12 amabili - Richard e Piggle
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12 amabili - Richard e Piggle
Due fratelli in affidamento: modificazioni dei loro ambienti e trasformazioni interne BARBARA AMABILI, MARCELLA GRIFFO In questo articolo si intende riportare il percorso terapeutico di due fratelli giunti a un affidamento familiare all’età di sei e sette anni. Manuele1, il maggiore, ha svolto una psicoterapia triennale e, poco dopo la sua conclusione, il fratello Paolo2 ha iniziato una terza esperienza analitica che, finalmente stabile, prosegue ancora. L’interesse di questo caso risiede nella terapia quasi parallela dei due fratelli che ha consentito di rilevare i vissuti di entrambi impegnati nella elaborazione di un cambiamento catastrofico. È stato possibile inoltre incontrare, da parte delle terapeute, sia le persone affidatarie che i genitori naturali e osservare e accogliere le dinamiche e l’influenza reciproca di questi due poli alle prese con l’affido. È la figlia, studentessa universitaria, a proporre alla madre, insegnante alle superiori, e al padre, militare di carriera, l’idea dell’affidamento, accolta con entusiasmo da un appello fatto in una riunione parrocchiale. Vedremo come le persone affidatarie diventeranno per la famiglia naturale un valido sostegno attraverso delicate pressioni orientate verso una funzione genitoriale più adeguata. La conoscenza più articolata tra i due nuclei ha permesso agli affidatari un contatto emotivo più profondo con la storia e le gravi problematiche dei bambini e, quelle valenze normative, che avevano fortemente caratterizzato l’inizio del rapporto, ora, non invadono più il campo. Manuele, la sua famiglia e le persone affidatarie: primi movimenti Entrambi i genitori dei bambini, Nora e Gino, presentano dei disturbi: la schizofrenia della madre viene diagnosticata a ridosso della depressione 1 La psicoterapia di Manuele è stata svolta dalla Dott.ssa Amabili presso il Servizio Territoriale. 2 La psicoterapia di Paolo è stata svolta dalla Dott.ssa Griffo in ambito privato. Richard e Piggle, 15, 1, 2007 64 B. Amabili, M. Griffo: Due fratelli in affidamento post partum sofferta dopo la nascita di Paolo. Il padre presenta problemi nella gestione degli impulsi: rigido, autoritario, praticherà degli esorcismi alla moglie, “posseduta dal male!”, angosciata dalla persecutorietà della figura del diavolo. Quando i bambini hanno quattro e tre anni, viene segnalato ai Servizi Sociali lo stato di incuria ed abbandono in cui vivono: vengono visti soli, sul balcone, per quasi tutto il giorno. Alla confusione patologica della propria casa si sostituiscono le rigide regole dell’Istituto in cui vivranno per due anni. La mamma subisce dei ricoveri ed è tuttora in carico presso il Dipartimento di Salute Mentale. Gli affidatari, che si faranno chiamare Zio Remo e Zia Lina, si attivano subito per Paolo, che presenta un disturbo generalizzato dello sviluppo con tratti autistici e poco dopo chiedono un aiuto anche per Manuele che li fa avvicinare con difficoltà alla sua sofferenza: “si tiene tutto dentro! Non accetta coccole, vuole mostrarsi forte, senza bisogni, poi la sera piange ma si rifiuta di parlarne”, dicono. Manuele, che ha un bel viso dai tratti mediterranei, con occhi molto espressivi e grandi, non alto e un po’ cicciottello, si presenta a me con fare ossequioso; quasi privo di spontaneità, risulta continuamente alle prese con l’imbrigliamento della sua vitalità emotiva. Mi osserva molto, mi scruta anzi, è desideroso di essere accolto, cerca fiducia ma si difende dal rapporto con una serie di scuse e permessi: “posso usare la matita?”, “posso fare una domanda…, come ti chiami?”, “scusa, scusa!” dice preoccupato, quando l’angolo del suo foglio ha coperto appena il mio. Il bambino si impegna in un’opera incessante di filtraggio dei propri contenuti emotivi che si muovono in un’area compiacente dove elementi di onnipotenza e di idealizzazione erigono barricate contro sentimenti di vuoto, di perdita, di disorientamento. Il bisogno di controllare la situazione, di perlustrare il campo al fine di evitare l’imprevedibile o ammortare il contatto con l’imprevisto è massiccio. Questa iniziale rigidità organizzata e solida si contrappone alla configurazione frammentata del fratello più piccolo che appare come immerso in un caos interno, confuso, scoordinato, poco consistente, desideroso di slanciarsi nel rapporto ma privo di capacità relazionale. Quanto è ritratto e sospettoso l’uno, tanto è debordante ed indifferenziato l’altro. Manuele è sempre molto attento alle possibili variazioni del mio stato d’animo, mi chiede, spesso ad inizio seduta, se io sia arrabbiata o triste, lasciandomi alle prese con le sue proiezioni e con il faticoso lavoro che deve aver comportato l’affinamento della strategia atta alla congrua percezione dell’umore della madre e delle possibili eruzioni di aggressività del padre. Chiede rassicurazione circa la continuità del lavoro terapeutico e dell’affidamento: l’angoscia relativa alla eventuale ripetizione del trauma, catastrofe ipotetica sempre in agguato è tamponata, all’inizio, da continui interrogativi, “e se devo andare via pure dagli zii?”, “ma noi due per quanto tempo ci vedremo ancora?…” Richard e Piggle, 15, 1, 2007 B. Amabili, M. Griffo: Due fratelli in affidamento 65 L’adattamento ambientale ai suoi bisogni era stato inattendibile e privo di stabilità fino ad arrivare al crollo, alla disgregazione totale, anche fisica, della sua famiglia. Tornare ad avere delle speranze costituiva un tragitto di difficile percorribilità. Manuele si difende anche con il corpo dall’andare in pezzi, arriva sempre con un atteggiamento compassato, cammina come se avesse un’armatura, quasi a comprimere carichi di rabbia insostenibili che, senza la certezza di una sopravvivenza emotivo relazionale, rimangono imbrigliati, indigeriti: la madre lo aveva lasciato, il padre non l’aveva tenuto, non aveva potuto fare esperienza di una restituzione, di una metabolizzazione dei suoi vissuti. All’inizio, la coppia affidataria, ma soprattutto la signora, era molto orientata verso la figura genitoriale normativa, “devono imparare a non bere attaccati alla bottiglia, a non girare per casa scalzi, a scrivere tutti i compiti sul diario, ad essere educati!”. Elementi controtransferali mi avvicinavano alle esperienze emotive del bambino: ricordo la rabbia delusiva provata quando venni a conoscenza della negata uscita al cinema a causa dei compiti non completati. Lo zio Remo, anche se poco in sintonia con la scelta della moglie, vi accompagnò solo Paolo, mentre Manuele rimase a casa con lei a studiare. Dopo qualche tempo, la signora si convinse che Manuele avesse un disturbo di apprendimento, “testato” anche dalla figlia, studentessa logopedista. La divergente lettura delle accennate difficoltà di attenzione che le veniva restituita, anche dalle insegnanti, non la sollevavano e non è stato facile raggiungere una percezione altra delle difficoltà del bambino ad essere “attento come si deve!”. La coppia chiedeva al Servizio di non essere lasciata sola nel compito di cui si era fatta carico, esprimeva le difficoltà che incontrava, faceva partecipi gli operatori dei suoi entusiasmi, ma la proposta di avere incontri strutturati non è stata mai accolta. Comunque alcune posizioni della signora persero rigidità, si poterono condividere anche elementi conflittuali lasciati più liberi e fu possibile analizzare alcuni elementi di disillusione relativi all’esperienza affidataria. La dedizione dei coniugi affidatari verso i bambini permise al padre di poter nutrire fiducia verso una famiglia così diversa dalla sua, che nel frattempo aveva fatto esperienza della separazione, improvvisa e drammatica, della coppia. Pochi mesi dopo l’affidamento, egli rimase infatti solo ad occuparsi, nei week-end, dei bambini, poiché la moglie, “donnaccia ingrata che in mia assenza lasciava che la casa fosse frequentata da uomini!”, fu scacciata nei peggiori modi. Zio Remo e zia Lina facevano delicate ma precise richieste al papà, attenti a non urtare la sua suscettibilità, circa l’attivazione di una sufficiente preoccupazione e cura nei giorni della convivenza con i figli: ricordo le apprensioni che suscitavano in noi tutti le inadeguatezze paterne, la gestione delle vacanze o i suoi sonni pomeridiani che lasciavano Manuele e Paolo senza presa, senza tenuta. Richard e Piggle, 15, 1, 2007 66 B. Amabili, M. Griffo: Due fratelli in affidamento Così si cominciarono ad usare le lenzuola, il pigiama non fu più solo un optional, l’uso della doccia divenne più frequente, l’alimentazione perse il rituale dell’abboffata confusiva e in caso di virus intestinale si riuscì a far rispettare esclusione di salsicce o cioccolata. Poi si tentò di allargare la sensibilità verso aspetti meno legati a bisogni concreti e piccoli movimenti si avvertirono: gli incontri, all’inizio proibiti fra madre e figli, non furono più osteggiati dal padre e, a volte, in accordo con lui, erano gli stessi “zii” ad accompagnare i bambini dalla mamma, in casa della nonna materna. Manuele soffrì per la separazione dei genitori e per la rarità degli incontri con la madre, era un dolore quasi muto, anche il ricordo dei maltrattamenti che la mamma subiva, non solo verbali, lo abbatteva. Non poteva permettersi però di negare un po’ di ragione al padre per averla esclusa dalla sua vita: non poteva perdere chi ancora riusciva a tenerlo. Il bambino, fisicamente, somigliava molto al padre e forse ciò costituiva una sorta di rinforzo della differenza, che questi evidenziava, tra il versante psicopatologico della famiglia, mamma e Paolo e l’area sana, padre e Manuele. Il figlio, come il genitore, si muoveva come ben piantato a terra, non zompettante o sfuggente come il fratello. Mentre Paolo pareva camminare su un pavimento completamente dissestato, Manuele sembrava poggiare deciso il piede solo su quelle mattonelle che già in passato aveva sentito più sicure! Il fallimento ambientale diviene disastroso se si verifica negli stadi precoci della dipendenza assoluta (Winnicott, 1958), epoca in cui Paolo fu spinto verso un mondo di confusione, verso la patologia grave. Manuele invece ha potuto fare esperienza di una mamma ancora in grado di adattarsi, seppure con difficoltà, ai bisogni del figlio, ha potuto cioè registrare la perdita di qualcosa di sufficientemente buono e percepire, con il suo grado di sviluppo e di organizzazione, come traumatica l’esperienza deprivante. Il bambino aveva verso il fratello un atteggiamento ambivalente: lo respingeva infastidito dal suo ritardo e dal suo mondo caotico o, premuroso, lo accoglieva proteggendolo anche da attacchi esterni. Le conquiste di Paolo, che sembravano rinforzare l’elemento affettivo della coppia fraterna, erano comunicate con orgoglio, che Paolo riconoscesse tutte le lettere dell’alfabeto significava poter finalmente condividere piccole spinte verso la organizzazione, l’acquisizione, la scoperta. All’inizio della terapia Manuele si poteva avvicinare all’esperienza dell’istituzionalizzazione solo attraverso elementi idealizzanti “… mio padre ha speso trecento milioni per farci stare in istituto”, o di negazione “… stavamo bene là!”. Più tardi emersero contenuti depressivi “… non giocavo con nessuno, non avevo amici”, o rabbiosi “… odiavo la suora che dava le botte a Paolo perché faceva la pipì a letto”. Gradualmente aveva potuto contattare aree concernenti il vuoto, la mancanza, il dolore, la nostalgia, dando l’avvio ad un processo di integrazione che poteva aiutarlo anche nella espressione Richard e Piggle, 15, 1, 2007 B. Amabili, M. Griffo: Due fratelli in affidamento 67 dei suoi stati emotivi più autentici. L’elemento narrativo sul tema era tuttavia sporadico, si difendeva molto da quegli stati di angoscia verso i quali sentivo di dover usare una delicatezza estrema così come succedeva quando ci si avvicinava ai problemi familiari, alla madre, al disturbo. La graduale nascita della spontaneità, la possibile conclusione Con Manuele si disegnava, non molto però, ricordo il primo disegno: un violento acquazzone si abbatte su un bambino con un ombrello non in grado di fornire un completo riparo. Si giocava con le carte di Pokemon o Dragonball, a nascondino, a dadi. Poi arrivarono le storie inventate, il gioco della rappresentazione, ma l’interesse maggiore era per i giochi con la palla: il calcio era la sua passione e a me piaceva giocare quelle partite, teatro ogni volta di tensioni, di metabolizzazione della rabbia, di esplosioni di gioia, ricche di elementi trasformativi. Negli intervalli, dalla protesta verso il mio cercare riposo, quasi gli ricordasse la persa presa emotiva della madre, passava alla postuma ricontestazione di alcuni falli, o al replay dei suoi migliori goal a cui seguiva la mia attesa valorizzazione; più in là cominciò ad usare il riposo tra i due tempi per parlare un po’ delle sue cose. Con il passare del tempo Manuele nutriva sempre più fiducia nel rapporto, sicuro della sua solidità, si faceva meno coartato, più libero nell’espressione di sé, la rabbia poteva circolare senza la paura paralizzante di ritorsioni. Si esercitava negli attacchi soprattutto con me, poco con gli affidatari, con il fratello, con le insegnanti, appena con il padre, mai con la mamma, percepita incapace di poter reggere ulteriori danneggiamenti. Il gioco del calcio, la sfida che cercava spesso provocatoriamente, sembravano usati per digerire elementi tossici. Al bisogno imperioso dell’onnipotenza, del trionfo sull’oggetto, del disprezzo, si alternavano ammirazione per alcuni miei tocchi o desiderio di riparazione per gli attacchi assestati. Il suo essere “tosto”, il mettermi alla prova si alternava a crolli improvvisi per falli inattesi. Si accasciava a terra, sofferente, con la richiesta silente di soccorrerlo e così io mi attivavo per rianimarlo, fasciarlo, aiutarlo a rialzarsi e a riportarlo nuovamente al gioco senza più dolore. Qualche mio commento sembrava appena sfiorarlo, “per fortuna che c’è questa stanza, dove Manuele si può liberare di tutta la rabbia che tiene dentro con tanta fatica! Qua si può anche morire di dolore e poi godersi il ritornare a sentirsi vivo. Forse è successo un po’ così quando mamma è stata male e hai sentito crollare tutto, adesso invece le cose vanno un po’ meglio…”. “Va be’…va be’, giochiamo dai” sorvolava Manuele. Piano piano la scena del colpo improvviso che stramazza al suolo e che richiede un immediato soccorso non fu più necessario rappresentarla. Poteva ora parlarmi dei suoi danni subiti e sentirmi disponibile alla cura anche attraverso l’uso della parola. Richard e Piggle, 15, 1, 2007 68 B. Amabili, M. Griffo: Due fratelli in affidamento A volte dovevo prendere al volo una pallina da tennis che partiva da slanci violenti, in altre l’andirivieni della palletta assumeva un rilassato ritmo lento in cui era possibile sperimentare una sorta di tranquilla fiducia relativa alla corrispondenza e alla reciprocità. La grandiosità perdeva i suoi tratti imperiosi, si facevano spazio sentimenti di condivisione, confidava le sue pene d’amore, partecipava i suoi innamoramenti e mi chiedeva di mantenere il segreto, che, rispondevo, oltre me, poteva essere conosciuto solo dalle mura della stanza. Come il fratello, Manuele era molto sensibile al tradimento (il padre accompagnò i figli in Istituto con la scusa di portarli a fare una gita). Le magliette, che in seduta diventavano zuppe di sudore o sporche di colore, a volte erano motivo di preoccupazione, quasi portassero, indelebili, i segni di un cambiamento, di un movimento interno non più coartato ma più spontaneo. Anche il corpo era meno contratto, la sua espressione si faceva più libera. Verso la fine giocava a calcio in canottiera, poteva spogliarsi senza rischiare di contattare la più assoluta vulnerabilità, senza corazza non arrivava più la certezza del crollo, all’inizio era persino intollerabile togliersi la giacca a vento. Lo sentivo più fortificato, più libero, a scuola la situazione era buona, il falso sé non si stagliava più nello scenario dei suoi rapporti, gli aspetti più primitivi, prima nascosti ed esclusi dalla terapia erano stati espressi, il dolore aveva trovato uno spazio e un luogo in cui essere metabolizzato. La tolleranza alla frustrazione era cresciuta, nelle nostre partite la sconfitta poteva essere accettata senza generare automaticamente rabbia e risentimento, la rivincita poteva persino essere rimandata alla seduta seguente. Quell’anno avrebbe finito la quinta, “…in prima media voglio andarci da solo a scuola, a piedi!”. Prima di Pasqua presi la decisione di comunicare la fine della psicoterapia per luglio. Forse incoraggiata ad aver fiducia anche da Manuele che mi aveva chiesto, qualche volta e non reattivamente, per quanto tempo ci saremmo ancora visti. Eravamo lontani dal vissuto abbandonico che aveva caratterizzato le prime “vacanze-sparizioni”: avevano questa valenza le separazioni all’inizio. Sentivo di poterlo lasciare, il Servizio era una garanzia, avrebbe continuato a monitorare la situazione e sembra che grosse problematiche finora non siano emerse. Certo mi preoccupa un po’ l’adolescenza di questo ragazzino. Come troveranno posizione in lui gli elementi del trauma, come si ridefiniranno le situazioni disagiate che lo circondano? Come si risolverà l’affidamento? La terapia di Paolo Nel costruire la mia relazione terapeutica con Paolo, mi sono resa da subito conto delle grosse difficoltà di interazione: tutto è conoscibile, ma Richard e Piggle, 15, 1, 2007 B. Amabili, M. Griffo: Due fratelli in affidamento 69 niente è raggiungibile, il familiare si mescola al non-familiare, i confini dentro-fuori sono labili e confusi, difficilmente riesco a stabilire con lui un contatto, evita ogni mio tentativo di comunicare, interpretare, annulla ogni forma di pensiero. Sin dall’inizio del percorso analitico avverto una strana sensazione: ha lo sguardo assente, come se lui non ci fosse, un bambino privo di emotività che non lascia trasparire, né dalle sue parole né dai suoi gesti, nessuna emozione, nessun desiderio. Tutto intorno a lui sembra essere statico, l’unico movimento è scandito dalla regolarità delle azioni della vita quotidiana: alzarsi, andare a scuola, mangiare e dormire, che si ripetono inesorabili sempre allo stesso modo. Le sue parole non comunicano, i suoi movimenti sono confusi, agitati, incontenibili, un continuo saltellare, correre dietro una pallina di gomma che sembra essere tutto il suo mondo ma che, nello stesso tempo, rappresenta per noi l’unica modalità di contatto e di apertura verso l’ esterno. Pur avendo strutturato, nel setting, la scatola dei giochi, Paolo non mostra alcun interesse per essa, i vari oggetti presenti sembrano non avere nessun significato, quella sua assenza di capacità di elaborare, a livello di pensiero, vissuti psichici inconsci, si traduce in un dominio dell’azione che ripropone, nel continuare a giocare a calcio, anche durante i nostri incontri. È stata proprio una pallina, infatti, la sua compagna di giochi, sin da quando era nella culla, dove veniva lasciato per ore, senza contatto umano, vista la grave patologia psichica della madre e l’assenza continua del padre. Così Paolo è cresciuto da solo, probabilmente fantasticando una realtà altra, che giustifica, forse, la presenza in seduta di alcuni ritiri, accompagnati da un dialogo personalizzato, in cui la realtà esterna, in questo caso la terapeuta, viene esclusa, senza nessuna possibilità di interazione. La richiesta di un intervento e sostegno psicologico si attiva proprio quando Paolo inizia l’inserimento a scuola, ma le sue difficoltà di stare in un luogo e in una relazione hanno fatto sì che sin dall’inizio, abbia trasformato il setting in una vera palestra, dove esercitarsi a fare goal; lui era l’unico protagonista ed imitare i calciatori più bravi e maldestri era l’obiettivo principale “ecco il tiro alla Totti o alla Maldini…”, ma mai un tiro alla Paolo visto che, quando l’ho conosciuto, sembrava privo di una propria struttura di personalità. Ho dovuto così imparare i nomi dei vari calciatori, cercando di distinguerli a seconda della squadra, ma più di tutto ho dovuto imparare a giocare a calcio, nel mio tentativo di reggere i suoi colpi ma anche reggere lui, con la sua sistematica ripetitività. Accanto al gioco del calcio veniva fuori anche una personalità grandiosa di Paolo, dove il corpo (mi mostrava parti fisiche) veniva esaltato a scudo di una personalità più fragile ed indifesa. Richard e Piggle, 15, 1, 2007 70 B. Amabili, M. Griffo: Due fratelli in affidamento La seduta in realtà iniziava e finiva nella sala d’attesa, dove chiedeva a tutti i presenti la loro squadra del cuore, ridendo e scherzando, in maniera indiscriminata, con persone conosciute e non, con fare pittoresco e da giullare che faceva ridere e divertire e nello stesso tempo intuire la sua assenza di confini, sia personali che sociali. Questo suo modo di essere crea seri problemi alle persone affidatarie, per loro la preoccupazione maggiore è l’ombra della patologia della madre biologica di Paolo: la schizofrenia, tanto da prendere in considerazione l’eventualità di rimandare in un istituto il piccolo Paolo e suo fratello. Paolo, nel suo bisogno di attenzione, viene da me alla ricerca di un ambiente contenitivo, di un holding che gli consenta di riordinare, ma soprattutto sviluppare, le istanze della personalità che al momento sembrano essere deficitarie, sento il suo bisogno di rapportarsi ad una figura accudente che non sia la ripetizione di quelle già sperimentate: una madre naturale schizofrenica ed un’ affidataria “militaresca”. Cambiamento interno Al ritorno in terapia, dopo la pausa estiva del primo anno, mi ritrovo di fronte un bambino diverso… molti degli atteggiamenti di grandiosità, esagerati, invadenti, sembrano essere rientrati, Paolo è più controllato. Avverto che spazio e tempo sono ormai presenti nella sua mente, infatti comincia a distinguere i giorni della settimana, corrispondenti alle sedute, secondo l’ordine preciso; così come ad avvertire la fine della seduta. Continua il gioco del calcio, ma con una variante in più: non sono più i vari giocatori delle squadre ad intrattenersi nelle nostre partite ma è “Paolo, che gioca come Vialli o Gattuso”, che si sperimenta in nuove partite, con tiri acrobatici che ripete, là dove sbaglia, ed esulta quando raggiunge l’obbiettivo, il fatidico goal. Di tanto in tanto la seduta inizia con “ieri sono andato da mamma…” fino ad allora non era mai stata menzionata, ma soprattutto è la prima volta che le sue parti affettive fanno capolino tra un’ azione e l’altra, anche se ad ogni mio tentativo di approfondire e capire il suo vissuto emotivo, la cosa viene sviata con un “… va bene… va bene…” e subito di nuovo il dominio dell’azione sul pensiero. Con questa sua modalità tangenziale inizia a parlare di sé, portandomi in seduta anche un Sé più debole, che sbaglia e che non è poi così imbattibile; durante le nostre partite, come era successo anche per il fratello, può permettersi di tollerare la frustrazione della sconfitta o di sbagliare, di uscire allo scoperto, di mostrarmi anche le sue parti più deboli, sicuro di sentirsi accettato. Il presentarmi aspetti fragili di sé, pur se ancora confusi e da riordinare, gli consente di iniziare a collegare il suo presente al passato, Richard e Piggle, 15, 1, 2007 B. Amabili, M. Griffo: Due fratelli in affidamento 71 con riferimenti continui alla sua infanzia; ho come la sensazione che, nel non riuscire a pensare alle proprie emozioni, sensazioni, idee e pensieri abbia bisogno di un termine di confronto con l’altro, un lavorio continuo che mi costringe a restare concentrata, per gran parte del nostro incontro. La seconda fase della terapia è caratterizzata, infatti, dalla presenza ossessiva della ripetizione continua dei nomi, fino allo sfinimento… come se non ci fosse altro di cui parlare, se non dei calciatori, delle loro squadre e goal. Nello stesso tempo inizia però ad emergere un nuovo atteggiamento nei miei confronti: sta valutando la possibilità di fidarsi di me, di potersi aprire per raccontare le sue parti più intime; più volte ci siamo ripetuti che le cose dette tra noi sono come dei “segreti”, che non possono essere detti ad altri: come si diceva, il tradimento era molto temuto da entrambi. La staticità delle sedute è tanto estenuante che il tempo sembra fermarsi e così, da parte mia, c’è un continuo guardare l’orologio, l’attesa della fine di un incontro che sembra non sopraggiungere mai, tanto da diventare interminabile. Attraverso il lavoro di interpretazione del controtransfert, inizio a notare delle modificazioni nella struttura dei nostri incontri: durante le partite, non parliamo più solo di calciatori e goal, ma anche di altri argomenti, emerge un’altra caratteristica del suo modo di essere: quella di mangiare fino a sentirsi male. Come per Manuele, il cibarsi piuttosto che il nutrirsi, occupa un ruolo centrale nei loro racconti, entrambi riferiscono di pranzi domenicali luculliani, che sembravano dover colmare digiuni di ricchezza emotiva, offerti da un ambiente deprivante. Un giorno Paolo mi rivela una terrificante verità, secondo la quale la madre si è ammalata perché ha mangiato troppo durante il suo battesimo. Un’ affermazione che mi permette di dare un significato diverso al suo modo di percepire il cibo, non più solo considerato nella sua funzione di soddisfacimento primitivo, ma anche come espiazione di una colpa, un’ autopunizione per la malattia causata alla madre. Le sedute non sono più solo delle partite di calcio, ma degli incontri più elaborati, dove entrano in scena altri aspetti della sua vita: affetti, emozioni, desideri, funzioni ed elaborazioni del pensiero, elementi che si mescolano ed interagiscono con una realtà del bambino più semplice e primitiva, ma che rendono Paolo più vivo e partecipe nella relazione, non più un semplice burattino. Lentamente, la continuità della terapia, ha favorito la costruzione di uno spazio interno (il setting) ben distinguibile da uno spazio esterno (la sala d’attesa) dove è stato per lui possibile riconoscere ciò che si può portare dentro la seduta: ricordi, segreti, confessioni, parti di sé; da ciò che si può portare fuori: saluti, risate, azioni. Richard e Piggle, 15, 1, 2007 72 B. Amabili, M. Griffo: Due fratelli in affidamento Mentre nella fase iniziale della terapia era impossibile individuare quale era il suo stato d’animo, per cui la sua euforia faceva da copertura a stati d’angoscia intollerabili. Nell’ultimo periodo Paolo manifesta, in maniera più autentica e diretta i propri stati emotivi, in una formula che non è più imitativa, ma personale ed adeguata alle circostanze, sicuro di essere accettato, nonostante le sue debolezze e diversità. Così durante uno dei nostri incontri si mostra irritato “certo devi essere proprio arrabbiato perché non ti ho portato l’acqua… mi dispiace, hai ragione di esserlo… lo sarei anche io al posto tuo, in fondo anche l’altra volta non l’ho portata e questa volta te l’aspettavi proprio…”. Le sue grida diventano ancora più acute, il suo gioco si fa ancora più veloce… Paolo continua a non rispondermi, ma forse è la prima volta che mi sta manifestando qualcosa di più intimo, le sue emozioni sono più dirette, autentiche, riconoscibili, riesco a capire qual è il suo stato emotivo “non hai portato neanche i bicchieri”, mi risponde e continua a giocare. Ho come la sensazione che le sedute si dividano in due tempi. Una prima fase in cui Paolo mi parla di sé, delle sue emozioni (si mostra arrabbiato o felice), di sua madre e di suo padre e della sua difficoltà nel riuscire ad integrare le diversità delle due famiglie in cui vive: la famiglia naturale e la coppia affidataria, ed una seconda, dove il gioco continua nella sua nuova evoluzione, le partite sono più articolate, le regole delimitano il nostro campo d’azione, una modalità di mostrarsi, di parlare, di confidarsi si articola al gioco del calcio. Altro elemento che a mio avviso è stato indice di un cambiamento è la graduale capacità di Paolo di stare da solo in presenza dell’altro, il gioco diventa individuale, la terapeuta può venire completamente esclusa, ma non essere per questo assente. Tale capacità viene raggiunta quando si arriva ad una vera e propria maturità emotiva, tradotta nella possibilità di Paolo di dar vita ad un maggiore controllo degli impulsi, non più soggetti ad una dispersione caotica e disorganizzata, ma più diretti verso scopi specifici: guardarsi dentro. Grazie alla sua identificazione con uno dei personaggi da lui portati nella terapia, è stato possibile prendere contatto con molti dei suoi vissuti ansiogeni, il diniego sembra dominare la scena quando, durante la seduta, vengono affrontate alcune tematiche personali; pare che ciò che gli è accaduto non è mai avvenuto e pertanto non può neanche essere elaborato. Gradualmente si sta prospettando per Paolo, nel suo dare il giusto peso alla terapia, la possibilità di curare le sue parti più deboli, non più coperte dalla sua grandiosità, ma più libere di esprimersi, anche nella sua continua preoccupazione per un corpo (e un pensiero) malato, che ora richiede di continuo il mio intervento di cura e di sostegno. Parla della madre e del padre, cerca una verità che lui non conosce ma che è pronto a percepire, nella sua mente sembrano emergere tante Richard e Piggle, 15, 1, 2007 B. Amabili, M. Griffo: Due fratelli in affidamento 73 domande sulla sua infanzia, di come si sono svolti gli eventi fino ad arrivare all’affidamento, perché ha dovuto lasciare i suoi genitori naturali, ed è proprio nel suo percorso di psicoterapia che forse Paolo sta cercando le sue risposte. Conclusioni Le autrici ritengono che la scelta di lasciare i due fratelli insieme nell’affido è stata positiva in quanto ha permesso a Manuele e Paolo di mantenere dentro di loro la percezione di una famiglia non completamente deflagrata. Conservare il legame fraterno ha favorito la stabilità di un’identità familiare originaria, che non ha mai perso la propria individuazione all’interno del nuovo nucleo. La compresenza ha avuto un effetto rassicurante su entrambi, ha dato un senso di continuità dell’esistere, consentendo la possibilità di un sostegno reciproco di fronte ad una realtà traumatica e ad una completamente sconosciuta. Le due psicoterapie e l’esperienza dell’affido hanno prodotto dei cambiamenti nei bambini e nelle famiglie, le reciproche trasformazioni hanno permesso un incontro, fra le persone affidatarie, Manuele e Paolo, che la famiglia originaria non ha attaccato. Anche lo sfumare delle valenze pedagogiche negli affidatari e l’accresciuta capacità genitoriale del padre hanno aiutato i bambini nel processo costitutivo del sé, gravemente messo a rischio dalla loro storia. Riassunto Le autrici ripercorrono le vicende cliniche di due fratelli affidati, all’età di sei e sette anni, ad una famiglia che presto chiede aiuto per le problematiche che incontra. Il fallimento delle cure materne e l’inadeguatezza del padre conducono verso un esperienza traumatica che lascia i bambini alle prese con l’elaborazione della deprivazione e con la ricerca di una possibile organizzazione di un mondo interno caotico e confuso. Si analizzano il tragitto psicoterapeutico, le modificazioni avvenute nei fratelli e i movimenti trasformativi delle famiglie. Tra questi due poli l’elemento terzo della psicoterapia ha funzionato anche come riferimento forte in grado di nutrire, differenziare e spingere delicatamente verso la crescita. Parole chiave: Affidamento, fallimento ambientale, falso sé, holding, gioco e comunicazione corporea. Richard e Piggle, 15, 1, 2007 74 B. Amabili, M. Griffo: Due fratelli in affidamento Bibliografia Winnicott DW (1957). La capacità di essere soli. In: Sviluppo affettivo e ambiente (1965). Trad. it., Roma: Armando, 1974. Winnicott DW (1956). La preoccupazione materna primaria. In: Dalla pediatria alla psicoanalisi (1958). Trad it., Firenze: Martinelli, 1975. Winnicott DW (1963). Lo sviluppo dell’individuo dalla dipendenza alla indipendenza. In: Sviluppo affettivo e ambiente (1965). Trad. it., Roma: Armando, 1974. Questo articolo costituisce una versione rivista del lavoro presentato dalle Dott.sse Amabili e Griffo nella IV Giornata SIPsIA sull’Affidamento Familiare “Due fratelli in affidamento: modificazione dei loro ambienti e trasformazioni interne”, 25 novembre 2005. Barbara Amabili, Psicologa, Psicoterapeuta, Diplomata ASNE – SIPSIA. Indirizzo per la corrispondenza/Address for correspondence: Via Delle Colonie, 121 00058 Santa Marinella, Roma Marcella Griffo, Psicologa, Diplomanda ASNE – SIPSIA. Indirizzo per la corrispondenza/Address for correspondence: Via Enrico Fermi, 5 00058 Santa Marinella, Roma Richard e Piggle, 15, 1, 2007