho potuto dimenticare la saggezza che ora ritrovo. La mia gioia è già perfetta, il nostro matrimonio già esiste da secoli, se penso a come collaboriamo dall’eternità, a come ci amiamo lavorando l’una per l’altro” “Oh Fiordaprile, Fiordaprile” disse Nevina “Per amore di te, custodirò la terra come una coperta preziosa, ogni sera del mio tempo la rimboccherò per i tuoi prati dai mille colori, cosicché quando vedrai spuntare le prime gemme, sentirai il nostro amore fiorire insieme ad esse”. “Oh Nevina, Nevina” disse Fiordaprile “Per amore di te ogni gemma ed ogni fiore avrà petali dalle incredibili sfumature, il profumo dei bocciuoli empirà l’aria tutta e Mastro Tramontana porterà a te di questi odori e di questi 110 colori e così tu saprai, ancora una volta, che il nostro amore è per sempre!” “E così sia!” li salutò felice Mastro Tramontana. “Ma ogni tanto sarà bene che vi incontriate” “Si!!!” urlarono in coro Nevina e Fiordaprile. Questo spiega come mai ci siano giorni di gennaio tanto assolati e giorni d’aprile in cui spira un vento proprio gelido e come mai, certi anni, questi giorni siano più numerosi del solito: Nevina e Fiordaprile stanno facendo le loro vacanze insieme. Dall'originale di Guido Gozzano 111 IL GUARDIANO DI PORCI C'era una volta un povero principe, il quale aveva un regno piccino piccino; sempre grande abbastanza, però, per poter prendere moglie; e questo per l'appunto egli voleva. Veramente, l'andar a domandare alla figliuola dell'Imperatore: «Mi vuoi per marito?» - fu un po' temerario da parte sua. Pure egli l'osò, perchè il suo nome era famoso sin nelle più remote contrade, e cento e cento principesse sarebbero state felici di dirgli di sì. Che credete, in vece, che rispondesse lei? State attenti, e sentirete. Sulla tomba del padre di questo principe, cresceva un rosaio... Ah, che rosaio era quello! Fioriva soltanto ogni cinque anni, ed anche allora portava una sola rosa: ma una rosa dal profumo così soave, che faceva dimenticar tutte le cure e tutti i crucci. Il principe possedeva anche un usignuolo, il quale sapeva cantare tanto bene, che pareva racchiudesse nella piccola gola tutte le più belle melodie dell'universo. La rosa e l'usignuolo erano i doni destinati alla principessa; e perciò le furono spediti, chiusi in grandi custodie d'argento. L'Imperatore li fece portare alla sua presenza nella sala grande, dove la principessa, in mancanza di meglio, stava giocando alle visite con le sue damigelle. Quand'ella vide le grandi custodie d'argento coi doni, battè le mani dalla gioia. «Ah, se ci fosse dentro un gattino!...» - diss'ella: ma apparve in vece la magnifica rosa. «Com'è bella, com'è ben fatta.» - esclamarono tutte le dame. «È più che bella,» - dichiarò l'Imperatore: «è stupenda.» Ma la principessa l'odorò, e per poco non iscoppiò in lacrime. 112 «Oh, papà,» - disse: «ma non è artificiale: è una rosa vera!» «Bah!» - fecero tutti i cortigiani: «Una rosa vera!» «Bene, vediamo che cosa c'è nell'altra custodia, prima di andare in collera!» - disse l'Imperatore; ed allora apparve l'usignuolo; e cantò così mirabilmente, che proprio non si potè trovarci nulla a ridire. «Superbe! Charmant!» - esclamarono tutte le dame, perchè tra loro chiacchieravano sempre in francese, e l'una peggio dell'altra, a dir vero. «Ah! come quest'uccello mi rammenta lo stipo armonico della povera Imperatrice, di santa memoria!» disse un vecchio cavaliere: «È proprio lo stesso tono, la stessa espressione!» «È vero!» - disse l'Imperatore, e pianse come un bambino. «Questo, almeno, non sarà un uccello vero!» - disse la principessa. «Sì, Altezza; è un uccello vero,» - risposero quelli che l'avevano portato. «E allora, lo si lasci volar via!» - ordinò la principessa; ed a nessun costo volle permettere che il principe venisse alla corte. Ma il principe non era uomo da perdersi d'animo per così poco. Si tinse il viso di nero, si tirò il berretto sugli occhi, e picchiò all'uscio. «Buon giorno, Imperatore!» - disse: «Potrei ottenere un impiego nel castello?» «Eh, caro mio, ce ne sono tanti che cercano impiego!» rispose l'Imperatore. «Lascia vedere, però. Sì, al momento, ho proprio bisogno di qualcuno che mi guardi i maiali: ne ho un branco enorme, qui, dei maiali...» 113 E così il principe fu nominato guardiano imperiale dei porci: gli fu assegnato un bugigattolo vicino al porcile, e là doveva stare. Per tutta la giornata si mise lì a lavorare, e quando venne la sera, aveva già terminata una bella pentolina. Intorno all'orlo, ci aveva attaccati certi bubbolini, i quali, appena la pentolina bolliva, si mettevano a sonare meravigliosamente il motivo di quella vecchia canzonetta, che incomincia: Ah, mio povero Agostino, Tutto è andato, andato, andato! Ma il più meraviglioso si era che, mettendo il dito tra mezzo al fumo che usciva dalla pentola, si poteva sentire all'odore quello che cuoceva su tutti i focolari della città. Altro che la rosa! Questa sì, ch'era una meraviglia! Passò di lì la principessa, passeggiando con le damigelle: e quando udì la melodia, si fermò, e fece il viso ridente, perchè anch'ella sapeva sonare: Ah, mio povero Agostino! Era anzi la sola cosa che sapesse sonare, ma con un dito solo. «È la canzone che so anch'io!» esclamò: «Dev'essere un porcaro educato quello lì! Andate e domandategli quanto costa lo strumento.» E così una delle dame d'onore dovette correre sino laggiù; ma prima infilò un paio di zoccoli, per non insudiciarsi le scarpine. «Quanto vuoi di codesta pentola?» - domandò la dama. «Voglio dieci baci dalla principessa!» - rispose il porcaro. «Dio ci scampi e liberi!» - esclamò la dama. «Ah, per meno non la posso dare!» - dichiarò il porcaro. «Ebbene, che cosa ha detto?» - domandò la principessa. 114 «In verità che non posso nemmeno ripeterlo!» - rispose la dama d'onore: «È troppo orribile.» «Allora, puoi dirmelo in un orecchio...» - E quella glielo disse all'orecchio. «Che sgarbato!» - fece la principessa; e si allontanò in fretta. Ma appena ebbe fatto pochi passi, i bubbolini ricominciarono a sonare così deliziosamente: Ah, mio povero Agostino, Tutto è andato, andato, andato! che la principessa non seppe resistere: - «Senti,» - ordinò: «domandagli se vuole dieci baci dalle mie dame d'onore.» «No, grazie!» - disse il guardiano: «Dieci baci dalla principessa, o mi tengo la mia pentola.» «Che noioso!» - disse la principessa: «Allora bisogna che vi mettiate all'ingiro a pararmi, che almeno nessuno abbia a vedere. E le damigelle le si misero tutte in cerchio d'attorno, tenendo bene allargate le gonne: il porcaro ebbe i dieci baci; e la principessa, la pentola. Che bellezza! Tutto il giorno e tutta la sera bisognava che la pentola bollisse. Non c'era focolare in tutta la città, di cui non si sapesse che vi si cucinava, tanto nella casa del cavaliere, quanto in quella del calzolaio. Le damigelle ballavano e battevano le mani dalla gioia. «Sappiamo chi mangerà la zuppa di latte e chi le frittelle, chi la farinata e chi le costolette! Com'è divertente!» «Divertentissimo!» - assentì la credenziera capo dell'Impero. 115 «Sì, ma acqua in bocca, però! Sono o non sono la figliuola dell'Imperatore?» «Dio guardi! L'Altezza Vostra può fidarsi di noi!» dissero tutte insieme. Il guardiano di porci, vale a dire il principe (ma nessuno sapeva, naturalmente, ch'ei fosse ben altro che un porcaro), non lasciò però passare la giornata senza fabbricare qualche cosa di nuovo; e fabbricò un sonaglio. Quando lo si agitava, incominciava a snocciolare tutti i valzer, tutte le polche e tutte le tarantelle che sieno mai state inventate da che mondo è mondo. «Ma questo è davvero stupendo!» - disse la principessa, quando venne a passare di lì: «Non ho udito mai meccanismo più meraviglioso. Andate, e domandategli quanto costa questo strumento. Ma badiamo: baci non ne do più!» «Domanda cento baci dalla principessa...» - riferì la dama ch'era andata ad informarsene. «Io dico che quello lì è pazzo!» - e la principessa indispettita tirò innanzi. Ma, fatti pochi passi appena, si fermò. «Bisogna pur incoraggiare l'arte...» - disse: «Non per nulla son la figliuola dell'Imperatore! Ditegli che gli darò dieci baci come ieri; e che il resto potrà prenderselo dalle mie dame.» «Ma noi lo facciamo così malvolentieri!...» arrischiarono le dame. «Che sciocchezze!» - disse la principessa: «Se mi lascio baciare io, potete ben fare altrettanto voi. Per qualche cosa, mi pare, vi mantengo e vi pago!» E così, la dama d'onore ebbe a tornare dal porcaro. «Cento baci dalla principessa,» - insistè lui, «o mi tengo la roba mia.» 116 «State dinanzi a pararmi!» - diss'ella; e tutte le dame fecero cerchio, ed il porcaro incominciò a baciarla. «Che cos'è tutto quel chiasso laggiù, accanto al porcile?» - si domandò l'Imperatore, ch'era salito sull'altana. Si stropicciò gli occhi e si aggiustò le lenti. «Lì c'è di sicuro lo zampino delle dame d'onore. Voglio vederci chiaro da me.» Passò in fretta un dito dentro alle pantofole, per tirarle su meglio dietro, - perchè aveva il vizio di acciaccarle col calcagno, - e giù a precipizio. Misericordia, che corsa fu quella! Appena giunse nel cortile, si mise a camminare pian piano. Del resto, le dame erano troppo affaccendate a contare i baci, per vedere che tutto andasse bene e che il porcaro non ne avesse a ricevere uno di più nè uno di meno; e non si avvidero dell'Imperatore. Questi si alzò in punta di piedi... «Che faccenda è questa?» - gridò, quando vide i due che si baciavano; e tirò loro una pantofola sul capo, proprio nel momento che il porcaro riceveva l'ottantesimo bacio. «Via di qua!» - tuonò l'Imperatore, su tutte le furie: e tanto la principessa quanto il guardiano di porci furono scacciati dall'Impero. Ed eccola lì a piangere, mentre il porcaro la rimproverava e la pioggia veniva giù a torrenti. «Ah, povera me, povera me!» - sospirava la principessa: «Avessi almeno accettato per marito il bel principe, che ora non sarei ridotta a questa miseria! Ah, come sono disgraziata!» Il guardiano di porci andò dietro ad un albero; si lavò via dalla faccia la tinta nera, si tolse di dosso gli abiti cenciosi, ed apparve in tutta la pompa principesca, così 117 bello, che la principessa non potè far a meno d'inchinarsi dinanzi a lui. «Tu mi hai messo al punto di doverti disprezzare!» diss'egli: «Non hai voluto accettare un principe onorato, non t'intendi di rose nè d'usignuoli; ma poi, per un balocco, hai consentito a baciare un guardiano di porci. Ora non hai se non il castigo che ti sei meritata.» E andò nel suo regno, chiuse la porta e tirò il catenaccio; ed ella, rimasta di fuori, ben potè cantare: Ah, mio povero Agostino, Tutto è andato, andato, andato! Ma quando ebbe cantato ottanta volte il ritornello, fra singhiozzi e lacrime, il principe uscì dal castello, e le disse:” Credo che ormai abbiate ben imparato la lezione,e, se volete, potete darmi gli ultimi venti baci che non mi deste...Ma solo se volete, ché in cambio non avrete niente....” La principessa non se lo fece dire due volte, e buttò le braccia al collo del principe, dicendogli:” In fondo, mi piacevate anche quando eravate un guardiano di porci...Tenetemi con voi, e farò io i lavori umili, adesso, per starvi vicino...” Il perdono è una gran buona medicina, per ogni cuore: il principe perdonò la principessa, il Re perdonò tutti e due, e il ritornello della canzone, da allora, cambiò in Ah, mio caro Agostino, Tutto è andato, e il bello è arrivato! Dall'originale di Hans Christian Andersen 118 POLLICINO Moltissimo tempo fa, quando si filava ancora la lana, nelle campagne vivevano due poveri contadini, marito e moglie. Sebbene fossero molto poveri, desideravano moltissimo d'avere un figlio. “Pensa, moglie mia - sospirava l'uomo - come la casa sarebbe più allegra se ci tenesse compagnia vicino al fuoco un bel bambino!” “Ahimè! Marito mio - rispose la moglie fermando il suo arcolaio - anche io ne sarei molto felice. Anche se fosse molto piccolo, guarda, non più grande del mio pollice, l'accoglierei con gioia.” Qualche mese dopo, con loro grande felicità, nacque un figlio. Era ben fatto ed aveva una bella voce, ma di taglia piccolissima, non più grande dell'unghia di suo padre. Il ragazzo non divenne mai grande. Aveva un'intelligenza viva, era anche molto abile, riusciva in tutto quello che si attingeva a fare. I suoi genitori, anche se in un primo tempo si erano preoccupati, si erano presto adattati alla sua piccola statura e lo avevano soprannominato con affetto Pollicino. Vegliavano su questo piccolo uomo che avevano tanto desiderato, affinché non gli mancasse nulla. Un giorno suo padre, mentre si apprestava a partire per abbattere alcuni alberi, sospirò: “Se avessi almeno qualcuno che mi aiutasse a condurre la carretta!” “Papà! - gridò Pollicino - Lasciatemi guidare la carretta da solo. Vi raggiungerò nella radura e voi intanto guadagnerete tempo.” “Ma tu sei piccolo! - esclamò il padre sorridendo - Come potrai guidare il cavallo e prendere le redini?” “Ho un'idea - gridò il piccolo uomo - la mamma attaccherà il cavallo, poi mi isserà fino all'altezza della testa ed io 119 scivolerò all'interno del suo orecchio. Il cavallo mi conosce bene e non avrà certamente paura, così io lo guiderò al luogo dove avrai tagliato la legna.” Il padre diede infine il suo consenso, la madre attaccò il cavallo. Il ragazzo lo guidò come un vero carrettiere, fermandosi saggiamente agli incroci. Quando fu in vista della radura incrociò due stranieri che chiacchieravano. Poiché udirono una voce essi si voltarono. “Hoo! Hoo! Là! Là! Stiamo per arrivare mio bravo Zeffiro” gridò in quel momento Pollicino ben nascosto nel suo strano nascondiglio. “Sangue di Bacco! Sto sognando! - disse uno dei due - una carretta che se ne va da sola: si sente la voce del guidatore e non si vede nessuno”. “Seguiamola, non c'è dubbio che si tratta di qualche stregoneria”. Il pesante veicolo si fermò di colpo davanti alla catasta di legna. Davanti agli occhi dei due curiosi il contadino s'avvicinò al cavallo e gli tolse dall'orecchio il minuscolo omino che, tutto vispo, venne a sedersi su un fuscello di paglia a qualche metro dai due uomini. Nel vedere questo personaggio in miniatura così audace e pieno di risorse, i due uomini ne rimasero colpiti. Alla fine uno dei due s'avvicinò al contadino e gli disse: “Brav'uomo, vendeteci vostro figlio. Gli faremo guadagnare una fortuna facendolo vedere nelle fiere dei grandi villaggi” “Vendere il mio caro figlioletto? Non se ne parla nemmeno” rispose indignato il contadino. Ma Pollicino, approfittando della distrazione dei due compari, occupati a contare i loro scudi, gli sussurrò: “Papà, accetta il denaro di questi due furfanti che vogliono sfruttarmi, io scapperò prestissimo, te lo prometto”. 120 Il brav'uomo, con il cuore un po' grosso, lo vendette quindi per due bei scudi d'oro. Rapidamente saltò sulla falda del vestito di uno dei due compari, s'arrampicò sulla sua spalla e infine s'installò sul bordo del suo cappello. Camminarono così tutta la giornata e allorquando arrivarono al bordo di un campo appena mietuto, Pollicino all'improvviso gridò: “Lasciatemi scendere a terra, vedo laggiù un coniglio selvatico preso al laccio, con il quale potremo fare un buon pranzo. Ve lo mostrerò”. Allettato e senza alcun sospetto, l'uomo lo posò in terra. Agile come un'anguilla, Pollicino si infilò nel buco di un topo campagnolo gridando: “Buona sera signori e buon viaggio, ma senza di me”. Curiosi i due uomini se ne partirono imprecando. Pollicino decise di attendere l'alba al riparo di un guscio vuoto di lumaca. Dormiva profondamente quando un brusio di voci lo svegliò. Due ladri si erano fermati a due passi da lui. Uno di loro diceva: “Come potremo rubare a questo ricco prete?” “Vi dirò io come fare - gridò molto forte Pollicino - portatemi con voi e io vi aiuterò. Abbassate gli occhi, sono qui vicino” “Come, sei tu, piccolo diavoletto, che pretendi d'aiutarci?” dissero i due ladroni scoppiando a ridere. “Io scivolo con facilità tra le sbarre della camera del prete - spiegò Pollicino - poi, una volta entrato, vi passo tutto quello che volete”. “Tu non sei uno stupido - disse uno dei due uomini collocandolo sulla sua spalla - che la fortuna ci assista, ma affrettiamoci perché si sta alzando la luna”. Arrivati al presbiterio, Pollicino vi entrò e si mise a gridare: “Volete tutti i luigi d'oro e i lingotti d'argento?-“ Stupiti i ladri lo supplicarono immediatamente di parlare a voce bassa, perché un tal chiasso rischiava di svegliare il 121 prete. Ma Pollicino fece orecchie da mercante ai consigli dei due banditi e gridò a gran voce: “Decidetevi perdiana! I quadri e l'argenteria vi interessano o no?” La cuoca che aveva il sonno leggero, udendo quel beccano, scese dal letto, accese la candela alle braci del focolare e si precipitò in direzione dell'ufficio. Quando entrò nella stanza la trovò vuota. I ladri, spaventati, erano fuggiti da sotto la finestra, mentre Pollicino, tutto tranquillo, si era rifugiato in una mangiatoia del granaio vicino. La brava donna, rassicurata, tornò a dormire. Al mattino, all'alba, la serva incaricata di dar da mangiare alle bestie s'impossessò di una bracciata di fieno per nutrire le mucche. Quella che aveva il vitellino ad allattare si gettò avidamente sulla mangiatoia e, hop! Pollicino, svegliatosi, fu precipitato fino in fondo allo stomaco nauseabondo del ruminante che ingurgitava grosse quantità di fieno. “Basta fieno, basta erba! Soffoco!” gridò Pollicino. Presa da gran spavento nel sentire la mucca parlare, la povera serva cadde riversa chiamando il prete al soccorso. “Miio braavo papa..drone, la la.. nos...tra mu..mu...mmucca paarla que..que..sta mamaa..ttina!” - balbettò la brava donna. “Vediamo, figlia mia, voi sognate!” gridò stupito il prete alzando la sottana nella stalla tutta sporca. Ma la voce risuonò di nuovo. Il prete si fece subito il segno della croce. “E' senza dubbio una manovra del diavolo”. Cosparse abbondantemente d'acqua santa la stalla, la mucca e la serva. Dopodiché (non si è mai troppo prudenti) decise di far abbattere l'animale perché continuava ostinatamente a gridare. Effettivamente Pollicino aveva paura di morire soffocato. 122 La povera mucca fu dunque sacrificata e il suo stomaco fu gettato in un mucchio di detriti. Pollicino soffrì molto ad uscire da quel ventre maleodorante. Finalmente respirò il suo primo sbuffo d'aria fresca, sennonché un lupo affamato inghiotti lo stomaco della mucca ed il suo contenuto. Ecco di nuovo il nostro sfortunato piccolo uomo in un nuovo nascondiglio poco confortevole ed inoltre tutto buio. Egli quindi mormorò: “Caro lupo, nell'ultima casa del villaggio c'è una dispensa ben fornita. Quando arriva la notte entra dentro dal tubo di scarico, potrai così riempirti la pancia a sazietà”. “Questo lungo digiuno - borbottò tra se il lupo - mi dà allucinazioni, infatti sento alcune voci... bah! Il consiglio non è poi così cattivo, seguiamolo”. Lo seguì così bene che quando volle andarsene il suo ventre troppo pieno gli impedì di passare attraverso il tubo. Era rimasto in trappola. Pollicino si mise subito a gridare, mettendo in subbuglio la casa:” Caro papà, ammazzate questo lupo che mi tiene prigioniero nella sua pancia!” Così avvenne e Pollicino ritrovò i suoi genitori felici di rivederlo. Poi il padre prese a parlare: “Pollicino, sono stato uno sciocco a venderti ai due viandanti. E sono stato anche un pessimo esempio se tu, figlio mio, hai potuto anche solo pensare che due luigi valessero il nostro amore, la nostra famiglia. Nulla al mondo è più importante di questo. L’onesta povertà non ha in sé nulla di biasimevole. Non così il vendere le persone come se fossero oggetti. Osserva inoltre quanta sofferenza si è generata da questa sconsiderata mia azione: io e tua madre disperati per la tua assenza, le tremende avventure che ti sono capitate e i rischi 123 di morire che hai corso, l’uccisione di due animali innocenti, la mucca e il lupo…” “Oh padre, come avete ragione” disse Pollicino asciugandosi le lacrime e stringendosi forte al suo cuore. “D’altra parte, ora stai diventando grande, e sia io che la mamma capiamo il tuo desiderio di viaggiare. Troveremo insieme dei sistemi sicuri che ti permettano di esplorare il mondo. Intanto, grazie alla tua collaborazione nel lavoro , e alla tua intelligenza, i nostri guadagni miglioreranno” “Bene – disse la mamma – ed io veglierò affinché le vostre azioni siano sempre oneste, l’intelligenza non si trasformi in furbizia o in tentativi d’ingannare il prossimo, per mascalzone che sia: ciò che conta è che ognuno di noi sappia di poter contare sull’amorevole presenza dell’altro. Il resto verrà da solo”. Si abbracciarono stretti stretti tutti e tre e da allora compirono solo buone azioni. Dall'originale dei Fratelli Grimm 124 LA PRINCIPESSINA SUL PISELLO C'era una volta un principe, che voleva sposare una principessa; ma aveva ad essere proprio una principessa vera. Fece dunque il giro del mondo per trovarla: - nè di principesse c'era penuria: ma non poteva mai sincerarsi se fossero vere principesse; sempre qualche cosa in esse gli pareva sospetto. E così se ne tornò a casa, afflittissimo per non aver trovato quello che desiderava. Una sera, il tempo era orribile; i lampi s'incrociavano, il tuono rumoreggiava, la pioggia cadeva a torrenti: uno spavento! Fu picchiato alla porta della città, ed il vecchio re si affrettò ad aprire. Era una principessa. Ma, Dio mio! com'era conciata dalla pioggia e dal vento! L'acqua le gocciolava dai capelli e dalle vesti, le entrava dall'orlo delle scarpe e le usciva dalle suole. Pure, dichiarò di essere una vera principessa. «Non dubitare che tra poco lo sapremo!» - pensò la vecchia regina; ma non disse nulla. Andò nella camera, disfece il letto, e mise un pisello sul fondo del fusto. Poi prese venti materasse e le distese sul pisello, e poi venti piumini, e li pose sopra alle materasse. E fu quello il letto destinato alla principessa. La mattina dopo le domandarono come avesse passata la notte. «Oh, malissimo!» - rispose: «Non ho quasi potuto chiuder occhio in tutta la notte. Sa Iddio che ci fosse nel letto! Ci sentivo qualche cosa di duro, che m'ha ridotto la pelle tutta lividure. Un martirio!» Dalla risposta si comprese subito ch'era una vera principessa, poi che aveva sentito un pisello a traverso a venti materasse ed a venti piumini. Chi, se non una principessa, può avere la pelle così delicata? 125 Il principe, ben persuaso ch'era una principessa vera, la tolse in moglie; ed il pisello fu posto nel museo, ove dev'essere ancora, se nessuno l'ha rubato. Perchè la storia, vedete, è vera quanto la principessa. Le vere principesse hanno l'animo delicato come la loro pelle, e alla giovane non garbava affatto di essere stata scelta in moglie a causa del suo rango e non per se stessa. Dunque, la sera delle nozze, ella confessò, per finta, allo sposo , d'essere una semplice contadina, che, abituata a dormir sulla paglia, aveva trovato scomode le troppe materasse, non certo il pisello, come invece aveva creduto la Regina Madre. Il principe, che invero ormai la amava per il suo animo, e non per il suo rango, le disse: “Sposa mia, che tu sia principessa o contadina poco conta; e, se ti è più comoda la paglia, ebbene, questa notte dormiremo nel fienile!” La principessa, allora, rise così forte da non poter più mentire al suo sposo, e, nel museo, accanto al pisello fu posto un ciuffo di paglia, a ricordare che ciò che conta è l'amore tra le anime, non certo i vestiti di cui si circondano su questa terra.... Dall'originale di Hans Christian Andersen 126 IL PRINCIPE RANOCCHIO Nei tempi antichi, quando ancora non si conosceva la forza creativa dei pensieri fatti e delle parole dette, c'era un re, le cui figlie erano tutte belle, ma la più giovane era così bella che perfino il sole, che pure ha visto tante cose, sempre si meravigliava, quando le brillava in volto. Vicino al castello del re c'era un gran bosco tenebroso e nel bosco, sotto un vecchio tiglio, c'era una fontana: nelle ore più calde del giorno, la principessina andava nel bosco e sedeva sul ciglio della fresca sorgente; e quando si annoiava, prendeva una palla d'oro, la buttava in alto e la ripigliava; e questo era il suo gioco preferito. Ora avvenne un giorno che la palla d'oro della principessa non ricadde nella manina ch'essa tendeva in alto, ma cadde a terra e rotolò proprio nell'acqua. La principessa la seguì con lo sguardo, ma la palla sparì, e la sorgente era profonda, profonda a perdita d'occhio. Allora la principessa cominciò a piangere, e pianse sempre più forte, e non si poteva proprio consolare. E mentre così piangeva, qualcuno le gridò: - Che hai, principessa? Tu piangi da far pietà ai sassi. Ella si guardò intorno, per vedere donde venisse la voce, e vide un ranocchio, che sporgeva dall'acqua la grossa testa deforme. - Ah, sei tu, vecchio sciaguattone! - disse, - piango per la mia palla d'oro, che m'è caduta nella fonte. - Chétati e non piangere, - rispose il ranocchio, - ci penso io; ma che cosa mi darai, se ti ripesco il tuo balocco? - Quello che vuoi, caro ranocchio, - diss’ella, - i miei vestiti, le mie perle e i miei gioielli, magari la mia corona d'oro. Il ranocchio rispose: - Le tue vesti, le perle e i gioielli e la tua corona d'oro io non li voglio: ma se mi vorrai bene, se potrò essere il tuo amico e compagno di giochi, seder con te alla tua tavolina, mangiare dal tuo piattino d'oro, bere dal tuo 127 bicchierino, dormire nel tuo lettino: se mi prometti questo; mi tufferò e ti riporterò la palla d'oro. - Ah sì, - diss’ella, - ti prometto tutto quel che vuoi, purché mi riporti la palla. Ma pensava: « Cosa va blaterando questo stupido ranocchio, che sta nell'acqua a gracidare coi suoi simili, e non può essere il compagno di una creatura umana! » Ottenuta la promessa, il ranocchio mise la testa sott'acqua, si tuffò e poco dopo tornò remigando alla superficie; aveva in bocca la palla e la buttò sull'erba. La principessa, piena di gioia aI vedere il suo bel giocattolo, lo prese e corse via. - Aspetta, aspetta! - gridò il ranocchio: - prendimi con te, io non posso correre come fai tu. Ma a che gli giovò gracidare con quanta fiato aveva in gola! La principessa non 1'ascoltò, corse a casa e ben presto aveva dimenticata la povera bestia, che dovette rituffarsi nella sua fonte. Il giorno dopo, quando si fu seduta a tavola col re e tutta la corte, mentre mangiava dal suo piattino d'oro plitsch platsch, plitsch platsch - qualcosa salì balzelloni la scala di marmo, e quando fu in cima bussò alla porta e gridò: - Figlia di re, piccina, aprimi! Ella corse a vedere chi c'era fuori, ma quando aprì si vide davanti il ranocchio. Allora sbatacchiò precipitosamente la porta, e sedette di nuovo a tavola, piena di paura. Il re si accorse che le batteva forte il cuore, e disse: - Di che cosa hai paura, bimba mia? Davanti alla porta c'è forse un gigante che vuol rapirti? - Ah no, - rispose ella, - non è un gigante, ma un brutto ranocchio. - Che cosa vuole da te? - Ah, babbo mio, ieri, mentre giocavo nel bosco vicino alla fonte, la mia palla d'oro cadde nell'acqua. E perché piangevo tanto, il ranocchio me l'ha ripescata; e perché ad 128 ogni costo lo volle, gli promisi che sarebbe diventato il mio compagno; ma non avrei mai pensato che potesse uscire da quell'acqua. Adesso è fuori e vuol venire da me. Intanto si udì bussare per la seconda volta e gridare: - Figlia di re, piccina, aprimi! Non sai più quel che ieri m'hai detto vicino alla fresca fonte? Figlia di re, piccina, aprimi! Allora il re disse: - Quel che hai promesso, devi mantenerlo; va' dunque, e apri -. Ella andò e aprì la porta; il ranocchio entrò e, sempre dietro a lei, saltellò fino alla sua sedia. Lì si fermò e gridò: - Sollevami fino a te. La principessa esitò, ma il re le ordinò di farlo. Appena fu sulla sedia, il ranocchio volle salire sul tavolo e quando fu sul tavolo disse: - Adesso avvicinami il tuo piattino d'oro, perché mangiamo insieme. La principessa obbedì, ma si vedeva benissimo che lo faceva controvoglia. Il ranocchio mangiò con appetito, ma a lei quasi ogni boccone rimaneva in gola. Infine egli disse: - Ho mangiato a sazietà e sono stanco; adesso portami nella tua cameretta e metti in ordine il tuo lettino di seta: andremo a dormire. La principessa si mise a piangere: aveva paura del freddo ranocchio, che non osava toccare e che ora doveva dormire nel suo bel lettino pulito. Ma il re andò in collera e disse: Non devi disprezzare chi ti ha aiutato nel momento del bisogno. Allora ella prese la bestia con due dita, la portò di sopra e la mise in un angolo. Ma quando fu a letto, il ranocchio venne saltelloni e disse: - Sono stanco, voglio dormir bene come te: tirami su, o lo dico a tuo padre. Allora la principessa capì che doveva porre rimedio alla situazione che aveva creato con la sua promessa vana, 129 perché altrimenti sarebbe stata schiava per sempre del suo errore. Prese il ranocchio, lo piazzò sul letto e gli disse: Ranocchio, ascoltami: ho sbagliato a farti una promessa che non avevo intenzione di mantenere e ti chiedo perdono. Ero così convinta che quella palla d’oro rappresentasse la cosa più preziosa del mondo che nel perderla mi sono sentita disperare e ho agito in modo meschino, pensando che tu, dal fondo del tuo stagno, non avresti mai potuto pretendere qualcosa da me. Ora so che non c’è nulla di tanto prezioso da valere il rispetto di me stessa e delle altre creature. Ti cederò il mio lettino e mangerai alla mia tavola, ma devo dirti che l’amicizia che tu mi hai chiesto in pegno non è possibile conquistarla con patti o promesse. Saremo amici quando i nostri occhi si guarderanno con limpidezza e i nostri spiriti sapranno capirsi senza parole. Il ranocchio, allora, improvvisamente ricordò: ricordò di quando i suoi occhi avevano incontrato quelli luminosi di un amico e fece per saltare giù dal letto. Quando cadde a terra, non era più un ranocchio: era un principe dai begli occhi ridenti. Raccontò alla principessa che era stato stregato da una cattiva maga e nessuno avrebbe potuto liberarlo se non un pensiero puro e luminoso. Ascoltando le parole della principessa aveva ricordato il suo fido scudiero Enrico e la bellezza dell’amicizia che li legava lo aveva liberato. Poi si addormentarono. La mattina dopo, quando il sole li svegliò, arrivò una carrozza con otto cavalli bianchi, che avevano pennacchi bianchi sul capo e i finimenti d'oro; e dietro c'era lo scudiero del giovane re, il fedele Enrico. Il fedele Enrico si era così afflitto, quando il suo re era stato trasformato in ranocchio, che si era fatto mettere tre cerchi di ferro intorno al cuore, perché non gli scoppiasse dall'angoscia. Ma ora la carrozza doveva portare il giovane re nel suo regno; il fedele Enrico vi fece entrare il giovane, 130 salì dietro ed era pieno di gioia per la liberazione. Quando ebbero fatto un tratto di strada, il principe udì uno schianto, come se dietro a lui qualcosa si fosse rotto. Allora si volse e gridò:- Rico, qui va in pezzi il cocchio! -No, padrone, non è il cocchio, bensì un cerchio del mio cuore, ch'era immerso in gran dolore, quando dentro alla fontana tramutato foste in rana. Per due volte ancora si udì uno schianto durante il viaggio; e ogni volta il principe pensò che il cocchio andasse in pezzi; e invece erano soltanto i cerchi, che saltavano via dal cuore del fedele Enrico, perché il suo amico era libero e felice. Dall’originale dei Fratelli Grimm 131 LA VOLPE E LA CICOGNA Pareva proprio che la volpe e la cicogna fossero buone amiche. Un tempo si vedevano spesso, e un giorno la volpe invitò a pranzo la cicogna; per farle uno scherzo, le servì della minestra in una scodella poco profonda: la volpe leccava facilmente, ma la cicogna riusciva soltanto a bagnare la punta dei lungo becco e dopo pranzo era più affamata di prima. "Mi spiace!" - disse la volpe - "La minestra non è di tuo gradimento?". “Non avere scrupoli”- rispose la cicogna –“ anzi spero che vorrai restituirmi presto la visita e venire a pranzo da me”. Arrivò il giorno. Le due amiche sedettero a tavola, ma le pietanze erano preparate in vasi dal collo lungo e stretto nei quali la volpe non riusciva ad infilare il muso. Tutto ciò che potè fu leccare l’esterno del vaso. “Non ho scrupoli, per il pranzo”- disse la cicogna-“Chi la fa l’aspetti.” La volpe rimase seduta alla tavola della cicogna. Era seriamente dispiaciuta dell’accaduto, perché solo ora capiva come l’amica si fosse sentita, quando lei le aveva riservato il medesimo trattamento. Neanche la cicogna andava fiera del disappunto arrecato alla volpe, poiché ad entrambe importava una sola cosa: essere amiche. Così si abbracciarono felici, promettendosi di essere sempre rispettose della natura l’una dell’altra. La vera amicizia prevale sulla furbizia. Dall'originale di Esopo 132 SCARPETTE ROSSE C'era una volta una povera orfana che non aveva scarpe. La bimba conservava tutti gli stracci che riusciva a trovare finchè un bel giorno riuscì a confezionarsi un paio di scarpette rosse. Erano rozze, ma le piacevano. La facevano sentire ricca nonostante trascorresse, fino a sera inoltrata, le sue giornate a cercare cibo nei boschi. Un giorno, mentre percorreva faticosamente una strada, vestita dei suoi stracci e con le scarpette rosse ai piedi, una carrozza dorata le si fermò accanto. La vecchia signora che la occupava le disse che l'avrebbe portata a casa con sé e l'avrebbe trattata come una sua figlioletta. Così andarono nella dimora della vecchia signora ricca, e là furono lavati e pettinati i capelli della bambina. Le furono dati biancheria fine, un bell'abito di lana e calze bianche e lucide scarpe nere. Quando la bambina chiese dei suoi vecchi abiti, e in particolare delle scarpette rosse, la vecchia le rispose che, sudici e ridicoli com'erano, li aveva gettati nel fuoco. La bimba era molto triste perché quelle umili scarpette rosse che aveva fatto con le proprie mani le avevano dato la più grande felicità. Ora era costretta a stare sempre ferma e tranquilla, a parlare senza saltellare e soltanto se interrogata. Un fuoco segreto le si accese nel cuore e continuò a desiderare più di ogni altra cosa le sue vecchie scarpette rosse. Poiché la bambina era abbastanza grande da ricevere la cresima, la vecchia signora la portò da un vecchio calzolaio zoppo, per acquistare una paio di scarpe speciali per l'occasione. In vetrina facevano bella mostra di sé un paio di scarpe rosse confezionate con la pelle più morbida 133 che si possa trovare. La bimba, spinta dal suo cuore affamato, subito le scelse. La vecchia signora ci vedeva così male che non si accorse del colore e glie le comprò. Il vecchio calzolaio strizzò l'occhio alla piccola e le incartò le scarpe. Il giorno dopo, in chiesa, tutti rimasero sorpresi da quelle scarpe rosse che brillavano come mele lustrate, come cuori, come prugne ben lavate. Ma alla bimba piacevano sempre di più. In giornata la vecchia signora venne a sapere delle scarpette rosse della sua pupilla. "Non mettere mai più quelle scarpe" le ordinò minacciosa. Ma la domenica dopo la bambina non potè fare a meno di mettersi le scarpette rosse, e poi si avviò alla chiesa con la vecchia signora. Sulla porta della chiesa c'era un vecchio soldato con il braccio al collo. S'inchinò, chiese il permesso di spolverare le scarpe e toccò le suole cantando una canzoncina che le fece venire il solletico ai piedi. "Ricordati di restare per il ballo" e le strizzò l'occhio. Anche questa volta tutti guardarono con sospetto le scarpette rosse della bambina. Ma a lei piacevano tanto quelle scarpe lucenti, rosse come lamponi, come melagrane, che non riusciva a pensare ad altro. Era tutta intenta a girare e rigirare i piedini, tanto che si dimenticò di cantare. Quando uscirono dalla chiesa, il vecchio soldato esclamò: "Che belle scarpette da ballo!". A quelle parole la bambina prese a piroettare e non riuscì più a fermarsi, tanto che parve avesse perduto completamente il controllo di sé. Danzò una gavotta e poi una csarda e poi un valzer, volteggiando attraverso i campi. Il cocchiere della vecchia signora si lanciò all'inseguimento della bambina, la prese e la riportò nella carrozza, ma i 134 piedini che indossavano le scarpette rosse continuavano a piroettare nell'aria. Quando riuscirono a togliergliele, finalmente i piedi della bambina si quietarono. Di ritorno a casa, la vecchia signora lanciò le scarpette rosse su uno scaffale altissimo e ordinò alla bambina di non toccarle mai più. Ma lei non riusciva a fare a meno di guardarle e desiderarle. Per lei erano ancora la cosa più bella che si trovasse sulla faccia della terra. Poco tempo dopo, mentre la signora era malata, la bambina strisciò nella stanza in cui si trovavano le scarpette rosse. Le guardò, là in alto sullo scaffale, le contemplò, e la contemplazione si trasformò in potente desiderio, tanto che la bambina prese le scarpe dallo scaffale e subito se le infilò, pensando che non sarebbe accaduto nulla di male. Ma non appena le ebbe ai piedi subito si sentì sopraffatta dal desiderio di danzare. Danzò uscendo dalla stanza, e poi lungo le scale, prima una gavotta, poi un csarda e poi un valzer vertiginoso. La bambina era in estasi, e si accorse di essere nei guai solo quando volle girare a sinistra e le scarpe la costrinsero a girare a destra, e volle danzare in tondo e quelle la obbligarono a proseguire. E poi la portarono giù per la strada, attraverso i campi melmosi e nella foresta scura. Appoggiato a un albero c'era il vecchio soldato dalla barba rossiccia, con il braccio al collo. "Oh che belle scarpette da ballo!" esclamò. Terrorizzata, la bambina cercò di sfilarsi le scarpe, ma più tirava e più quelle aderivano ai piedi. E così danzò e danzò sulle più alte colline e attraverso le valli, sotto la pioggia e sotto la neve e sotto la luce abbagliante del sole. Danzò nelle notti più nere e all'alba, danzò fino al tramonto. Ma era terribile: per lei non esisteva riposo. Danzò in un cimitero e là uno spirito pronunciò queste parole: "Danzerai con le tue 135 scarpette rosse fino a che non diventerai come un fantasma, uno spettro, finchè la pelle non penderà sulle ossa, finchè di te non resteranno che visceri danzanti. Danzerai di porta in porta per tutti i villaggi, e busserai tre volte a ogni porta, e quando la gente ti vedrà, temerà per la sua vita". La bambina chiese pietà, ma prima che potesse insistere le scarpette rosse la trascinarono via. Danzò sui rovi, attraverso le correnti, sulle siepi, e danzando danzando arrivò a casa, e c'erano persone in lutto. La vecchia signora era morta. Ma lei continuava a danzare. Entrò danzando nella foresta dove viveva il boia della città. E la mannaia appesa al muro prese a tremare sentendola avvicinare. "Per favore" pregò il boia mentre danzava sulla sua porta, "Per favore mi tagli le scarpe per liberarmi da questo tremendo fato". E con la mannaia il boia tagliò le cinghie delle scarpette rosse. Ma queste le restavano ai piedi. E lei lo pregò di tagliarle i piedi, perché così la sua vita non valeva nulla. Il boia la guardò impietosito, così piccola e così sprovveduta. “Sembra un artifizio del demonio. Dove hai preso questo scarpette?” “Dal vecchio calzolaio, giù, in paese” “Uhm, Si dice che sia un vecchio e zoppo diavolo che, per vendicarsi della sua deformità, voglia rendere deformi quanti più esseri possibile” “Già ma perché io, me misera, me sfortunata?” “Pensaci bene, se per caso non hai voluto queste scarpette con troppa insistenza, prima del maleficio” “Sì è così. Mi ricordavano un paio di scarpette che io da sola m’ero fatta, quando povera e derelitta vivevo nei boschi Era l’unica cosa bella che avessi” “Ma poi, dopo aver incontrato la vecchina, non sei stata più al freddo non eri più povera. Perché volevi ancora quelle scarpette?” 136 “Perché erano belle” rispose senza pensare la bambina “E davvero per la bellezza di un paio d’oggetti può valere la pena di perdere i propri preziosi piedini? Fu come se la bimba rinsavisse tutto d’un colpo. Rivide la sua amata benefattrice morta senza un saluto, rivide l’orribile calzolaio zoppo che le faceva l’occhiolino, il terrorizzante soldato dalla barba rossiccia che incontrava in strane circostanze e non faceva altro che ripeterle quanto belle fossero quelle comuni scarpette rosse. Sì un artifizio del demonio, certo, ma se fosse stata un po’ meno vanitosa esse non le avrebbero causato tanti guai, specie dopo la prima volta, quando l’avevano costretta a ballare per boschi e campi. “Ora so cosa è importante per me!” esclamò. “Ora so che la felicità che proviene dagli oggetti non è vera felicità, ma che addirittura talvolta può trasformarsi in una tragedia!”. Improvvisamente, a quelle parole, le scarpette lasciarono liberi i piedini della bambina, il cui animo, già rasserenato, si sollevò ancor di più. Così il boia non fu costretto a tagliarle i piedi. E le scarpette rosse continuarono a danzare attraverso la foresta e sulla collina e oltre, fino a sparire alla vista. La bambina decise di studiare per fare la maestra e mai più desiderò delle scarpette rosse. Si dice che il boia decise quella sera di cambiar mestiere, cosa che già da un po’ di tempo pensava di fare, e di mettersi a fare il contadino. Dall'originale di Hans Christian Andersen 137 RICCIDORO C'erano una volta tre Orsi, che vivevano in una casina nel bosco. C'era Babbo Orso grosso grosso, con una voce grossa grossa; c'era Mamma Orsa grossa la metà, con una voce grossa la metà; e c'era un Orsetto piccolo piccolo con una voce piccola piccola. Una mattina i tre Orsi facevano colazione e Mamma Orsa disse: - La pappa e troppo calda, ora. Andiamo a fare una passeggiata nel bosco, mentre la pappa diventa fredda. Così i tre Orsi andarono a fare una passeggiata nel bosco. Mentre erano via, arrivò una piccola bimba chiamata Riccidoro. Quando vide la casetta nel bosco, si domandò chi mai potesse vivere là dentro, e picchiò alla porta. Nessuno rispose, e la bimba picchiò ancora. Nessuno rispose: Riccidoro allora aprì la porta ed entrò. E là, nella piccola stanza, vide una tavola apparecchiata per tre. C'era una scodella grossa grossa, una scodella grossa la metà e una scodella piccola piccola. Riccidoro assaggiò la pappa della scodella grossa grossa: -Oh! E' troppo calda!- disse. Assaggiò la pappa della scodella grossa la metà: - Oh! E' troppo fredda! Poi assaggiò la pappa della scodella piccola piccola: - Oh ! Questa sì che va bene ! - E se la mangiò tutta. Poi entrò in un'altra stanza, e là vide tre seggiole. C'era una seggiola grossa grossa, c'era una seggiola grossa la metà e c'era una seggiola piccola piccola. Riccidoro si sedette sulla seggiola grossa grossa: -Oh! Questa è troppo dura! - disse. Si sedette sulla seggiola grossa la metà: - Oh! Questa è troppo molle! Poi si sedette sulla seggiola piccola piccola:- Oh! Questa sì che va bene! -E vi si sedette con tanta forza, che la ruppe. 138 Entrò allora in un'altra stanza e là vide tre letti. C'era un letto grosso grosso, c'era un letto grosso la metà, e c'era un letto piccolo piccolo. Riccidoro si stese sul letto grosso grosso: - Oh! Questo e troppo duro! -disse. Provo il letto grosso la metà: - Oh! Questo e troppo molle! lnfine provò il letto piccolo piccolo: -Oh! Questo si che va bene! -sospirò, e subito prese sonno. Mentre Riccidoro dormiva i tre Orsi tornarono dalla passeggiata nel bosco. Guardarono la tavola, e Babbo Orso grosso grosso disse con la sua voce grossa grossa:- QUALCUNO HA ASSAGGIATO LA MIA PAPPA . Mamma Orsa grossa la metà disse con la sua voce grossa la metà: -Qualcuno ha assaggiato la mia pappa ! L'Orsetto piccolo piccolo disse con la sua voce piccola piccola: - Qualcuno ha assaggiato la mia pappa e se l'e mangiata tutta!- I tre Orsi entrarono nella camera accanto. Babbo Orso grosso grosso guardò la sua seggiola e disse con la sua voce grossa grossa: - QUALCUNO Sl E' SEDUTO SULLA MIA SEGGIOLA ! Mamma Orsa grossa la metà disse con la sua voce grossa la metà: - Qualcuno si è seduto sulla mia seggiola ! E l'Orsetto piccolo piccolo gridò con la sua voce piccola piccola: - Qualcuno si è seduto sulla mia seggiola e l'ha rotta! I tre Orsi entrarono infine nella camera da letto. Babbo Orso grosso grosso disse con la sua voce grossa grossa: - QUALCUNO Sl E' STESO SUL MIO LETTO! Mamma Orsa grossa la metà disse con la sua voce grossa la metà: - Qualcuno si è steso sul mio letto! E l'Orsetto piccolo piccolo gridò con la sua voce piccola piccola: - Qualcuno si è steso sul mio letto, ed eccola qui! 139 La voce acuta dell'Orsetto piccolo piccolo svegliò Riccidoro, e voi potete ben immaginare come si spaventò nel vedere i tre Orsi che la guardavano. Balzò giù dal letto, attraversò la stanza di corsa, quando si trovò di fronte proprio papà Orso che le sbarrava il passo. Riccidoro dalla paura si mise accucciata con la testa tra le ginocchia e rimase lì immobile. -Papà, ma che animale è?- disse l’Orso piccolo piccolo. - UHM.. NON LO SO, GUARDA CHE BUFFA PELLICCIA DORATA HA SULLA TESTA-Quello che è certo- disse Mamma Orsa -è che si tratta di un cucciolo, l’odore è inconfondibile! Su, Papà Orso, non la spaventare e lascia fare a me- E Mamma Orsa prese tra le braccia la piccola Riccidoro. –Allora, buffo cuccioletto, vuoi dirci da dove vieni e perché sei entrata qui?Riccidoro nel sentire il tono gentile della Mamma Orsa si tranquillizzò un po’ e riuscì a dire: - Sono Riccidoro, vivo nel bosco : ho visto un riparo tranquillo e sono entrata… -LO SAI- disse Papà Orso – CHE E’ SEMPRE BENE CHIEDERE PERMESSO PER ENTRARE IN UNA CASA, E CHE NON BISOGNEREBBE ENTRARE SE NON INVITATI A FARLO?- Riccidoro non rispose e abbassò gli occhi. -E anche prima di mangiare tutta la pappa di un orsetto bisognerebbe chiedere il permesso, vero papà?- disse l’Orso piccolo piccolo. Riccidoro era mortificata e disse : -Se volete vado a raccogliervi delle buone bacche da mangiare tutte per voi…Mamma Orsa sorrise: -Se vuoi farlo va bene, e sappi che da oggi in poi ci sarà sempre una ciotola di pappa, una seggiolina ed un lettino anche per te!- Grazie!- disse Riccidoro felice, e corse nel bosco veloce a cercare le bacche migliori. Dall’omonima fiaba popolare 140