12 amabili - Richard e Piggle

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12 amabili - Richard e Piggle
Due fratelli in affidamento:
modificazioni dei loro ambienti
e trasformazioni interne
BARBARA AMABILI, MARCELLA GRIFFO
In questo articolo si intende riportare il percorso terapeutico di due fratelli
giunti a un affidamento familiare all’età di sei e sette anni. Manuele1, il maggiore,
ha svolto una psicoterapia triennale e, poco dopo la sua conclusione, il fratello Paolo2
ha iniziato una terza esperienza analitica che, finalmente stabile, prosegue ancora.
L’interesse di questo caso risiede nella terapia quasi parallela dei due fratelli
che ha consentito di rilevare i vissuti di entrambi impegnati nella elaborazione
di un cambiamento catastrofico. È stato possibile inoltre incontrare, da parte delle
terapeute, sia le persone affidatarie che i genitori naturali e osservare e accogliere
le dinamiche e l’influenza reciproca di questi due poli alle prese con l’affido.
È la figlia, studentessa universitaria, a proporre alla madre, insegnante
alle superiori, e al padre, militare di carriera, l’idea dell’affidamento, accolta
con entusiasmo da un appello fatto in una riunione parrocchiale.
Vedremo come le persone affidatarie diventeranno per la famiglia naturale un valido sostegno attraverso delicate pressioni orientate verso una funzione genitoriale più adeguata. La conoscenza più articolata tra i due nuclei
ha permesso agli affidatari un contatto emotivo più profondo con la storia e le
gravi problematiche dei bambini e, quelle valenze normative, che avevano fortemente caratterizzato l’inizio del rapporto, ora, non invadono più il campo.
Manuele, la sua famiglia e le persone affidatarie: primi movimenti
Entrambi i genitori dei bambini, Nora e Gino, presentano dei disturbi:
la schizofrenia della madre viene diagnosticata a ridosso della depressione
1
La psicoterapia di Manuele è stata svolta dalla Dott.ssa Amabili presso il Servizio Territoriale.
2
La psicoterapia di Paolo è stata svolta dalla Dott.ssa Griffo in ambito privato.
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post partum sofferta dopo la nascita di Paolo. Il padre presenta problemi
nella gestione degli impulsi: rigido, autoritario, praticherà degli esorcismi
alla moglie, “posseduta dal male!”, angosciata dalla persecutorietà della
figura del diavolo.
Quando i bambini hanno quattro e tre anni, viene segnalato ai Servizi
Sociali lo stato di incuria ed abbandono in cui vivono: vengono visti soli, sul
balcone, per quasi tutto il giorno.
Alla confusione patologica della propria casa si sostituiscono le rigide
regole dell’Istituto in cui vivranno per due anni. La mamma subisce dei ricoveri ed è tuttora in carico presso il Dipartimento di Salute Mentale.
Gli affidatari, che si faranno chiamare Zio Remo e Zia Lina, si attivano
subito per Paolo, che presenta un disturbo generalizzato dello sviluppo con
tratti autistici e poco dopo chiedono un aiuto anche per Manuele che li fa
avvicinare con difficoltà alla sua sofferenza: “si tiene tutto dentro! Non
accetta coccole, vuole mostrarsi forte, senza bisogni, poi la sera piange ma si
rifiuta di parlarne”, dicono.
Manuele, che ha un bel viso dai tratti mediterranei, con occhi molto
espressivi e grandi, non alto e un po’ cicciottello, si presenta a me con fare
ossequioso; quasi privo di spontaneità, risulta continuamente alle prese con
l’imbrigliamento della sua vitalità emotiva. Mi osserva molto, mi scruta
anzi, è desideroso di essere accolto, cerca fiducia ma si difende dal rapporto
con una serie di scuse e permessi: “posso usare la matita?”, “posso fare una
domanda…, come ti chiami?”, “scusa, scusa!” dice preoccupato, quando l’angolo del suo foglio ha coperto appena il mio.
Il bambino si impegna in un’opera incessante di filtraggio dei propri contenuti emotivi che si muovono in un’area compiacente dove elementi di onnipotenza e di idealizzazione erigono barricate contro sentimenti di vuoto, di
perdita, di disorientamento. Il bisogno di controllare la situazione, di perlustrare il campo al fine di evitare l’imprevedibile o ammortare il contatto con
l’imprevisto è massiccio. Questa iniziale rigidità organizzata e solida si contrappone alla configurazione frammentata del fratello più piccolo che appare
come immerso in un caos interno, confuso, scoordinato, poco consistente,
desideroso di slanciarsi nel rapporto ma privo di capacità relazionale. Quanto
è ritratto e sospettoso l’uno, tanto è debordante ed indifferenziato l’altro.
Manuele è sempre molto attento alle possibili variazioni del mio stato
d’animo, mi chiede, spesso ad inizio seduta, se io sia arrabbiata o triste,
lasciandomi alle prese con le sue proiezioni e con il faticoso lavoro che deve
aver comportato l’affinamento della strategia atta alla congrua percezione
dell’umore della madre e delle possibili eruzioni di aggressività del padre.
Chiede rassicurazione circa la continuità del lavoro terapeutico e dell’affidamento: l’angoscia relativa alla eventuale ripetizione del trauma,
catastrofe ipotetica sempre in agguato è tamponata, all’inizio, da continui
interrogativi, “e se devo andare via pure dagli zii?”, “ma noi due per quanto
tempo ci vedremo ancora?…”
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L’adattamento ambientale ai suoi bisogni era stato inattendibile e privo di
stabilità fino ad arrivare al crollo, alla disgregazione totale, anche fisica, della
sua famiglia. Tornare ad avere delle speranze costituiva un tragitto di difficile
percorribilità. Manuele si difende anche con il corpo dall’andare in pezzi, arriva
sempre con un atteggiamento compassato, cammina come se avesse un’armatura, quasi a comprimere carichi di rabbia insostenibili che, senza la certezza
di una sopravvivenza emotivo relazionale, rimangono imbrigliati, indigeriti: la
madre lo aveva lasciato, il padre non l’aveva tenuto, non aveva potuto fare
esperienza di una restituzione, di una metabolizzazione dei suoi vissuti.
All’inizio, la coppia affidataria, ma soprattutto la signora, era molto
orientata verso la figura genitoriale normativa, “devono imparare a non bere
attaccati alla bottiglia, a non girare per casa scalzi, a scrivere tutti i compiti
sul diario, ad essere educati!”.
Elementi controtransferali mi avvicinavano alle esperienze emotive del
bambino: ricordo la rabbia delusiva provata quando venni a conoscenza
della negata uscita al cinema a causa dei compiti non completati. Lo zio
Remo, anche se poco in sintonia con la scelta della moglie, vi accompagnò
solo Paolo, mentre Manuele rimase a casa con lei a studiare.
Dopo qualche tempo, la signora si convinse che Manuele avesse un
disturbo di apprendimento, “testato” anche dalla figlia, studentessa logopedista. La divergente lettura delle accennate difficoltà di attenzione che le
veniva restituita, anche dalle insegnanti, non la sollevavano e non è stato
facile raggiungere una percezione altra delle difficoltà del bambino ad essere
“attento come si deve!”.
La coppia chiedeva al Servizio di non essere lasciata sola nel compito di
cui si era fatta carico, esprimeva le difficoltà che incontrava, faceva partecipi gli operatori dei suoi entusiasmi, ma la proposta di avere incontri strutturati non è stata mai accolta. Comunque alcune posizioni della signora persero rigidità, si poterono condividere anche elementi conflittuali lasciati più
liberi e fu possibile analizzare alcuni elementi di disillusione relativi all’esperienza affidataria.
La dedizione dei coniugi affidatari verso i bambini permise al padre di
poter nutrire fiducia verso una famiglia così diversa dalla sua, che nel frattempo aveva fatto esperienza della separazione, improvvisa e drammatica,
della coppia. Pochi mesi dopo l’affidamento, egli rimase infatti solo ad occuparsi, nei week-end, dei bambini, poiché la moglie, “donnaccia ingrata che
in mia assenza lasciava che la casa fosse frequentata da uomini!”, fu scacciata nei peggiori modi.
Zio Remo e zia Lina facevano delicate ma precise richieste al papà,
attenti a non urtare la sua suscettibilità, circa l’attivazione di una sufficiente preoccupazione e cura nei giorni della convivenza con i figli: ricordo
le apprensioni che suscitavano in noi tutti le inadeguatezze paterne, la
gestione delle vacanze o i suoi sonni pomeridiani che lasciavano Manuele e
Paolo senza presa, senza tenuta.
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Così si cominciarono ad usare le lenzuola, il pigiama non fu più solo
un optional, l’uso della doccia divenne più frequente, l’alimentazione
perse il rituale dell’abboffata confusiva e in caso di virus intestinale si riuscì a far rispettare esclusione di salsicce o cioccolata. Poi si tentò di allargare la sensibilità verso aspetti meno legati a bisogni concreti e piccoli
movimenti si avvertirono: gli incontri, all’inizio proibiti fra madre e figli,
non furono più osteggiati dal padre e, a volte, in accordo con lui, erano gli
stessi “zii” ad accompagnare i bambini dalla mamma, in casa della nonna
materna.
Manuele soffrì per la separazione dei genitori e per la rarità degli incontri con la madre, era un dolore quasi muto, anche il ricordo dei maltrattamenti che la mamma subiva, non solo verbali, lo abbatteva. Non poteva permettersi però di negare un po’ di ragione al padre per averla esclusa dalla
sua vita: non poteva perdere chi ancora riusciva a tenerlo.
Il bambino, fisicamente, somigliava molto al padre e forse ciò costituiva
una sorta di rinforzo della differenza, che questi evidenziava, tra il versante
psicopatologico della famiglia, mamma e Paolo e l’area sana, padre e
Manuele. Il figlio, come il genitore, si muoveva come ben piantato a terra,
non zompettante o sfuggente come il fratello. Mentre Paolo pareva camminare su un pavimento completamente dissestato, Manuele sembrava poggiare deciso il piede solo su quelle mattonelle che già in passato aveva sentito più sicure!
Il fallimento ambientale diviene disastroso se si verifica negli stadi precoci della dipendenza assoluta (Winnicott, 1958), epoca in cui Paolo fu spinto
verso un mondo di confusione, verso la patologia grave. Manuele invece ha
potuto fare esperienza di una mamma ancora in grado di adattarsi, seppure
con difficoltà, ai bisogni del figlio, ha potuto cioè registrare la perdita di qualcosa di sufficientemente buono e percepire, con il suo grado di sviluppo e di
organizzazione, come traumatica l’esperienza deprivante.
Il bambino aveva verso il fratello un atteggiamento ambivalente: lo
respingeva infastidito dal suo ritardo e dal suo mondo caotico o, premuroso,
lo accoglieva proteggendolo anche da attacchi esterni. Le conquiste di Paolo,
che sembravano rinforzare l’elemento affettivo della coppia fraterna, erano
comunicate con orgoglio, che Paolo riconoscesse tutte le lettere dell’alfabeto
significava poter finalmente condividere piccole spinte verso la organizzazione, l’acquisizione, la scoperta.
All’inizio della terapia Manuele si poteva avvicinare all’esperienza dell’istituzionalizzazione solo attraverso elementi idealizzanti “… mio padre ha
speso trecento milioni per farci stare in istituto”, o di negazione “… stavamo
bene là!”. Più tardi emersero contenuti depressivi “… non giocavo con nessuno, non avevo amici”, o rabbiosi “… odiavo la suora che dava le botte a
Paolo perché faceva la pipì a letto”. Gradualmente aveva potuto contattare
aree concernenti il vuoto, la mancanza, il dolore, la nostalgia, dando l’avvio
ad un processo di integrazione che poteva aiutarlo anche nella espressione
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dei suoi stati emotivi più autentici. L’elemento narrativo sul tema era tuttavia sporadico, si difendeva molto da quegli stati di angoscia verso i quali
sentivo di dover usare una delicatezza estrema così come succedeva quando
ci si avvicinava ai problemi familiari, alla madre, al disturbo.
La graduale nascita della spontaneità, la possibile conclusione
Con Manuele si disegnava, non molto però, ricordo il primo disegno: un
violento acquazzone si abbatte su un bambino con un ombrello non in grado
di fornire un completo riparo. Si giocava con le carte di Pokemon o Dragonball, a nascondino, a dadi. Poi arrivarono le storie inventate, il gioco della
rappresentazione, ma l’interesse maggiore era per i giochi con la palla: il calcio era la sua passione e a me piaceva giocare quelle partite, teatro ogni volta
di tensioni, di metabolizzazione della rabbia, di esplosioni di gioia, ricche di
elementi trasformativi. Negli intervalli, dalla protesta verso il mio cercare
riposo, quasi gli ricordasse la persa presa emotiva della madre, passava alla
postuma ricontestazione di alcuni falli, o al replay dei suoi migliori goal a
cui seguiva la mia attesa valorizzazione; più in là cominciò ad usare il riposo
tra i due tempi per parlare un po’ delle sue cose.
Con il passare del tempo Manuele nutriva sempre più fiducia nel rapporto, sicuro della sua solidità, si faceva meno coartato, più libero nell’espressione di sé, la rabbia poteva circolare senza la paura paralizzante di
ritorsioni. Si esercitava negli attacchi soprattutto con me, poco con gli affidatari, con il fratello, con le insegnanti, appena con il padre, mai con la
mamma, percepita incapace di poter reggere ulteriori danneggiamenti.
Il gioco del calcio, la sfida che cercava spesso provocatoriamente, sembravano usati per digerire elementi tossici. Al bisogno imperioso dell’onnipotenza, del trionfo sull’oggetto, del disprezzo, si alternavano ammirazione
per alcuni miei tocchi o desiderio di riparazione per gli attacchi assestati. Il
suo essere “tosto”, il mettermi alla prova si alternava a crolli improvvisi per
falli inattesi. Si accasciava a terra, sofferente, con la richiesta silente di soccorrerlo e così io mi attivavo per rianimarlo, fasciarlo, aiutarlo a rialzarsi e
a riportarlo nuovamente al gioco senza più dolore. Qualche mio commento
sembrava appena sfiorarlo, “per fortuna che c’è questa stanza, dove Manuele
si può liberare di tutta la rabbia che tiene dentro con tanta fatica! Qua si può
anche morire di dolore e poi godersi il ritornare a sentirsi vivo. Forse è successo un po’ così quando mamma è stata male e hai sentito crollare tutto,
adesso invece le cose vanno un po’ meglio…”. “Va be’…va be’, giochiamo dai”
sorvolava Manuele.
Piano piano la scena del colpo improvviso che stramazza al suolo e che
richiede un immediato soccorso non fu più necessario rappresentarla.
Poteva ora parlarmi dei suoi danni subiti e sentirmi disponibile alla cura
anche attraverso l’uso della parola.
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A volte dovevo prendere al volo una pallina da tennis che partiva da
slanci violenti, in altre l’andirivieni della palletta assumeva un rilassato
ritmo lento in cui era possibile sperimentare una sorta di tranquilla fiducia
relativa alla corrispondenza e alla reciprocità.
La grandiosità perdeva i suoi tratti imperiosi, si facevano spazio sentimenti di condivisione, confidava le sue pene d’amore, partecipava i suoi
innamoramenti e mi chiedeva di mantenere il segreto, che, rispondevo, oltre
me, poteva essere conosciuto solo dalle mura della stanza. Come il fratello,
Manuele era molto sensibile al tradimento (il padre accompagnò i figli in
Istituto con la scusa di portarli a fare una gita).
Le magliette, che in seduta diventavano zuppe di sudore o sporche di
colore, a volte erano motivo di preoccupazione, quasi portassero, indelebili,
i segni di un cambiamento, di un movimento interno non più coartato ma più
spontaneo. Anche il corpo era meno contratto, la sua espressione si faceva
più libera. Verso la fine giocava a calcio in canottiera, poteva spogliarsi
senza rischiare di contattare la più assoluta vulnerabilità, senza corazza
non arrivava più la certezza del crollo, all’inizio era persino intollerabile
togliersi la giacca a vento.
Lo sentivo più fortificato, più libero, a scuola la situazione era buona, il
falso sé non si stagliava più nello scenario dei suoi rapporti, gli aspetti più
primitivi, prima nascosti ed esclusi dalla terapia erano stati espressi, il
dolore aveva trovato uno spazio e un luogo in cui essere metabolizzato. La
tolleranza alla frustrazione era cresciuta, nelle nostre partite la sconfitta
poteva essere accettata senza generare automaticamente rabbia e risentimento, la rivincita poteva persino essere rimandata alla seduta seguente.
Quell’anno avrebbe finito la quinta, “…in prima media voglio andarci da
solo a scuola, a piedi!”.
Prima di Pasqua presi la decisione di comunicare la fine della psicoterapia per luglio. Forse incoraggiata ad aver fiducia anche da Manuele che
mi aveva chiesto, qualche volta e non reattivamente, per quanto tempo ci
saremmo ancora visti. Eravamo lontani dal vissuto abbandonico che aveva
caratterizzato le prime “vacanze-sparizioni”: avevano questa valenza le
separazioni all’inizio.
Sentivo di poterlo lasciare, il Servizio era una garanzia, avrebbe continuato a monitorare la situazione e sembra che grosse problematiche finora non
siano emerse. Certo mi preoccupa un po’ l’adolescenza di questo ragazzino.
Come troveranno posizione in lui gli elementi del trauma, come si ridefiniranno
le situazioni disagiate che lo circondano? Come si risolverà l’affidamento?
La terapia di Paolo
Nel costruire la mia relazione terapeutica con Paolo, mi sono resa da
subito conto delle grosse difficoltà di interazione: tutto è conoscibile, ma
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niente è raggiungibile, il familiare si mescola al non-familiare, i confini dentro-fuori sono labili e confusi, difficilmente riesco a stabilire con lui un contatto, evita ogni mio tentativo di comunicare, interpretare, annulla ogni
forma di pensiero.
Sin dall’inizio del percorso analitico avverto una strana sensazione: ha
lo sguardo assente, come se lui non ci fosse, un bambino privo di emotività
che non lascia trasparire, né dalle sue parole né dai suoi gesti, nessuna emozione, nessun desiderio.
Tutto intorno a lui sembra essere statico, l’unico movimento è scandito
dalla regolarità delle azioni della vita quotidiana: alzarsi, andare a scuola,
mangiare e dormire, che si ripetono inesorabili sempre allo stesso modo.
Le sue parole non comunicano, i suoi movimenti sono confusi, agitati, incontenibili, un continuo saltellare, correre dietro una pallina di
gomma che sembra essere tutto il suo mondo ma che, nello stesso tempo,
rappresenta per noi l’unica modalità di contatto e di apertura verso l’
esterno.
Pur avendo strutturato, nel setting, la scatola dei giochi, Paolo non
mostra alcun interesse per essa, i vari oggetti presenti sembrano non
avere nessun significato, quella sua assenza di capacità di elaborare, a
livello di pensiero, vissuti psichici inconsci, si traduce in un dominio dell’azione che ripropone, nel continuare a giocare a calcio, anche durante i
nostri incontri.
È stata proprio una pallina, infatti, la sua compagna di giochi, sin da
quando era nella culla, dove veniva lasciato per ore, senza contatto umano,
vista la grave patologia psichica della madre e l’assenza continua del padre.
Così Paolo è cresciuto da solo, probabilmente fantasticando una realtà
altra, che giustifica, forse, la presenza in seduta di alcuni ritiri, accompagnati da un dialogo personalizzato, in cui la realtà esterna, in questo caso la
terapeuta, viene esclusa, senza nessuna possibilità di interazione.
La richiesta di un intervento e sostegno psicologico si attiva proprio
quando Paolo inizia l’inserimento a scuola, ma le sue difficoltà di stare in un
luogo e in una relazione hanno fatto sì che sin dall’inizio, abbia trasformato
il setting in una vera palestra, dove esercitarsi a fare goal; lui era l’unico protagonista ed imitare i calciatori più bravi e maldestri era l’obiettivo principale “ecco il tiro alla Totti o alla Maldini…”, ma mai un tiro alla Paolo visto
che, quando l’ho conosciuto, sembrava privo di una propria struttura di personalità.
Ho dovuto così imparare i nomi dei vari calciatori, cercando di distinguerli a seconda della squadra, ma più di tutto ho dovuto imparare a giocare
a calcio, nel mio tentativo di reggere i suoi colpi ma anche reggere lui, con la
sua sistematica ripetitività.
Accanto al gioco del calcio veniva fuori anche una personalità grandiosa
di Paolo, dove il corpo (mi mostrava parti fisiche) veniva esaltato a scudo di
una personalità più fragile ed indifesa.
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La seduta in realtà iniziava e finiva nella sala d’attesa, dove chiedeva a
tutti i presenti la loro squadra del cuore, ridendo e scherzando, in maniera
indiscriminata, con persone conosciute e non, con fare pittoresco e da giullare che faceva ridere e divertire e nello stesso tempo intuire la sua assenza
di confini, sia personali che sociali.
Questo suo modo di essere crea seri problemi alle persone affidatarie,
per loro la preoccupazione maggiore è l’ombra della patologia della madre
biologica di Paolo: la schizofrenia, tanto da prendere in considerazione l’eventualità di rimandare in un istituto il piccolo Paolo e suo fratello.
Paolo, nel suo bisogno di attenzione, viene da me alla ricerca di un
ambiente contenitivo, di un holding che gli consenta di riordinare, ma
soprattutto sviluppare, le istanze della personalità che al momento sembrano essere deficitarie, sento il suo bisogno di rapportarsi ad una figura
accudente che non sia la ripetizione di quelle già sperimentate: una madre
naturale schizofrenica ed un’ affidataria “militaresca”.
Cambiamento interno
Al ritorno in terapia, dopo la pausa estiva del primo anno, mi ritrovo di
fronte un bambino diverso… molti degli atteggiamenti di grandiosità, esagerati, invadenti, sembrano essere rientrati, Paolo è più controllato. Avverto
che spazio e tempo sono ormai presenti nella sua mente, infatti comincia a
distinguere i giorni della settimana, corrispondenti alle sedute, secondo l’ordine preciso; così come ad avvertire la fine della seduta.
Continua il gioco del calcio, ma con una variante in più: non sono più i
vari giocatori delle squadre ad intrattenersi nelle nostre partite ma è “Paolo,
che gioca come Vialli o Gattuso”, che si sperimenta in nuove partite, con tiri
acrobatici che ripete, là dove sbaglia, ed esulta quando raggiunge l’obbiettivo, il fatidico goal.
Di tanto in tanto la seduta inizia con “ieri sono andato da mamma…”
fino ad allora non era mai stata menzionata, ma soprattutto è la prima volta
che le sue parti affettive fanno capolino tra un’ azione e l’altra, anche se ad
ogni mio tentativo di approfondire e capire il suo vissuto emotivo, la cosa
viene sviata con un “… va bene… va bene…” e subito di nuovo il dominio dell’azione sul pensiero.
Con questa sua modalità tangenziale inizia a parlare di sé, portandomi
in seduta anche un Sé più debole, che sbaglia e che non è poi così imbattibile; durante le nostre partite, come era successo anche per il fratello, può
permettersi di tollerare la frustrazione della sconfitta o di sbagliare, di
uscire allo scoperto, di mostrarmi anche le sue parti più deboli, sicuro di sentirsi accettato.
Il presentarmi aspetti fragili di sé, pur se ancora confusi e da riordinare, gli consente di iniziare a collegare il suo presente al passato,
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con riferimenti continui alla sua infanzia; ho come la sensazione che,
nel non riuscire a pensare alle proprie emozioni, sensazioni, idee e pensieri abbia bisogno di un termine di confronto con l’altro, un lavorio
continuo che mi costringe a restare concentrata, per gran parte del
nostro incontro.
La seconda fase della terapia è caratterizzata, infatti, dalla presenza
ossessiva della ripetizione continua dei nomi, fino allo sfinimento… come
se non ci fosse altro di cui parlare, se non dei calciatori, delle loro squadre e goal. Nello stesso tempo inizia però ad emergere un nuovo atteggiamento nei miei confronti: sta valutando la possibilità di fidarsi di me,
di potersi aprire per raccontare le sue parti più intime; più volte ci siamo
ripetuti che le cose dette tra noi sono come dei “segreti”, che non possono
essere detti ad altri: come si diceva, il tradimento era molto temuto da
entrambi.
La staticità delle sedute è tanto estenuante che il tempo sembra fermarsi e così, da parte mia, c’è un continuo guardare l’orologio, l’attesa della
fine di un incontro che sembra non sopraggiungere mai, tanto da diventare
interminabile.
Attraverso il lavoro di interpretazione del controtransfert, inizio a
notare delle modificazioni nella struttura dei nostri incontri: durante le partite, non parliamo più solo di calciatori e goal, ma anche di altri argomenti,
emerge un’altra caratteristica del suo modo di essere: quella di mangiare
fino a sentirsi male.
Come per Manuele, il cibarsi piuttosto che il nutrirsi, occupa un ruolo
centrale nei loro racconti, entrambi riferiscono di pranzi domenicali luculliani, che sembravano dover colmare digiuni di ricchezza emotiva, offerti da
un ambiente deprivante.
Un giorno Paolo mi rivela una terrificante verità, secondo la quale la
madre si è ammalata perché ha mangiato troppo durante il suo battesimo.
Un’ affermazione che mi permette di dare un significato diverso al suo
modo di percepire il cibo, non più solo considerato nella sua funzione di soddisfacimento primitivo, ma anche come espiazione di una colpa, un’ autopunizione per la malattia causata alla madre.
Le sedute non sono più solo delle partite di calcio, ma degli incontri più
elaborati, dove entrano in scena altri aspetti della sua vita: affetti, emozioni,
desideri, funzioni ed elaborazioni del pensiero, elementi che si mescolano ed
interagiscono con una realtà del bambino più semplice e primitiva, ma che
rendono Paolo più vivo e partecipe nella relazione, non più un semplice
burattino.
Lentamente, la continuità della terapia, ha favorito la costruzione di
uno spazio interno (il setting) ben distinguibile da uno spazio esterno (la sala
d’attesa) dove è stato per lui possibile riconoscere ciò che si può portare dentro la seduta: ricordi, segreti, confessioni, parti di sé; da ciò che si può portare fuori: saluti, risate, azioni.
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Mentre nella fase iniziale della terapia era impossibile individuare
quale era il suo stato d’animo, per cui la sua euforia faceva da copertura a
stati d’angoscia intollerabili. Nell’ultimo periodo Paolo manifesta, in
maniera più autentica e diretta i propri stati emotivi, in una formula che
non è più imitativa, ma personale ed adeguata alle circostanze, sicuro di
essere accettato, nonostante le sue debolezze e diversità.
Così durante uno dei nostri incontri si mostra irritato “certo devi essere
proprio arrabbiato perché non ti ho portato l’acqua… mi dispiace, hai
ragione di esserlo… lo sarei anche io al posto tuo, in fondo anche l’altra volta
non l’ho portata e questa volta te l’aspettavi proprio…”. Le sue grida diventano ancora più acute, il suo gioco si fa ancora più veloce… Paolo continua
a non rispondermi, ma forse è la prima volta che mi sta manifestando qualcosa di più intimo, le sue emozioni sono più dirette, autentiche, riconoscibili,
riesco a capire qual è il suo stato emotivo “non hai portato neanche i bicchieri”, mi risponde e continua a giocare.
Ho come la sensazione che le sedute si dividano in due tempi. Una prima
fase in cui Paolo mi parla di sé, delle sue emozioni (si mostra arrabbiato o
felice), di sua madre e di suo padre e della sua difficoltà nel riuscire ad integrare le diversità delle due famiglie in cui vive: la famiglia naturale e la coppia affidataria, ed una seconda, dove il gioco continua nella sua nuova evoluzione, le partite sono più articolate, le regole delimitano il nostro campo
d’azione, una modalità di mostrarsi, di parlare, di confidarsi si articola al
gioco del calcio.
Altro elemento che a mio avviso è stato indice di un cambiamento è la
graduale capacità di Paolo di stare da solo in presenza dell’altro, il gioco
diventa individuale, la terapeuta può venire completamente esclusa, ma non
essere per questo assente.
Tale capacità viene raggiunta quando si arriva ad una vera e propria
maturità emotiva, tradotta nella possibilità di Paolo di dar vita ad un
maggiore controllo degli impulsi, non più soggetti ad una dispersione
caotica e disorganizzata, ma più diretti verso scopi specifici: guardarsi
dentro.
Grazie alla sua identificazione con uno dei personaggi da lui portati
nella terapia, è stato possibile prendere contatto con molti dei suoi vissuti
ansiogeni, il diniego sembra dominare la scena quando, durante la seduta,
vengono affrontate alcune tematiche personali; pare che ciò che gli è accaduto non è mai avvenuto e pertanto non può neanche essere elaborato.
Gradualmente si sta prospettando per Paolo, nel suo dare il giusto peso
alla terapia, la possibilità di curare le sue parti più deboli, non più coperte
dalla sua grandiosità, ma più libere di esprimersi, anche nella sua continua
preoccupazione per un corpo (e un pensiero) malato, che ora richiede di continuo il mio intervento di cura e di sostegno.
Parla della madre e del padre, cerca una verità che lui non conosce ma
che è pronto a percepire, nella sua mente sembrano emergere tante
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domande sulla sua infanzia, di come si sono svolti gli eventi fino ad arrivare
all’affidamento, perché ha dovuto lasciare i suoi genitori naturali, ed è proprio nel suo percorso di psicoterapia che forse Paolo sta cercando le sue
risposte.
Conclusioni
Le autrici ritengono che la scelta di lasciare i due fratelli insieme nell’affido è stata positiva in quanto ha permesso a Manuele e Paolo di mantenere dentro di loro la percezione di una famiglia non completamente deflagrata.
Conservare il legame fraterno ha favorito la stabilità di un’identità
familiare originaria, che non ha mai perso la propria individuazione all’interno del nuovo nucleo.
La compresenza ha avuto un effetto rassicurante su entrambi, ha dato
un senso di continuità dell’esistere, consentendo la possibilità di un sostegno reciproco di fronte ad una realtà traumatica e ad una completamente
sconosciuta.
Le due psicoterapie e l’esperienza dell’affido hanno prodotto dei cambiamenti nei bambini e nelle famiglie, le reciproche trasformazioni hanno
permesso un incontro, fra le persone affidatarie, Manuele e Paolo, che la
famiglia originaria non ha attaccato.
Anche lo sfumare delle valenze pedagogiche negli affidatari e l’accresciuta capacità genitoriale del padre hanno aiutato i bambini nel processo
costitutivo del sé, gravemente messo a rischio dalla loro storia.
Riassunto
Le autrici ripercorrono le vicende cliniche di due fratelli affidati, all’età di
sei e sette anni, ad una famiglia che presto chiede aiuto per le problematiche che
incontra. Il fallimento delle cure materne e l’inadeguatezza del padre conducono
verso un esperienza traumatica che lascia i bambini alle prese con l’elaborazione
della deprivazione e con la ricerca di una possibile organizzazione di un mondo
interno caotico e confuso. Si analizzano il tragitto psicoterapeutico, le modificazioni avvenute nei fratelli e i movimenti trasformativi delle famiglie. Tra questi
due poli l’elemento terzo della psicoterapia ha funzionato anche come riferimento forte in grado di nutrire, differenziare e spingere delicatamente verso la
crescita.
Parole chiave: Affidamento, fallimento ambientale, falso sé, holding, gioco e comunicazione corporea.
Richard e Piggle, 15, 1, 2007
74 B. Amabili, M. Griffo: Due fratelli in affidamento
Bibliografia
Winnicott DW (1957). La capacità di essere soli. In: Sviluppo affettivo e ambiente (1965). Trad.
it., Roma: Armando, 1974.
Winnicott DW (1956). La preoccupazione materna primaria. In: Dalla pediatria alla psicoanalisi (1958). Trad it., Firenze: Martinelli, 1975.
Winnicott DW (1963). Lo sviluppo dell’individuo dalla dipendenza alla indipendenza. In: Sviluppo affettivo e ambiente (1965). Trad. it., Roma: Armando, 1974.
Questo articolo costituisce una versione rivista del lavoro presentato dalle Dott.sse Amabili e Griffo nella IV Giornata SIPsIA sull’Affidamento Familiare “Due fratelli in affidamento:
modificazione dei loro ambienti e trasformazioni interne”, 25 novembre 2005.
Barbara Amabili, Psicologa, Psicoterapeuta, Diplomata ASNE – SIPSIA.
Indirizzo per la corrispondenza/Address for correspondence:
Via Delle Colonie, 121
00058 Santa Marinella, Roma
Marcella Griffo, Psicologa, Diplomanda ASNE – SIPSIA.
Indirizzo per la corrispondenza/Address for correspondence:
Via Enrico Fermi, 5
00058 Santa Marinella, Roma
Richard e Piggle, 15, 1, 2007