SINTESI RAPPORTO CENSIS 2014.
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SINTESI RAPPORTO CENSIS 2014.
INDICE Considerazioni generali 1 La società italiana al 2014 12 Processi formativi 35 Lavoro, professionalità, rappresentanze 44 Il sistema di welfare 53 Territorio e reti 61 I soggetti economici dello sviluppo 70 Comunicazione e media 79 Governo pubblico 87 Sicurezza e cittadinanza 92 Considerazioni generali (pp. IX – XXIII del volume) 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese Dopo anni di trepida attesa, la ripresa non è arrivata e non è più data come imminente; e quasi si ha il pudore, forse la stanchezza, di continuare a usare un termine ormai consumato nel racconto collettivo. Si affermano così altre trame del racconto. Da una parte ci si adagia, con un pizzico di fatalismo, a introiettare un galleggiamento su antiche mediocrità, senza troppi drammi per le ricorrenti notizie traumatiche, incasellandole con il sorriso dolente del “ce ne faremo una ragione”. Mentre dall’altra parte si fugge in avanti moltiplicando incentivi, riforme e manovre volte a spezzare l’inerzia del corpo sociale, a valorizzare qualche vecchio o nuovo cespuglio di vitalità, a recuperare credibilità e peso a livello europeo. Due modi di vedere le cose che certo non si integrano fra loro, anzi neppure si confrontano, tanto più che nell’attenzione collettiva precipitano ogni giorno stimoli diversissimi e parziali (l’Ebola come diffuse storiacce di cronaca) che riducono la stessa volontà di guardare con attenzione la congiunzione fra una sconcertante rassegnazione collettiva e un’affannosa moltiplicazione dei tentativi per sfuggire ad essa. Ne risulta una società sempre più informe, sghemba addirittura nei suoi pensieri. È giusto quindi riprendere il filo dei nostri pensieri collettivi a partire dall’aggancio a come eravamo qualche anno fa. Non si tratta di un proposito continuista, che sarebbe in questo periodo poco di moda e forse rischioso. Si tratta solo di richiamare due semplici verità: la prima, banale e kirkegaardiana insieme, è che non è pensabile una ri-presa dello sviluppo senza un’adeguata ri-flessione della base reale su cui operiamo; la seconda, forse ancora più banale, è che, come tutte le società complesse, la nostra società cambia non attraverso “svolte” (momenti magici decisivi), ma attraverso processi di “transizione”, necessariamente lenti e silenziosi. Qual è allora la società in cui si sta attuando la strutturale transizione di questi anni? Non c’è bisogno di inventarsi nuove metafore interpretative per ribadire una realtà da tempo chiara: siamo una società molto differenziata, molecolare, ad alta soggettività, piena di aspettative e di obiettivi diversi. Altri l’hanno chiamata “società liquida” e la definizione può utilmente essere presa a riferimento di base, specialmente da chi inclina spesso alle metafore idrauliche (si pensi a quanto anche questo Rapporto ha navigato su fenomeni quali il sommerso, il galleggiamento, la mucillagine). Al di là delle metafore, siamo comunque una società indistinta e sfuggente: indistinta, perché non è più descrivibile con forme e figure delineate e significative (si pensi al progressivo successo del termine “gente” e alla propensione a parlare di “gentismo”); e sfuggente, perché tutto vaga senza radicamenti, per cui è impensabile un ritorno ai fili d’erba e ai cespugli di sviluppo, fenomeni tipicamente terragni, che hanno cioè bisogno di terra per sorgere e crescere. Ma queste due caratteristiche sono quasi secondarie rispetto alla loro visibile incidenza su un processo oggi sempre più impressivo: la società liquida rende liquefatto il sistema, o almeno mette in crisi le giunture sistemiche della vita collettiva. 2 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese Per anni sono stati esaltati i termini “sistema” e “sistemico”: l’abbiamo fatto ai piani alti (il sistema politico, il sistema istituzionale, ecc.); l’abbiamo fatto a livello economico (nella programmazione di sistema, nel sistema bancario, nel sistema delle partecipazioni statali, ecc.); l’abbiamo fatto nei processi intermedi di decisione e di partecipazione (il sistema burocratico, il sistema sindacale, il sistema contrattuale, ecc.); e abbiamo finito per farlo anche a livello micro, con l’invito a “fare sistema” che echeggia in tante riunioni e convention collettive. Senza contare la sua massima declinazione, il retorico richiamo cioè a un sistema-Italia che di fatto non esiste o al massimo copre discutibili ambizioni progettuali. Questo lungo innamoramento per l’approccio sistemico si è consumato via via negli anni (si può ricordare che in questa sede avevamo segnalato l’esigenza di sostituire il concetto di sistema-Paese con il concetto di “Paese contenitore”), in parte per l’erosione costante e tenace (gutta cavat lapidem) della forza liquida della nostra molecolarità, in parte per la incapacità della stessa cultura sistemica a rivedere i suoi “fondamentali”. Stiamo cioè diventando una società a-sistemica, visto che non è più governabile con i tradizionali modelli sistemici (piramidali, collegiali, concertativi); visto che le forzature sui modelli tradizionali (in particolare l’accentuata verticalizzazione del modello piramidale) non sembrano ottenere risultati apprezzabili; visto che le catene sistemiche di comunicazione e di comando (top-down e bottom-up) sembrano sempre più sfilacciate; visto che anche i tentativi di attestarsi su più ridotte dimensioni sistemiche (dal federalismo al localismo esasperato) non sembrano per ora trovare spazio; e visto che anche sul piano del fondamento teorico è ormai superato il primato del modello organicistico (che ci aveva guidato dall’apologo di Menenio Agrippa in poi), mentre non riesce a imporre concrete relazioni di governance il modello cibernetico destinato a dominare nei prossimi decenni. In una società senza ordine sistemico i singoli soggetti sono a dir poco a disagio: non capiscono dove si collocano, negli anfratti o nei relitti di un assetto sistemico che essi ritengono comunque necessario; soffrono tutti gli effetti negativi, anche psicologici, della crisi radicale delle giunture sistemiche; e si sentono alla fine abbandonati a se stessi (vale per il singolo imprenditore come per la singola famiglia), in una obbligata solitudine. Il sistema finisce per esser vissuto come cosa estranea e resta solo potenziale oggetto di rancore e di denuncia. Con la conseguenza inevitabile che tale estraneità porta a un fatalismo quasi cinico (tanto, tutto è fuori controllo e nessuno riesce a padroneggiarlo) e talvolta anche a episodi di secessionismo sommerso, ormai spesso presente in varie regioni e realtà locali, specie al Sud. Non c’è chi non veda come questa crisi profonda della cultura sistemica induca a una ulteriore propensione della nostra società a vivere in orizzontale. Porta infatti a interessi e comportamenti (individuali e collettivi, ma tutti segnati dalla solitudine) che si aggregano in mondi che spesso non riescono a dialogare fra loro e, non co- 3 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese municando in verticale, restano di fatto dei mondi che vivono di se stessi, senza grandi confronti esterni. La denominazione di questi mondi incomunicanti è semanticamente avventurosa (circuiti, strati, vasi, tubi, bigonce), ma in via di consapevole approssimazione si può avanzare il termine “giare”, a significare contenitori a ricca potenza interna, ma con grandi difficoltà a stabilire significativi rapporti esterni. E facendo un più arrischiato passo in avanti si può definire allora l’attuale realtà italiana come una “società delle sette giare”, dove le dinamiche più significative avvengono all’interno del loro parallelo sobollire, senza processi esterni di scambio e di dialettica. Si pensi ai mondi: - dei poteri sopranazionali, con la loro crescente cogenza; - della politica nazionale, con la emergente istanza del primato della politica; - del disordinato funzionamento dei ruoli e dei poteri nelle diverse sedi istituzionali; - delle minoranze vitali e della loro crescente estraneità ai destini del Paese; - della vita, squilibrata e difficile, della “gente del quotidiano”; - della crescente quota di sommerso sempre più ambiguo; - il tutto descritto e segnato dalla quotidiana incidenza di un mondo della comunicazione connotato più dal bisogno dell’evento (potenzialmente drammatizzabile) che dall’aderenza ai processi reali della società. È facilmente constatabile l’importanza che questi sette mondi, queste sette giare, hanno nella fase attuale; e ancor più è intuibile la separatezza fra le loro dinamiche. Converrà allora analizzarli con più dettaglio. a) La prima giara che vive della propria potenza è quella del circuito sovranazionale da cui siamo sempre più condizionati. Molti problemi ci vengono dall’attuale dinamica geopolitica (si pensi alle vicende anche drammatiche del Mediterraneo e del Medio Oriente); ma è ancora più pesante l’influenza da un lato dei comportamenti del mercato finanziario mondiale, dall’altro dei comportamenti delle autorità comunitarie, attente all’equilibrio finanziario dell’insieme dell’economia europea. Sono due comportamenti che la nostra collettività non domina, non capisce, spesso non conosce. Specialmente ciò avviene per il mondo della finanza internazionale, che si regola e ci regola attraverso l’indiscutibile strumento del mercato, con procedure (di scelte a tempi ravvicinatissimi, di propensioni speculative, di valutazioni quasi automatiche o spesso affidate agli algoritmi, con volumi enormi di disponibilità e movimentazione) che vivono di vita propria. Contrariamente al passato, tali procedure non sono padroneggiate da una cerchia 4 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese di protagonisti capaci di fare planning e orientamento al futuro dello sviluppo mondiale, ma vanno per proprio conto, lasciando le economie nazionali a fare da spettatrici passive a eventi e periodi di sofferenza (si pensi a quanto noi italiani abbiamo sofferto per l’andamento dello spread) senza mai innervare una reale dialettica con le realtà nazionali. Un grande potere senza reale efficacia collettiva (si riscalda nella dinamica interna alla giara, ma a mala pena trasuda da essa), che mai porta a corrispondere alle aspettative collettive, nazione per nazione. Le stesse cose si potrebbero dire, con ogni necessaria cautela, sul potere degli organi comunitari europei. Qui, più che il mercato, sono importanti i vincoli (parametri, patti di stabilità, fiscal compact, direttive, controlli) volti al rispetto degli equilibri complessivi della costruzione europea. I modi in cui si mettono in pratica tali vincoli portano a una crescente cessione di sovranità (quasi a una sudditanza) delle diverse realtà nazionali, combinata però con grandi vuoti: di protagonisti stabili e affidabili, di prospettazione di sviluppo futuro, di attenzione alle aspettative delle diverse popolazioni, di programmazione a medio e lungo termine. Il che spinge a un crescente egoismo nazionale e a un continuo duro confronto sui relativi interessi. Le esperienze anche recenti o in corso stanno a certificare la problematica efficacia collettiva dei poteri europei: grande sobollimento di istanze e compromessi “dentro la giara”, immancabili fotografie di gruppo, qualche litigio bilaterale, ma poca incisività complessiva. Tranne naturalmente la delegazione di fiducia a una forte Banca centrale, che comunque lavora più in autonomia che per dialogo. b) Una dinamica analoga (vivere su se stessa senza efficacia collettiva) la si ritrova nella seconda giara, quella della politica nazionale. Non riuscendo a modificare più di tanto i citati circuiti di potere sovraordinato, essa è costantemente riconfinata nell’ambito nazionale; e la sua reazione, accentuatasi negli ultimi mesi, è quella di confermare e rilanciare il proprio ruolo, o meglio il primato della politica. Era naturale che in una società molto frammentata e molecolare si fosse creato un vuoto di decisionalità e di orientamento complessivo del sistema; ed è comprensibile che su questo vuoto si siano costruite un’esigenza e un’onda di rivincita (sulla rappresentanza, sui corpi intermedi, sulle istituzioni locali, sulle stesse istanze di terzietà); così come è comprensibile l’empatia consensuale che si è espressa verso di essa. Ma tale primato della politica rischia di restare tutto interno ad essa, senza efficacia esterna e collettiva. Avendo un tetto basso di azione verso l’alto (per la perdita di sovranità) e non avendo immediato potere verso il basso (non sempre la volontà decisionale e/o la decretazione d’urgenza supportata dai voti di fiducia riescono poi a passare all’incasso sul piano dell’amministrazione corrente e poi dei comportamenti collettivi), la politica rischia di restare confinata al giuoco della sola politica. È naturale cioè che essa vinca sugli altri protagonisti quando 5 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese si tratta di argomenti tutti politici (la legge elettorale, la riforma del Senato, l’abolizione delle Province e del Cnel, la decostruzione delle strutture dei partiti, la marginalizzazione di segmenti di alcune classi dirigenti, ecc.); ma è altrettanto naturale che abbia difficoltà nel gestire il rapporto con altre istituzioni, con le inefficienze dell’amministrazione pubblica, con i comportamenti collettivi e con l’atonia di molte zone del Paese. Resta a sobollire, senza efficacia collettiva. c) Ancora maggiore è tale rischio per il terzo circuito che occupa il panorama socio-politico italiano: quello del funzionamento istituzionale. Per decenni sono state le istituzioni a dare forma alla nostra società con l’amministrazione statale, con gli organi di giurisdizione, con le strutture formative; poi, per effetto della molecolarità e della complessità crescenti della vita sociale, quest’ultima è sfuggita alla regolazione, quasi alla guida delle istituzioni. E così queste cominciano a vivere in una dinamica tutta loro e ad esprimere quasi una estraneità dalla realtà quotidiana. Cambiano le strutture e si accavallano i ruoli. Abbiamo grandi strutture ormai letteralmente vuote di competenze e di personale; abbiamo grandi ministeri e grandi enti pubblici il cui funzionamento è appaltato a società esterne di consulenza o di informatica; abbiamo strutture pubbliche che sono ambigue proprietà di principati personali; abbiamo personale pubblico (anche giudiziario) che per una parte sente la tentazione di fare politica, ma per un’altra parte passa tranquillamente a occupare altri ruoli (di garanzia o di gestione operativa, o addirittura di commissariamento); abbiamo un costante rimpallo obliquo delle responsabilità fra le diverse sedi di potere in occasione di crisi varie; abbiamo rincorse infinite fra decisioni e ricorsi ad esse conseguenti; abbiamo un aumento degli scandali direttamente proporzionale all’enfatizzazione di una mitica trasparenza. È un mondo tutto a giuoco interno, senza alcun serio servizio alla dimensione superiore (la politica) e senza adeguato servizio, al limite anche di comando, verso la dinamica della società. La giara sobolle in piena inefficacia collettiva. E con qualche sofferenza psicologica, perché i suoi protagonisti avvertono sulla loro pelle la crisi di ruolo e di peso conseguente alla disfatta sistemica di cui si è parlato nelle pagine iniziali. E non basta, nel clima attuale di continua denuncia della “casta”, l’enfasi che il mondo delle istituzioni ha dato a due concetti fondamentali (legalità e trasparenza) per recuperare una qualche credibilità. d) Per molti anni, specialmente in questo Rapporto, abbiamo sottolineato e incoraggiato la speranza che ci fosse in Italia una minoranza vitale capace di fare da traino alla ripresa, prima, e allo sviluppo ulteriore, poi. Non avevamo naturalmente la speranza che i suoi componenti fossero un gruppo omogeneo, quasi una classe neoborghese, ma li ritenevano capaci di trasmettere energia e orientamento agli altri segmenti della società. 6 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese L’evoluzione di questi ultimi anni è andata in altra direzione. La consistenza di quella minoranza è aumentata significativamente per merito dei medio-piccoli imprenditori che hanno ulteriormente sviluppato il proprio impegno sul versante dell’export e di una larga presenza internazionale nel comparto manifatturiero, ma anche nell’agroalimentare, nel turismo, nel digitale, nel terziario di qualità. È un insieme variegato che si è rivelato molto competitivo e in crescita, che tende però a non fare gruppo. Preferisce vivere ancorato alle proprie dinamiche aziendali o individuali (si pensi alle saghe personali dei giovani che vanno a studiare e a lavorare all’estero); legato a una concentrazione dell’attenzione sulle dinamiche (commerciali o legislative) dei luoghi in cui si opera; con strategie imprenditoriali volte all’innovazione di prodotto o di catena distributiva calibrata sui Paesi di destinazione; con una durezza della competizione (e della difesa della propria quota di mercato) che obbliga i protagonisti ad alimentare il proprio gene egoista, riducendo la gamma delle relazioni verso l’esterno. I vari protagonisti si sentono ben poco assistiti dal sistema pubblico, così aumenta il loro congenito individualismo e si riducono le loro appartenenze associative e di rappresentanza. È sconsolante dirlo per un segmento così meritevole, ma è vitalità senza efficacia collettiva. e) Al destino di essere un mondo che vive di se stesso non sfugge neppure il mondo della gente del quotidiano. È enorme, articolato, liquido, molecolare, di moltitudine, ma non riesce ad avere dinamica: né in avanti, attraverso nuove stagioni di iniziativa e di impegno; né all’indietro, attraverso l’accettazione di un downgrading della composizione sociale, tanto che la precarietà crescente viene vista non come un passo verso la proletarizzazione, ma come una fase permanente che comunque “regge”. Questa sospensione delle aspettative non permette una piena coscienza del declino complessivo del sistema, visto che l’autostima individuale regge e che la bassa reputazione complessiva è considerata ininfluente rispetto alle aspettative e agli interessi dei singoli. Non c’è quindi mobilità verticale, sia essa perseguita singolarmente, sia essa espressa in aggregazioni intermedie (sindacali, professionali, sociali); e non c’è neppure mobilità orizzontale, perché la vita viene gestita incastrandosi in luoghi relativamente stabili (lo sono non solo i piccoli paesi, ma anche molte periferie urbane), capaci cioè di garantire minimali aspettative di qualità della vita. È una sospensione che nella sua calma apparente può incubare sia una lenta emersione di crescenti diseguaglianze economiche e, in prospettiva, di imprevedibili tensioni sociali; sia una propensione collettiva della popolazione a pensarsi come insieme indistinto (come “gente”), propenso a subire richiami di “gentismo” contenenti una certa dose di populismo. Per ora, fino a quando tale incubazione non avrà effetto, la scena principale è occupata dalla tematica e dalla voglia dei diritti, sia quelli consolidati o in parte superati (dal posto fisso all’articolo 18), sia e specialmente i nuovi diritti nella 7 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese sfera individuale. In effetti, cresce il fervore nelle rivendicazioni soggettive (il diritto di avere un figlio anche in età avanzata come il diritto alla “morte dolce”, come il diritto ad avere matrimonio e sepolture di tipo paritario). La crescita dei diritti (si comincia a parlare di “diritto al diritto”) non ha però la forza emotiva di quella crescita o crisi del desiderio su cui ci eravamo fermati anni fa; tanto più se nel ricercare i relativi successi si tende a lavorare sul piano giurisprudenziale o amministrativo (dalle sentenze di corti supreme straniere alle variazioni nei regolamenti cimiteriali comunali). E non è azzardato dire che questa tematica dei diritti finisce per riguardare una minoranza attivista che non è capace di indurre grandi trasformazioni sociali (come era invece avvenuto negli anni ’70, anni di grandi battaglie sui diritti, ma anche di grandi desideri collettivi). f) Fra i tanti circuiti che tendono a vivere prevalentemente in se stessi è sempre più consistente e in crescita quello che da sempre vive isolato: il “sommerso”. Quando, proprio in questa sede, oltre quarant’anni fa, mettemmo in luce l’esistenza e la vitalità dell’economia sommersa, eravamo convinti che fosse un fenomeno destinato a esaurirsi man mano che la dinamica fisiologica dello sviluppo l’avesse incorporato in procedure sempre più trasparenti. A distanza di oltre quarant’anni dobbiamo constatare che il fenomeno si è addirittura dilatato. Qualcuno ritiene che sia stata la crisi degli ultimi anni a provocare una recrudescenza congiunturale della propensione di tutti a nascondersi, proteggersi e sommergersi; ma chi ha seguito l’evoluzione italiana recente deve far notare che il sommerso è una componente ormai strutturale e permanente, come si può rilevare: - nella dinamica dell’occupazione, visto che la ricerca di qualsiasi occasione di lavoro conseguente alla crisi spinge a una moltiplicazione, solo parzialmente trasparente, dei vari spezzoni di lavoro; - nella formazione del reddito individuale, familiare, locale (se le povertà e le diseguaglianze sociali non hanno finora prodotto tensioni di alta conflittualità, è pensabile che ciò sia dovuto a un flusso di reddito non istituzionale e in diverso modo sommerso); - nella propensione al risparmio, vista l’ottima salute delle sue diverse modalità (più depositi bancari, più polizze vita, più affidamenti ai fondi, e si può cominciare a ipotizzare un risparmio anch’esso sommerso, in nero, cash). Il mondo del sommerso, quindi, rinforza da un lato la sua interna dinamica e dall’altro si rende lontano, estraneo alla generale evoluzione e alle generali politiche di sistema. Forse i ricercatori e gli studiosi lo capiranno ancora meno che in passato, ma nella quotidianità esso è una potenza diffusa: è la base dei meccanismi che consentono alle famiglie e alle imprese di reggere; è il riferimento adattativo di molti milioni di italiani; è uno spazio di accumulazione collettiva certo più consistente dei tanti “tesoretti” di cui spesso si discute. 8 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese g) Il panorama dei circuiti che vivono di se stessi, non camminando in relazione con gli altri, non sarebbe completo se non si prendesse in carico il grande e pervasivo mondo dei media. È un mondo forte, estremamente diffuso, che ha una grande capacità di vivere di se stesso e di dialogare con gli altri mondi citati in una intensa reciprocità di rimandi, citazioni, polemiche, convergenze e divergenze. Ma i mezzi di comunicazione stanno vivendo una doppia dinamica interna che in prospettiva li allontana da quel rigoroso mandato di aderenza alla realtà e di sua rappresentazione cui implicitamente sono istituzionalmente chiamati. La prima di tali dinamiche viene dal fatto che il mondo della comunicazione appare incardinato al perno del binomio opinione-evento, in dimensioni tali da domandarsi quali pezzi di società alla fine i media rispecchino, di quali blocchi sociali avvertano le vibrazioni, di quali ceti intercettino malumori e bisogni, e se abbiano effettivamente antenne protese a comprendere giorno per giorno i cambiamenti reali in corso nella società. Più sottile e profonda è la dinamica che deriva dal fatto che la crescita e l’innovazione degli strumenti digitali di comunicazione e relazione si esercitano compiutamente nella tendenza dei singoli alla introflessione. L’io è al tempo stesso soggetto e oggetto della comunicazione mediatica anche perché l’autoproduzione di contenuti nell’ambiente web privilegia in massima parte l’esibizione del sé digitale. Gli utenti della rete creano a getto continuo contenuti immettendo in rete con grande disinvoltura una quantità di dati personali impressionante: l’individuo si specchia nei media, di cui contemporaneamente è contenuto e produttore. La pratica diffusa del selfie diviene così l’evidenza fenomenologica della concezione dei media come specchi introflessi piuttosto che come strumenti attraverso i quali scoprire il mondo e relazionarsi con esso. E così alla fine il mondo della comunicazione si relaziona poco con gli altri mondi, con le altre giare, svolgendo solo ruoli di prevalente supporto (il ruolo di trasparenza, di richiamo agli interessi collettivi, di denuncia delle devianze, di espressione del giudizio morale, ecc.). Grande ed evidente presenza, limitata efficacia collettiva. Pur se ricco e articolato, il panorama delle sette giare qui analizzate non può essere considerato esaustivo di una complessa interpretazione dell’attuale realtà. Troppe variabili non sono infatti ad esso riconducibili, dalle tensioni geopolitiche internazionali (specie quelle più contigue a noi) allo squilibrato arrivo e alla difficile integrazione degli stranieri, al crescente protagonismo femminile, alla tendenziale desertificazione del Sud, alle delicate intense dialettiche bioetiche: tutti temi da ricondurre necessariamente a una carrellata analitica sulla società di oggi. Non è però furbizia di giustificazione ricordare in questa sede che l’interpretazione non può limitarsi alla carrellata analitica; deve invece mettere a fuoco il nucleo fondante dell’attuale momento della società. E tale momento si identifica con la com- 9 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese presenza di sette mondi distinti e incomunicanti, operanti in orizzontale, che aumentano il carattere ad architettura distribuita della nostra società. Qualcuno dei loro protagonisti cerca rapporti in verticale (magari di comando), senza rendersi conto che sono ambizioni comprensibili e generose, ma destinate a restare inoperanti. Lo dimostrano gli esiti non entusiasmanti delle istanze di verticismo dei diversi livelli di autorità: quelli europei nei confronti delle politiche nazionali, quelli statuali nei confronti dei soggetti territoriali, quelli di indirizzo politico verso l’inerzia ed estraneità dell’apparato amministrativo, e così via. È verosimile che le sette giare vadano connesse per come sono, tramite una crescita della politica come funzione di rispecchiamento e orientamento della società, lontana dalla tradizionale identificazione con il peso e il valore dell’apparato statuale. Sono evidenti le difficoltà che incontra una tale prospettiva in un momento storico in cui la politica viene enfatizzata come arte del comando (e del comando in verticale), ma si tratta di una torsione di responsabilità assolutamente necessaria se si vuole evitare che la dinamica tutta interna alle sette giare porti a una perdita di energia collettiva del sistema, a una inerte accettazione collettiva dell’esistente, al consolidarsi della grande articolata deflazione che stiamo attraversando: quella economica, di cui tutti parlano; quella del numero e delle iniziative delle imprese; quella delle aspettative individuali e collettive; quella della mobilità verticale (individuale e di gruppo); quella della rappresentanza degli interessi collettivi; quella delle capacità di governo ordinario (malgrado o forse a causa della proliferazione decretizia di tipo verticistico). Se la deflazione è così ampia e pervasiva, il timore emergente è che dovremo con essa convivere a lungo, in una stabile mediocrità. Per questo si capisce la crescente esigenza di una cultura politica che comprenda l’articolazione e la separatezza dei mondi di vitalità e di potere oggi esistenti, e riannodi i loro meccanismi operativi e di orientamento. Può apparire strano questo riproporre un ruolo trainante a una politica che soffre di un picco negativo di bassa reputazione e fiducia, di rancore diffuso, di anti-politica, di rabbia per l’intreccio fra politica e potere statuale. Ma si può partire proprio dallo sciogliere quest’ultimo intreccio, con le sue diverse configurazioni (burocratica, autoritativa, illiberale, corrotta, inefficiente, ecc.) e restituire alla politica il diritto-dovere di connettere le aspettative individuali con orizzonti ed energie mirate al futuro. Devono valere le aspettative della gente, non la connessione di vertice fra politica e Stato (che nel Paese è arrivata anche al “partito-Stato”). Se la politica però vuole, nei confronti della dinamica sociale, essere arte di guida e non coazione di comando, deve operare su se stessa una torsione profonda, almeno in due direzioni. In primo luogo, deve fare pulizia delle incrostazioni accumulatesi negli ultimi anni: la tentazione al moralismo come strumento politico di divisione e di delegittimazione delle controparti; la invadente ipocrisia con cui la cosiddetta società civile ha osta- 10 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese colato ogni tentativo di decisionalità collettiva; l’innamoramento per i diritti che ha trasformato in dispute e regolamentazioni giuridiche le spinte a una vitale libertà personale; la propensione a un bipolarismo predicato senza mai avere chiaro quale fosse il fundamentum divisionis; la presenza di una atonia intellettuale ben più velenosa della pur circolante atonia etica; la tentazione di una leadership costruita su una empatia consensuale e generalista. Non avrà facile e immediato successo questo impegno di pulizia mentale, ma è un compito che vale la pena di perseguire, nella consapevolezza che si attuerà non in una svolta, ma in una lenta transizione, con frutti di medio periodo. La politica deve altresì poter riacquisire coscienza di alcuni suoi “fondamentali”, di alcune non transeunti virtù: in primo luogo, l’aderenza spietata alla realtà (“le opinioni non radunano, la realtà è”), prosaicamente ricordando che il nostro sviluppo è stato fatto da protagonisti magari conflittuali, ma legati sempre alla situazione reale (da Valletta negli anni ’50 ai piccoli imprenditori degli anni ’70, all’esplosione del made in Italy negli anni ’80); in secondo luogo, la fedeltà alle nostre radici (di “scheletro contadino”, come abbiamo scritto in altre occasioni) rivisitate non nella retorica dei valori, ma nell’aderenza alla serietà e sobrietà comportamentale (Giulio Bollati, che ruralista non era, invitando un amico scrive: “Qui troverai un po’ di erba e una buona minestra di ceci”); in terzo luogo, non avere paura della dialettica, l’unico strumento per confrontare opinioni, per maturare decisioni, per far crescere classe dirigente; infine, il coraggio di non imporre i propri pensieri, ma di sollecitare gli altri a pensare con la propria testa (anche quando si sospetta che non ce l’abbiano, la testa). Con questo doppio passo (liberarsi dalle incrostazioni e recuperare i fondamentali), il fare politica può recuperare l’antica eredità dei greci (combinare pensiero alto e contaminazione pratica) e può riprendere la sua funzione di promotore dell’interesse collettivo. Addirittura con l’ambizione di essere quel “soggetto generale dello sviluppo” su cui si articolò con successo il ruolo dello Stato, che ha governato l’Italia per lunghi decenni, poi intellettualmente e istituzionalmente soffocato dalla voglia di potere, di comando, di dominanza dell’apparato pubblico, quella voglia ereditata dai partiti. 11 La società italiana al 2014 (pp. 1 – 78 del volume) La numerazione di tabelle, tavole e figure riproduce quella del testo integrale 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese 1. Una società satura dal capitale inagito L’attendismo cinico delle famiglie liquide Dopo la paura della crisi, è un approccio attendista alla vita che si va imponendo tra gli italiani. Anche se molto lentamente, si va facendo strada la convinzione che il picco negativo della crisi sia alle spalle (lo pensa il 47% degli italiani: il 12% in più rispetto all’anno scorso), tuttavia ora è l’incertezza a prevalere. Non a caso, la gestione dei soldi da parte delle famiglie è fatta di breve e brevissimo periodo, di contante e depositi bancari. Nel periodo 2007-2013 tutte le voci delle attività finanziarie delle famiglie sono diminuite, tranne la voce “biglietti, monete e depositi”, salita in termini reali del 4,9%, arrivando così a costituire il 30,9% del totale (era il 27,3% nel 2007). A giugno 2014 questa massa liquida è cresciuta ancora, fino a 1.219 miliardi di euro. Prevale un cash di tutela, con il 44,6% delle famiglie che destina esplicitamente il proprio risparmio alla copertura da possibili imprevisti, come la perdita del lavoro o la malattia, e il 36,1% che lo finalizza alla voglia di sentirsi con le spalle coperte. La parola d’ordine è: soldi vicini per ogni evenienza (tab. 3). 7DE/HIXQ]LRQLDWWULEXLWHDOULVSDUPLRGDOOHIDPLJOLHSHUWLWRORGLVWXGLR(val. %) Nessuno/ Licenza elementare Licenza media/ Qual. prof. Diploma Laurea o superiore Totale Fare fronte a possibili imprevisti (salute, disoccupazione, ecc.) 43,4 39,1 49,2 44,9 44,6 Dare sicurezza, sensazione di avere le spalle coperte 23,5 34,5 36,1 47,9 36,1 Garantire una vecchiaia serena (per avere in futuro un più alto tenore di vita) 39,8 31,6 24,4 26,5 28,5 3DJDUHO·HGXFD]LRQHGHLÀJOL 6,4 15,0 23,0 23,2 18,9 Affrontare spese importanti in futuro, FRPHO·DFTXLVWRGLXQDFDVD 7,8 5,3 9,5 7,4 7,6 19,5 17,9 8,1 4,1 11,9 Nessuna funzione: risparmiare non serve a molto, perché il potere di acquisto diminuisce nel tempo Il totale non è uguale a 100 perché erano possibili più risposte Fonte: indagine Censis, 2014 Si può stimare in circa 410 miliardi di euro la spesa pagata in contanti dalle famiglie italiane. Il contante utilizzato nei pagamenti a livello nazionale è pari al 41% del totale della spesa e sale al 54% nel Sud e addirittura al 65% tra le persone con titolo di studio più basso. Il fiume di contanti non può non essere ricollegato alla vocazione al nero, al sommerso, a una fuga dalla tassazione: strategie minute che creano reddito e abbattono i costi. In fondo, la gestione del contante è anche un meccanismo funzionale alla immersione difensiva degli italiani. L’informale si alimenta anche di almeno 700.000 persone che esplicitamente dichiarano di affiancare al lavoro primario 13 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese regolare un secondo lavoro. Inoltre, si stima che almeno un quarto dei lavoratori dipendenti part time (oltre 500.000) siano fasulli, ossia che a orari dichiarati e contributi pagati riferiti al part time corrispondano nella realtà orari interi e retribuzioni senza i contributi dovuti legalmente. Si è dinanzi a microstrategie massificate di risposta adattiva a quella incertezza che tutto pervade, laddove risultano coinvolte dalla crisi anche famiglie che in passato erano rimaste illese. Si stimano in 6,5 milioni le persone che negli ultimi dodici mesi, per la prima volta nella loro vita, hanno dovuto integrare il reddito familiare mensile con risparmi, prestiti, anticipi di conto corrente o in altro modo, magari per affrontare una spesa imprevista. C’è quindi una vulnerabilità diffusa, tanto che il 60% degli italiani ritiene che possa capitare a chiunque di finire in povertà, quota che sale al 67% tra gli operai e al 64% tra i 45-64enni. Dalla vulnerabilità le famiglie sentono di doversi proteggere da un lato tenendo disponibili i soldi per ogni evenienza, “pronto cassa”; dall’altro, abbattendo i costi di acquisto di beni, servizi e prestazioni. In tale contesto, il sentiment generale delle famiglie si riassume con poche parole: incertezza, inquietudine, ansia. Pensando al futuro, il 29% degli italiani si dichiara inquieto perché ha un retroterra fragile, il 29% in ansia perché non ha una rete di copertura, il 24% dice di non avere le idee chiare sul futuro perché tutto è molto incerto, e solo poco più del 17% dichiara di sentirsi abbastanza sicuro e con le spalle coperte. Tra i giovani di 18-34 anni di età sale al 43% la quota di chi si dichiara inquieto e con un retroterra fragile, e scende ad appena il 12% la quota di chi si dichiara al sicuro (tab. 5). 7DE,OsentimentGHJOLLWDOLDQLULVSHWWRDOIXWXURXQFRQIURQWRWUDmillennials HSRSROD]LRQH WRWDOH(val. %) Millennials (18-34 anni) Totale Inquieto, ho un retroterra fragile 43,2 29,2 In ansia, non ho una rete di copertura 26,6 29,0 Non so, è tutto molto incerto 17,9 24,2 Abbastanza sicuro, con le spalle coperte 12,3 17,6 100,0 100,0 7RWDOH Fonte: indagine Censis, 2014 L’attendismo cinico degli italiani si alimenta anche della prosaica convinzione che in fondo ci sono alcune invarianti nei processi sociali quotidiani che con la crisi finiscono per patologizzarsi. Richiesti di indicare quali siano i fattori più importanti per riuscire nella vita, è vero che il 51% degli italiani richiama una buona istruzione e il 43% il lavoro duro, tuttavia per entrambe le variabili il valore italiano è inferiore a quello medio europeo, pari rispettivamente al 63% per l’istruzione solida e al 46% per il lavoro sodo. In Italia risultano molto più alte le quote di chi indica che servono le conoscenze giuste (il 29% contro il 24% medio europeo) e il fatto di provenire da una famiglia benestante (il 20% contro il 10%). Inoltre, il riferimento all’intelligenza come variabile determinante per l’ascesa sociale coagula il 7% delle risposte in Italia: il valore più basso in tutta l’Unione europea (tab. 6). 14 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese 7DE2SLQLRQLVXLIDWWRULSLLPSRUWDQWLSHUDYHUHVXFFHVVRQHOODYLWDXQFRQIURQWRLQWHUQD]LRQDOH(val. %) ,WDOLD Francia Germania Regno Unito Ue Avere una buona istruzione 51 66 82 73 63 Lavorare sodo 43 53 30 74 46 Conoscere le persone giuste 29 21 21 19 24 Avere fortuna 23 19 20 9 22 Venire da una famiglia benestante 20 5 7 7 10 Essere intelligenti 7 18 21 7 16 Essere un maschio 4 3 2 2 3 Il totale non è uguale a 100 perché erano possibili più risposte Fonte: elaborazione Censis su dati Eurobarometro, 2014 L’atonia del grande capitalismo (e la rivincita dell’economia di territorio) Nel 2013 si è registrato il valore più basso degli investimenti, a prezzi costanti, degli ultimi tredici anni. Considerando la fase più acuta della crisi (a partire quindi dal 2008), i dati fanno impressione: la flessione delle spese produttive è stata superiore al 23%. Si sono ridotti di più di un quarto gli investimenti in hardware (-28,8%), costruzioni (-26,9%), mezzi di trasporto (-26,1%), ma anche le spese per macchinari e attrezzature (una delle voci più consistenti) hanno registrato una flessione del 22,9%. Se si considera l’ammontare degli investimenti realizzati nel 2007 come un benchmark (369 miliardi di euro), si può dire che da allora fino al 2013 c’è stata una mancata spesa cumulata per investimenti superiore a 333 miliardi di euro (fig. 1). )LJ$QGDPHQWRGHJOLLQYHVWLPHQWLÀVVLORUGL(var. %) Totale beni fissi -23,1 Telecomunicazioni 7,9 R&S 5,7 Prodotti di proprietà intellettuale -5,9 App. informatica e telecom. -11,6 Software e database -17,1 Macchinari, attrezzature -22,9 Mezzi di trasporto -26,1 Costruzioni -26,9 Computer hardware -28,8 -35 -30 -25 -20 -15 -10 -5 0 5 10 Fonte: elaborazione Censis su dati Istat 15 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese Eppure, a una così accentuata flessione delle spese produttive, determinata dalla recessione in atto e dalle aspettative negative, non è corrisposto un peggioramento di eguale portata dei conti delle imprese e un proporzionale prosciugamento di risorse liquide. Dal 2008 a oggi il margine operativo lordo delle imprese si è mantenuto elevato e a tratti crescente. E il patrimonio netto disponibile delle imprese, oltre a essere 5,8 volte l’ammontare degli investimenti fissi lordi, rivela un andamento crescente (fig. 2). )LJ,QYHVWLPHQWLÀVVLORUGLPDUJLQHRSHUDWLYRORUGRHSDWULPRQLRQHWWRGHOOHLPSUHVH (miliardi di euro) Margine operativo lordo Patrimonio netto Investimenti fissi lordi 1.800 1.600 1.553 1.481 1.591 1.527 1.486 1.382 1.400 1.200 1.000 835 820 802 788 800 812 809 600 400 200 357 322 320 314 291 275 2008 2009 2010 2011 2012 2013 0 Fonte: elaborazione Censis su dati Istat Questa discrasia tra risorse disponibili e ciclo declinante delle spese produttive non ha precedenti e appare anche inutile cercarne le cause nel razionamento del credito, ovvero nel presunto atteggiamento eccessivamente prudente del sistema bancario, visto che è in calo la stessa domanda di provvista finanziaria, mentre crescono le risorse liquide disponibili delle imprese (circolante e depositi), passate dai 238 miliardi di euro del 2008 agli attuali 274 miliardi (fig. 3). Se il grande capitalismo familiare italiano appare quasi sotto assedio (la famiglia Bulgari vende le quote di controllo della propria azienda al polo del lusso Lvmh, Merloni Elettrodomestici cede all’americana Whirlpool dopo un periodo travagliato di ridefinizione della governance interna, Brioni vende al francese Pinault, le preziose lane biellesi di Loro Piana passano al gruppo Louis Vuitton, per non citare la fine disastrosa della famiglia Riva che dall’Italia guidava uno dei principali poli mondiali dell’acciaio e la difficile ricerca di nuovi equilibri nel consiglio di amministrazione di uno dei campioni dell’industria italiana come Luxottica), resta una carta vincente per il Paese il microcapitalismo di territorio. Ancora nel primo semestre del 2014 le esportazioni degli oltre 100 distretti industriali italiani (che contribuiscono a più di un quarto del valore aggiunto manifatturiero) sono cresciute del 4,2%, in termini tendenziali, a fronte di un incremento del 2,2% di aree simili, specializzate nel manifatturiero ma con una conformazione diversa da quella dei distretti, e a fronte di un incremento dell’1,2% dell’export manifatturiero complessivo. Nel 2014 il fatturato dei distretti è stimato in crescita del 2,2% e del 4,7% nel 2015. 16 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese )LJ$WWLYLWjOLTXLGHGHOOHVRFLHWjQRQÀQDQ]LDULHFRQVLVWHQ]HGLFLUFRODQWHHGHSRVLWL, WULPHVWUH(miliardi di euro) 300 279,3 238,1 250 200 273,7 183,6 150 100 50 0 2005 2008 2013 I trim. 2014 Fonte:HODERUD]LRQH&HQVLVVXGDWL%DQFDG·,WDOLD La dissipazione del capitale umano che non si trasforma in energia lavorativa Se si guarda al numero di disoccupati, che nel 2013 sono più di 3 milioni, di cui più della metà ha perso un posto di lavoro precedente, e aggiungiamo loro i circa 1.780.000 cittadini in età lavorativa inattivi perché scoraggiati e gli oltre 3 milioni di persone che pur non cercando attivamente un lavoro sarebbero disponibili a lavorare, otteniamo nel complesso un capitale di quasi 8 milioni di individui che dovrebbero essere valorizzati e instradati verso il mercato del lavoro al fine di tradurre il loro potenziale umano in energia lavorativa e produttiva (tab. 8). È noto lo spreco di capitale umano tra le leve giovanili: - i 15-34enni costituiscono il 50,9% dei disoccupati totali e, con la crisi, il loro numero è aumentato del 75,9%; - se concentriamo l’analisi della dissipazione sulla fascia più giovane dei 15-29enni che non sono impegnati nel ricevere un’istruzione o una formazione, non hanno un impiego né lo cercano – ormai stigmatizzati con l’acronimo anglosassone Neet –, è possibile osservare come questa sottopopolazione sia in continua crescita, passando da quasi 1.946.000 di individui nel 2004 a 2.435.000 nel 2013. Il potenziale femminile è anch’esso ampiamente mortificato: le donne costituiscono il 45,3% dei disoccupati, ma soprattutto il 65,8% degli inattivi scoraggiati e il 60,6% delle persone disponibili a lavorare. 17 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese 7DE/HHQHUJLHGLVVLSDWHLOFDSLWDOHXPDQRQRQXWLOL]]DWR(v.a., migliaia e val. %) 2007 Capitale inutilizzato Disoccupati totali (15 anni e più) (1) mgl. 2013 val. % mgl. val. % Var. % 2007-2013 1.506 6,1 3.113 12,2 106,7 Donne 784 52,0 1.411 45,3 80,1 Laureati 171 11,3 346 11,1 102,9 15-34 anni 900 59,8 1.584 50,9 75,9 Mezzogiorno 808 53,6 1.450 46,6 79,5 Da 12 mesi e più 704 46,8 1.755 56,4 149,2 Durata media della disoccupazione (mesi) Disoccupati ex occupati (15 anni e più) (2) 19 22 15,8 633 42,0 1.664 53,5 162,9 Donne 260 41,1 609 36,6 133,9 Mezzogiorno 319 50,4 714 42,9 123,7 Da 12 mesi e più 240 38,0 820 49,3 240,9 1.287 8,8 1.790 12,4 39,1 Donne 900 69,9 1.178 65,8 30,9 Mezzogiorno 964 74,9 1.180 65,9 22,4 2.541 12,5 3.091 15,1 21,6 1.673 65,8 1.875 60,6 12,1 183 7,2 243 7,9 32,8 15-34 anni 1.187 46,7 1.263 40,9 6,4 Mezzogiorno 1.736 68,3 1.955 63,2 12,6 1.832 18,9 2.435 26,0 32,9 1.083 59,1 1.274 52,3 17,6 166 9,1 240 9,9 44,8 1.161 63,4 1.317 54,1 13,4 Inattivi “scoraggiati” (15-64 anni) (3) Persone che non cercano lavoro ma disponibili a lavorare (15-74 anni) (3) Donne Laureati Neet (15-29 anni) (4) Donne Laureati Mezzogiorno (1) Il valore percentuale è calcolato rispetto alla popolazione in età attiva della stessa fascia di età (2) Il valore percentuale è calcolato rispetto al totale disoccupati della stessa fascia di età (3) Il valore percentuale è calcolato rispetto al totale inattivi della stessa fascia di età (4) Il valore percentuale è calcolato rispetto alla popolazione della stessa fascia di età Fonte: elaborazione Censis su dati Istat A ciò si accompagna, sul fronte dell’occupazione, un disequilibrato e antieconomico utilizzo dell’offerta di lavoro. I dati riportati nella tabella 9 evidenziano l’ampiezza del capitale umano sottoutilizzato, composto dagli occupati part time involontari (2,5 milioni di occupati nel 2013, più che raddoppiati rispetto al 2007), da quelli che, seppure “volontari del part time”, sarebbero disponibili a lavorare per più ore (642.000 persone), e dagli occupati in Cassa integrazione, il cui numero di ore è passato nel periodo 2007-2013 da poco più di 184.000 a circa 1,2 milioni, corrispondenti a 240.000 lavoratori non utilizzati. 18 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese 7DE/HHQHUJLHGLVVLSDWHLOFDSLWDOHXPDQRVRWWRXWLOL]]DWR(v.a., migliaia e val. %) 2007 2013 Var. % 2007-2013 mgl. val. % mgl. val. % 364 1,6 642 2,9 76,2 Donne 237 65,2 393 61,3 65,6 15-34 anni 141 38,7 203 31,6 44,2 Mezzogiorno 134 36,9 186 29,0 38,6 1.216 38,5 2.470 61,6 103,1 Donne 872 71,7 1.729 70,0 98,2 15-34 anni 526 43,3 849 34,4 61,4 Mezzogiorno 467 38,4 790 32,0 68,9 4.434 19,1 4.378 19,5 -1,3 Laureati 1.747 39,4 1.808 41,3 3,5 Diplomati 2.228 50,2 2.335 53,3 4,8 Sottoccupati di 15 anni e oltre (1) Occupati con part time involontario (2) Occupati sottoinquadrati (1) Ore di Cig (v.a.) 184.118 1.182.357 542,2 (1) Il valore percentuale è calcolato rispetto agli occupati della stessa fascia di età (2) Il valore percentuale è calcolato rispetto agli occupati part time della stessa fascia di età Fonte: elaborazione Censis su dati Istat e Isfol Ma è soprattutto nel fenomeno dell’overeducation che si sostanzia la dissipazione dell’energia lavorativa, in particolare quella espressa dalle giovani generazioni. Se in valori assoluti nel periodo 2007-2013 diminuisce lievemente il numero di occupati sottoinquadrati, che ricoprono cioè posizioni lavorative per le quali sarebbe sufficiente un titolo di studio inferiore a quello posseduto, il loro peso sul totale degli occupati passa dal 19,1% al 19,5%, e si tratta sempre di più di 4 milioni di lavoratori. Di questi, il 53,3% è costituito da diplomati, un esercito di 2,3 milioni di lavoratori, e un ulteriore 41,3% da laureati (1,8 milioni di occupati). Se si guarda all’overeducation degli occupati laureati disaggregata per l’indirizzo di studi, si scopre che essa è più trasversale di quanto ci si aspetti. Se, infatti, risulta elevata in lauree considerate deboli sul mercato del lavoro, come quelle in scienze sociali e umanistiche (43,7%), è ancora più elevata tra i laureati in scienze economiche e statistiche (57,3%), e riguarda anche un ingegnere su tre. Solo il settore medico e infermieristico si posiziona ampiamente sotto la soglia del 20% (13,9%) (tab. 10). 19 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese Tab. 10 - OvereducationWUDLGLSORPDWLHLODXUHDWLSHUDUHDGLVFLSOLQDUHHWLSRGLGLSORPD (val. %) Val. % Laurea Scienze mediche e infermieristiche 13,9 Architettura 27,3 *UXSSRVFLHQWLÀFR 30,8 Giurisprudenza 32,0 Ingegneria 33,0 Scienze sociali e umanistiche 43,5 Scienze economiche e statistiche 57,3 Altra laurea 7RWDOH Diploma Liceo classico 43,9 37,2 37,8 /LFHRVFLHQWLÀFR 35,2 Liceo linguistico 34,2 Altro liceo 63,4 Istituto tecnico 31,2 Istituto professionale 46,5 Altro diploma 28,6 7RWDOH 34,8 Fonte: elaborazione Censis su dati Istat Il patrimonio culturale che non produce valore Primo Paese al mondo nella graduatoria dei siti Unesco, sede di opere architettoniche e artistiche uniche, con un’offerta culturale estremamente variegata (tav. 2), l’Italia riesce solo in minima parte a mettere a valore il ricco patrimonio culturale di cui dispone. Con un numero di lavoratori nel settore (304.000, pari all’1,3% del totale) pari alla metà di quello di Regno Unito (755.000) e Germania (670.000), e di gran lunga inferiore rispetto a Francia (556.000) e anche Spagna (409.000), nel 2013 il settore della cultura produceva un valore aggiunto di 15,5 miliardi di euro (contro i 35 miliardi della Germania e i 27 della Francia) e pesava solo per l’1,1% su quello totale del Paese (meno che negli altri Paesi europei). 7DY,QXPHULGHOSDWULPRQLRFXOWXUDOHLWDOLDQRLVWLWX]LRQLSULQFLSDOLSDWULPRQLRVWRULFRDUFKLWHWWRQLFR´PLQRUHµFHQWULVWRULFLHERUJKL Istituzioni principali Quasi 5.000 musei, monumenti e aree archeologiche fruibili: 424 statali e 4.340 non statali. Patrimonio “minore” In questa categoria rientrano siti culturali ben individuati e censiti come chiese (85.000 soggette a tutela; di queste, 30.000 di rilevante valore), ville e palazzi nobiliari (40.000), castelli (20.000), giardini storici (4.000) e conventi (1.500), ma anche quel SDWULPRQLRFKHSXUDVVDLULOHYDQWHqGLIÀFLOHGDTXDQWLÀFDUHFRPHOHPDVVHULHOHWRUUL costiere, gli eremi, ecc. disseminati nel territorio. Centri storici e borghi /·,WDOLD q LO 3DHVH DO PRQGR FRQ LO PDJJLRUH QXPHUR GL VLWL 8QHVFR 'L TXHVWL XQD buona parte coincide con centri storici o è rappresentata da monumenti o altre opere DUFKLWHWWRQLFKHRVSLWDWHDOO·LQWHUQRGHOOHQRVWUHFLWWjHERUJKL$IURQWHGLFLUFD comuni in Italia, si contano 7.800 centri storici, di cui 900 di principale rilevanza. La UHWHGHL%RUJKLSLEHOOLG·,WDOLDSURPRVVDGDOO·$QFLFRQWDERUJKLGLJUDQGHYDORUH quella del Touring Club (Bandiere arancioni) ne associa 198. Fonte: elaborazione Censis su fonti varie 20 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese Mentre le principali economie europee, ad esclusione del Regno Unito, hanno registrato dal 2007 un significativo sviluppo del settore, sia in termini occupazionali che economici, da noi la situazione è ben diversa: -1,6% tra il 2007 e il 2013 in termini di valore aggiunto (contro il +4,8% della Germania e il +9,2% della Francia nel periodo 2007-2012) e +3,3% in termini occupazionali (contro il +10,9% della Germania e il +6,3% della Francia) (tab. 11). 7DE,OYDORUHRFFXSD]LRQDOHHGHFRQRPLFRGHOVHWWRUHFXOWXUDOHXQFRQIURQWRWUDO·,WDOLDHL SULQFLSDOL3DHVL8H(migliaia, miliardi di euro, val. % e var. %) V.a. Incidenza % sul totale Numeri indice (Italia=100) Var. % 2007-2013 Regno Unito 755,0 2,6 248,3 0,7 Germania 670,0 1,6 220,3 10,9 Francia 555,9 2,1 182,8 6,3 Spagna 409,1 2,2 134,5 4,3 ,WDOLD 304,1 1,3 100,0 3,3 Occupati (migliaia) (1) Valore aggiunto (miliardi di euro) (2) Germania 34,9 1,5 224,7 4,8 Francia 26,7 1,5 171,8 9,2 Regno Unito 23,5 1,5 151,3 -6,3 Spagna 16,9 1,8 108,8 0,6 ,WDOLD 15,5 1,1 100,0 -1,6 (1) I dati di Regno Unito, Germania e Francia sono al 2012, quelli della Spagna al 2011 (2) I dati di Germania, Francia e Spagna sono al 2012, quelli del Regno Unito al 2011 Fonte: elaborazione Censis su dati Eurostat Nel corso degli anni le politiche si sono indirizzate sempre più verso obiettivi di conservazione e tutela dei beni a scapito sia della valorizzazione del capitale “giacente”, sia dello sviluppo di capitale culturale “vivente”, vale a dire la capacità di sviluppare attività culturali che coinvolgessero la società e i suoi molteplici attori. I lo sviluppo un approccio alla gestione più modelli gestionali hanno ostacolato di imprenditoriale. Basti pensare a come finora è stato gestito il parziale ingresso dei soggetti privati nei musei: una presenza che è ancora sostanzialmente limitata all’ambito dei cosiddetti “servizi aggiuntivi”, vale a dire la prenotazione di biglietti, la gestione dei bookshop, della caffetteria e delle audioguide, che nel 2013 ha contabilizzato un fatturato del tutto risibile rispetto alle potenzialità del business, pari a 45 milioni di euro. Certo, non aiuta la constatazione al 2013 la quota di che dal 2010 italiani che nel corso dell’anno sono andati a un museo o a una mostra è passata dal 30,1% al 25,9%, a visitare siti archeologici e monumenti dal 23,2% al 20,7%, ad assistere a uno spet tacolo a teatro dal 22,5% al 18,5%, ad ascoltare un concerto di musica classica dal 10,5% al 9,1%. 21 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese 2. La solitudine dei soggetti I dispositivi di introflessione di un popolo di singoli narcisisti e indistinti Gli utilizzatori dei nuovi media rappresentano quote sempre più ampie di popolazione e crescono con un ritmo decisamente accelerato. Dai dati dell’ultimo Rapporto sulla comunicazione del Censis emerge che, a fronte del 63,5% di italiani che utilizzano internet, gli utenti dei social network sono il 49% della popolazione e arrivano all’80% tra i più giovani di 14-29 anni (tab. 14). Considerando i dati relativi a Facebook, il più diffuso tra i social network, tra il 2009 e il 2014 si è accentuato il processo di saturazione già riscontrato per gli utenti più giovani. Il fenomeno più significativo è certamente rappresentato dalla crescita dei fruitori della fascia adulta, con incrementi del 153,4% per i 36-45enni e del 404,7% per gli over 55. Considerando il totale degli iscritti italiani a Facebook, le quote prevalenti sono rappresentate dai 36-45enni (pari al 21,3% del totale degli iscritti) e dai 19-24enni (18,1%). 7DE*OLLWDOLDQLFRQQHVVL(val. %) Totale Giovani (14-29 anni) Adulti (30-44 anni) Utenti di internet complessivi 63,5 90,4 84,3 Utenti di internet abituali 56,5 84,4 78,3 Utenti di almeno un social network 49,0 79,8 68,8 Utenti di almeno uno tra smartphone, tablet, e-reader 43,8 70,5 63,1 Utenti di smartphone 39,9 66,1 58,9 (*) Popolazione di riferimento: 14-80 anni Fonte: indagine Censis, 2013 Il mondo dei social network non è solo densamente abitato, ma anche ampiamente frequentato, con connessioni continuate nel tempo. Delle 4,7 ore trascorse mediamente in un giorno su internet, 2 sono dedicate ai social network, con una modalità di connessione praticamente continua grazie all’uso sempre più diffuso dei device mobili. Il numero a internet di chi accede tramite cellulare in un giorno medio (7,4 milioni di persone) è ormai più alto di quanti accedono solo da pc (5,3 milioni) o da entrambi (7,2 milioni). Una delle attività più praticate nella fruizione attiva dei social network consiste nell’upload di foto e video personali. Secondo i dati forniti da Global Web Index relativi all’Italia, il 73% degli utenti che hanno utilizzato i social network nel 2013 ha indicato di aver caricato fotografie e di aver interagito con i contenuti postati. In Italia sono circa 4 milioni gli utenti che utilizzano Instagram, dove il 58% dei contenuti condivisi al giorno nel mondo (32 milioni giornalmente nel 2013) sono autoritratti fotografici, i cosiddetti selfie. 22 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese La pratica diffusa del selfie diviene così l’evidenza fenomenologica incontrovertibile della concezione dei media come specchi introflessi in cui riflettersi narcisisticamente, piuttosto che strumenti attraverso i quali scoprire il mondo e relazionarsi con l’altro da sé. Non è contraddittorio, così, il dato che emerge da una rilevazione del Censis secondo cui la solitudine è oggi una componente strutturale della vita delle persone: il 47,2% degli italiani dichiara di rimanere solo durante il giorno per una media quotidiana di solitudine pari a 5 ore e 10 minuti. Vivono di più la solitudine nel quotidiano le donne (il 54% contro il 39,5% dei maschi), i residenti al NordOvest (52,3%) e al Nord-Est (58,2%), più che al Sud (38,4%), nonché le persone più avanti con l’età, con 65 anni e oltre (55%). È come se ogni italiano vivesse 78 giorni di isolamento in un anno, senza la presenza fisica di alcuna altra persona. Il bypass dei corpi intermedi Dall’autunno 2011 è partita una stagione di riforme che ha portato a 86 decreti approvati dal Consiglio dei ministri e presentati al Parlamento per la conversione in legge. Di questi, 72 sono stati convertiti in legge, 6 decreti sono confluiti in altri provvedimenti e 3 sono in corso di conversione (a ottobre 2014). La tabella 17 riporta una sintesi quantitativa dei 72 decreti: - in sede di conversione in legge sono state introdotte oltre 1.300 modifiche, spesso con la tecnica del maxi-emendamento approvato con voto di fiducia; - successivamente alla conversione in legge, i testi sono stati nuovamente modificati più volte, quasi sempre con altri decreti legge e in alcuni casi per effetto di sentenze della Corte Costituzionale; - il testo complessivo in vigore al 1° ottobre 2014 corrisponde a un volume di circa 1,2 milioni di parole, vale a dire 11,6 volte la Divina Commedia di Dante. 7DE,SHUFRUVLGHOODGHFUHWD]LRQHG·XUJHQ]D 0RGLÀFKH in sede di conversione 0RGLÀFKH successive (2) Decreti legge Convertiti in legge (1) Governo Monti (novembre 2011-aprile 2013) 41 35 695 457 590.313 Governo Letta (aprile 2013-febbraio 2014) 25 22 356 87 373.492 Governo Renzi (febbraio-settembre 2014) 20 15 254 4 220.375 7RWDOH 86 72 1.305 548 1.185.171 Numero di parole (3) GHFUHWLVRQRFRQÁXLWLLQDOWULSURYYHGLPHQWLJOLXOWLPLGHFUHWLVRQRLQFRUVRGLFRQYHUVLRQHGDWLDO 6 ottobre 2014) 0RGLÀFKHLQWHUYHQXWHDOWHVWRFRPHFRQYHUWLWRLQOHJJH (3) Parole che compongono il testo in vigore al 6 ottobre 2014 con esclusione degli elenchi allegati Fonte: Censis, 2014 23 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese La trappola della promessa che non si traduce in processi (amministrativi, economici, sociali) e la lunga strada dei decreti non hanno ancora portato concretamente al decollo dello sviluppo e dell’occupazione. Il ripetuto richiamo alla straordinaria urgenza delle riforme e il conseguente ricorso alla decretazione ha una duplice chiave di lettura fenomenologica: da un lato, è l’effetto di un progressivo aggiramento da parte della politica delle diverse componenti istituzionali; dall’altro, la causa di un’accelerazione nel bisogno degli organi di governo di parlare direttamente agli elettori. Si viene in questo modo a creare un circuito vizioso nel quale la dimensione intermedia della vita collettiva si macera nella crisi della politica e quest’ultima alimenta la disintermediazione dei rapporti tra istituzioni e cittadini annunciando nuove riforme: unica risposta possibile al ritardo degli effetti di quelle già avviate. Il decreto legge assunto come strumento di governo e il parlare direttamente ai cittadini hanno però un difetto strutturale: obbligano tutti a una lettura superficiale, a grana grossa, delle azioni necessarie a uscire dalla paura e dalla crisi di fiducia che bloccano il Paese. L’aggiramento delle mediazioni istituzionali e la disintermediazione attraverso i social network, se efficaci sotto il profilo della comunicazione, comportano un sostanziale appiattimento delle differenze: nero o bianco, dentro o fuori, a favore o contro. E impediscono di lavorare sulle basi amministrative delle riforme come frutto di un’intelligente mediazione. Le scissioni territoriali e sociali che corrodono il ceto medio In un contesto nazionale in cui, negli anni della crisi, le disuguaglianze sociali si sono ampliate, il ceto medio si è indebolito, le opportunità di integrazione sono diminuite, particolarmente grave ed evidente risulta lo slittamento verso il basso delle grandi città del Sud. Lo dimostrano in modo evidente i dati della tabella 19, che mettono impietosamente a confronto Napoli, Bari, Palermo e Catania con Milano, Bologna e Roma. Il tasso di occupazione dei 25-34enni oscilla tra il 34,2% di Napoli e il 79,3% di Bologna, la quota di persone con titolo di studio universitario passa dall’11,1% di Catania al 20,9% di Milano, il tasso di astensionismo alle ultime elezioni è pari al 59,7% a Palermo e scende al 34,9% a Bologna, gli evasori del canone Rai sono il 58,9% a Napoli ma diminuiscono al 26,8% a Roma, a Bari solo 2,8 bambini di 0-2 anni ogni 100 sono presi in carico dai servizi comunali per l’infanzia contro i 36,7 di Bologna, a Palermo ci sono appena 3,4 mq per abitante di verde urbano rispetto ai 22,5 bolognesi, la percentuale di raccolta differenziata dei rifiuti si ferma al 10,6% nel capoluogo siciliano mentre arriva al 38,2% nel capoluogo lombardo. Per un Paese come l’Italia, che ha fatto della coesione sociale un valore centrale e che si è spesso ritenuto indenne dai rischi connessi alle fratture sociali che si ritrovano nelle banlieue parigine o nei quartieri degradati della inner London, le proble- 24 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese maticità ormai incancrenite di alcune zone ad elevatissimo degrado non possono essere ridotte a una semplice eccezione alla regola del “buon vivere”. 7DE, QXPHUL GHO SHUPDQHQWH GLYDULR WUD OH JUDQGL FLWWj GHO 6XG H TXHOOH GHO &HQWUR1RUG (val. %) Indicatori Napoli Bari Palermo Catania Milano Bologna Roma Tasso di occupazione 25-34 anni (1) 34,2 50,2 36,3 38,1 78,2 79,3 63,6 Persone con titolo di studio universitario 11,7 14,1 11,6 11,1 20,9 22,9 18,5 Livello di competenza alfabetica degli studenti (numeri indice: Italia =200) 185,9 197,6 188,6 n.d. 203,4 209,5 200,9 Astenuti alle elezioni europee del 2014 56,6 (2) 59,7 60,2 40,0 34,9 48,0 Famiglie che non pagano il canone Rai 58,9 21,8 55,6 58,1 37,4 25,8 26,8 Passeggeri annui del trasporto pubblico per abitante 173,2 63,4 42,9 57,7 689,2 246,4 438,2 Presa in carico dai servizi FRPXQDOLSHUO·LQIDQ]LD (per 100 bambini di 0-2 anni) 2,2 2,8 4,8 n.d. 25,3 36,7 17,6 Verde urbano pubblico fruibile (mq/ab.) 4,4 5,3 3,4 7,5 12,3 22,5 16,7 Cinema (schermi ogni 10.000 abitanti) 0,37 0,60 0,40 0,68 0,64 0,85 0,86 Vetture Euro 0, 1 e 2 sul parco auto circolante 54,3 30,9 37,6 49,3 27,7 24,8 28,6 Raccolta differenziata 21,8 21,0 10,6 12,8 38,2 35,4 25,7 (1) Dato provinciale (2) Il dato di Bari non è comparabile, perché si votava anche per le comunali Fonte: elaborazione Censis su fonti varie L’adattamento interstiziale degli immigrati In un anno ancora di crisi economica, in cui sono aumentate le divaricazioni territoriali e sociali, c’è un segmento della società che, seppure faticosamente, continua a dare segnali di vitalità. Si tratta degli immigrati che hanno scelto di vivere stabilmente nel nostro Paese e che, pur mantenendo intatta la propria soggettività, reagiscono alla crisi inserendosi negli spazi lasciati liberi dai nostri connazionali, in alcuni casi cercando di fare mixité tra la propria cultura e la nostra. Negli anni della crisi, le imprese con titolare straniero in Italia sono passate da 312.838 a 399.764, con una crescia del 27,8% nei sette anni considerati e del 2% solo nell’ultimo anno. Tra gli stranieri sono particolarmente vitali gli extracomunitari, che in tutto il periodo crescono del 31,4% e del 2,7% quest’anno. Tutto ciò avviene mentre le imprese gestite dagli italiani calano del 10% (-1,6% nell’ultimo anno) (tab. 20). Sono due i settori in cui gli stranieri stanno esercitando maggiormente la loro capacità di fare impresa e di infilarsi silenziosamente nelle nostre radici e nelle nostre tradizioni: il commercio e l’artigianato. 25 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese 7DE7LWRODULG·LPSUHVDSHUQD]LRQDOLWj(v.a., val. % e var. %) 2008 Nazionalità v.a. 2013 val. % v.a. 2014 (1) val. % v.a. Var. % Var. % val. % 2008-2014 2013-2014 Stranieri (2) 312.838 9,2 391.786 12,2 399.764 12,6 27,8 2,0 Extra Ue 239.296 7,1 306.322 9,5 314.488 9,9 31,4 2,7 Italiani 3.076.230 90,8 2.815.220 87,8 2.769.892 87,4 -10,0 -1,6 7RWDOH 3.389.068 100,0 3.169.656 100,0 -6,5 -1,2 3.207.006 100,0 (1) Dato di stock provvisorio al II trimestre &RPSUHQGRQRXQDTXRWDDQD]LRQDOLWjQRQFODVVLÀFDWD Fonte: elaborazione Censis su dati Infocamere Le imprese di commercio al dettaglio gestite da stranieri sono complessivamente 125.965, rappresentano il 15% del totale e sono cresciute del 13,4% dal 2011 a oggi, mentre quelle italiane si sono ridotte del 2,4%. In particolare, nel commercio al det fissa scomparsa di circa taglio in sede abbiamo assistito alla 10.000 negozi su tutto il territorio nazionale. I negozi gestiti dagli stranieri, invece, che sono 40.504 e rappresentano il 6,2% del totale, crescono di oltre 3.000 unità, con una variazione positiva del 9,2%. E i dati relativi ai primi sei mesi del 2014 confermano questa tendenza. Aumenta, in particolare, il comparto alimentare, che conta 5.031 punti vendita e cresce del 22% nei due anni considerati. L’incremento risulta addirittura del 33,9% per i negozi di frutta e verdura, che a fine 2013 erano 1.827 e rappresentavano il 10% dei negozi di questo tipo aperti sul territorio nazionale. Per il resto, si segnala l’aumento dei negozi non specializzati, una sorta di empori che vendono merci di ogni tipo: nel 2013 erano 10.342 e dal 2011 sono aumentati del 18,2%. Ci sono poi alcuni comparti in cui gli immigrati si vanno specializzando, quali le rivendite di apparecchiature informatiche e di telefonia (+15,8% in due anni), i fiorai (+7,7%) e i tabaccai (+11%). Ma il segmento del commercio in cui gli immigrati ormai la fanno da padroni è quello dell’ambulantato: un settore che negli ultimi due anni mostra una buona vitalità complessiva, con una crescita di oltre 7.000 imprese registrate. Tale crescita è dovuta interamente agli stranieri, che sono passati dalle 73.959 imprese ambulanti registrate nel 2011 alle 85.461 del 2013 (+15,6%). Il risultato è che i venditori ambulanti stranieri rappresentano oggi il 46,8% del totale, ma sono decisamente la maggioranza nella vendita dei prodotti di abbigliamento e dei non alimentari. Il moltiplicarsi dell’offerta ha provocato un cambiamento nelle abitudini di spesa degli italiani. Una indagine del Censis testimonia come sono più di 33 milioni gli italiani che si recano, almeno qualche volta, a fare la spesa in negozi gestiti da immigrati, e di questi circa 6 milioni vi si recano regolarmente. I più frequentati risultano i negozi di casalinghi, ovvero i mini-empori dove si trova di tutto (vi si servono regolarmente quasi 3,5 milioni di persone), seguono gli alimentari (dove gli acquirenti superano i 2,6 milioni), i negozi che vendono saponi e detersivi, quelli di frutta e verdura. 26 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese Nel 2013 le imprese artigiane straniere erano 175.039, con una crescita del 2,9% negli ultimi due anni, quando le imprese italiane sono calate del 4,5%, e impiegano 284.613 addetti (+1,3% rispetto al 2011). Le attività cui si dedicano maggiormente gli stranieri sono i lavori di costruzione e di rifinitura degli edifici. In particolare, si contano 91.706 imprese specializzate nel settore, che rappresentano circa un quinto del totale delle imprese, e 15.840 ditte che si occupano della costruzione propriamente detta (tab. 22). 7DE/HLPSUHVHDUWLJLDQHVWUDQLHUHSHUVHWWRUHGLDWWLYLWjHFRQRPLFD(v.a., val. % e var. %) Imprese artigiane Straniere Settori di attività economica Lavori di costruzione specializzati v.a. Italiane val. % var. % sul totale 2011-2013 var. % 2011-2013 91.706 21,3 0,0 -5,8 4.962 3,7 3,4 -2,7 15.840 13,5 -4,4 -8,9 Confezione di articoli di abbigliamento e in pelle 9.588 31,6 6,3 -8,9 $WWLYLWjGLVHUYL]LSHUHGLÀFLHSDHVDJJLR 8.095 20,4 20,6 6,4 Altre attività di servizi per la persona 7.780 5,2 11,2 -0,8 Lavanderia e pulitura di articoli tessili e pelliccia 1.216 7,4 1,8 -7,9 Servizi dei parrucchieri e di altri trattamenti estetici 5.920 4,6 8,0 -0,9 Attività dei servizi di ristorazione 7.434 15,0 15,2 0,0 Trasporto terrestre e trasporto mediante condotte 6.347 6,9 1,8 -5,6 -8,6 Installazione di impianti elettrici, idraulici e altri &RVWUX]LRQHGLHGLÀFL 5.593 8,8 0,7 Fabbricazione di prodotti in metallo Trasporto di merci su strada 4.759 6,8 -2,1 -6,7 Fabbricazione di articoli in pelle e simili 3.370 25,5 16,7 -6,1 &RPPHUFLRDOO·LQJURVVRHDOGHWWDJOLRHULSDUD]LRQH di autoveicoli e motocicli 2.243 2,8 11,6 -2,9 2.169 2,8 11,1 -3,0 7RWDOHLPSUHVH 175.039 12,4 2,9 -4,5 7RWDOHDGGHWWL 284.613 9,1 1,3 -6,9 Manutenzione e riparazione di autoveicoli Fonte: elaborazione Censis su dati Infocamere La sommersa esigenza di un nuovo umanesimo La crisi economica, che continua a mordere individui e famiglie, accresce ansie e inquietudini. È difficile cogliere tracce di una nuova fiducia nel futuro e negli altri. Solo il 20,4% degli italiani pensa che gran parte della gente sia degna di fiducia, mentre il restante 79,6% è invece convinto che bisogna stare molto attenti (tab. 23). La propria personalissima crescita umana sta diventando l’unica certezza. Non vi contribuisce più il territorio (troppo violato fisicamente e moralmente per sentirlo proprio), né il lavoro (che spesso non è quello che si vorrebbe), non il reddito (sempre più incerto), né i consumi (che si riducono). Secondo gli italiani l’identità si fonda soprattutto sulla nostra natura, sul nostro carattere e sull’educazione ricevuta, sul bagaglio di principi che custodiamo, sul capitale di conoscenze che possediamo nella nostra mente, sulla nostra interiorità (tab. 24). 27 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese 7DE/DVÀGXFLDQHJOLDOWUL(val. %) 3HQVDFKHFLVLSRVVDÀGDUHGHOODPDJJLRUSDUWHGHOODJHQWH oppure bisogna stare molto attenti? Val. % Bisogna stare molto attenti 79,6 *UDQSDUWHGHOODJHQWHqGHJQDGLÀGXFLD 20,4 7RWDOH 100,0 Fonte: indagine Censis, 2014 7DE2SLQLRQLVXLIDWWRULVXFXLVLIRQGDO·LGHQWLWj(val. %) &ODVVHG·HWj Sesso Maschio Femmina 18-29 anni 30-44 anni 45-64 anni 65 anni e oltre Totale 51,3 /·HGXFD]LRQHULFHYXWD 57,1 45,5 47,6 49,3 52,8 54,5 /·LVWUX]LRQHHODFXOWXUD 46,8 44,0 51,2 36,1 49,3 47,3 45,5 Il carattere personale 40,9 49,5 44,0 47,5 46,3 41,0 45,1 Gli interessi e le passioni 33,3 37,0 50,6 30,4 32,7 33,3 35,2 Il territorio in cui si è nati 21,1 16,8 22,3 21,4 15,6 18,5 19,0 La famiglia di provenienza 16,6 19,8 13,3 22,9 16,8 18,0 18,2 Il lavoro 18,5 10,3 7,8 17,1 15,9 14,0 14,5 La nazionalità 9,2 8,9 10,2 6,1 8,6 12,6 9,0 Il territorio in cui si vive 7,0 4,8 3,0 6,8 6,8 5,9 6,0 Il genere (maschio o femmina) 2,9 8,1 3,0 6,1 6,8 4,5 5,5 Il tipo di consumi 2,9 4,0 4,2 4,3 4,1 0,9 3,5 Il livello di reddito 3,5 3,2 4,8 3,2 3,5 2,3 3,4 Altro 0,8 0,8 1,2 0,4 0,9 0,9 0,8 Il totale non è uguale a 100 perché erano possibili più risposte Fonte: indagine Censis, 2014 3. L’Italia fuori dall’Italia Il rischio di stare ai margini dell’economia mondiale dei flussi A causa della prolungata recessione, l’Italia rischia di restare ai margini dell’economia dei flussi, ultima incarnazione dei processi di globalizzazione dei mercati e degli scambi. La quota dell’Italia sul volume globale delle esportazioni di merci si è atte stata nel 2013 al 2,83%, con un incremento rispetto al 2012 del 3%. A livello mondiale, l’incremento è stato del 2%. Sul versante dei servizi commerciali, l’Italia copre una percentuale di esportazioni pari al 2,37%. La crescita di questa partita negli ul timi due anni è stata pari al 6%, in linea con quanto è accaduto a livello mondiale. Ma la quota italiana di investimenti diretti dall’estero, che hanno raggiunto nel 2013 i 1.400 miliardi di dollari a livello globale, è pari solo all’1,17%. 28 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese Nel periodo precedente all’esplodere delle turbolenze finanziarie, i flussi in entrata si erano attestati a un livello superiore ai 30 miliardi di euro; nel 2011 il relativo rimbalzo del Pil aveva portato l’afflusso a meno di 25 miliardi; dopo un modestissimo risultato nel 2012 (appena 72 milioni di euro), nel 2013 si è potuto registrare un dato superiore ai 12 miliardi. Le consistenze degli investimenti esteri sfiorano in questi anni i 300 miliardi di euro, con un incremento tra il 2012 e il 2013 del 6,2%. Per contro, i flussi in uscita degli investimenti da parte di operatori italiani sono stati pari a circa 24 miliardi di euro nel 2013, portando lo stock di investimenti a oltre 430 miliardi, con un incremento nell’ultimo anno del 7% (tab. 27). 7DE*OLLQYHVWLPHQWLQHWWLGLUHWWLHVWHULGHOO·,WDOLD (milioni di euro e var. %) 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 11.503 31.652 34.912 70.310 45.740 15.313 24.655 38.575 6.211 23.847 175,2 10,3 101,4 -34,9 -66,5 61,0 56,5 -83,9 283,9 18.729 33.943 32.038 -7.404 14.453 6.931 24.691 72 12.432 15,5 81,2 -5,6 -123,1 -295,2 -52,0 256,2 Flussi Investimenti GLUHWWLDOO·HVWHUR Var. % VXOO·DQQRSUHF Investimenti GLUHWWLGDOO·HVWHUR Var. % VXOO·DQQRSUHF 16.209 -99,7 17.166,7 Consistenze Investimenti GLUHWWLDOO·HVWHUR Var. % VXOO·DQQRSUHF 170.678 207.299 237.818 283.857 317.876 337.622 366.451 401.645 405.515 433.875 21,5 14,7 19,4 12,0 6,2 8,5 9,6 1,0 7,0 Investimenti GLUHWWLGDOO·HVWHUR 170.172 201.300 237.254 255.766 235.619 252.969 245.515 274.462 275.598 292.761 Var. % VXOO·DQQRSUHF 18,3 17,9 7,8 -7,9 7,4 -2,9 11,8 0,4 6,2 Fonte: HODERUD]LRQH&HQVLVVXGDWL%DQFDG·,WDOLD Fra le categorie dei flussi indotte dalla integrazione di reti e di scambi, un ruolo significativo per l’Italia, in termini di attrattività, è rappresentato dai viaggi e dal turismo. Su un volume che a livello mondiale ha superato il miliardo di viaggiatori nel 2013, l’Italia ha coperto una quota del 4,5% con quasi 49 milioni di unità. La rilevanza di questo settore per l’Italia, fra i primi cinque Paesi al mondo come destinazione, è strategica. Le previsioni di incremento dei viaggiatori al 2020 indicano un volume che si potrà attestare a 1,3 miliardi, mentre alla fine del prossimo decennio potrebbe raggiungere 1,8 miliardi. Ma l’intensificazione degli scambi e dei flussi viaggia anche attraverso l’integrazione di internet. Circa il 12% della quota mondiale di scambi di merci nel 2013 ricade nella categoria del commercio digitale; nel 2005 la quota era del 3%. Su un totale di oltre 31.000 gigabyte per secondo che transitano su internet, solo il 2,5% è riconducibile al traffico di matrice italiana. 29 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese La separatezza dai poteri reali in Europa Gli italiani sono meno fiduciosi nell’operato dei principali luoghi del potere europeo. Il 33% degli italiani ha fiducia nel Parlamento europeo (contro il 37% medio europeo), il 28% della Commissione europea (32% media Ue) e il 22% alla Banca centrale europea (31% media europea). Alle elezioni per il Parlamento europeo di giugno l’affluenza alle urne dei cittadini italiani è stata pari al 57,2% (dato inferiore alla partecipazione media nel caso delle elezioni politiche in Italia), mentre quella complessiva si è fermata al 42,5%. I cittadini italiani ed europei, del resto, tracciano un profilo dell’Unione europea tutt’altro che positivo: il 64% degli italiani e il 69% degli europei percepisce l’Unione coe “burocratica”, il 57% in Italia e il 55% in Europa la considera “lontana”, solo il 29% degli italiani (contro il 45% medio europeo) vede nell’Unione un fattore di protezione rispetto a condizioni di crisi e disagio, mentre è considerata un’organizzazione efficiente dal 33% (31% media Ue). E mentre il 42% degli europei pensa che la propria voce conti in Europa, la percentuale scende al 19% tra gli italiani. Nella mappa delle principali istituzioni europee, gli italiani (che pesano per il 12% in termini di popolazione sul totale dell’Unione a 28 Stati) che oggi occupano posizioni di vertice sono 178 su 2.242 (il 7,9%), tra cui 4 Direttori generali e 3 Vicedirettori generali della Commissione europea. Al potere formale delle istituzioni è stata spesso affiancata l’attività di condizionamento delle decisioni da parte dei gruppi di interesse. L’azione dei lobbisti è in parte evidenziata dalla presenza nel Registro di trasparenza voluto dall’Unione europea. Ad oggi, risultano inserite in questo registro circa 6.600 organizzazioni, di cui poco meno di 3.300 sono riconducibili, secondo le categorie riportate dal registro, a lobby o associazioni professionali e commerciali, mentre sarebbero 1.700 le organizzazioni non governative e 800 le società di consulenza o i consulenti che agiscono in forma individuale. Su 700 lobby attive in ambito finanziario a Bruxelles, più di 140 hanno sede nel Regno Unito, seguono Germania, Francia e Stati Uniti con quote per tutti e tre i Paesi pari alla metà di quella inglese. E sono proprio americane le società che dichiarano la spesa più alta in attività di lobby a Bruxelles. In particolare, Philip Morris con 5 milioni di euro, la ExxonMobil con 4,7 milioni, Microsoft con 4,5 milioni. La società europea che dichiara l’importo maggiore è invece la tedesca Siemens, seguita dalla Shell e dalla francese Gdf Suez. La presenza italiana è riconducibile a circa 30 organizzazioni: un dato questo che, se confrontato con quanto riportato per il Regno Unito, la Germania e la Francia, potrebbe in parte confermare la nostra scarsa capacità di incidere nelle fasi e nelle sedi strategiche di decisione. 30 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese 7DE/·,WDOLDQHOO·8QLRQHHXURSHDSUHVHQ]DGLFRPSRQHQWLLWDOLDQLQHOOHLVWLWX]LRQL(v.a. e val. %) Di cui: italiani N. componenti v.a. val. % 751 73 9,7 30 1 3,3 280 10 3,6 103 2 1,9 Commissione europea 28 1 3,6 Direttori generali 35 4 11,4 Vicedirettori generali 38 3 7,9 Corte di giustizia 37 2 5,4 Tribunale 28 1 3,6 7 1 14,3 Parlamento europeo Consiglio europeo &RQVLJOLRGHOO·8QLRQHHXURSHD Comitato rappresentanti permanenti (designati) &RUWHGLJLXVWL]LDGHOO·8QLRQHHXURSHD Tribunale della funzione pubblica Banca centrale europea 6 1 16,7 Consiglio direttivo Comitato esecutivo 24 2 8,3 Consiglio generale 30 2 6,7 Corte dei conti europea 28 1 3,6 6HUYL]LRHXURSHRSHUO·D]LRQHHVWHUQD 17 2 11,8 Comitato economico e sociale europeo 353 24 6,8 Comitato delle regioni 353 40 11,3 Board of Governors 28 1 3,6 Board of Directors 29 1 3,4 Comitato esecutivo 9 1 11,1 Audit committee 6 0 0,0 Top management 11 3 27,3 Consiglio direttivo 7 1 14,3 Mediatore europeo 1 0 0,0 Garante europeo della protezione dei dati 2 1 50,0 Banca europea per gli investimenti Fondo europeo per gli investimenti Scuola europea di amministrazione 7RWDOH $JHQ]LHGHOO·8H 1 0 0,0 2.242 178 7,9 46 2 4,3 Agenzie decentrate 37 2 5,4 Agenzie esecutive 6 0 0,0 Agenzie Euratom 2 0 0,0 Istituto europeo di innovazione e tecnologia 1 0 0,0 Fonte: elaborazione Censis su dati istituzioni europee L’Italian way of life: cosa piace di noi all’estero L’interesse suscitato all’estero dall’Italia, sebbene non adeguatamente sfruttato, non sembra conoscere crisi. Aumentano le presenze turistiche straniere (viaggiatori per numero di notti trascorse): 186,1 milioni nel 2013 e 20,7 miliardi di euro spesi. I visti per l’ingresso dall’estero sono raddoppiati rispetto al 2004 sotto la spinta di Russia e Cina. L’export delle “4 A” del made in Italy (alimentari, abbigliamento, arredo-casa e automazione) è aumentato del 30,1% in quattro anni (tav. 5). 31 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese 7DY/·,WDOLDQHOPRQGRFUHVFHO·LQWHUHVVHHDXPHQWDQRLtestimonial La crescita di interesse SHUO·,WDOLD /·DXPHQWR dei potenziali testimonial Il turismo straniero Sono in continua crescita le presenze turistiche: 166,1 milioni nel 2010, 183,5 milioni nel 2012, 186,1 milioni QHO/·,WDOLDULPDQHODPHWDWXULVWLFDDOPRQGR La spesa dei turisti e dei viaggiatori Nel 2013 i turisti stranieri hanno speso 20,7 miliardi di euro (+6,8% rispetto al 2012). La spesa totale dei viaggiatori nel 2013 è di 33,1 miliardi di euro (+3,1%). /·LQJUHVVRQHO3DHVH 1HO VRQR VWDWL ULODVFLDWL YLVWL SHU O·LQJUHVVRGDOO·HVWHURLOGRSSLRGHOHLOLQSL ULVSHWWRDOSHUO·HUDULRTXHVWRYDOHPLOLRQLGL HXUR/·,WDOLDqLO3DHVHGHOO·DUHD6FKHQJHQGRSROD Francia. I visti per turismo sono aumentati del 21,5% nel 2013. Forte incremento di Russia e Cina (primi due Paesi per visti rilasciati). /·H[SRUW 'RSR LO FDOR GHO O·H[SRUW LWDOLDQR KD ULSUHVR D FUHVFHUHWUDLOHLOGHOO·H[SRUW PRQGLDOH ,O YDORUH GHOO·LQWHUVFDPELR PDQLIDWWXULHUR nel 2013 è di circa 98 miliardi di euro. Le esportazioni delle “4 A” del made in Italy (alimentari, abbigliamento, arredo-casa e automazione) sono cresciute del 30,1% tra il 2009 e il 2013. Le aziende che hanno esportato nel 2013 sono 211.756 (+1,3% rispetto al 2012). Le ricerche online &UHVFHVXLQWHUQHWO·LQWHUHVVHSHULSURGRWWLLWDOLDQLQHO 2013 +12% di ricerche relative ai settori del made in Italy). Gli italiani residenti DOO·HVWHUR 1HOPRQGRFLUFDPLOLRQLGLSHUVRQHYDQWDQRXQ·RULJLQHLWDOLDQD*OLLWDOLDQLRJJLLVFULWWLDOO·$LUH$QDJUDIHGHJOLLWDOLDQLUHVLGHQWLDOO·HVWHURVRQR rispetto al 2013). Nel 2013 sono espatriati 94.126 italiani (per il 36,2% giovani tra 18 e 34 anni). Tutte OHSULPHFRPXQLWjLWDOLDQHDOO·HVWHURVRQRFUHVFLXWH QHOO·XOWLPRDQQROHSLQXPHURVHVRQRTXHOODDUJHQWLna (836.736), tedesca (704.135) e svizzera (582.172). *OLLWDOLDQLHPLJUDWLDOO·HVWHURQHOO·XOWLPRDQQRVRQRSHU il 27,6% laureati (dieci anni fa erano il 12%). Le imprese italiane DOO·HVWHUR /HLPSUHVHDFRQWUROORLWDOLDQRSUHVHQWLDOO·HVWHURVRQR 21.682. Sono presenti in 161 Paesi con 1,7 milioni di addetti e 510 miliardi di euro di fatturato. Le catene italiane in IUDQFKLVLQJ Nel 2013 si rilevano 149 reti di IUDQFKLVLQJ italiano DOO·HVWHURSHUXQWRWDOHGLSXQWLYHQGLWD rispetto al 2011). Ai primi posti abbigliamento, enogastronomia e accessori moda. /·LQWHUHVVHSHUODOLQJXD Nel mondo circa 200 milioni di persone sono in grado italiana di parlare italiano (75 milioni come prima lingua e 125 milioni come seconda). Nel 2013 297.675 persone (più della metà adulti) hanno seguito un corso di lingua itaOLDQDDOO·HVWHUR,,VWLWXWLGLFXOWXUDLWDOLDQDDOO·HVWHUR hanno accolto circa 70.000 corsisti. Studenti e ricercatori Sono attualmente 2.693 i ricercatori italiani impegnati DOO·HVWHUR*OLVWXGHQWLLWDOLDQLFKHVRJJLRUQDQRDOO·HVWHro attraverso il programma Erasmus sono 25.805. Fonte: elaborazione Censis su fonti varie Questo interesse continuerà ad aumentare nei prossimi anni in ragione della crescita dei testimonial dell’Italia nel mondo, pensando alle presenze capillarmente diffuse nel mondo di italiani, aziende italiane, prodotti e brand italiani. Tutte le comunità italiane nel mondo crescono numericamente e aumenta il livello di istruzione degli italiani che espatriano: oggi il 27,6% di coloro che emigrano possiede una laurea, ma non si andava oltre il 12% tra le uscite dello scorso decennio. Sempre più persone parlano la lingua italiana, e non solo per i circa 60 milioni di persone di origine italiana presenti all’estero, ma anche per il numero crescente di coloro che scelgono di apprendere l’italiano iscrivendosi a un corso di lingua. Ne discende che oggi, nel 32 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese complesso, sono circa 200 milioni le persone in grado di parlare la nostra lingua. Crescono le reti di aziende italiane in franchising all’estero: 149 reti al 2013 per un totale di 7.731 punti vendita (+5,3% rispetto al 2011). Il soft power dell’enograstronomia nazionale che conquista le culture globali La spesa per generi alimentari delle famiglie italiane è diminuita nel periodo di crisi 2007-2013 del 12,9% in termini reali, contro una dinamica complessiva della spesa per consumi pari a -8%. A fronte di una caduta della spesa, si registra però una espansione del significato sociale del rapporto con il cibo, che si spinge ben oltre la sua funzionalità primaria. Il successo di vino e cibo italiani nel mondo è uno degli indicatori più significativi del fortissimo appeal del nostro stile di vita come interprete di valori ‒ dalla domanda di qualità alla sostenibilità ‒ che nel post-crisi saranno sempre più importanti nelle culture globali. Lo dimostrano vari fenomeni, a cominciare dalla buona performance del made in Italy agroalimentare, che è una delle componenti più dinamiche dell’export, tanto che nel 2013 la voce “prodotti alimentari e bevande” vale 27,4 miliardi di euro: +26,9% rispetto al 2007. L’Italia, inoltre, è il Paese con il più alto numero di alimenti a denominazione o indicazione di origine (266), seguito a distanza da Francia (219) e Spagna (179). Per il 51% degli italiani la tipicità si sostanzia nel patrimonio culturale, storico e artistico, e per il 50% nel cibo e nel vino. Per i giovani di età compresa tra i 18 e i 34 anni la tipicità di un territorio è espressa più dal patrimonio enogastronomico (55,7%) che da quello culturale, storico e artistico (55,2%), o da quello paesaggistico (47,1%), ed è così anche per i residenti nel Nord-Est (52,7%) e nel Sud (53,1%) (tab. 32). 7DE2SLQLRQLVXLIDWWRULFKHHVSULPRQRODWLSLFLWjGLXQWHUULWRULRSHUFODVVLGLHWj(val. %) Il territorio in cui lei vive ha una sua tipicità che lo distingue? Sì Millennials (18-34 anni) Baby-boomers Aged (35-64 anni) (65 anni e oltre) Totale 97,1 94,0 89,2 93,6 Il patrimonio culturale, storico, artistico 55,2 53,4 42,1 51,1 Il cibo e il vino 55,7 53,8 36,8 50,2 Il patrimonio paesaggistico 47,1 44,6 32,9 42,4 Il dialetto, la lingua parlata localmente 38,4 32,5 35,2 34,6 Un particolare evento, manifestazione (festival, evento sportivo, ecc.) 38,2 26,4 27,7 29,5 Lo stile di vita 19,0 19,5 15,3 18,4 /·LGHQWLWjVHQVRGLDSSDUWHQHQ]D 13,6 15,6 9,2 13,6 No 1,7 5,6 6,3 4,8 Non so 1,2 0,5 4,5 1,6 7RWDOH 100,0 100,0 100,0 100,0 Fonte: indagine Censis, 2014 33 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese Esempi di comportamenti quotidiani improntati alla voglia di qualità, pur nel contesto di una diminuzione del reddito disponibile e di un approccio più sobrio ai consumi, sono: - l’acquisto di prodotti di stagione, praticato regolarmente da oltre 9 milioni di famiglie e da 13,4 milioni di tanto in tanto. A praticarlo è il 97,4% del totale (di cui il 71,1% regolarmente e il 26,3% di tanto in tanto), con una maggiore propensione tra gli abitanti del Nord-Ovest (il 99,4%, di cui il 73,9% lo fa regolarmente e il 25,5% di tanto in tanto) e tra chi definisce il proprio livello socio-economico alto (il 98,8%, di cui il 67,8% regolarmente e il 31% di tanto in tanto); - l’acquisto di prodotti a “chilometro zero”, entrati ormai nel quotidiano della tavola degli italiani, con 18 milioni che lo fanno regolarmente e 25,3 milioni di tanto in tanto. Sono più propensi all’acquisto di tali beni i millennials (18-34 anni: il 42% lo fa regolarmente e il 48,9% di tanto in tanto) rispetto ai baby-boomers (35-64 anni: il 31,2% regolarmente e il 57% di tanto in tanto) e agli aged (65 anni e oltre: il 42,1% regolarmente e il 40,4% di tanto in tanto); - la disponibilità a spendere di più per prodotti biologici, indicata da 29,2 milioni di italiani. Una più spiccata propensione si rileva tra i laureati (il 71,3% a fronte del 58,9% del totale) e tra chi definisce il proprio livello socio-economico alto (64%). L’attenzione al biologico è confermata anche dai dati relativi al prodotto biologico intermediato dalla Grande distribuzione organizzata, cresciuto in valore dai 375 milioni di euro del 2008 a 720 milioni di euro nel 2014. E colpisce il successo della cucina in gruppi socio-demografici tradizionalmente meno permeabili a un’attività per molto tempo inchiodata alla pura funzionalità o alla dimensione di genere. Un esempio emblematico è rappresentato dai millennials, tra i quali cucina il 97,5%. Al 92,1% di essi piace cucinare e tra questi il 38,6% dichiara di essere appassionato di fornelli (tab. 33). 7DE,OVXFFHVVRGHOODFXFLQD´IDLGDWHµ(val. %) Di cui: (motivazioni) Cucinano Di cui: amano cucinare Appassiona Rilassa *UDWLÀFD Millennials 97,5 92,1 38,6 24,4 24,5 Single 98,2 75,6 28,7 25,3 14,6 ,WDOLDQL 95,9 82,0 32,5 23,4 20,9 Fonte: indagine Censis, 2014 Grazie a questo meccanismo sociale, l’onnipresenza del cibo, che contagia anche i luoghi più avanzati della globalizzazione, costituisce uno dei veicoli primari tramite il quale il nostro Paese sta riuscendo a conquistare, con logica da soft power, cuori, menti e portafogli dei cittadini a livello globale. L’Italian food, inteso come prodotti e come modalità di rapporto con la produzione e il consumo di cibo, è lo straordinario ambasciatore del nostro Paese nel mondo globalizzato. 34 Processi formativi (pp.81 – 135 del volume) La numerazione di tabelle, tavole e figure riproduce quella del testo integrale 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese Investire nell’infanzia Già nel 2002 l’Unione europea ha riconosciuto la strategicità dell’ampliamento dei servizi prescolari per lo sviluppo socio-economico, individuando alcuni obiettivi specifici: la copertura del 33% dei bambini sotto i 3 anni e del 90% per quelli dai 3 anni fino all’età di ingresso nel ciclo primario. Obiettivi non raggiunti nel 2010 e riproposti per il 2020. Nel 2012-2013 solo il 54,6% dei Comuni italiani ha attivato servizi per l’infanzia, arrivando a coprire appena il 13,5% dei potenziali utenti. In nessuna regione si raggiunge l’obiettivo comunitario e si va dal 27,3% dell’Emilia Romagna al 2,1% della Calabria. Il numero di posti disponibili nelle scuole dell’infanzia, statali, comunali e paritarie, è invece sufficiente a coprire la domanda, coinvolgendo ormai quasi la totalità degli aventi diritto. Ma anche questo segmento non è esente da criticità. I primi risultati di un’indagine del Censis sull’offerta prescolare su 1.200 dirigenti di scuola dell’infanzia statale e non statale mostrano che nel 2013-2014, se il 56,6% delle scuole intervistate non ha dovuto predisporre liste d’attesa, più di una su tre ha avuto liste d’attesa, comunque via via assorbite dalla scuola (25,5%) o anche da altre scuole (7,4%). Vi è poi il 10,1% di dirigenti che dichiara di non essere riuscito in ogni caso a rispondere alla domanda espressa dal territorio di riferimento, valore che sale al 16,2% nelle regioni del Nord-Ovest (tab. 2). 7DE5LVSRQGHQ]DGHOO·RIIHUWDGLSRVWLDOODGRPDQGDGHOOHIDPLJOLHQHOOHVFXROHGHOO·LQIDQ]LD intervistate (val. %) Val. % A.s. 2013/1014 6uVHQ]DOLVWHG·DWWHVD 56,6 6uFRQOLVWHG·DWWHVDYLDYLDDVVRUELWHGDOODVFXROD 25,5 6uFRQOLVWHG·DWWHVDYLDYLDDVVRUELWHDQFKHGDDOWUHVFXROH No Totale 7,4 10,1 100,0 A.s. 2014/2015 6FXROHGHOO·LQIDQ]LDFKHKDQQRSUHGLVSRVWROLVWHG·DWWHVD 41,0 )RQWH indagine Censis, 2014 36 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese Quando la scuola incontra il lavoro I dati di monitoraggio sull’alternanza scuola-lavoro evidenziano che nell’arco di sette anni questa metodologia si è diffusa in maniera sostenuta, passando dai 45.879 studenti coinvolti nel 2006-2007 ai 227.886 del 2012-2013. Nell’alternanza sono oggi coinvolte quasi 78.000 strutture ospitanti, tra imprese (58,2% del totale), professionisti, ma anche strutture pubbliche di diversa natura (enti locali, scuole, Asl, università, Camere di commercio, ecc.). Nonostante la vivacità dimostrata, i percorsi di alternanza coinvolgono però appena il 9% degli studenti di scuola secondaria superiore. L’attuazione dei percorsi di alternanza scuola-lavoro non appare esente da problematiche agli occhi dei dirigenti che sono chiamati a realizzarli. Il principale aspetto qualificante di tali percorsi è ritenuto, secondo un panel di 800 dirigenti di scuola secondaria di II grado, quello del fornire una maggiore conoscenza del mondo del lavoro (66,2%), anche in funzione orientativa per la eventuale scelta di proseguire negli studi (47,3%), ma gli intervistati segnalano la loro difficoltà a coinvolgere le aziende e il mondo del lavoro in genere (47%), cui è possibile correlare il 42,2% di coloro che rimarcano la difficoltà a offrire percorsi in alternanza a tutti gli studenti dell’istituto, oltre alle risorse finanziarie insufficienti (46,4%). Solo poco più di un terzo (34,3%) dei rispondenti ritiene che l’avere effettuato un’esperienza in alternanza aumenti in maniera diretta le opportunità occupazionali dei diplomati, mentre sul versante dell’organizzazione didattica la principale criticità sembra essere costituita dalla difficoltà a realizzare una effettiva integrazione dell’esperienza di alternanza nel curricolo scolastico (tab. 4). Per quanto riguarda i percorsi di istruzione tecnica superiore (Its), dal primo periodo di sperimentazione 2010-2012, con 59 Fondazioni e più di 70 percorsi avviati, si è giunti oggi a 64 Fondazioni (più 10 in corso di attivazione), 240 percorsi tra già realizzati, in attuazione e in corso di attivazione, e circa 5.000 studenti. I referenti delle 41 Fondazioni intervistate nell’ambito di una indagine Censis-Cnos si dichiarano in maggioranza molto (31,7%) o abbastanza (56,1%) soddisfatti degli esiti occupazionali dei primi diplomati. In relazione ai 518 diplomati intervistati, il dato più eclatante è quello relativo agli ampi livelli di soddisfazione registrati sia in merito all’esperienza formativa in sé (i diplomati molto o abbastanza soddisfatti sono l’82,4% del totale), sia tra gli occupati al momento dell’intervista (occupati molto o abbastanza soddisfatti: 88,2%). Il 48,5% dei diplomati ritiene molto utile il corso, perché ha aumentato le possibilità di trovare lavoro, e il 56% suggerisce di migliorare proprio le relazioni delle Fondazioni con il mondo del lavoro. Più della metà degli attuali diplomati occupati ha trovato lavoro soprattutto nell’azienda in cui ha effettuato lo stage (43,3%) (tab. 5). 37 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese 7DE2SLQLRQHGLXQpanelGLGLULJHQWLVFRODVWLFLGLVFXRODVHFRQGDULDGL,,JUDGRVXJOLDVSHWWL TXDOLÀFDQWLHVXOOHFULWLFLWjGHOO·DOWHUQDQ]DVFXRODODYRUR(val. %) Val. % $VSHWWLTXDOLÀFDQWL Maggiore conoscenza del mondo del lavoro 66,2 9DORUHRULHQWDWLYRGHOO·HVSHULHQ]DDQFKHLQIXQ]LRQHGHOODVFHOWDXQLYHUVLWDULD RGHOSHUFRUVRSRVWGLSORPD 47,3 ,QÁXHQ]DVXLOLYHOOLPRWLYD]LRQDOLHULGX]LRQHGHJOLDEEDQGRQL 37,3 $XPHQWRGHOOHRSSRUWXQLWjRFFXSD]LRQDOLSHULGLSORPDWLFKHVLIDQQRFRQRVFHUH dalle aziende 34,3 0DJJLRUHDGHJXDWH]]DGHOFXUULFRORDOOHHVLJHQ]HGHOPRQGRGHOODYRUR 32,5 ,QVWDXUD]LRQHGLUDSSRUWLSURÀFXLHVWDELOLFRQOHD]LHQGHFKHKDQQRLQYHVWLWR DQFKHDOWULDVSHWWLGHOYLVVXWRVFRODVWLFR 25,5 6WLPRORDGXQDFRQWLQXDLQQRYD]LRQHGHOODGLGDWWLFD 24,3 $XPHQWRGHOO·DWWUDWWLYLWjGHOODVFXROD 13,9 Aggiornamento e maggiore specializzazione del corpo docente 5,0 &ULWLFLWj 'LIÀFROWjDFRLQYROJHUHD]LHQGHPRQGRGHOODYRUR 47,0 5LVRUVHÀQDQ]LDULHLQVXIÀFLHQWL 46,4 /DGLIÀFROWjDGRIIULUHSHUFRUVLLQDOWHUQDQ]DDWXWWLJOLVWXGHQWLGHOO·LVWLWXWR 42,2 /DGLIÀFROWjQHOODDWWXD]LRQHGHOSURJHWWRGLDOWHUQDQ]DDUHDOL]]DUHXQDHIIHWWLYD LQWHJUD]LRQHGHOO·HVSHULHQ]DFRQLOFXUULFRORVFRODVWLFR 41,5 Coerente programmazione ed ottimizzazione di tempi e risorse HVDUPRQL]]D]LRQHWHPSRVFXRODHGHVLJHQ]HGHOO·LPSUHVDGLVSRQLELOLWj HLQWHJUD]LRQHWUDWXWRUVFRODVWLFRHWXWRUD]LHQGDOHHFF 31,1 'LIÀFROWjQHOODYDOXWD]LRQHGHOOHFRPSHWHQ]HDFTXLVLWHGDJOLVWXGHQWLQHLFRQWHVWL di lavoro 22,6 ,QVXIÀFLHQWHSUHSDUD]LRQHLQWHUHVVHGDSDUWHGHLGRFHQWL 14,8 $VVHQ]DGLXQDSSDUDWRGLPRQLWRUDJJLRHYDOXWD]LRQHFRQGLYLVRFKHSHUPHWWD DOOHVFXROHGLDSSRUWDUHPLJOLRUDPHQWLHYHULÀFDUHLOUDJJLXQJLPHQWRGHJOLRELHWWLYL 10,7 'LIÀFROWjQHOODFRPSUHQVLRQHDSSOLFD]LRQHGHOODQRUPDWLYD 6,2 6FDUVRLQWHUHVVHGDSDUWHGHOOHIDPLJOLHSUHRFFXSDWHGHOUHQGLPHQWRVFRODVWLFR 4,9 )RQWH indagine Censis, 2014 38 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese 7DE2SLQLRQLHGHVLWLRFFXSD]LRQDOLGHLSULPLGLSORPDWL,WV(val. %) Val. % /HRSLQLRQLVXOFRUVRIUHTXHQWDWR 8WLOLWjSHUDFTXLVL]LRQHGLFRPSHWHQ]HWHFQLFRSURIHVVLRQDOL 61,9 8WLOLWjSHUDXPHQWRFDSDFLWjGLUDSSRUWDUVLFRQJOLDOWUL 59,7 8WLOLWjSHUDXPHQWRGHOOHRSSRUWXQLWjGLWURYDUHODYRUR 48,5 2ELHWWLYLG·DSSUHQGLPHQWRSLHQDPHQWHRDEEDVWDQ]DUDJJLXQWL 90,7 'LSORPDWLPROWRRDEEDVWDQ]DVRGGLVIDWWL 82,4 *OLDVSHWWLGDPLJOLRUDUH ,QWURGX]LRQHQHOPRQGRGHOODYRURFRQWDWWLFRQD]LHQGHSHUIDYRULUHO·RFFXSD]LRQH 56,0 Maggiore organizzazione 55,6 ,QWURGX]LRQHGLDWWLYLWjSUDWLFKH 48,1 *OLHVLWLRFFXSD]LRQDOL 2FFXSDWL 54,8 2FFXSDWLFKHODYRUDQRQHOO·D]LHQGDLQFXLKDQQRHIIHWWXDWRORVWDJH 43,3 8WLOLWjGHOOHFRPSHWHQ]HDFTXLVLWHSHUORVYROJLPHQWRGHOODYRUR 69,8 2FFXSDWLVRGGLVIDWWLGHOODYRURVYROWR 88,2 3XQWHJJLHVXXQDVFDODYDORULDOHFKHYDGD SHUQLHQWHXWLOHD PROWRXWLOH 5LVSRVWHPROWRDEEDVWDQ]DXWLOHVRGGLVIDWWR )RQWH indagine Censis, 2014 L’attuazione della scuola digitale secondo i dirigenti scolastici Se 100 studenti italiani iscritti all’ultimo anno di scuola secondaria di I grado o al terzo della scuola secondaria di II grado dispongono rispettivamente di 8,3 e 8,2 personal computer, 100 dei loro coetanei europei ne dispongono mediamente di 21,1 e 23,2. Il 25,3% degli studenti di terza media e il 17,9% dei loro colleghi del terzo anno di scuola superiore frequentano scuole prive di connessione alla banda larga, a fronte di corrispondenti valori medi europei di gran lunga inferiori (rispettivamente, 5% e 3,7%). La frequenza di scuole dotate di ambienti di apprendimento virtuale è un’esperienza che coinvolge il 19% degli studenti in uscita dalla scuola media di I grado e il 33% degli iscritti al terzo anno della secondaria di II grado, quote ancora una volta sensibilmente inferiori alle medie europee (nell’ordine, 58% e 61% di studenti in età corrispondente). I dirigenti si scuola secondaria di II grado intervistati dal Censis hanno evidenziato, quali principali problematicità, l’obsolescenza troppo rapida della dotazione tecnologica, i costi che devono essere sostenuti per il collegamento internet e la carente disponibilità di spazi e strumenti adeguati. Nell’86,6% e nel 68,2% dei casi i rispondenti ritengono che la creazione di piattaforme per il reperimento e la fruizione di materiale e servizi didattici, insieme al passaggio da una logica di proprietà (di infrastrutture, dispositivi, ecc.) a una logica di servizio (a canone), siano soluzioni migliorative molto praticabili. A questi aspetti si aggiungono l’autonomia scolastica quale leva per l’adeguamento strutturale (70,5%) e l’aumento del materiale didattico digitale autoprodotto dalle scuole (67,5%) (tab. 8). 39 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese 7DE6FXRODGLJLWDOHSUDWLFDELOLWjGLDOFXQHVROX]LRQLPLJOLRUDWLYH(val. %) 0ROWR DEEDVWDQ]D 3RFR per niente &RLQYROJLPHQWRÀQDQ]LDULRHWHFQLFRGHLSULYDWLSHUODLQIUDVWUXWWXUD]LRQH e la gestione della rete digitale scolastica 47,8 52,2 3RWHQ]LDPHQWRGHOODUHWHLQIUDVWUXWWXUDOHDVFDSLWRGHOO·DFTXLVWRGHL GLVSRVLWLYLFKHGLYHQWDQRDFDULFRGHOOHIDPLJOLHHGHJOLVWXGHQWLVHFRQGR la modalità %ULQJ\RXURZQGHYLFHSRUWDLOWXRGLVSRVLWLYRDSDUWHLFDVL GHOOHIDPLJOLHFKHQRQSRVVRQRVRVWHQHUHO·DFTXLVWRGHOGLVSRVLWLYR 53,9 46,1 $XPHQWRGHOPDWHULDOHGLGDWWLFRGLJLWDOHDXWRSURGRWWRGDOOHVFXROH 67,5 32,5 &UHD]LRQHGLSLDWWDIRUPHSHULOUHSHULPHQWRHODIUXL]LRQHGLPDWHULDOH e servizi didattici 86,6 13,4 3DVVDUHGDXQDORJLFDGLSURSULHWjGLLQIUDVWUXWWXUHGLVSRVLWLYLHFF DXQDORJLFDGLVHUYL]LRDFDQRQH 68,2 31,8 $XWRQRPLDGHOOHVFXROHSHUDGHJXDPHQWRVWUXWWXUDOH 70,5 29,5 &UHD]LRQHGLVSD]LVFRODVWLFLSURJHWWDWLSHUXQDGLGDWWLFDWUDVPLVVLYD FODVVH´VFRPSRVWDµ 66,3 33,7 )RQWH indagine Censis, 2014 L’uso diffuso di materiale didattico digitale è riscontrabile solo nel 18,1% delle scuole intervistate, tuttavia nell’88,4% dei casi alcuni docenti si sono cimentati nella produzione di questo tipo di risorse. I dirigenti scolastici intervistati riscontrano, conseguentemente all’impiego di tale materiale didattico, miglioramenti nell’efficacia della didattica e nell’interesse e coinvolgimento degli studenti (rispettivamente, 89% e 96,5%); minore condivisione si registra rispetto a eventuali miglioramenti nell’interesse e nel coinvolgimento di altri docenti (61%). La pratica sportiva a scuola tra retorica educativa e carenze strutturali Da un’indagine del Censis su 2.425 istituti di istruzione secondaria emerge una dotazione strutturale delle scuole parzialmente deficitaria, che riflette non solo un divario tra le scuole del Nord e quelle del Sud del Paese, ma anche tra quelle appartenenti ai diversi indirizzi di istruzione. Gli istituti che si compongono di più plessi si caratterizzano prevalentemente per una qualità/adeguatezza dei loro spazi, impianti e attrezzature diversificata, non omogenea (66,7%). Ciò è particolarmente vero al Sud (72%) e negli istituti professionali (69,8%). Per il 39,7% di essi, eterogeneità equivale alla presenza di sedi scolastiche del tutte prive di strutture; percentuale che al Sud sale al 43,2%. Ciò nonostante, per la maggioranza dei dirigenti intervistati sono abbastanza adeguati gli spazi fisici dedicati allo sport (57,9%), gli strumenti e le attrezzature sportive (56%), e le ore dedicate allo sport (61,8%). Se però si va oltre il cono d’ombra dell’abbastanza adeguato e si analizzano i dati rispetto agli altri livelli della scala valoriale, alcune differenziazioni qualitative emergono. Ad esempio, spazi, attrezzature, competenze e tempi per lo sport molto adeguati ricorrono in misura inferiore 40 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese al valore medio nazionale nelle scuole del Sud. Nell’ambito dell’offerta di istruzione secondaria di II grado, sono gli istituti tecnici a mostrare i più alti livelli di adeguatezza delle infrastrutture sportive. Infatti, spazi, competenze e tempi sono molto adeguati per il 29,9%, il 56,1% e il 28,4% dei dirigenti. Le attrezzature solo per il 16,7%, sebbene nelle altre tipologie di scuole quelle molto adeguate rappresentino quote inferiori alle due cifre percentuali. Negli istituti professionali, invece, spazi e tempi per lo sport sono molto adeguati solo nel 7,8% e 9,4% dei casi, mentre le attrezzature sono molto adeguate solo nell’1,6% dei casi. Con riferimento alla funzione educativa dello sport, i dirigenti scolastici intervistati ne sottolineano soprattutto l’efficacia nella promozione della socializzazione tra pari (81,8%), mentre per il 77,4% il ricorso alle pratiche sportive è importante per promuovere atteggiamenti di fair play e di rispetto delle regole della convivenza. Il 69,6% dei dirigenti evidenzia come l’educazione fisica sia funzionale a promuovere stili di vita salutari e, in misura minore (31,1%), a prevenire fenomeni di dipendenza, ad esempio da alcol, fumo, droghe. Lo sport a scuola è importante per promuovere comportamenti non violenti e contrastare il bullismo per il 65,5% dei dirigenti intervistati, ma è anche funzionale a prevenire la dispersione scolastica, sia in quanto valorizza le competenze individuali dello studente, agendo sull’autostima e sulla costruzione di un progetto di vita (55,1%), sia perché favorisce il benessere dello studente e la costruzione di un clima piacevole (45,1%) (tab. 13). 7DE2ELHWWLYLHGXFDWLYLSHULOUDJJLXQJLPHQWRGHLTXDOLqSLHIÀFDFHLOULFRUVRDOOHDWWLYLWj sportive (val. %) Val. % 3URPXRYHUHODVRFLDOL]]D]LRQHWUDSDUL 81,0 3URPXRYHUHDWWHJJLDPHQWLGLIDLUSOD\ e di rispetto delle regole di convivenza 77,4 3URPXRYHUHVWLOLGLYLWDVDOXWDUL 69,5 3URPXRYHUHFRPSRUWDPHQWLQRQYLROHQWLSUHYHQLUHHFRQWUDVWDUHIHQRPHQLGLEXOOLVPR 65,5 3UHYHQLUHODGLVSHUVLRQHVFRODVWLFDYDORUL]]DQGROHFRPSHWHQ]HLQGLYLGXDOLGHOORVWXGHQWH HDJHQGRVXOODDXWRVWLPDHVXOODFRVWUX]LRQHGLXQSURJHWWRGLYLWD 55,1 3URPXRYHUHO·LQFOXVLRQHGLDOXQQLGLVDELOL 53,1 3URPXRYHUHO·LQFOXVLRQHGLDOXQQLLPPLJUDWL 46,7 3UHYHQLUHODGLVSHUVLRQHVFRODVWLFDIDYRUHQGRLOEHQHVVHUHGHOORVWXGHQWHHODFRVWUX]LRQH GLXQFOLPDSLDFHYROH 45,1 3UHYHQLUHIHQRPHQLGLGLSHQGHQ]DDOFROIXPRVRVWDQ]HGURJKHHFF 31,1 ,OWRWDOHQRQqXJXDOHDSHUFKpHUDQRSRVVLELOLSLULVSRVWH )RQWH indagine Censis, 2014 Attualmente il contributo finanziario aggiuntivo per attività e manifestazioni sportive a scuola è molto limitato: solo il 13,1% dei dirigenti dichiara di avere ricevuto contributi negli ultimi cinque anni, e nella maggior parte dei casi si tratta comunque di finanziamenti pubblici, erogati dagli enti locali, oppure di finanziamenti da parte di associazioni sportive che spesso in cambio possono utilizzare spazi e attrezzature scolastiche per le loro attività. Quasi del tutto assente è l’interesse da parte delle imprese di settore a far crescere la cultura e la pratica sportiva nelle leve studentesche, nonostante gli indubbi ritorni economici che un maggiore coinvolgimento potrebbe 41 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese apportare: nella fascia d’età 11-19 anni ben il 22,1% di giovani, più di un milione di individui, non pratica sport né attività fisica. Un beneficio certo in termini di interesse e coinvolgimento delle giovani generazioni potrebbe essere apportato, infine, da una maggiore partecipazione delle figure “simbolo” del mondo sportivo. Ai dirigenti scolastici intervistati piacerebbe molto poter coinvolgere in progetti di educazione sportiva, in quanto esempi e modelli positivi per gli studenti a rischio, in primo luogo ovviamente giocatori e atleti (70,4%), ma anche allenatori (46,2%) e arbitri (30,9%) (tab. 14). 7DE,VRJJHWWLGDFRLQYROJHUHSHUSRWHQ]LDUHOHDWWLYLWjVSRUWLYHQHOODVFXROD(val. %) Val. % ,VWLWXWLVFRODVWLFLFKHKDQQRULFHYXWRQHJOLXOWLPLDQQLDLXWLÀQDQ]LDULVSRQVRUVKLS SHUODUHDOL]]D]LRQHGLDWWLYLWjPDQLIHVWD]LRQLVSRUWLYHGDSDUWHGLSULYDWL Nord 16,9 Centro 13,0 6XGHLVROH 9,2 Italia 13,1 )LJXUHGHOPRQGRGHOORVSRUWFKHOHVFXROHYRUUHEEHURFRLQYROJHUHLQSURJHWWL GLHGXFD]LRQHVSRUWLYDLQTXDQWRHVHPSLHPRGHOOLSRVLWLYLSHUJOLVWXGHQWLDULVFKLR *LRFDWRUHDWOHWD 70,4 Allenatore 46,2 $UELWUR 30,9 5DSSUHVHQWDQWHGLXQDIHGHUD]LRQHVSRUWLYD&RQL 22,0 5DSSUHVHQWDQWHGLXQFOXEDVVRFLD]LRQHVSRUWLYD 17,6 Dirigente sportivo 10,2 )RQWH indagine Censis, 2014 L’università italiana un sistema sempre più territorialmente connotato Tra il 2008 e il 2013 gli iscritti alle università statali sono diminuiti del 7,2% e gli immatricolati del 13,6%. L’andamento decrescente ha interessato tutti gli atenei tranne quelli del Nord-Ovest, dove gli iscritti sono aumentati del 4,1% e gli immatricolati dell’1,3%. Nelle università del Nord-Est la contrazione dell’utenza è stata più contenuta: -2,3% di iscritti e -5,9% di immatricolati. Al Centro il numero degli studenti iscritti si è contratto del 12,1% e quello degli immatricolati del 18,3%. Negli atenei meridionali rispettivamente dell’11,6% e del 22,5%. L’indice di attrattività delle università sembra premiare non solo le università del Nord-Ovest (da 3,9% a 8,6% nel 2013), del nel 2008 ma anche quelle Nord-Est, che, sebbene abbiano ridotto la loro utenza complessiva, hanno comunque accre sciuto quella proveniente da fuori regione, passando dall’11% all’11,8%. L’ulteriore contrazione dell’indice di attrattività degli atenei meridionali (da -21,8% nel 2008 a 42 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese -22,8% nel 2013) sembra confermare la presenza di criticità strutturali note, a loro volta inserite nell’ambito di contesti territoriali segnati da derive di sottosviluppo economico di lungo periodo. Il dato che invece sembra essere più allarmante è la caduta nei cinque anni di riferimento dell’indice di attrattività delle università del Centro Italia, che è passato da 21,8% nel 2008 a 12,4% nel 2013, marcando un’apprezzabile riduzione del capitale reputazionale di tali istituzioni. Aumenta l’incidenza delle tasse di iscrizione sul totale delle entrate delle università italiane: da un valore intorno all’11% dei primi anni 2000, le entrate contributive si attestano al 13% nel 2010, per poi raggiungere nel 2012 quota 13,7%. I dati disaggregati per ripartizione territoriale indicano una separazione netta nel tempo degli andamenti delle entrate contributive tra le università settentrionali, da un lato, e quelle centrali e meridionali, dall’altro. Le prime si pongono, infatti, al di sopra delle medie nazionali e oltre la soglia del 15% sia nel 2011, sia nel 2012; le seconde, invece, al di sotto. 43 Lavoro, professionalità, rappresentanze (pp. 137 – 196 del volume) La numerazione di tabelle, tavole e figure riproduce quella del testo integrale 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese Occupazione: ladebolezzadell’emergenzacontinuativa Il lavoro continua a configurarsi come il problema più avvertito dalle famiglie italiane e quello che provoca maggiore disagio sociale. Il primo round del Jobs Act, così come approvato dal Senato, ha indubbiamente rappresentato una svolta innovativa di grande interesse, modificando in punti cruciali la normativa del lavoro. A questo proposito è opportuna una verifica sulla situazione occupazionale come si presenta nel 2014, soprattutto in relazione agli altri grandi o più significativi Paesi europei. Il problema da cui partire è certamente il difficile accesso al lavoro e gli elevati tassi di disoccupazione della popolazione giovanile. Se consideriamo i Paesi europei di eguale grandezza demografica rispetto al nostro, troveremo più similitudini che differenze: i disoccupati tra i 15 e i 24 anni sono 710.000 in Italia, 713.000 nel Regno Unito, 654.000 in Francia. Ai due estremi opposti si collocano la Spagna, con 837.000 disoccupati, e la Germania, con 332.000. In Italia la quota di giovani sul totale dei disoccupati è pari al 22,7%, in Francia è del 21,5%, ma nel Regno Unito tale quota supera un terzo (35,8%). In Spagna, dove c’è forte carenza di lavoro, la quota dei giovani in cerca di occupazione è del 15% sul totale dei disoccupati; in Germania, dove c’è piena occupazione, la quota è pure del 15,8%, con una proporzionalità rispetto alle varie fasce demografiche (fig. 1). Fig. 1 - La disoccupazione giovanile (15-24 anni) nei grandi Paesi europei, agosto 2014 (migliaia e val. %) 900 Disoccupati giovani (migliaia) 800 35 700 30 600 22,7 25 21,5 500 20 400 15,8 15,0 15 300 10 200 5 100 Incidenza % disoccupati giovani sul totale 40 35,8 0 0 Spagna Regno Unito Italia Francia Germania Fonte: elaborazione Censis su dati Eurostat Il Jobs Act, inoltre, dà rilievo e centralità al lavoro a tempo indeterminato, confidando che possa costituire un vantaggio per incrementare le opportunità di lavoro. Il confronto con un significativo numero di Paesi europei fa emergere una realtà più 45 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese variegata: considerando la quota dei contratti part time e a tempo determinato sul totale degli occupati, sembra esserci una certa correlazione fra la loro diffusione e più alti tassi di occupazione rispetto all’Italia. Il nostro tasso di occupazione nel 2013 è stato del 59,8%, mentre la quota di part time è pari al 17,9% e i contratti a termine rappresentano il 13,2%. Paesi con tassi di occupazione molto superiori al nostro, come la Germania (77,1%) o i Paesi Bassi (76,5%), hanno quote di contratti a tempo determinato superiori alla nostra. Senza dimenticare i mini-jobs per i giovani tedeschi, che non rispondono certo alla logica della sicurezza e della tutela (tab. 2). 7DE)RUPHFRQWUDWWXDOLLQDOFXQL3DHVLHXURSHL(val. %) Tasso di occupazione Quota di lavoro part time Quota di lavoro a tempo determinato Germania 77,1 27,3 13,4 Paesi Bassi 76,5 50,6 20,6 Danimarca 75,8 25,4 8,8 Regno Unito 74,9 26,9 6,2 Francia 69,6 18,4 16,4 Ue 28 68,4 20,3 13,8 Polonia 64,9 7,8 26,9 Italia 59,8 17,9 13,2 Spagna 58,6 15,8 23,1 Fonte: elaborazione Censis su dati Eurostat Ripartiredalvaloredellecompetenze perrimettereinmotoillavoro Secondo i risultati di una condotta nel 2013 dal Censis per conto del Ministero del Lavoro su un campione rappresentativo di imprese con oltre 20 addetti, una quota rilevante di aziende ha avviato negli anni della crisi un vero e proprio processo di ristrutturazione aziendale. Ben il 41,8% ha rimesso mano all’organizzazione aziendale apportando significativi cambiamenti. Se la sostituzione di professionalità divenute ormai obsolete (effettuata dal 40,3% del totale delle imprese) ha rappresentato un passaggio ineludibile, d’altro canto le aziende sono state spinte a innovare le competenze, aggiornando quelle esistenti e acquisendone di nuove: il 41,9% ha effettuato assunzioni inserendo nuove professionalità in azienda e il 26,9% si è attivato per riconvertire e riqualificare il personale esistente (tab. 4). L’inserimento di nuove risorse in sostituzione delle vecchie o il ricorso a competenze esterne più specialistiche, utili a supportare il cambiamento in corso, si sono accompagnati all’esigenza di ottimizzare l’organizzazione interna e rimotivare i gruppi di lavoro, in un processo complesso che ha visto ridisegnare dal basso l’organizzazione aziendale, con il reengineering dei processi lavorativi (38%), l’introduzione di nuove prassi, la riorganizzazione dei gruppi di lavoro (31,7%), la revisione dei turni e degli orari interni (26,5%). Ancora, ben il 28% delle aziende, coerentemente con gli obiettivi di produttività fissati, ha ridefinito il sistema di valutazione e i meccanismi premiali. 46 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese Tab. 4 - Iniziative di riorganizzazione intraprese dalle aziende con più di 20 addetti tra il 2010 e il 2013, per fase aziendale (val. %) Fase aziendale Iniziativa Imprese che hanno effettuato una vera e propria ristrutturazione aziendale Crescita Ripresa 42,8 38,0 Staziona- Ridimenrietà sionamento 37,6 48,4 Totale 41,8 Azioni intraprese Inserimento di nuove professionalità 75,0 65,1 42,7 22,5 41,9 Sostituzione/uscita di professionalità obsolete 19,4 54,8 36,2 48,7 40,3 Introduzione di nuove procedure/processi di lavoro 56,7 50,4 45,3 15,3 38,0 Riorganizzazione dei gruppi di lavoro 47,9 30,8 26,4 34,7 31,7 'HÀQL]LRQHVLVWHPDGLYDOXWD]LRQHHSUHPLDOH 36,3 30,0 36,9 10,0 28,0 5LTXDOLÀFD]LRQHULFRQYHUVLRQHGHOSHUVRQDOH 23,3 34,3 23,3 30,9 26,9 5LGHÀQL]LRQHRUDULWXUQLGLODYRUR 33,9 18,6 18,9 39,8 26,5 9,8 12,2 11,4 45,7 21,6 16,5 17,4 12,6 10,5 12,7 6,6 11,9 2,6 2,4 4,2 Riduzione orari di lavoro Esternalizzazione di funzioni prima svolte internamente Internalizzazione di funzioni esterne Il totale non è uguale a 100 perché erano possibili più risposte Fonte: indagine Censis, 2013 Da un lato, dunque, è emersa una logica di tipo difensivo soprattutto da parte di quelle aziende che vivono una fase di ridimensionamento e per le quali la riorganizzazione rappresenta l’ultima chance di sopravvivenza in un mercato in cui è alto il rischio di espulsione (su 100 aziende che si sono riorganizzate, 36 si trovano in una situazione di grossa difficoltà). L’azione, in questo caso, si caratterizza per un intervento drastico sul fronte organizzativo, che prevede soprattutto tagli al personale (48,7%), riduzione di orari (45,7%), riqualificazione e riconversione delle figure professionali esistenti (30,9%). Dall’altro lato vi è, invece, un modello di riorganizzazione aziendale che segue una logica molto più spinta e aggressiva, che interessa circa l’8% delle aziende, che si trovano a vivere una fase di crescita e di espansione, ma verso cui tendono anche quelle realtà che, pur in fase di stazionarietà, stanno rivedendo la propria struttura organizzativa. Quale che sia il rapporto di causa-effetto, in queste realtà l’occupazione cresce. Il 75% ha assunto nuove professionalità e ben il 53,7% ha dovuto acquisire competenze del tutto nuove che prima non aveva: ingegneri innanzitutto (sono le figure prescelte dal 50,2% delle imprese), da inserire nelle funzioni produttive, di ricerca e sviluppo, ma anche gestionali e di controllo; a seguire, tecnici (il 40,6% dei casi), commerciali (35,7%) e amministrativi (29,9%). Giovanielavoro:dalletecnologiepiùopportunità Pure a fronte di una situazione tanto complicata per le nuove leve del mercato del lavoro, si intravvedono spiragli incoraggianti. C’è grande voglia di darsi da fare proprio tra i giovani italiani, i quali aspirano in più casi a creare da sé un business: il 47 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese 22% ha già avviato una start up o intende seriamente farlo nei prossimi anni, e il dato europeo è perfettamente in linea, mentre quello tedesco nettamente inferiore universo di giovani intraprendenti, peraltro, ancora più ampio (15%). Tale sarebbe se soltanto ci fosse un tessuto di imprese e istituzioni pronto a dare loro sostegno nell’avvio di una nuova attività (il 38%, infatti, sarebbe interessato ad avviare un proprio business, ma ritiene che sia troppo complicato, mentre in Europa tale quota scende al 22% e in Germania al 12%). Occorre, dunque, ripartire dal rinato spirito di intraprendenza dei giovani e sostenerlo, e magari convogliarlo verso quei settori più dinamici del mercato, che offrono buone opportunità sia di impiego presso le imprese, sia di business. A titolo esemplificativo, basta osservare l’analisi delle assunzioni previste dalle imprese nel 2014, che mostra le buone chance offerte dal settore dei servizi informatici e delle telecomunicazioni, in particolare ai giovani lavoratori: il 37,8% delle assunzioni previste dalle aziende del settore è infatti rivolto a giovani fino a 29 anni, a fronte di un dato che nell’industria si ferma al 23,8% e nel mercato del lavoro nel complesso al 27,2%; ben il 15% di queste figure, peraltro, è considerato dalle imprese di difficile reperimento a causa del ridotto numero di candidati (fig. 3). )LJ$VVXQ]LRQLSUHYLVWHGDOOHLPSUHVHSHULOSHUFDQGLGDWLÀQRDDQQLHTXRWDFRQVLGHUDWDGLGLIÀFLOHUHSHULPHQWRSHUULGRWWRQXPHURGLFDQGLGDWL(val. %) Fino a 29 anni Considerate di difficile reperimento per ridotto numero di candidati 37,8 28,5 27,2 23,8 15,0 5,0 3,7 Servizi informatici e telecomunicazioni Totale servizi Totale industria 4,1 Totale imprese Fonte: elaborazione Censis su dati Excelsior Unioncamere Dal canto suo, l’universo giovanile appare ben disposto ad intraprendere percorsi professionali che abbiano a che fare con le nuove tecnologie e la rete e ad inserirsi in contesti aziendali che operano principalmente sul web. Una recente indagine del Censis rivolta a studenti calabresi di età compresa tra 16 e 18 anni mostra, infatti, come il 31,6% dei ragazzi intervistati di sesso maschile è interessato all’idea di poter svolgere in futuro un lavoro in rete (solo il 9,6% tra le ragazze), e la percentuale 48 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese raddoppia se la prospettiva è di poter lavorare per qualche azienda che opera principalmente in rete, come ad esempio Facebook e Google (60,2%, a fronte del 31,5% tra le ragazze). Over50tralavoro,nonlavoroequasilavoro Se i risultati peggiori in questi anni hanno riguardato i giovani, la componente più anziana (fra i 50 e i 69 anni) presenta un andamento in controtendenza nei risultati relativi a tutti gli indicatori: aumenta la partecipazione al lavoro di oltre 6 punti tra il 2008 e il 2013 (e su questo pesa certamente lo spostamento in avanti dell’età del ritiro dal lavoro), subisce a prima vista meno degli altri la diffusione della disoccupazione (con un tasso che si aggira intorno al 6%) e aumenta di quasi 5 punti il tasso di occupazione. Ma è importante un supplemento di indagine sulla componente con più di 50 anni per cogliere alcuni segnali di reazione e di adattamento all’intreccio fra impatto della crisi, decisioni collettive (le riforme del lavoro e delle pensioni su tutte) e decisioni individuali maturate in questi anni. Il boom di occupati over 50 registrato dal 2011 a oggi (+19,1%), proprio in concomitanza del crollo osservato tra quanti hanno un’età inferiore (-11,5%), se da un lato è un effetto diretto delle riforme previdenziali entrate a regime, dall’altro contiene in sé le disfunzioni di un mercato del lavoro che serra le porte alle nuove leve e le spalanca ai lavoratori più anziani, oltre ai numerosi casi di chi sceglie di restare al lavoro pur avendo maturato i requisiti per il pensionamento per non intaccare il livello di reddito, e di coloro che si erano chiamati fuori dal mercato del lavoro, ma sono stati indotti a rimettersi in gioco dal peggiorare delle condizioni economiche. Sul versante degli inattivi (oltre 17 milioni over 50), la grande maggioranza, pari a circa 14 milioni, non cerca lavoro e si dichiara indisponibile a lavorare, ma ci sono anche quasi 700.000 over 50 che si configurano come “forze lavoro potenziali”, persone cioè che non cercano lavoro, ma sarebbero disponibili a lavorare a determinate condizioni. Anche questo è un segnale delle difficoltà contingenti attraversate da questa schiera di persone e del radicale mutamento di prospettive dal quale sono state investite. Rispetto al 2008, sono aumentati di ben il 33,3%, e tra questi la maggior parte è costituita da donne (oltre 400.000), che probabilmente a causa delle difficoltà economiche non rinunciano a cogliere eventuali chance occupazionali per integrare il reddito o fare fronte a improvvise e non preventivate spese. Ma colpisce ancora di più la dinamica che ha riguardato i senza lavoro over 50 in questi anni. I disoccupati hanno raggiunto nel 2013 le 438.000 unità, con un incremento rispetto al 2008 di 260.000 unità in termini assoluti e del 146% in termini relativi (tab. 10). 49 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese Tab. 10 - Il non lavoro degli over 50, 2008-2013 (migliaia, diff. ass. e var. %) 2008 2013 Condizione occupazionale v.a. (mgl.) v.a. (mgl.) diff. ass. (mgl.) var. % In cerca di occupazione 1.692 3.113 1.421 84,0 178 438 260 146,1 34.240 35.135 895 2,6 17.026 17.382 356 2,1 2.788 3.205 417 15,0 Forze di lavoro potenziali di 50 anni e oltre 516 688 172 33,3 Uomini 206 287 81 39,3 Donne 311 402 91 29,3 Disoccupati di 50 anni e oltre Non forze di lavoro Non forze di lavoro di 50 anni e oltre Forze di lavoro potenziali 2008-2013 Fonte: elaborazione Censis su dati Istat Rappresentanzeincrisid’identità Se i soggetti di rappresentanza appaiono sempre più svuotati di ruolo è anche perché stanno vivendo al proprio interno una crisi profonda, di identità, che nasce dall’incapacità di ricondurre a un unico modello di riferimento dimensioni sociali sempre più complesse e poliedriche. Il lavoro, che un tempo rappresentava una dimensione cristallizzata nella vita delle persone, ha finito per diventare una sommatoria di esperienze, spesso intermittenti e sempre meno capaci di identifi di costruire percorsi cazione professionale. Si moltiplicano, infatti, i tempi di non lavoro nell’ambito della vita delle persone: stando ai dati dell’Istat, il 14% degli occupati si è trovato negli ultimi tre anni a in terrompere il proprio percorso professionale, incorrendo in uscite temporanee o ri petute dall’attività lavorativa. Tale rischio è maggiore nelle fasce generazionali più ben si è trovato a vivere giovani, tra 16 e 34 anni, dove il 20,5% degli occupati dei periodi di non lavoro. Si affermano, inoltre, identità lavorative sempre più ibride, non collocabili in quei format di profili (gli operai, gli impiegati, i professionisti, gli imprenditori) sulla base dei quali i soggetti di rappresentanza hanno tradizionalmente organizzato la loro azione. Si pensi alla crescita che si è avuta negli ultimi anni di tutta quell’area di lavoro ibrido collocabile in quella terra di mezzo tra il lavoro dipendente tradizionale e autonomo di tipo imprenditoriale e professionale. Un’area di lavoro che nel 2013 contava quasi 3,4 milioni di occupati (il 15,1% del totale) tra temporanei, intermittenti, collaboratori, finte partite Iva e prestatori d’opera occasionale, e che soprattutto tra i giovani rende sempre più ardua l’autocollocazione rispetto a quella che fino a qualche tempo fa rappresentava una dimensione chiara e netta dell’identità lavorativa. Tra gli occupati di età compresa tra i 15 e i 24 anni la quota di “ibridi” è 50 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese addirittura maggioritaria, pari al 50,7%, mentre scende progressivamente all’aumentare dell’età (il 22,9% tra i 25 e i 34 anni) e risale in prossimità dell’uscita definitiva dal mercato del lavoro (il 20,6% tra gli over 65) (fig. 8). )LJ/·LEULGD]LRQHWUDODYRURDXWRQRPRHGLSHQGHQWHSHUFODVVHG·HWj(val. %) Lavoro tradizionale dipendente 100 9,1 90 14,8 19,4 19,7 22,9 12,3 10,0 68,3 70,3 80 70 Lavoro ibrido Lavoro tradizionale autonomo 19,6 23,8 9,2 50,7 60,3 15,1 60 50 40 20 67,0 62,2 30 65,3 20,6 40,2 10 19,1 0 15-24 anni 25-34 anni 35-44 anni 45-54 anni 55-64 anni 65 anni e oltre Totale 1HOODFODVVLÀFD]LRQHGLODYRURLEULGRULHQWUDQROHVHJXHQWLFDWHJRULHGLODYRUDWRULGLSHQGHQWHDWHUPLne, collaboratore a progetto, collaboratore occasionale, autonomo senza addetti e monocommittente Fonte: elaborazione Censis su dati Istat Malgrado la sfiducia generalizzata che gli italiani nutrono verso le classi dirigenti del Paese, rappresentanze sociali comprese, la maggioranza (il 60% circa) continua a considerare gli organismi intermedi come un elemento centrale nel funzionamento democratico. Il 42,5% li ritiene importanti, in quanto rappresentanti di interessi e valori comuni a gruppi di cittadini, e pertanto fondamentali nell’incidere sulle decisioni della politica; mentre un altro 17,2% ritiene un valore la loro presenza, in quanto collante aggregativo in una società sempre più individualista. Di contro, tra quanti non reputano i soggetti intermedi utili alla vita democratica (il 40% circa) è solo il 12,7% a considerare il loro ruolo del tutto inutile, in considerazione del fatto che gli interessi devono esprimersi attraverso la politica e le istituzioni; il 16,9% pensa infatti che siano superati perché superate sono le logiche aggregative degli interessi, non più basate su appartenenze professionali, mentre ben il 10,7% punta proprio il dito sull’approccio corporativo e la tendenza a chiudersi nella difesa di microinteressi settoriali (tab. 12). 51 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese Tab. 12 - Il giudizio sul ruolo delle strutture di rappresentanza, per condizione personale (val. %) Condizione Riguardo a strutture come sindacati e associazioni LPSUHQGLWRULDOLOHLULWLHQHFKH Dipendenti Autonomi Totale occupati Non occupati Totale Sono importanti, perché rappresentano cittadini con interessi comuni che in questo modo possono incidere sulle decisioni della politica 40,8 35,5 39,5 44,9 42,5 Sono un valore, perché sono un baluardo nella VRFLHWjFRQWURO·LQGLYLGXDOLVPR 17,1 19,7 17,7 17,0 17,2 Sono superate, perché le persone ormai si aggregano su basi diverse da quelle del lavoro 16,7 27,3 19,1 15,3 16,9 Sono inutili, perché interessi e convinzioni devono esprimersi tramite la politica e le sue istituzioni 13,8 7,8 12,6 12,4 12,7 Sono dannose, perché rendono la società corporativa, chiusa su interessi particolari Totale 11,6 9,7 11,1 10,3 10,7 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 Fonte: indagine Censis, 2013 52 Il sistema di welfare (pp. 197 – 269 del volume) La numerazione di tabelle, tavole e figure riproduce quella del testo integrale 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese Le diseguaglianze di salute, nuova frontiera per il servizio sanitario Le manovre sulla sanità, la spending review e i Piani di rientro nelle regioni in cui sono attivati hanno contributo all’ampliamento delle vecchie disparità e alla creazione di nuove nelle opportunità di cura. Il 50,2% degli italiani è convinto che tali politiche di contenimento abbiano aumentato le disuguaglianze (tab. 1). Tab. 1 - Impatto delle politiche di contenimento della spesa sanitaria sulle disuguaglianze in VDQLWjSHUDUHDJHRJUDÀFD(val. %) Secondo lei le recenti politiche volte al contenimento della spesa pubblica in sanità hanno: Nord-Ovest Nord-Est Centro Sud e isole Totale 54,7 48,4 44,5 51,1 50,2 Ridotto le disuguaglianze 2,3 6,1 2,0 4,4 3,7 Né aumentate, né ridotte le disuguaglianze 27,2 33,1 33,1 32,8 31,4 Non so 15,8 12,4 20,4 11,7 14,7 Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 Aumentato le disuguaglianze Fonte: indagine Censis, 2014 La spesa sanitaria privata è cresciuta da 29.578 milioni di euro nel 2007 a 31.408 milioni di euro nel 2013, con una dinamica incrementale interrotta solo nell’ultimo anno, presumibilmente per la convergenza di spese di altro tipo sui bilanci di tante famiglie. Nel nuovo contesto si registra non solo un approfondimento di disuguaglianze antiche, ma anche l’insorgenza di disuguaglianze inedite legate alla nuova geografia dei confini pubblico-privato in sanità, e all’espansione della sanità a pagamento o, per chi non ce la fa, la rinuncia a curarsi e a fare prevenzione. Non è un caso che alla richiesta di indicare i fattori più importanti in caso di malattia di una persona, il 48,1% degli italiani richiama il denaro che si possiede. Più disuguaglianze, quindi, che penalizzano i soggetti più fragili dal punto di vista socioeconomico e che nascono da una erosione di fatto della copertura pubblica, e dalla necessità per i cittadini di ricorrere in misura maggiore all’acquisto di prestazioni nel privato. In ogni caso il servizio sanitario rimane una istituzione essenziale e non può essere smantellato o ridimensionato drasticamente: è l’86,7% dei cittadini a ritenere che nonostante i suoi difetti, il Servizio sanitario nazionale sia comunque fondamentale per garantire salute e benessere a tutti. 54 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese Informati e incerti: gli effetti negativi del boom dell’informazione sanitaria Negli ultimi decenni è cresciuta l’attenzione della popolazione rispetto ai temi sanitari: gli italiani si giudicano sempre più informati sui temi sanitari e indicano di prestare sempre più attenzione quando si parla di salute. Se, da un lato, il bagaglio di saperi degli italiani sui temi sanitari va ricondotto prima di tutto ai professionisti della sanità (in particolare al medico di medicina generale), dall’altro appare sempre più ampia la porzione di popolazione che afferma di tradurre quanto appreso in tv, sulla stampa o su internet in comportamenti finalizzati alla prevenzione o alla cura della salute. La pratica dell’e-health, sempre più diffusa (il 41,7% degli italiani nel 2014 cerca informazioni online sulla salute), ha inevitabilmente contribuito a ridisegnare il rapporto che il paziente instaura con il medico. Non di rado le informazioni reperite online vengono chiamate in causa al momento del confronto diretto con il medico e utilizzate per discutere e confrontarsi sui risultati, ma anche per contestare al medico l’esattezza della sua diagnosi. In aumento è anche il ricorso a forum e blog per discutere di questioni sanitarie (fig. 3). )LJ&LUFRVWDQ]H FKH VL VRQR YHULÀFDWH LQ FRQVHJXHQ]D GHOO·XVR GL LQWHUQHW SHU TXHVWLRQL sanitarie (val. %) 58,1 Cercare su internet informazioni per capire meglio le indicazioni del medico Verificare la diagnosi e le indicazioni del medico mediante una ricerca su internet 55,3 Discutere con il medico dei risultati delle sue ricerche su internet 37,1 Prenotare una prestazione o ottenere un servizio amministrativo online Non ricorrere al medico perché ha già ottenuto su internet le informazioni necessarie per far fronte al suo problema sanitario Contestare al medico l’esattezza di diagnosi e terapie in base a quanto ha appreso su internet 29,8 21,6 20,5 Ricevere attraverso i social network informazioni utili sulla salute senza averle cercate 20,4 Seguire un blog o far parte di un forum di discussione su temi della salute Consultare un sito di associazioni dei pazienti per capire meglio le caratteristiche di una malattia, cosa fare, a chi rivolgersi Iniziare una cura grazie alle informazioni reperite su internet senza parlarne con il medico 19,9 19,3 18,8 Discutere sui social network di episodi relativi alla salute 17,8 16,2 Chiedere un consulto medico su un forum Altro 3,0 ,OWRWDOHQRQqXJXDOHDSHUFKpHUDQRSRVVLELOLSLULVSRVWH Fonte: indagine Censis, 2014 55 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese L’esposizione a un numero molto elevato di contenuti determina come conseguenza un’alterazione della percezione relativa al proprio livello di conoscenze su temi sanitari. Questa discrepanza tra conoscenze presunte e informazioni possedute è stata messa in luce da diverse ricerche che il Censis ha condotto tra il 2012 e il 2014, dalle quali è emerso che la conoscenza su temi sanitari non risulta completamente adeguata anche nei casi in cui il soggetto risulti direttamente coinvolto in una specifica situazione patologica. Tra i pazienti affetti da fibrillazione atriale, ad esempio, solo il 58,8% ha correttamente definito l’ictus una malattia del cervello, con un dato che varia con il titolo di studio: dal 74,1% di chi ha più titoli di studio al 45,6% di chi ha titoli più bassi, rivelando un’incertezza particolarmente grave in quanto presente in una popolazione ad alto rischio. Cittadini e pazienti si ritrovano dunque spesso sotto una pioggia di contenuti e notizie tra cui non è sempre facile selezionare le informazioni corrette e affidabili. E così è sempre più ampia, e anzi nell’ultimo anno è diventata maggioritaria, la percentuale di italiani che pensano che troppe informazioni sulla salute rischiano di creare confusione e incertezza. Dove e perché sta diventando difficile nascere in Italia La denatalità è un dato ormai strutturale del nostro Paese, che presenta uno dei tassi di natalità più bassi a livello europeo (8,5 bambini nati per 1.000 abitanti). Nel 2013 si è raggiunto il minimo storico dei nati (514.308) dopo il massimo relativo di 576.659 del 2008: una riduzione di circa 62.000 nati. C’è da valutare un primo elemento strutturale legato alla riduzione del numero di donne in età fertile lungo tutto il territorio nazionale, sia italiane che straniere. Ad oggi le donne fertili dai 15 ai 30 anni sono circa 4,9 milioni, poco più della metà delle circa 8.660.000 che hanno dai 31 ai 49 anni. Inoltre, questo numero progressivamente sempre minore di donne fertili tende a fare figli sempre più tardi (l’età media al parto di 31,4 anni è tra le più alte in Europa), riducendo così nei fatti la fertilità e la possibilità di avere figli, soprattutto oltre il primo e il secondo. A confermare questa tendenza a ritardare la procreazione è la recente indagine del Censis sulla fertilità, dalla quale emerge che per il 46% degli italiani una donna che vuole avere figli dovrebbe cominciare a preoccuparsi di non averne non prima dei 35 anni, come segnale ulteriore di un modello sociale segnato dalla tendenza a procrastinare tutti i momenti di passaggio alla vita adulta. Al Sud si registra una natalità più bassa di quella del Nord e del Centro (tab. 6). Si tratta di un’area che gode meno dell’effetto compensatorio della fecondità delle straniere e a questo aspetto vanno associati fattori strutturali legati al quadro di incertezza occupazionale ed economica che contribuiscono certamente a una profonda revisione anche dei modelli culturali relativi alla procreazione. Gli indicatori di precarietà della condizione lavorativa, come la quota di occupati a tempo determinato e collaboratori da almeno cinque anni, così come quella dei dipendenti con bassa 56 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese paga, evidenziano in modo netto la condizione più problematica dei residenti al Sud. Inoltre, il tasso di disoccupazione per i 25-34enni del Mezzogiorno sfiora il 30% e quello femminile totale il 21,5% contro il 9,5% del Nord. Tab. 6 - Tassi di natalità e nati da madri straniere, 2008-2013 (val. %) 7DVVRGLQDWDOLWj Diff. ass. tasso Diff. ass. tasso 2008-2013 2012-2013 Val. % nati da madri straniere 2012 2008 2012 2013 9,1 8,5 8,1 -1,0 -0,4 25,0 9DOOHG·$RVWD 10,3 9,3 8,3 -2,0 -1,0 19,5 Lombardia 10,4 9,4 8,9 -1,4 -0,5 27,3 Trentino Alto Adige 10,8 10,2 9,9 -0,9 -0,3 22,2 Veneto 10,1 9,1 8,6 -1,6 -0,6 26,8 Friuli Venezia Giulia 8,6 8,1 7,7 -0,9 -0,4 22,0 Liguria 7,9 7,4 7,0 -0,9 -0,4 24,0 Emilia Romagna 9,9 9,0 8,6 -1,3 -0,4 29,8 Toscana 9,3 8,5 7,9 -1,3 -0,5 24,2 Umbria 9,5 8,6 8,3 -1,2 -0,3 24,7 Marche 9,5 8,6 8,2 -1,3 -0,4 23,9 10,6 9,6 9,1 -1,4 -0,5 19,6 Abruzzo 9,0 8,5 8,2 -0,9 -0,4 15,1 Molise 7,9 7,4 7,2 -0,7 -0,2 9,0 10,6 9,5 9,1 -1,5 -0,4 6,0 Puglia 9,5 8,6 8,3 -1,2 -0,3 6,0 Basilicata 8,4 7,8 7,1 -1,3 -0,7 7,4 Calabria 9,1 8,7 8,5 -0,6 -0,2 9,4 10,0 9,3 8,8 -1,2 -0,4 6,7 Sardegna 8,2 7,6 7,2 -1,0 -0,4 6,9 Nord 9,8 9,0 8,6 -1,3 -0,5 26,6 Centro 9,9 9,0 8,6 -1,4 -0,5 21,9 Mezzogiorno 9,7 8,9 8,5 -1,2 -0,4 7,2 Italia 9,8 9,0 8,5 -1,3 -0,4 19,0 Piemonte Lazio Campania Sicilia Fonte: elaborazione Censis su dati Istat Non stupisce quindi che, interrogati sulle possibili cause della scarsa propensione degli italiani ad avere figli, gli intervistati della recente ricerca del Censis sulla fertilità abbiano sottolineato nella grande maggioranza (85,3%) il peso della cause economiche, e in misura più marcata proprio al Sud (91,5%). Se l’83,3% degli italiani 57 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese è convinto che la crisi economica abbia un impatto sulla propensione alla procreazione, rendendo la scelta di avere un figlio più difficile da prendere anche per chi lo vorrebbe, questa quota raggiunge il 90,6% proprio tra i giovani fino a 34 anni, che sono contemporaneamente coloro che più subiscono l’impatto della crisi e nello stesso tempo dovrebbero essere i protagonisti delle scelte di procreazione (fig. 9). )LJ&DXVHGHOODVFDUVDSURSHQVLRQHDGDYHUHÀJOLLQ,WDOLDSHUDUHDJHRJUDÀFD (val. %) Nord-Ovest Nord-Est Centro Sud e isole Totale 91,5 85,3 79,8 80,9 85,3 40,2 39,1 43,4 38,1 40,0 38,7 29,4 Economiche Culturali 33,9 29,0 32,1 Politiche Fonte: indagine Censis, 2014 Il rischio di scissione tra il welfare e i giovani Esiste un’accentuata diversificazione generazionale delle condizioni di vita e delle opportunità tra i cittadini che si riflette anche nella composizione dei bisogni sociali di tutela. Più in particolare, c’è un “dare e avere” rispetto al welfare che in questa fase storica penalizza pesantemente i giovani, fino a produrre una sorta di loro estraneità alla protezione sociale. La radice della fragilità globale della condizione giovanile è occupazionale: nel 2004 era occupato il 60,5% dei giovani, nel 2012 era occupato il 48%. In meno di dieci anni sono scomparsi oltre 2,6 milioni di occupati e il costo della perdita ammonta a oltre 142 miliardi di euro. Alle difficoltà reddituali si affianca una fragilità delle condizioni patrimoniali, in particolare in relazione alle altre generazioni: nel 2012 la ricchezza familiare netta delle famiglie con capofamiglia giovane risulta pari a 106.766 euro (-25,8% rispetto al 1991), laddove le famiglie con capofamiglia un baby-boomer di età compresa tra 35 e 64 anni hanno visto un incremento del 40,5% e quelle con capofamiglia un anziano addirittura di quasi il 118% (tab. 8). 58 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese Tab. 8 - Ricchezza familiare netta per classe di età del capofamiglia (1), 1991-2012 (euro costanti e var. %) 1991 2012 (2) Var. % 1991-2012 Fino a 34 anni 143.811 106.766 -25,8 Da 35 a 64 anni 199.442 280.214 40,5 65 anni e oltre 125.281 272.887 117,8 Totale 169.008 261.295 54,6 (1) Inteso come maggiore percettore di reddito 'HÁD]LRQDWRXWLOL]]DQGRO·LQGLFH)RL Fonte: elaborazione Censis su fonti varie In questa fase, poi, sulla fragilità patrimoniale e di reddito si abbatte una serie di spese impreviste che i giovani richiamano come una sorta di incubo (affitto, spese condominiali, spese per le bollette di luce, gas, telefono, ecc.). Esiti di questa situazione socio-economica dei giovani sono la necessità nel quotidiano di stringere la cinghia e, al contempo, una dipendenza strutturale dalle famiglie di provenienza: dei circa 4,7 milioni di giovani che vivono per conto proprio, oltre un milione non riesce ad arrivare a fine mese; si stimano infatti in 2,4 milioni i giovani che ricevono regolarmente o di tanto in tanto un aiuto economico dai propri genitori. L’aiuto regolare genera un flusso di risorse pari a oltre 5 miliardi di euro annui. In tale contesto, il rapporto dei giovani con il welfare sta diventando più problematico, poiché il 40,2% dei giovani dichiara che negli ultimi dodici mesi ha verificato che ci sono prestazioni di welfare (sanitarie, per istruzione, di altro tipo) che prima aveva gratuitamente e per le quali ora deve pagare un contributo, il 57,5% registra prestazioni per le quali è aumentato il contributo che già pagava e l’11,7% richiama prestazioni che prima aveva gratuitamente o con un contributo e che ora deve pagare per intero. Non avere le spalle coperte e dipendere strutturalmente dai genitori genera un inevitabile deficit di progettazione nella vita. Altro che un costo: le funzioni economiche e sociali dei longevi Se si considerano la spesa pubblica per le pensioni, pari in Italia al 61,9% della spesa per prestazioni sociali (il 16,1% in più della media Ue), e l’elevato consumo di sanità pubblica, non può non emergere un notevole costo sociale della longevità. In realtà, occorre leggere come la crescente complessità della condizione longeva rimetta in discussione i meccanismi di welfare più consolidati. In primo luogo, va sottolineata la crescente tendenza dei longevi a integrare la propria pensione: le pensioni sono il 64,3% del reddito familiare degli anziani, i redditi da capitale il 27,6%, quelli da lavoro dipendente o da libera professione l’8,1%. Di particolare importanza sono le forme di partecipazione al mercato del lavoro, che sfatano il tabù di una piena coincidenza tra terza età e pensionamento o, più ancora, quello di una definitiva fuoriuscita dal mercato del lavoro: svolgono attività lavoraiva regolare o in nero quasi 2,7 milioni di persone con 65 anni e oltre. Inoltre, la ric- 59 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese chezza familiare netta delle famiglie anziane è cresciuta del 117,8% tra il 1991 e il 2012 e vale in media 273.000 euro: un quadro di buona disponibilità economica che ridimensiona le letture poveriste che troppo spesso associano la vecchiaia alla povertà e alla marginalità. C’è poi una serie di fenomenologie che vedono i longevi non come passivi destinatari di risorse monetarie o di servizi, piuttosto tra i protagonisti di una distribuzione orizzontatale che colma i vuoti del welfare. Un esempio è rappresentato dai longevi che si prendono cura in modo regolare di altre persone anziane parzialmente o totalmente non autosufficienti, che risultano essere oltre 972.000, mentre 3,7 milioni lo fanno di tanto in tanto. Un altro esempio è rappresentato dai 3,2 milioni che si prendono regolarmente cura dei nipoti e dai quasi 5,7 milioni che lo fanno di tanto in tanto. Un altro filone di impegno da protagonisti dei longevi è quello del supporto economico fornito alle famiglie di figli e nipoti. Sono oltre 1,5 milioni i longevi che contribuiscono regolarmente con i propri soldi alla famiglia di figli o nipoti, mentre sono circa 5,5 milioni i longevi che lo fanno di tanto in tanto (tab. 12). Tab. 12 - Il contributo dei longevi alle reti familiari (v.a.) Regolarmente Di tanto in tanto Totale Si occupa dei nipoti 3.211.000 5.637.000 8.848.000 Contribuisce con risorse monetarie DOODIDPLJOLDGLÀJOLHRQLSRWL 1.565.000 5.447.000 7.012.000 972.000 3.719.000 4.691.000 Si occupa di altri anziani Fonte: indagine Censis, 2014 60 Territorio e reti (pp. 271 – 346 del volume) La numerazione di tabelle, tavole e figure riproduce quella del testo integrale 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese La spesa per le politiche di coesione si arena nella palude dei lavori pubblici Le difficoltà ad avviare e portare a compimento lavori pubblici importanti, anche quando si dispone di risorse dedicate, tornano periodicamente all’attenzione nazionale in relazioni a emergenze (vedi alluvione di Genova) o al prolungarsi indefinito di operazioni complesse (come la ricostruzione post-sismica dell’Aquila). Il tema si incrocia con un’altra grave criticità nazionale, cioè il parziale e limitato utilizzo delle risorse comunitarie. Al riguardo, utili informazioni derivano dagli 807.000 progetti monitorati nell’ambito delle politiche di coesione 2007-2013. Il volume di risorse programmate corrispondente a questa massa di progetti è di poco superiore agli 80 miliardi di euro, cui corrisponde una spesa certificata pari (a luglio 2014) ad appena 32,3 miliardi di euro, con un avanzamento cioè del 40,4%. Di questi 80 miliardi di euro programmati, ben 45,6 miliardi (il 57%) sono relativi a interventi infrastrutturali, cioè ad opere pubbliche. In misura minore i progetti monitorati riguardano acquisizioni di beni e servizi (21% dei finanziamenti) e incentivi alle imprese (10% dei finanziamenti) (tab. 1). 7DE3ROLWLFKHGLFRHVLRQHFRVWRWRWDOHHVSHVDHIIHWWXDWDSHUQDWXUDGHOSURJHWWR DOJLXJQR(miliardi di euro e val. %) Natura del progetto Costo totale Spesa effettuata Infrastrutture 45,6 9,3 20,4 Acquisto beni e servizi 20,6 13,7 66,5 Incentivi alle imprese 9,8 6,2 63,2 Contributi a persone 3,1 2,1 67,7 Conferimenti capitale 0,9 0,9 98,0 80,0 32,3 40,3 7RWDOH Avanzamento % della spesa Fonte: elaborazione Censis su dati OpenCoesione Se si analizza l’avanzamento della spesa si nota come proprio nel caso degli inter venti di natura infrastrutturale le percentuali sono decisamente deludenti: a un anno dalla chiusura del periodo di programmazione europea si è speso appena un quinto delle risorse (20,4%). Nel caso degli acquisti di beni e servizi, invece, così come in quello dei contributi alle persone, la spesa certificata equivale a due terzi delle risorse, in quello degli incentivi alle imprese si attesta al 63% del costo totale. Il lungo e complesso processo amministrativo e tecnico sotteso alla realizzazione delle opere pubbliche rappresenta evidentemente il principale fattore critico che penalizza la capacità italiana di utilizzare le risorse comunitarie e nazionali. Questo dovrebbe essere il tema su cui concentrare principalmente l’attenzione per migliorare la capacità di spesa nell’ambito delle politiche di coesione dei prossimi anni. 62 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese L’Italia metropolitana Il tema del governo delle aree metropolitane ha sicuramente una grandissima rilevanza in Europa. Sempre vivo è il dibattito tra urbanisti, sociologi, statistici sulle modalità di classificazione e sull’interpretazione dei fenomeni che interessano i grandi agglomerati urbani. D’altra parte, circa il 68% della popolazione dell’Unione europea risiede attualmente in regioni metropolitane dove si generano più di due terzi del Pil europeo. Anche in Italia il tema ha di recente assunto notevole centralità, assumendo tuttavia un connotato di assoluta specificità, che non trova riscontro in Europa. Il dibattito ha infatti interessato più la sfera politica che quella scientifica e si è polarizzato sulla istituzione, attraverso la legge nazionale, della cosiddetta “Città metropolitana”, ossia di un nuovo ente a cui assegnare le funzioni del governo metropolitano in un numero consistente di realtà territoriali. Nella sostanza, il tema è stato utilizzato per fronteggiare contingenze sicuramente importarti per il Paese, ma che poco hanno a che fare con la questione, necessaria e urgente, di governare i processi di addensamento metropolitano di alcune circoscritte aree del Paese. Oggi sarebbe interessante chiedersi quanti sono i cittadini italiani che hanno consapevolezza di vivere all’interno di un’area metropolitana. Difficile comunque che arrivino, o anche che si avvicinino, a quei 21 e più milioni di abitanti che possono desumersi dall’applicazione della legge 56 in vigore dall’8 aprile 2014 (“Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni”). Eppure questo è quanto si può desumere dal calcolo degli abitanti delle 9 Città metropolitane istituite nelle Regioni a statuto ordinario più le 4 delle Regioni a statuto speciale (tab. 5). 7DE/H QXRYH &LWWj PHWURSROLWDQH FRPXQL VXSHUÀFLH SRSROD]LRQH H GHQVLWj GHPRJUDÀFD (v.a.) Regioni Città metropolitana Numero di comuni 6XSHUÀFLH (kmq) Popolazione Densità GHPRJUDÀFD (ab./kmq) Lazio Roma 121 5.380,95 4.321.244 803,06 Lombardia Milano 134 1.578,90 3.176.180 2.011,64 Campania Napoli 92 1.171,13 3.127.390 2.670,40 Piemonte Torino 315 6.821,96 2.297.917 336,84 Puglia Bari 41 3.825,41 1.261.964 329,89 Sicilia Palermo 27 1.395,95 1.072.724 768,45 Toscana Firenze 42 3.514,38 1.007.252 286,61 Emilia Romagna Bologna 56 3.702,41 1.001.170 270,41 Liguria Genova 67 1.838,47 868.046 472,16 Veneto Venezia 44 2.466,49 857.841 347,80 Catania 27 952,11 788.238 827,89 Reggio Calabria 97 3.183,19 559.759 175,85 423,45 Sicilia Calabria Sicilia Messina 51 1.129,50 478.285 Sardegna Cagliari 16 1.113,10 421.986 379,11 1.130 38.073,95 21.239.996 557,86 7RWDOH Fonte: Anci 63 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese È forte la sensazione che alle radici delle scelte italiane ci siano tante ragioni di opportunità politica e pochi riferimenti alle esigenze di assicurare un governo metropolitano là dove serve davvero. In questa fase è molto importante che i nuovi enti assumano rapidamente legittimazione democratica aprendosi all’esterno, alimentando un dibattito sulle loro funzioni e sul traino possibile per i meccanismi socioeconomici e le funzioni metropolitane che si dipanano nell’area vasta. I temi da affrontare non sono di poco conto, a partire dai rapporti tra i Comuni capoluogo e quelli ricadenti nel perimetro delle ex Province. Erano rapporti complicati quando si dipanavano al livello di un soggetto terzo ed è probabile che da ora in poi lo saranno ancora di più, specie se si vorranno sottrarre spazi di potere decisionale delle istituzioni comunali trasferendoli ai nuovi enti. Non si può trascurare il fatto che esisteranno Città metropolitane composte da 315 Comuni (Torino) e altre da 16 (Cagliari) con problematiche di sviluppo e gestione dei servizi assolutamente diverse tra loro. Gli italiani e l’auto: le determinanti economiche e sociali di un rapporto da ricostruire Tra il 2003 e il 2010 il segmento del mercato italiano dell’auto costituito dai privati si è mantenuto sostanzialmente stabile con circa 1,6 milioni di autovetture immatricolate ogni anno (il range di variazione andava da 1,4 a 1,8 milioni). Nel 2011 si è registrato un primo assestamento in basso (poco meno di 1,2 milioni di autovetture vendute). Il 2012 è stato l’anno del crollo, con circa 900.000 vetture vendute (-22,8% rispetto al 2011), confermato poi nel 2013, con 833.000 vetture. Nel 2014, i segnali relativi alle vendite nei primi sei mesi confermano il trend di un sostanziale dimezzamento delle vetture vendute rispetto agli anni della prima decade del millennio. Di fronte a una fenomenologia di questa portata è inevitabile chiedersi cosa stia accadendo a questo settore che ha una rilevanza strategica nel panorama economico e occupazionale del Paese e che costituisce il sostrato imprenditoriale sul quale poggiano le scelte di mobilità degli italiani. Gli italiani che si spostano quotidianamente per motivi di lavoro o di studio, ossia la componente preponderante della domanda di mobilità che esprime il Paese, sono quasi 29 milioni (2,1 milioni in più rispetto a dieci anni fa). Per soddisfare la domanda di mobilità pendolare l’auto privata è di gran lunga il mezzo più utilizzato: 60,8% (44,9% del totale come conducente e 15,9% come passeggero). Si tratta di un dato peraltro in crescita nel decennio (58,7% del totale nel 2001) che attesta la perdurante centralità dell’auto nelle scelte di chi quotidianamente deve raggiungere il proprio luogo di lavoro o di studio. Ma la centralità dell’auto negli equilibri del Paese si legge anche nel suo peso economico complessivo. La filiera dell’automotive vale 421.500 addetti diretti (26.500 in meno rispetto al 2008) che, uniti all’indotto da essi generato, sono stimabili complessivamente in 1,2 milioni di addetti. Il fatturato diretto delle aziende della filiera 64 55,8 Fatturato (mld. euro) 47,5 810 95.000 2013 -14,8 -10,0 -9,5 var. % Fonte: elaborazione Censis su stime Unrae 900 105.000 Aziende Addetti 2008 Produzione 51,8 15.806 173.000 2008 40,0 14.200 160.500 2013 -22,8 -10,2 -7,2 var. % Distribuzione e assistenza autorizzata 7DE/DÀOLHUDLWDOLDQDGHOO·automotive(v.a. e var. %) 47,84 2.600 170.000 2008 39,0 2.400 166.000 2013 Componentistica -18,5 -7,7 -2,4 var. % 155,4 19.306 448.000 2008 126,5 17.410 421.500 2013 Totale -19,2 -9,8 -5,9 var. % 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese vale 126,5 miliardi di euro (in calo rispetto ai 155,4 del 2008) corrispondente al 7,8% del Pil del Paese. Nella sostanza, tra il 2008 e il 2013 la crisi dell’auto ha prodotto la perdita di 1,8 punti di Pil (tab. 8). 65 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese L’irresistibile voglia di nuovi stadi nelle città italiane Dopo l’esperienza apripista dello Juventus Stadium, in cui si è riusciti a importare il modello degli stadi inglesi (proprietà dei club, tribune vicine al campo di gioco, elevato livello di comfort e corredo di attività commerciali e di intrattenimento), si parla molto della realizzazione di nuovi stadi per il calcio anche in altre città italiane. La convinzione dei club sembra essere quella che solo stadi di proprietà, più piccoli e confortevoli, gestiti come grandi attrattori del tempo libero, possano garantire quei consistenti ricavi aggiuntivi necessari per il rilancio del settore. In effetti, i raffronti europei sul fronte dei cosiddetti “ricavi da stadio” (vendita dei biglietti, abbonamenti e altre attività commerciali relative alle partite giocate in casa) segnalano una distanza notevole tra i club italiani e quelli spagnoli, inglesi e tedeschi. Gli incassi della stagione 2012/2013 di squadre come Manchester United (127,3 milioni di euro), Barcellona (117,6 milioni), Real Madrid (119 milioni) o Bayern Monaco (87,1 milioni) sono incomparabili con quelli, assai più modesti, dei maggiori club italiani: Juventus (38 milioni di euro), Milan (26,4 milioni), Roma e Inter (rispettivamente 20,1 e 19,4 milioni) (fig. 7). )LJ5LFDYLQHOODVWDJLRQHGHLJUDQGLFOXEHXURSHLHLWDOLDQL(milioni di euro) Ricavi attività commerciali 124,4 168,8 20,1 19,4 26,4 38,0 100 53,2 127,3 87,1 119,0 117,6 300 263,5 272,4 400 200 Totale 398,8 423,8 500 431,2 600 Ricavi diritti televisivi 482,6 518,9 Ricavi stadio Roma Inter Milan Juventus Paris St Germain Manchester United Bayern Monaco Barcellona Real Madrid 0 Fonte: elaborazione Censis su dati Deloitte Non si può negare che la situazione dei nostri stadi sia piuttosto arretrata: sono generalmente vecchi e, sebbene su di essi si sia intervenuti all’epoca dei mondiali di Italia ’90, sono rimasti sostanzialmente scomodi e poveri di funzioni complementari. Inoltre sono ancora in larga misura di proprietà delle amministrazioni comunali. Anche per effetto delle dirette televisive di tutti gli eventi calcistici, la maggior parte delle partite si svolge ormai davanti a un pubblico numericamente ridotto: Juventus a parte, che in media riempie lo Stadium al 93%, negli altri casi i tassi di riempimento medi sono spesso piuttosto bassi, tra il 30% e il 60%. 66 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese Risorse idriche nazionali: gli effetti di una cronica debolezza infrastrutturale I dati riguardanti la gestione delle risorse idriche per uso civile rilanciano l’allarme su un settore che, mentre cerca di migliorare la propria efficienza gestionale, continua a operare in un contesto di pesante obsolescenza delle infrastrutture di base. Basta un solo dato per evidenziarlo: le perdite delle reti acquedottistiche tra il 2008 e il 2012 sono aumentate ulteriormente, passando dal 32,1% al 37,4%. In pratica, rispetto alla totalità dell’acqua che viene immessa in rete, più di un terzo sparisce, non viene consumata né fatturata, non arrivando all’utente finale (tab. 11). 7DE'LVSHUVLRQLQHOOHUHWLFRPXQDOLGLDFTXDSRWDELOHSHUULSDUWL]LRQHJHRJUDÀFD (mc dispersi per 100 mc erogati agli utenti) 1999 2005 2008 2012 Nord-Ovest 25,4 25,4 24,7 37,4 Nord-Est 29,1 29,1 28,6 30,0 Centro 31,5 32,4 32,2 32,6 Sud 41,9 41,5 40,3 41,4 Isole 39,0 38,7 38,4 40,9 ,WDOLD 32,4 32,4 32,1 37,4 Fonte: Istat Il dato sulle perdite di rete ci caratterizza come una vera e propria anomalia tra i grandi Paesi europei: queste sono infatti pari al 6,5% in Germania, al 15,5% in Inghilterra e Galles, al 20,9% in Francia. Questo livello di perdite, certo non consono agli standard di un Paese avanzato, ha pesanti effetti economici e ambientali obbligando le aziende a prelievi eccessivi alla fonte, contribuendo così al depauperamento della risorsa. Non è dunque un caso se l’Italia è oggi un Paese che presenta un elevato prelievo di acqua ad uso potabile (circa 9,5 miliardi di metri cubi nel 2012). Un prelievo, tra l’altro, che tende ad aumentare progressivamente. Se questa è la situazione degli acquedotti, ancora più allarmante è il ritardo accumulato dal Paese sul fronte della raccolta e depurazione delle acque reflue. Le recenti stime parlano di un 6-7% del carico inquinante totale che non viaggia in reti fognarie e di un 20-21% che non viene in alcun modo depurato prima di raggiungere i corpi idrici di destinazione. Per recuperare il terreno perduto, rimettendo a posto reti acquedottistiche colabrodo e realizzando finalmente reti fognarie e impianti di depurazione delle acque reflue adeguati, servono investimenti rilevanti. Anche da questo punto di vista il confronto con l’Europa più avanzata è preoccupante: in Italia si investe ogni anno l’equivalente di 30 euro ad abitante, in Germania 80, in Francia 90 e nel Regno Unito addirittura 100 euro. 67 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese Le politiche energetiche tra obiettivi ambientali e rapporti costi-benefici In un quadro comunitario in cui in questi ultimi anni è apparsa evidente la sovraordinazione delle politiche ambientali rispetto alle scelte nel settore dell’energia, fatica particolarmente l’Italia, il cui mix energetico ha peraltro registrato negli ultimi anni significative variazioni. Se si guarda all’andamento dei consumi lordi tra il 2000 e il 2013 per fonte primaria si vede quanto sia diminuito il contributo del petrolio, la cui quota è passata dal 49,5% al 34,5%, ormai raggiunto in termini percentuali dal gas (33,5%). Di contro, gli incentivi e i forti investimenti per lo sviluppo e l’adozione delle tecnologie rinnovabili hanno portato a una crescita del settore che dal 6,9% del 2000 ha raggiunto nel 2013 il 18% del consumo nazionale. La penetrazione delle rinnovabili è stata molto significativa nel comparto elettrico, dove nel 2013 un terzo dei consumi (33,4%) è stato coperto dalla produzione idroelettrica, eolica, fotovoltaica e geotermica (tab. 16). Vale a dire che già oggi abbiamo superato di ben 8 punti percentuali quel 26,4% che rappresenta l’obiettivo-impegno assunto dall’Italia per l’anno 2020. Se in questo ambito fino a pochi anni fa l’impegno del governo è stato focalizzato sul tema dell’incentivazione, nella fase attuale il tema è invece quello della rimodulazione degli incentivi. Non vi è dubbio che i sussidi, in particolare per il fotovoltaico, sono stati molto onerosi per la collettività: oggi i costi derivanti dall’incentivazione delle fonti rinnovabili sono coperti per ben 12 miliardi di euro/anno tramite la componente A3 della bolletta energetica di famiglie e imprese. Il boom delle nuove rinnovabili non programmabili (eolico e fotovoltaico) ha avuto naturalmente importanti contraccolpi sul settore della generazione termoelettrica, comportando una riduzione delle ore di utilizzo degli impianti che, tra l’altro, vengono sempre più impiegati per coprire le punte di carico, con la vanificazione degli importanti investimenti recenti per la riduzione dell’inquinamento di processo e di prodotto. Se tutto ciò poteva comportare problemi in uno scenario economico di sostanziale stabilità o di crescita, nell’attuale contesto può determinare effetti non previsti in grado di penalizzare il settore energetico nel suo complesso. Il problema di come conciliare la fissazione di importanti obiettivi ambientali con l’attenzione alla competitività del sistema energetico e industriale rappresenta in Europa il punto decisivo anche in vista dei traguardi futuri relativi alla scadenza del 2030. 68 319.129 57.801 313.887 48.123 46.283 Saldo scambio estero Fonte: elaborazione Censis su dati Terna 339.927 282.953 Destinata al consumo Energia elettrica richiesta 7.654 Destinata ai pompaggi Produzione netta Energia destinata a servizi ausiliari Domanda Di cui: rinnovabili 7RWDOH 339.480 40.034 293.608 7.618 301.226 5.520 5.569 Geotermica 290.607 193 39 Fotovoltaica 12.065 4.861 4.034 Eolica 12.589 47.227 38.481 Idroelettrica Termoelettrica 261.328 2008 265.764 Produzione lorda 2007 320.269 44.959 295.500 5.798 301.298 11.534 66.004 292.642 5.342 676 6.543 53.443 226.638 2009 330.455 44.160 302.610 4.454 307.064 11.314 70.815 302.063 5.376 1.906 9.126 54.407 231.248 2010 334.639 45.732 278.569 2.539 281.108 11.124 74.063 302.570 5.654 10.796 9.856 47.757 228.507 2011 7DE3URGX]LRQHORUGDHULFKLHVWDGLHQHUJLDHOHWWULFD(GWh e val. %) 328.220 43.103 288.060 2.689 290.749 11.470 81.715 299.276 5.592 18.862 13.407 43.854 217.561 2012 318.475 42.138 276.337 2.495 278.832 10.970 96.816 289.803 5.659 21.589 14.897 54.672 192.987 2013 -6,3 -9,0 -2,3 -67,4 -4,1 -12,9 101,2 -7,7 1,6 55.256,4 269,3 42,1 -27,4 Var. % 2007-2013 15,3 100,0 1,8 0,0 1,3 12,3 84,7 Val. % 2007 33,4 100,0 2,0 7,4 5,1 18,9 66,6 Val. % 2013 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese 69 I soggetti economici dello sviluppo (pp. 347 – 400 del volume) La numerazione di tabelle, tavole e figure riproduce quella del testo integrale 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese Il nuovo respiro del manifatturiero italiano Tra il 2008, con la prima ondata di crisi, e la fine del 2014 l’Italia ha perso più di 47.000 imprese manifatturiere, con una flessione vicina all’8%. La flessione non accenna a diminuire, dato che solo nell’ultimo anno la riduzione nel comparto è stata dell’1,1%, con una fuoriuscita di oltre 5.700 imprese. I comparti in maggiore sofferenza sono quelli dei prodotti in legno, dei mobili, della produzione di pc e di prodotti elettronici, il tessile, i prodotti farmaceutici, la produzione di macchinari, le apparecchiature elettriche e i prodotti in metallo. In questi comparti la flessione del numero di imprese, tra il 2008 e il terzo trimestre del 2014, è stata superiore al 10% (fig. 1). La riduzione del numero di imprese manifatturiere si è accompagnata a una drastica riduzione del valore aggiunto, in caduta libera del 17% tra il 2008 e il 2013. Fig. 1 - Andamento del numero di imprese attive nei principali comparti manifatturieri, 2009-III trimestre 2014 (var. %) Rip. e manutenzione macchine Alimentari Art. pelle -5,5 Carta -6,1 Prod. chimici -6,5 Art. in gomma -7,1 Autoveicoli -7,5 Altre manifatturiere -8,6 Metallurgia -9,3 Abbigliamento -9,5 Stampa e riproduzione -9,6 Prod. in metallo -10,7 App. elettriche -12,0 Minerali non metalliferi -12,1 Macchinari -12,1 Prod. farmaceutici -12,3 Tessile -12,4 Computer e prodotti elettronici -13,6 Mobili -15,4 Legno e prod. in legno -16,3 Totale manifatturiero -7,9 39,2 1,5 Fonte: elaborazione Censis su dati Infocamere L’Italia ha però rivelato performance eccellenti sui mercati esteri. Ad eccezione del 2009, il livello delle esportazioni ha continuato a crescere, ma soprattutto continua l’ascesa dei valori medi unitari all’export dei principali prodotti manifatturieri. Continuano a crescere le esportazioni di prodotti hi-tech, ovvero ad elevato contenuto tecnologico: dalla farmaceutica alle Ict, dall’aerospazio alle apparecchiature elettroniche e di precisione, con una variazione di oltre il 6% tra il 2012 e il 2013, e del 35% rispetto al 2008. Ma crescono costantemente anche le esportazioni dei principali comparti a media tecnologia, che rappresentano ben il 36% del valore complessivo delle esportazioni italiane. L’aggregazione formale o informale tra imprese di uno stesso territorio è ancora oggi in grado di generare valore, di attivare professionalità, di generare modelli produttivi efficienti. Dal 2010, anno di lancio dello strumento del Contratto di rete, ad oggi il numero di imprese aderenti a questo tipo di strumento è passato da poche 71 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese decine a migliaia. Attualmente si contano 1.772 Contratti di rete stipulati e 8.954 aziende aderenti, il 44% delle quali è rappresentato da strutture manifatturiere. I distretti produttivi hanno registrato un incremento delle esportazioni pari al 4,2% in termini tendenziali nel primo semestre 2014, proseguendo dal 2009 una crescita ininterrotta attestatasi sempre su livelli più elevati di quelli del resto del sistema manifatturiero. Non solo, ma nella prima parte del 2014 si sono registrati i valori delle esportazioni distrettuali più elevati di sempre, pari a più di 42 miliardi di euro (fig. 6). C’è ancora industria e imprenditoria di qualità oltre la recessione interminabile che il Paese sta vivendo e c’è ancora una manifattura creativa, competitiva, in grado di attivare strategie innovative, nonostante tutto. C’è spazio per parlare di un new made in Italy. Fig. 6 - Andamento tendenziale delle esportazioni dei distretti industriali e del manifatturiero italiano, I semestre 2014 (var. %) Distretti industriali 4,2 Aree di concentrazione manifatturiera non distrettuali Manifatturiero totale 2,2 1,6 Fonte: elaborazione Censis su dati Intesa Sanpaolo Qualità per competere: percorsi e strumenti per il sistema produttivo Tra il 2007 e il 2013 la quota italiana sul commercio mondiale è passata dal 3,6% al 2,8%. Ma dopo l’inevitabile flessione registrata nel 2009 l’Italia è tornata a crescere sul fronte delle esportazioni, mantenendosi nei primi 20 posti a livello mondiale per operatività sull’estero. In particolare, il Paese è attualmente all’11° posto tra i principali esportatori a livello mondiale ed è al 4° posto tra i Paesi Ue. A molti prodotti italiani vengono riconosciute caratteristiche distintive: artigianalità, design, originalità, funzionalità, contenuto tecnologico attraente, rispondenza alle aspettative del mercato, carattere innovativo, precisione nelle modalità di lavorazione, modalità di vendita e strategie di marketing innovative. In termini sintetici, i prodotti italiani sono riconosciuti come prodotti di qualità. 72 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese Da anni i valori medi unitari delle esportazioni di un paniere ampio di prodotti italiani registra trend crescenti. Particolarmente sostenuto risulta l’incremento dei prezzi di vendita all’estero degli articoli in pelle, dei prodotti agricoli, dei prodotti tessili, dell’abbigliamento, degli articoli in gomma, dei prodotti della meccanica, dei prodotti chimici. I dati relativi ai primi sette mesi del 2014 confermano questo trend positivo: su 12 differenti tipologie di prodotti delle attività manifatturiere, 9 hanno registrato, rispetto al 2012, un incremento del valore medio unitario all’export (fig. 9). Fig. 9 - Indice dei valori medi unitari delle esportazioni, 2012 e gennaio-luglio 2014 (numeri indice: 2010=100) 2012 Gennaio-luglio 2014 112,1 Totale prod. attività manifatturiere Articoli farmaceutici Apparecchi elettrici Metalli di base e prodotti in metallo Legno e prodotti in legno Mezzi di trasporto Pc, appar. elettronici e ottici Prodotti delle altre attività manifatturiere 114,4 110,9 103,5 103,9 104,3 111,5 104,4 104,5 104,9 104,5 106,3 109,3 108,6 111,0 115,1 114,3 Prodotti chimici Art. gomma, plastica, min. non metalliferi Alimentari 115,3 112,2 115,7 110,5 116,2 110,8 Macchinari e apparecchi n.c.a. 119,8 115,2 Tessile e abbigliamento, pelli 123,4 Fonte: elaborazione Censis su dati Istat-Ice 73 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese Impresa e territorio: scenari in transizione Sfide complesse si profilano all’orizzonte per tutti gli attori istituzionali e di livello intermedio chiamati a gestire le politiche per il territorio o che nel territorio hanno un marcato radicamento. Tra il 2009 e la prima metà del 2014 il numero delle imprese attive risulta in forte diminuzione, con una flessione del 2,4%, che tuttavia diviene -7% tra le imprese manifatturiere, -12% in agricoltura, -7,1% nei trasporti -5,7% nel comparto delle costruzioni (fig. 12). Fig. 12 - Andamento del numero di imprese attive, 2009-I semestre 2014 (var. %) Totale imprese -2,4 Alberghi e ristoranti 9,6 Commercio -0,4 Costruzioni -5,7 Trasporti -7,1 Industrie manifatturiere Agricoltura -7,7 -12,0 Fonte: elaborazione Censis su dati Infocamere Sono numeri troppo grandi per non immaginare che la fisionomia dei territori produttivi, ovvero delle singole aree in cui le imprese sono radicate, non stia rapidamente mutando. Al di là della consueta, quanto innegabile, ripartizione tra il Centro-Nord, provato dalla crisi ma dotato di una struttura produttiva ancora robusta, e un Sud in forte ritardo di sviluppo e con aree a forte rischio di degrado sociale, il Censis ha mappato 8 profili territoriali diversi. La radiografia territoriale che emerge dalla cluster analysis evidenzia aspetti diversi dell’evoluzione e anche delle forme di involuzione cui i singoli territori sono andati incontro negli ultimi anni. In particolare: - lì dove si è maggiormente investito in conoscenza e innovazione, la crisi ha avuto effetti di medio periodo più attutiti che altrove o sembrano più evidenti gli elementi strategici su cui ricostruire la ripresa; - nei territori in cui la presenza di reti manifatturiere è più fitta, la diffusione di nuove competenze innovative utili ad affrontare la crisi sembra più evidente che nelle aree in cui l’industria ha avuto ed ha un peso minore; 74 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese - negli ambiti territoriali in cui si attuano o si prospetta in modo crescente nel tempo una commistione tra industria e servizi avanzati, le possibilità di crescita e di uscita dalla crisi appaiono vicine, rispetto agli ambiti territoriali che puntano in modo preponderante sulla manifattura tradizionale, ancorché caratterizzata da un buon posizionamento sui mercati esteri. White economy: opportunità per il sistema-Paese In un quadro di crisi economica pervasiva, la rimodulazione al ribasso dei budget familiari ha riguardato tutte le voci di spesa. Si rinuncia sempre più al superfluo e si ridefiniscono le priorità di consumo, risparmiando sulle spese essenziali, ma alle cure mediche difficilmente si rinuncia, anche perché condizionate da situazioni di urgenza e necessità. La white economy, ovvero il vasto insieme di servizi, prodotti e professionalità dedicate alla salute e al benessere delle persone, può essere un’opportunità di crescita per il Paese. Il sistema che attualmente in Italia offre servizi di cura, strumenti diagnostici, farmaci, ricerca in campo medico e farmacologico, tecnologie biomedicali e servizi di assistenza a malati, disabili o ad altre tipologie di soggetti, genera un valore della produzione superiore a 186 miliardi di euro annui, il 6% della produzione totale, con un’occupazione superiore a 2,7 milioni di unità (figg. 14-15). Fig. 14 - Stima del valore della produzione dei comparti afferenti alla white economy, 2012 Valore della produzione dei principali comparti della white economy Stime 2012 Spesa pubblica in R&S per il settore medicosanitario e nel campo della tutela della salute 1,0 mld. euro Attività dei servizi sanitari 110,9 mld. euro Servizi di assistenza sociale 21,6 mld. euro Spesa delle imprese e spesa pubblica in R&S nel settore farmaceutico 1,2 mld. euro Industria farmaceutica 26,6 mld. euro Spesa delle imprese in R&S nel settore biomedicale e elettrodiagnostico ≈ 400 milioni euro Produzione e commercializzazione di strumenti biomedicali, elettromedicali e di diagnostica e relativi servizi 17,6 mld. euro Valore della produzione 186,8 mld. euro 6% del valore della produzione totale in Italia Servizi di assistenza domiciliare, badantato accompagnamento 9,4 mld. euro Fonte: elaborazione Censis su dati Istat, Assobiomedica, Farmindustria 75 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese )LJ6WLPDGHOO·RFFXSD]LRQHQHLFRPSDUWLDIIHUHQWLDOODwhite economy, 2012 Attività dei servizi sanitari 1.200.000 occupati Servizi di assistenza sociale 447.100 occupati Industria farmaceutica 60.000 occupati Produzione di strumenti biomedicali, elettromedicali e di diagnostica e relativi servizi 52.700 occupati Servizi di assistenza domiciliare, badantato, accompagnamento 967.000 occupati Occupazione 2.733.000 unità 10,9% del totale degli occupati in Italia Fonte: elaborazione Censis su dati Istat, Assobiomedica, Farmindustria, Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali La white economy rappresenta tutto ciò che afferisce, in primo luogo, all’offerta di cure mediche e alla diagnostica, oltre all’assistenza professionale, domiciliare o in apposite strutture per persone disabili, malate, anziane. Questo nucleo centrale di attività si avvale del lavoro di un numero piuttosto consistente di addetti. In particolare, nel settore delle prestazioni sanitarie operano 1,2 milioni di occupati (personale medico, paramedico, oltre a quello amministrativo e ad altri profili professionali). Ma il comparto è molto altro, configurandosi come un cluster produttivo dalle molteplici articolazioni. Nel suo perimetro ricade l’industria farmaceutica, che conta 174 fabbriche e più di 6.000 addetti e che in Italia è uno dei comparti industriali con la più elevata spesa di R&S per addetto. Nel cluster produttivo rientra, inoltre, l’industria delle apparecchiature biomedicali e per la diagnostica, che conta poco più di 800 imprese, tra produttori e contoterzisti, e poco più di 1.000 imprese di distribuzione, più di 52.000 addetti e una consistente capacità di esportazione, cresciuta in modo significativo soprattutto tra i primi anni 2000 e il 2008 (per poi attestarsi su livelli più stabili), passando da meno di 3 miliardi di euro di vendite all’estero nel 2000 agli attuali 7 miliardi. Nel cluster va considerato anche il vasto segmento dell’assistenza personale, delle badanti e dell’accompagnamento, che si stima generi più di 9 miliardi di euro di valore della produzione e che appare in forte espansione. 76 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese Vivere a consumo zero: le famiglie e la crisi Nel 2013, per il secondo anno consecutivo, le spese complessive degli italiani si sono attestate su livelli inferiori a quelli dei primi anni 2000. Anche nell’anno in corso i consumi hanno registrato sia nel primo che nel secondo trimestre una variazione negativa in termini tendenziali (-3,6% e -2,9%). Le stime più ottimistiche indicano una variazione di +0,2% a fine 2014. Ridimensionamento è la parola che meglio descrive i comportamenti di spesa delle famiglie. Dal 2010 a oggi, tutte le voci hanno registrato una contrazione, ad eccezione di quelle per la telefonia e le comunicazioni (fig. 18). Fig. 18 - Andamento delle principali spese delle famiglie (valori concatenati con anno di riferimento il 2010), 2010-2013 (var. %) Alberghi e ristoranti -3,3 Giornali, periodici, stampa -23,5 Apparecchiature telefoniche 19,0 Spese d'esercizio mezzi trasporto Trasporti Elettrodomestici Mobili Manutenzione e riparazione abitaz. -3,9 -15,6 -9,4 -9,2 -12,8 Abitazione, utenze Vestiario, calzature Alimentari, bevande -1,0 -11,3 -7,8 Fonte: elaborazione Censis su dati Istat Negli ultimi sei mesi del 2014, il 62% delle famiglie ha indicato di avere ridotto pranzi o cene fuori casa, il 58% cerca di effettuare piccoli risparmi sulle spese per cinema e svago, il 47% ha cercato di ridurre gli spostamenti con i mezzi propri per cercare di risparmiare sulla benzina e quasi il 44% ha modificato i propri comportamenti alimentari al fine di ridurre gli sprechi, spendere meglio e risparmiare (fig. 19). Se oggi le famiglie italiane disponessero di redditi o di risorse liquide più elevate di quelle che hanno, nel 77% dei casi le metterebbero da parte e l’effetto sulla propensione al consumo sarebbe nullo. Viceversa, il 20% utilizzerebbe le maggiori disponibilità in denaro per effettuare spese consistenti o comunque oltre una certa soglia (ad esempio, per la ristrutturazione di un immobile o per l’acquisto di un’autovettura) e il restante 3% le utilizzerebbe per spese essenziali. Cambiano anche le modalità di consumo grazie al ricorso diffuso a nuovi strumenti di spesa come l’e-commerce. Il Censis stima che negli ultimi sei mesi oltre 7 milioni di famiglie hanno proceduto ad almeno un acquisto online: il 12% ha effettuato un solo acquisto, mentre il 17% ha effettuato due o più acquisti. Le voci di spesa più 77 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese frequenti nel ricorso all’e-commerce sono i cd e i libri, seguiti dai device elettronici (tablet, pc, apparecchi fotografici), da abbigliamento e accessori, dall’acquisto di una vacanza. La prima motivazione degli acquisti via internet è rappresentata dalla possibilità di pagare per i singoli prodotti prezzi generalmente più contenuti rispetto a quelli praticati nei punti di vendita tradizionali, seguita dalla comodità dell’acquisto (fig. 21). Fig. 19 - Comportamenti di consumo messi in campo negli ultimi 6 mesi dalle famiglie (val. %) Ridotto pranzi e cene fuori casa 62,0 Ridotto spese per cinema e svago 58,2 Incrementato gli acquisti di prodotti a marca commerciale 56,1 Incrementato gli acquisti presso hard discount 47,4 Ridotto spostamenti in auto o scooter per risparmiare 47,2 Modificato le abitudini alimentari cercando di risparmiare 43,8 Fonte: indagine Censis, 2014 )LJ3ULQFLSDOLPRWLYD]LRQLGHOO·DFTXLVWRGLSURGRWWLHVHUYL]LYLDLQWHUQHW(val. %) Prezzi generalmente inferiori a quelli dei punti vendita tradizionali 72,1 Comodità dell’acquisto Possibilità di scelta in tutta calma Maggiore varietà dei prodotti 40,5 12,9 11,1 Possibilità di confrontare tante offerte e prezzi diversi 9,7 Acquisto di prodotti o servizi non facili da trovare nei negozi tradizionali 8,5 Fonte: indagine Censis, 2014 78 Comunicazione e media (pp. 403 – 460 del volume) La numerazione di tabelle, tavole e figure riproduce quella del testo integrale 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese Il cyberlettore: come la rivoluzione digitale ha cambiato domanda e offerta di informazione Oggi in Italia si vende poco più della metà delle copie di quotidiani che si vendevano venticinque anni fa. Dal 1990, anno del massimo storico delle vendite, con poco meno di 7 milioni di copie giornaliere, si è scesi sotto i 4 milioni. La quota di italiani che fanno a meno dei mezzi a stampa nella propria die¬ta mediatica è salita a quasi la metà della popolazione (precisamente, il 47%). Il 20,8% della popolazione legge i quotidiani online e il 34,3% i siti web d’informazione. I lettori di quotidiani online più forti appartengono alla fascia di età adulta (tra i 30-44enni il dato raggiunge il 31,8%). I siti web di informazione non legati direttamente ai quotidiani sono preferiti anche dai più giovani (il 43% tra 14 e 29 anni, il 52,4% tra 30 e 44 anni) (tab. 1). 7DE/HWWRULGLTXRWLGLDQLFDUWDFHLRQOLQHHVLWLZHEGLLQIRUPD]LRQHSHUVHVVRHWjHOLYHOORGL LVWUX]LRQH(val. %) Sesso Età Livello di istruzione Licenza elementare Diploma e media e laurea Totale popolazione Maschi Femmine 14-29 30-44 45-64 65-80 anni anni anni anni Quotidiani cartacei 43,5 47,7 39,5 22,9 44,2 51,1 52,3 40,6 46,9 Quotidiani online 20,8 26,4 15,4 21,1 31,8 19,3 6,1 12,3 31,0 Siti web di informazione 34,3 38,7 30,2 43,0 52,4 27,5 8,4 22,3 48,6 Fonte: indagine Censis, 2013 Mettendo a confronto i dati relativi alle vendite di copie cartacee dei quotidiani e agli abbonamenti dei loro corrispondenti digitali nel luglio 2013 e nel luglio 2014, si nota come le prime hanno continuato nel trend regressivo, registrando un calo del 9,8%, mentre i secondi hanno fatto registrare un incremento del 57% (+186.000 unità). Una domanda di informazione così radicalmente mutata ha determinato un cambio di paradigma anche all’interno delle redazioni giornalistiche. Si registrano flessioni nel numero dei giornalisti occupati in tutti i segmenti del settore editoriale. Nel 2013 il calo più pronunciato si è registrato nei periodici (-7,7%), seguiti dai quotidiani (-5,6%) e dalle agenzie di stampa (-3,9%). In media, il ridimensionamento della forza lavoro giornalistica è stato del 6,1%, pari in valore assoluto a 602 unità lavorative nei confronti dell’anno precedente. Tra il 2009 e il 2013 il numero dei giornalisti fuoriusciti dal settore dell’editoria giornalistica è stato di 1.662 unità, di cui 887 nell’area dei quotidiani (-13,4%) e 638 in quella dei periodici (-19,4%) (tab. 6). E se gli iscritti all’Ordine dei giornalisti restano sostanzialmente invariati (112.046 contro i 110.966 del 2011, con un aumento dell’1% circa), sono cambiate però le condizioni alle quali i giornalisti lavorano. Tra il 2000 e il 2013 si è ridotto il lavoro dipendente (-1,6%) ed è cresciuto quello autonomo (+7,1%). Se nel 2000 il lavoro autonomo era svolto da poco più di un giornalista su tre, nel 2012 i giornalisti freelance sono diventati 6 su 10. 80 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese 7DE*LRUQDOLVWL RFFXSDWL QHL TXRWLGLDQL QHL SHULRGLFL H QHOOH DJHQ]LH GL VWDPSD (v.a., diff. ass. e var. %) 2009 2010 2011 2012 2013 Diff. ass. 2009-2013 Diff. ass. 2012-2013 Var. % 2009 -2013 Var. % 2012 -2013 Quotidiani 6.644 6.523 6.393 6.101 5.757 -887 -344 -13,4 -5,6 Periodici 3.288 2.891 2.912 2.872 2.650 -638 -222 -19,4 -7,7 Agenzie 1.036 1.076 1.034 935 899 -137 -36 -13,2 -3,9 10.968 10.490 10.339 9.908 9.306 -1.662 -602 -15,2 -6,1 7RWDOH Fonte: elaborazione Censis su dati Inpgi L’importanza dell’informazione policentrica di prossimità Nelle realtà locali si è affermato un marcato policentrismo degli strumenti mediatici a disposizione dei cittadini, che passa dal recupero delle testate locali alla sperimentazione delle tante forme di web community, in cui dare valorizzazione alle vicende delle singole realtà territoriali e alle diverse componenti sociali che animano la periferia territoriale, anche al di là dei soli avvenimenti di cronaca e delle ricorrenti congiunture politico-elettorali. A livello locale si contano più di 500 televisioni attive, oltre 1.000 emittenti radio, più di un centinaio di quotidiani, una miriade di testate web e blog. L’apprezzamento del pubblico verso questo tipo di informazione emerge con evidenza dai dati. L’82,4% degli italiani dichiara di aver fatto ricorso a un mezzo di informazione locale negli ultimi sette giorni. Resta la televisione il dominus della scena mediatica anche a livello locale. Con il 68,9% di utenti, il tg regionale della Rai è il mezzo più usato. Seguono le tv locali private, con il 51,6% di utenza, e i quotidiani locali (40,2%), che si confermano il terzo mezzo più seguito. Le radio locali sono seguite da poco più di un terzo della popolazione (37,4%). L’utenza delle testate locali online si attesta all’11,8% (tab. 9). 7DE0H]]LGLLQIRUPD]LRQHORFDOLXWLOL]]DWLSHUHWj(val. %) Età Totale Almeno uno 14-29 anni 30-44 anni 45-64 anni 65-80 anni 82,4 63,0 82,3 88,9 93,1 Tg regionale della Rai 68,9 48,2 65,3 75,4 86,3 Tv locali 51,6 36,2 49,1 55,8 65,5 Quotidiani locali 40,2 23,3 40,5 46,4 48,0 Radio locali 37,4 25,4 42,1 44,0 32,1 11,8 12,0 15,2 12,2 5,5 17,6 37,0 17,7 11,1 6,9 Giornali online locali Nessuno Fonte: indagine Censis, 2013 81 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese Sono significativi i giudizi espressi dagli italiani in merito alle qualità dei media locali. I soggetti più istruiti, diplomati e laureati, li apprezzano perché li sentono più vicini alla loro realtà quotidiana (69%), perché forni¬scono notizie utili (39,8%) e perché è più facile entrare in contatto con le loro redazioni (23,1%), a testimonianza di un interesse verso i mutamenti in corso nel territorio in cui inserirsi attivamente, nonché di una necessità di avere un rapporto diretto con i soggetti territoriali (associazionismo sociale, rappresentanze imprenditoriali e categoriali, amministrazioni pubbliche come Regioni, enti locali, ecc.). Le persone meno istruite li con¬siderano più credibili (23,7%) e più professionali (14,6%), e in questi media cercano soprattutto un’informazione più semplice e vicina (tab. 10). 7DE*LXGL]LVXLPH]]LGLLQIRUPD]LRQHORFDOLFRQIURQWDWLFRQLPHGLDDGLIIXVLRQHQD]LRQDOH SHUVHVVRHOLYHOORGLLVWUX]LRQH(val. %) Sesso Livello di istruzione Totale Maschi Femmine Licenza elementare e media Sono più vicini alla mia realtà quotidiana 64,8 65,7 63,9 61,4 69,0 Forniscono più informazioni utili di carattere pratico 32,5 34,0 31,1 26,5 39,8 6RQRPHQRLQÁXHQ]DELOL dal potere 25,3 26,2 24,4 24,3 26,5 Permettono di avere facilmente rapporti diretti con le redazioni 20,8 21,7 19,9 18,8 23,1 Usano un linguaggio che apprezzo di più 18,7 18,7 18,8 19,2 18,1 Sono più credibili 18,3 18,4 18,3 23,7 11,9 Sono più ricchi di dibattiti e approfondimenti 13,4 13,4 13,4 15,3 11,1 Sono più professionali 11,6 9,4 13,7 14,6 8,0 3,3 4,4 2,2 2,6 4,3 2VSLWDQRÀUPHSL prestigiose Diploma e laurea Fonte: indagine Censis, 2013 L’Italia digitale in Europa Il 19% dei cittadini europei di 16-74 anni non ha mai usato un computer. A questo valore medio si avvicinano la Provincia autonoma di Bolzano (23%), l’Emilia Romagna e il Friuli Venezia Giulia (28%), la Lombardia (29%). Valori decisamente al Sud: la maglia nera nella penetrazione dell’uso del pc spetta peggiori si registrano alla Campania (48%), ma anche Piemonte, Umbria (35%) e Lazio (30%) si segnalano con percentuali elevate (tab. 12). Lo sviluppo della banda larga mobile e la diffusione degli smartphone si candidano a diventare i vettori di inclusione nella quotidianità virtuale di una parte di popolazione italiana finora dissuasa dalla complessità di uso del personal computer, ma intrigata dalla tecnologia user friendly delle applicazioni su dispositivi mobili. La priorità di ridurre al 2015 la percentuale di chi non ha mai usato Internet al 15% della popolazione fissata dall’Agenda Digitale non è però l’unica battaglia che dovrebbe vedere attive le politiche di inclusione e sviluppo digitale del nostro Paese. 82 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese 7DE,QGLYLGXLGLDQQLFKHQRQKDQQRPDLXWLOL]]DWRXQFRPSXWHU(val. %) Regioni Val. % Piemonte 35 9DOOHG·$RVWD 29 Liguria 32 Lombardia 29 Abruzzo 37 Molise 41 Campania 48 Puglia 42 Basilicata 37 Calabria 44 Sicilia 42 Sardegna 32 Provincia autonoma di Bolzano 23 Provincia autonoma di Trento 32 Veneto 30 Friuli Venezia Giulia 28 Emilia Romagna 28 Toscana 30 Umbria 35 Marche 31 Lazio 30 Ue 28 19 Fonte: elaborazione Censis su dati Eurostat L’Italia, infatti, sta accumulando ritardi sul fronte della modernità delle infrastrutture rispetto agli altri membri dell’Unione europea. Se la banda larga ormai può vantare una diffusione con i richiami di Bruxelles, sul fronte della in linea velocità di con nessione e sulla diffusione delle cosiddette Nga (Next Generation Access), evoluzione nell’uso degli impianti a fibra ottica, il quadro appare meno roseo. Se nei progetti strategici dell’Italia c’è il raggiungimento di una copertura a 30Mbps su tutto lo stivale, e sulla metà addirittura l’implementazione a 100Mbps entro il 2020, nel 2013 solo il 21% delle famiglie ha potuto avvantaggiarsi di una copertura ultratecnologica (Nga). E per quanto riguarda lo standard delle connessioni, l’1% dei contratti è stipulato per una velocità pari o superiore a 30Mbps e lo 0% contempla una velocità di rete pari o superiore a 100Mbps, mentre la media Ue segna un 5% (tab. 16). 7DE/RVYLOXSSRGHOOHLQIUDVWUXWWXUHGLJLWDOLLQ,WDOLD(val. %) Italia Ue 27 21 62 Abbonamenti con velocità di connessione di almeno 30 Mbps 1 21 Abbonamenti con velocità di connessione di almeno 100 Mbps 0 5 Copertura Nga (% di famiglie) Fonte: elaborazione Censis su dati Eurostat 83 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese La transizione della pubblicità: verso il continuum tra online advertising e e-commerce Il primo capitolo della transizione della pubblicità degli ultimi anni è costituito dalla diffusione di nuove modalità di fruizione: ha fatto il suo ingresso in scena la pubblicità on demand, “fai da te”, autogestita dall’utente-consumatore del web 2.0. Il secondo capitolo è consistito nel passaggio dalla tradizionale réclame delle aziende alla web reputation attraverso la costruzione di una immagine aziendale 2.0. Oggi si può parlare di un terzo capitolo di questa transizione: la continuità tra online advertising e e-commerce. Nei primi sei mesi del 2014 si evidenzia un calo degli investimenti pubblicitari del 2,4%. La televisione ha beneficiato dell’effetto della Coppa del mondo segnando un +1,3% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, la carta stampata registra una flessione dell’11%, la radio del 2,9% e internet, dopo la galoppata a due cifre conosciuta fino al 2012, ha subito una battuta d’arresto (+0,1%) (tab. 17). La televisione si conferma il mezzo dominante, riuscendo a convogliare più della metà delle risorse spese annualmente dalle aziende per l’informazione commerciale, i quotidiani assorbono una fetta di mercato pari al 12,7% contro il 7,6% della stampa periodica, internet si attesta al 7,3% del totale (fig. 1). Nel commercio elettronico l’Europa registra un giro d’affari pari a 350 miliardi di euro nel 2013, dimostrando così una buona vitalità. I Paesi con il maggiore sviluppo sono il Regno Unito, con un valore di 107 miliardi di euro, la Francia, che può contare su un mercato di vendite che pesa 51 miliardi di euro, e la Germania, con 50 miliardi di euro derivanti dall’e-commerce. L’Italia, seppure lontana da queste cifre, secondo le stime chiuderà il 2014 con più di 13 miliardi di euro e una crescita del 17% rispetto all’anno precedente. 7DE,QYHVWLPHQWLSXEEOLFLWDULSHUPH]]R,VHP,VHP(migliaia di euro e var. %) Tv I sem. 2013 I sem. 2014 Var. % 1.897.337 1.922.055 1,3 Radio 184.128 178.797 -2,9 Quotidiani 462.862 414.746 -10,4 Periodici 279.852 249.024 -11,0 Internet 240.198 240.514 0,1 290.980 269.898 -7,2 3.355.358 3.275.035 -2,4 Altro 7RWDOH Fonte: elaborazione Censis su dati Nielsen 84 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese )LJ4XRWHGHOPHUFDWRSXEEOLFLWDULRSHUPH]]R,VHP(val. %) Altro 8,2 Internet 7,3 Periodici 7,6 Tv 58,7 Quotidiani 12,7 Radio 5,5 Fonte: elaborazione Censis su dati Nielsen In Italia la percentuale di consumatori elettronici si attesta al 29% con riferimento a un negozio online domestico e l’11% ha scelto un rivenditore presente in un altro Paese dell’Unione europea. Lo stesso vale anche per i tre big spender dell’Ue: nel Regno Unito il 66% dei consumatori ha premiato un sito inglese, contro un 20% di compere registrate sul server di un altro Paese europeo. Il 59% dei tedeschi compra da siti web nazionali, contro il 13% che ha effettuato shopping da portali esteri. Non dissimile la situazione in Francia, dove il 51% dei consumatori è cliente di una realtà online di casa propria, a fronte di un 19% che fa shopping oltreconfine (fig. 3). )LJ3HUVRQHFKHQHJOLXOWLPLGRGLFLPHVLKDQQRFRPSUDWREHQLRVHUYL]LYLDLQWHUQHW(val. %) Da un rivenditore/provider del proprio Paese Da un rivenditore/provider di altro Paese Ue 66 59 51 47 29 20 17 19 15 11 Regno Unito Germania Francia Italia Ue Fonte: elaborazione Censis su dati Eurobarometro 85 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese Relativismo e soggettivismo narcisista nei media Sia internet che la televisione consentono l’utilizzo da parte dei genitori di filtri per evitare che i figli siano esposti a contenuti pericolosi per il loro equilibrato sviluppo etico e psicologico. Secondo i dati di una ricerca realizzata dal Censis per il Corecom Lazio (l’Autorità regionale per le comunicazioni), il 42% dei genitori usa un filtro per l’utilizzo di internet da parte dei figli e solo il 24% usa il parental control in televisione sia per i contenuti definiti “adult”, sia per quelli classificati come “nocivi” (tab. 23). Ciò sebbene gli stessi genitori sostengano che il degrado morale della nostra epoca è fortemente connesso all’offerta dei media. I genitori sono preoccupati, capiscono il rischio contenuto nei media, ma la loro azione di vigilanza consapevole appare debole. 7DE/HL XWLOL]]D L ÀOWUL GLVSRQLELOL SHU OD WXWHOD GHL PLQRUL ULVSHWWR D LQWHUQHW H WY (parental control)"(val. %) Val. % Internet No, non sono interessato a esercitare questo tipo di controllo 41,8 1RWDQWRVHÀOWURLOVXRSFYDVXTXHOORGHJOLDPLFL 6,4 Ho provato, ma è complicato 4,8 Vorrei, ma non sapevo che si potesse 4,6 Sì 7RWDOH 42,4 100,0 Tv (parental control) Lo uso abitualmente, sia per i contenuti “adult”, sia per quelli “nocivi” 24,1 Lo uso solo per i contenuti “adult” 6,4 Possiedo un vecchio decoder con cui non posso usufruire del parental control 7,5 1RQVRQRPDLULXVFLWRDGDWWLYDUORF·qTXDOFRVDFKHQRQYD 3,0 No, non lo uso 7RWDOH 59,0 100,0 /DGRPDQGDqVWDWDULYROWDDJHQLWRULFRQÀJOLGLDQQL Fonte: indagine Censis, 2014 86 Governo pubblico (pp. 461 – 504 del volume) La numerazione di tabelle, tavole e figure riproduce quella del testo integrale 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese Capitale culturale di un territorio: chance di crescita non solo economica Il Censis, con il contributo dell’Assessorato alla Cultura della Regione Calabria, ha analizzato lo stato dell’arte dell’offerta culturale regionale, misurandone la potenzialità di crescita per individuare alcune linee di sviluppo possibili. Fra il patrimonio “giacente” - l’eredità materiale delle espressioni culturali del passato - si possono oggi annoverare in Calabria 13 siti archeologici e complessi monumentali, 284 musei, archivi e collezioni, 646 beni vincolati. A questi sono state poi aggiunte alcune categorie: - sono stati censiti i luoghi di rappresentazione e di diffusione della cultura come le librerie (252), le sale teatrali e cinematografiche (rispettivamente, 186 e 60), le biblioteche (oltre 400); a queste categorie sono state aggiunte le scuole di II grado, in cui la costruzione e la diffusione della cultura e dell’istruzione rappresenta ovviamente il fine principale della propria attività; - si è poi data evidenza a quella componente del paesaggio che negli ultimi anni ha acquisito un forte visibilità e ha attratto l’attenzione del grande pubblico perché declinata con la domanda di qualità della vita e della conservazione dell’ambiente: in Calabria si contano oggi 72 comuni con patrimonio edilizio storico, 159 centri storici e insediamenti minori suscettibili di tutela e valorizzazione, 13 fra i borghi più belli d’Italia e borghi autentici. Lungo la dimensione del capitale culturale “vivente” si è ricostruito un palinsesto che nel 2013 in Calabria ha annoverato 39 grandi eventi di qualità con una estesa partecipazione (1,3 milioni di presenze, con una media a evento di circa 35.000 partecipanti), un elevato coinvolgimento del territorio (67 comuni), un volume di spesa che ha sfiorato i 55 milioni di euro e un moltiplicatore, rispetto al finanziamento, molto vicino a 7 (tab. 4). 7DE/·HIIHWWRPROWLSOLFDWLYRGHLHYHQWLFXOWXUDOLGLTXDOLWjRUJDQL]]DWLLQ&DODEULD(v.a. e euro) N. visitatori (senza pernottamento) 996.896 Spesa visitatori (euro) 29.311.688 N. turisti (con pernottamento) 326.993 Spesa turisti (euro) 25.653.369 Totale turisti + visitatori (n.) 1.323.889 Totale spesa turisti + visitatori (euro) 54.965.057 Costo complessivo degli eventi (euro) 8.178.666 Effetto moltiplicativo 6,72 Fonte: elaborazione Censis su dati Regione Calabria 88 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese La fisiologia della Pubblica Amministrazione e il progetto di rinnovamento generazionale L’allungamento del mantenimento in servizio dei dipendenti pubblici in seguito all’adozione dell’ultima riforma previdenziale, collegato con il blocco del turn over – unico strumento effettivo di contenimento della spesa utilizzato in questi anni –, ha creato le premesse per una difficile ricomposizione dei problemi che affliggono la Pubblica Amministrazione, soprattutto se proiettati nel lungo periodo. Oggi la distribuzione del personale pubblico per età evidenzia (tab. 6): 7DE$Q]LDQLWjPHGLDGLVHUYL]LRGHOSHUVRQDOHGHOOD3XEEOLFD$PPLQLVWUD]LRQH(v.a.) Comparti Anni Servizio sanitario nazionale 18,1 Enti pubblici non economici 22,0 Enti di ricerca 16,2 Regioni e Autonomie locali 19,3 Ministeri 22,4 $JHQ]LHÀVFDOL 21,2 Presidenza del Consiglio dei Ministri 15,5 Scuola 18,0 Istituzioni di Alta Formazione e Specializzazione Artistica e Musicale 17,5 Università 17,3 Enti art.70, comma 4, D.Lgs. 165/01 15,5 Regioni a statuto speciale e Province autonome 14,6 Enti art. 60, comma 3, D.Lgs. 165/01 20,2 Autorità indipendenti 15,9 Corpi di polizia 20,2 Forze armate 15,9 Vigili del fuoco 16,9 Magistratura 20,9 Carriera diplomatica 17,8 Carriera prefettizia 24,7 Carriera penitenziaria 20,5 Totale Pa 19,0 Anzianità media totale Pa nel 2001 16,9 Anzianità media Dirigenti Pa nel 2012 15,8 Anzianità media Personale non dirigente Pa nel 2012 18,5 Anzianità media Docenti scuola a tempo indeterminato nel 2012 18,8 Anzianità media Magistrati, diplomatici, prefetti nel 2012 20,7 Fonte: elaborazione Censis su dati Aran - un deciso spostamento in avanti dell’età media, che in termini assoluti e relativi rappresenta di per sé un elemento critico anche per gli aspetti retributivi che porta con sé in un sistema dove è premiata l’anzianità di servizio e non il merito. Se nel 2001 l’età media era, infatti, pari a 44,2 anni, nel 2012 era cresciuta di oltre 4 anni portandosi a 48,7; - una forte concentrazione delle componenti più anziane proprio nella fascia dirigenziale. Dei 182.000 dirigenti della Pa, quasi la metà (46,2%) ha più di 50 anni e poco più del 14% ha almeno 60 anni (circa 26.000 dirigenti in termini assoluti). 89 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese L’età media è di 52,9 anni ed è di poco inferiore l’età media dei docenti e dei ricercatori universitari (51,2 anni); - una maggiore incidenza della componente più anziana in comparti come i Ministeri (con un’età media di 51,9 anni e una quota di ultrasessantenni superiore al 10%), la Presidenza del Consiglio (51,8 anni in media), la carriera prefettizia (52,8 anni). L’attenzione al ricambio generazionale potrebbe essere il campo di sfida su cui misurare la qualità dell’intento riformistico del Governo. La questione della “staffetta generazionale” agisce direttamente su un fattore strutturale delle risorse umane che è dato dall’età, un elemento oggettivo che riflette ciò che accade a livello della popolazione. Bisogna, però, fare i conti anche con il fatto che quasi un dipendente su cinque ha al massimo assolto alla scuola dell’obbligo. In termini assoluti si tratta di oltre 600.000 dipendenti, di cui più della metà riconducibile al Servizio sanitario nazionale (circa 148.000), alla scuola (poco meno di 128.000) e alle Regioni e Autonomie locali (124.000), cui si possono aggiungere altri 24.000 impiegati nelle Regioni a statuto speciale e nelle Province autonome. Il nodo politico dei fondi strutturali La crisi ha interrotto in tutta Europa quel processo di riduzione delle disparità regionali che è l’obiettivo ultimo dei fondi di coesione. Fino al 2008 le disparità tra le economie regionali erano in diminuzione: nel 2000 il Pil medio pro-capite nel 20% delle regioni più sviluppate era di circa 3,5 volte più alto di quello delle regioni meno sviluppate. Questa disparità è andata diminuendo fino a raggiungere quota 2,8 nel 2009, per poi ricominciare a risalire. Il fenomeno appare più chiaro analizzando l’andamento occupazionale. Nel 2000 il tasso di disoccupazione medio nel 20% delle regioni con maggiore difficoltà era del 17,6% a fronte del 3,4% per il 20% delle regioni a maggiore occupazione. Il rapporto tra i due valori era di 5,2: una distanza che si è andata assottigliando fino al 2007, per poi risalire fino al 5,3 del 2013, portandosi su un valore più alto di quello di partenza, a testimoniare che nel 2013 la disparità regionale, in riferimento all’occupazione, era maggiore di quella del 2000. Alla fine del periodo di programmazione 2007-2013 dei fondi strutturali, finalizzati alla convergenza fra regioni ricche e regioni in ritardo di sviluppo, le risorse effettivamente impiegate in Italia sono risultate pari al 54% di quelle disponibili. Nello scampolo di programmazione che ci resta (2014-2015) dovremmo portare a termine gli interventi per il restante 47% (quasi 14 miliardi di euro) con una capacità di spesa corrispondente a un miliardo al mese da qui alla fine: obiettivo forse difficilmente raggiungibile. 90 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese Piccole imprese e ricercatori puntano molto sui fondi di ricerca europei, ma devono migliorare la progettazione Nella società della conoscenza, il potenziale di ricerca di un Paese incide in maniera determinante sulla sua capacità competitiva, dunque la ricerca andrebbe pensata come un investimento e non come una spesa. Nel nostro Paese si stima un investimento in ricerca di 17,5 miliardi di euro, corrispondenti all’1,2% del Pil: un valore al di sotto della media europea, che è dell’1,8%. Girano pochi investimenti, e questo ha spinto negli anni i ricercatori e le imprese italiane a inseguire le cospicue fonti di finanziamento comunitarie: moltissime le domande presentate nell’ambito del vecchio 7° Programma Quadro (11.474 idee di ricerca), ma pochi i progetti finanziati. Siamo dietro Germania, Regno Unito e Francia, con un tasso di successo del 13,4%, ancora una volta al di sotto della media europea (17,9%). Con un budget di circa 80 miliardi di euro (il 30% in più dell’ultimo programma quadro), da stanziarsi nei prossimi sette anni, Horizon 2020 non è solo il più grande programma di ricerca dell’Unione europea, ma uno dei più grandi al mondo finanziato con fondi pubblici, e con un approccio integrato a favore delle Pmi, a cui dedica il 15% della dotazione finanziaria: una mole di finanziamenti senza precedenti che intende sovvenzionare le più innovative tra le piccole imprese, quelle con un potenziale di crescita maggiore. Tra le domande pervenute sullo Strumento per le Pmi di Horizon 2020, l’Italia gioca un ruolo di primo piano: ben 436 proposte italiane su 2.666 pervenute (il numero più alto tra i Paesi dell’Unione) per la prima call di Fase 1 e 70 domande su 580 per la prima call di Fase 2 (anche in questo caso il numero più alto di proposte pervenute alla Commissione rispetto agli altri Paesi europei). Se però consideriamo i risultati della prima valutazione (quella effettuata sulla Fase 1), portiamo a casa 20 progetti finanziati su 436 proposte presentate. Un tasso di successo molto basso (4,6%), malgrado siamo il terzo Paese per numero di imprese sovvenzionate, dietro a Regno Unito (26 con un tasso di successo dell’11,2%) e Spagna (39 con un tasso di successo del 9,3%). 91 Sicurezza e cittadinanza (pp. 505 – 543 del volume) La numerazione di tabelle, tavole e figure riproduce quella del testo integrale 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese Oltre gli sbarchi L’emergenza sbarchi che l’Italia ha vissuto nell’ultimo anno non ha precedenti: secondo i dati del Ministero dell’Interno, dal 1° gennaio a metà ottobre 2014 sono stati gestiti 918 sbarchi, nel corso dei quali sono giunte 146.922 persone, per l’11% donne e per il 21,2% minori (tav. 1). I dati dell’Agenzia europea Frontex indicano una prevalenza di eritrei e siriani tra coloro che hanno attraversato il Mediterraneo nei primi otto mesi del 2014; seguono i cittadini di Mali, Nigeria, Gambia e Somalia. Numeri che destano allarme, soprattutto se paragonati con quelli degli anni passati. Nel 2011, che era stato un anno record per gli effetti delle “primavere arabe”, gli arrivi erano stati 63.000, 13.000 nel 2012 e 43.000 in tutto il 2013. 7DY/·HPHUJHQ]DVEDUFKLLQ,WDOLD Numero di sbarchi (1/1-13/10 2014) 918 I profughi sbarcati (1/1-13/10 2014) 146.922 di cui: 11% donne 21,2% minori 3HUVRQHWUDWWHLQVDOYRQHOO·DPELWRGHOO·RSHUD]LRQH Mare Nostrum (1/8/2013-31/7/2014) 62.982 Persone che hanno perso la vita tentando di raggiungere le nostre coste (1/1-30/9/2014) 3.072 Persone in strutture di accoglienza (a settembre 2014) 61.536 Domande di protezione (1/1-31/7/2014) 30.755 (+142% rispetto al periodo corrispondente del 2013) Fonte:HODERUD]LRQH&HQVLVVXGDWL0LQLVWHURGHOO·,QWHUQR2LPH(XURVWDW L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni stima che siano stati oltre 3.000 i morti nel Mediterraneo tra gennaio e settembre 2014, e 22.400 quelli che complessivamente hanno perso la vita dal 2000 ad oggi (quasi dieci volte il numero delle vittime degli attentati alle Torri Gemelle). Una tragica media di 1.500 morti ogni anno, che diventano oltre 3.000 nei soli primi nove mesi del 2014. Numeri che mettono a dura prova anche il sistema di accoglienza di chi riesce a giungere a terra. Complessivamente, al 30 settembre le strutture di diversa natura presenti sul territorio nazionale ospitavano 61.536 migranti, collocati per più della metà in soluzioni alloggiative temporanee (il 52,8%, con un maggiore presenza in Sicilia, Lombardia e Campania), per un ulteriore 30% nelle strutture facenti capo allo Sprar (soprattutto nel Lazio, in Sicilia e in Puglia) e per il 17% circa nei centri governativi (i maggiori si trovano in Sicilia, Puglia e Calabria) (tab. 1). 93 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese 7DE/·DFFRJOLHQ]D GHL SURIXJKL QHOOH UHJLRQL LWDOLDQH SHU WLSR GL VWUXWWXUD DO VHWWHPEUH (v.a. e val. %) Strutture governative (Cara, Cda e Cpsa) Totale Strutture temporanee Sprar Sicilia 5.993 3.974 4.752 14.719 23,9 Lazio 2.629 4.367 826 7.822 12,7 Puglia 1.427 1.813 2.764 6.004 9,8 Lombardia 4.732 921 - 5.653 9,2 Calabria 1.614 1.506 1.438 4.558 7,4 Campania 3.035 1.069 - 4.104 6,7 Emilia Romagna 2.088 702 - 2.790 4,5 Regione v.a. val. % Piemonte 1.873 846 - 2.719 4,4 Toscana 1.642 528 - 2.170 3,5 Veneto 1.491 283 - 1.774 2,9 Merche 931 495 116 1.542 2,5 1.113 289 - 1.402 2,3 Friuli Venezia Giulia 733 302 203 1.238 2,0 Molise 657 435 - 1.092 1,8 Sardegna 700 84 269 1.053 1,7 Umbria 497 327 - 824 1,3 Basilicata 432 380 - 812 1,3 Liguria Abruzzo 513 227 - 740 1,2 Trentino Alto Adige 312 149 - 461 0,7 9DOOHG·$RVWD - 59 0,1 Totale 32.471 59 18.697 10.368 61.536 100,0 Val. % 52,8 30,4 16,8 100,0 Fonte:HODERUD]LRQH&HQVLVVXGDWL0LQLVWHURGHOO·,QWHUQR Quale integrazione senza partecipazione? La partecipazione politica è una delle componenti fondamentali per sentirsi a pieno titolo cittadini di uno Stato, un pilastro dell’integrazione, come viene riconosciuto da non pochi Paesi europei che vantano discipline più inclusive rispetto all’Italia. Ben 12 Paesi dell’Unione europea riconoscono a tutti gli immigrati non comunitari il diritto di voto alle elezioni amministrative ponendo come vincolo un certo periodo di residenza (2 anni per la Finlandia, 3 per Irlanda, Danimarca, Slovacchia e Svezia, 5 per Paesi Bassi, Lussemburgo, Belgio, Estonia, Slovenia, Lituania, Ungheria) e ponendo, in alcuni casi, uno sbarramento all’elettorato passivo. In altri Paesi, come Regno Unito, Spagna e Portogallo, vengono invece stabiliti dei requisiti maggiormente selettivi, privilegiando cittadini che provengono da Paesi che hanno legami storici e/o con cui sono stati sottoscritti accordi di reciprocità. Ci sono poi 12 Paesi, tra cui l’Italia, ma anche la Francia, la Germania e la Grecia (che nel 2010 aveva introdotto il diritto di voto, poi dichiarato incostituzionale nel 2013), in cui non è concessa la possibilità di votare (tav. 2). Nel nostro Paese non sono mancate le proposte di legge in proposito, anche di iniziativa popolare, come quella di qualche anno fa legata alla campagna “L’Italia sono anch’io”, ma al momento si registra un certo stagnamento per una questione sulla 94 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese quale, invece, si giocano molte delle possibilità di far sentire veramente protagonisti di un destino comune gli stranieri residenti nel nostro Paese. 7DY,O GLULWWR GL YRWR DPPLQLVWUDWLYR SHU JOL VWUDQLHUL QRQ FRPXQLWDUL QHL 3DHVL GHOO·8QLRQH europea Paesi Ue che concedono il diritto di voto amministrativo agli stranieri non comunitari I requisiti Gli inclusivi Finlandia Residenza da almeno 2 anni Irlanda 5HVLGHQ]DÀVFDOHGDDOPHQRDQQL Danimarca Residenza da almeno 3 anni Slovacchia Residenza da almeno 3 anni Svezia Residenza da almeno 3 anni Paesi Bassi Residenza da almeno 5 anni Lussemburgo Residenza da almeno 5 anni Belgio Residenza da almeno 5 anni (più ulteriori requisiti) Estonia Residenza da almeno 5 anni (solo elettorato attivo) Slovenia Residenza da almeno 5 anni (solo elettorato attivo) Lituania Residenza da almeno 5 anni Ungheria Residenza di lunga durata I selettivi Regno Unito Possono votare alle elezioni di qualsiasi livello gli appartenenti al Commonwealth e gli irlandesi Spagna 3RVVRQRYRWDUHLFLWWDGLQLGL3DHVLSUHYDOHQWHPHQWHGHOO·$PHULFD/DWLQDFRQLTXDOL vigono condizioni di reciprocità, e comunque dopo 3 o 5 anni di residenza (a seconda del Paese) Portogallo Possono votare solo i cittadini di alcune ex colonie, previa residenza di 2, 3 o 4 anni (a seconda del Paese) e a condizioni di reciprocità; con altri Paesi vigono accordi bilaterali e il requisito di almeno 5 anni di residenza Paesi Ue che non concedono il diritto di voto amministrativo agli stranieri non comunitari Grecia, Francia, Italia, Germania, Austria, Bulgaria Cipro Lettonia, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Romania Fonte: Censis, 2014 Il sistema anti-tratta: tra imminenti trasformazioni e cambiamenti necessari Tra il 2000 e il 2012 il sistema di protezione italiano per le vittime di tratta è entrato in contatto con oltre 65.000 persone, cui ha fornito informazioni, accompagnamento ai servizi e consulenza; ha garantito assistenza strutturata a 21.795 vittime di tratta e grave sfruttamento, oltre 1.000 delle quali minori, nell’ambito dei progetti ex art. 18 d.lgs. 286/98; cui si aggiungono 3.862 persone, di cui oltre 200 minori, entrati nei progetti di emersione e prima assistenza ex art. 13 l. 228/2003 nel periodo 20062012 (tav. 3). Solo nel corso dell’ultimo biennio sono stati oltre 1.500 i percorsi di assistenza attivati a favore delle vittime di tratta, dei quali 96 a favore di minori; quasi i tre quarti dei percorsi erano rivolti a donne, e oltre la metà hanno avuto come destinatari cittadini originari della Nigeria e della Romania. Alla luce di tutto ciò è necessario che il sistema anti-tratta italiano riesca a superare le innegabili criticità che lo caratterizzano, sottolineate a più riprese da chi lavora all’interno del sistema stesso, oltre che da enti sovranazionali. 95 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese 7DY,QXPHULGHOVLVWHPDDQWLWUDWWDLQ,WDOLD 2OWUH Persone che hanno ricevuto accompagnamento, consulenza, informazioni 3URJHWWLH[DUWÀQDQ]LDWL 665 Persone entrate in un programma di protezione sociale ex art.18 21.795 (di cui: 1.171 minori) 3URJHWWLH[DUWÀQDQ]LDWL 166 Persone entrate in un programma di emersione e prima assistenza ex art.13 (anni 2006-2012) 3.862 (di cui: 208 minori) Fonte:HODERUD]LRQH&HQVLVVXGDWL3UHVLGHQ]DGHO&RQVLJOLRGHL0LQLVWUL'LSDUWLPHQWR3DUL2SSRUWXQLWj Un segnale positivo è sicuramente il recepimento della Direttiva 2011/36/Ue relativa alla prevenzione e alla repressione della tratta di esseri umani e alla protezione delle vittime, cui l’Italia ha dato attuazione con il d.lgs. n. 24 del 4 marzo 2014. Tra le novità introdotte, si segnala il rafforzamento dello strumento punitivo, attraverso gli artt. 600 e 601 del Codice penale, e un accrescimento della tutela delle vittime di tratta particolarmente vulnerabili attraverso l’utilizzo di maggiori cautele in ambito processuale. Le vittime di tratta potranno anche avere accesso a un indennizzo di 1.500 euro attingendo al Fondo per le misure anti-tratta. Inoltre, viene prevista l’adozione di un Piano nazionale d’azione contro la tratta e il grave sfruttamento, atto a definire le strategie di intervento per la prevenzione e il contrasto al fenomeno e le azioni finalizzate alla sensibilizzazione, alla prevenzione sociale, all’emersione e all’integrazione sociale delle vittime. Un ulteriore e importante cambiamento è rappresentato dall’introduzione del Programma unico di emersione, assistenza e integrazione sociale che va a unificare in un percorso unico i due differenti programmi ex artt. 13 e 18. L’illegalità frena le imprese Una recente indagine del Censis per il Ministero dello Sviluppo Economico, condotta su 316 funzionari di Camere di commercio, organizzazioni datoriali e di categoria e sindacati, testimonia dell’elevata presenza di attività illegali ai danni delle imprese. Quasi il 60% degli intervistati segnala la presenza di imprese parzialmente o totalmente irregolari sul proprio territorio (e il dato sale addirittura al 78,5% nel Sud), il 52,4% denuncia la pratica dello sfruttamento lavorativo (il 76,1% al Sud) e il 51,3% la presenza di immigrazione irregolare (fig. 3). Un contesto di questo tipo crea un humus favorevole alla presenza e alla diffusione di altri mercati illegali che, a loro volta, sottraggono risorse e scoraggiano dall’investire legalmente. Tra questi quelli dell’abusivismo commerciale e della vendita di merci contraffatte. 96 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese )LJ2SLQLRQH VXOOD SUHVHQ]D GL DOFXQL IHQRPHQL GL LOOHJDOLWj QHO WHUULWRULR GL DSSDUWHQHQ]D PROWRDEEDVWDQ]DSUHVHQWH(val. %) 58,3 Imprese irregolari 52,4 Sfruttamento del lavoro 51,3 Immigrazione irregolare Improvvisa apertura/chiusura di imprese 46,9 Corruzione nella Pubblica Amministrazione 29,0 Racket, estorsioni ai danni di imprese 28,1 Gestione diretta di imprese da parte della criminalità organizzata 21,0 Il totale non è uguale a 100 perché erano possibili più risposte Fonte: indagine Censis, 2014 Per quanto riguarda il solo commercio al dettaglio, la stima condotta lo scorso anno per Confcommercio ha portato ad individuare almeno 67.627 esercizi commerciali parzialmente o totalmente abusivi, pari al 7,1% del totale. Di questi, 34.837 sono situati in aree pubbliche e mercatali, per una quota che corrisponde al 19,4% del totale, e 32.790 sono in sede fissa, per una quota che rappresenta il 4,2% del totale. Complessivamente si può stimare un fatturato di 8,8 miliardi di euro, pari al 4,7% del totale del volume d’affari (tab. 3). 7DE6WLPDGHJOLHVHUFL]LLQVHGHÀVVDHDPEXODQWHWRWDOPHQWHRSDU]LDOPHQWHLUUHJRODULFKH HVHUFLWDQRVHQ]DDYHUHWXWWHOHQHFHVVDULHDXWRUL]]D]LRQLHGHOORURYROXPHG·DIIDUL (v.a. e val. %) Esercizi Valore delle vendite v.a. val. % mld. di euro per esercizio (euro) ,QVHGHÀVVD 32.790 4,2 4,7 142.497 In aree pubbliche e in aree mercatali 34.837 19,4 4,1 118.421 Totale 67.627 7,1 8,8 130.095 Esercizi del commercio al dettaglio abusivi Fonte: elaborazione Censis su dati Infocamere, Ministero dello Sviluppo Economico e Fiva Fortemente correlato all’abusivismo è il mercato della produzione e vendita di merci contraffate: un interno che, in stima che il Censis ha realiz mercato base all’ultima zato per il Ministero dello Sviluppo Economico, ha un valore di 6,535 miliardi di euro. Se fossero stati venduti gli stessi prodotti sul mercato legale si sarebbero avuti: 17,7 miliardi di euro di valore di produzione aggiuntiva, con conseguenti 6,4 miliardi circa di valore aggiunto; acquisti di materie prime, semilavorati e/o servizi dall’estero per un valore delle importazioni pari a 5,6 miliardi di euro; la produzione degli stessi beni in canali ufficiali avrebbe richiesto circa 105.000 unità di lavoro a tempo pieno. Riportare sul mercato dei beni contraffatti signi legale la produzione 97 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese ficherebbe anche avere un gettito aggiuntivo per imposte (dirette e indirette) legato alla produzione diretta di 1,522 miliardi di euro; se a questo si aggiunge la produzione indotta in altri settori dell’economia, pari a quasi 3,760 miliardi di euro, si arriverebbe a un gettito complessivo pari a circa 5,280 miliardi di euro ovvero a un ammanco pari, nel complesso, al 2% del totale delle entrate prese in considerazione (tab. 4). 7DE6WLPDGHOO·LPSDWWRJHQHUDWRGDOODFRQWUDIID]LRQHVXOO·HFRQRPLDQD]LRQDOH (v.a.) Voci 2012 Fatturato interno (mln. di euro) 6.535 Impatto sulla produzione (mln. di euro) 17.773 Impatto sul valore aggiunto (mln. di euro) 6.370 Importazioni attivabili (mln. di euro) 5.650 ,PSDWWRVXOO·RFFXSD]LRQHXQLWjGLODYRURJHQHUDELOLQHOPHUFDWROHJDOH 104.538 Unità di lavoro generabili per ogni milione di euro di fatturato Imposte perdute (mln. di euro) 16,0 5.280 Fonte: Censis, 2014 Giovani, legalità, contraffazione In una recente indagine del Censis sono stati intervistati 500 giovani romani di età compresa tra i 18 e i 25 anni mentre si trovavano a fare compere nei mercati di Porta Portese, Via Sannio e Villaggio Olimpico. Al primo posto, come comportamento ritenuto ammissibile dall’80,9% degli intervistati, si trova il download di materiale pirata da internet, seguito dall’acquisto di merce contraffatta, ammissibile per il 67,6%. Si tratta, in entrambi i casi, di atti ritenuti normali, che i giovani compiono abitualmente, spesso senza neanche avere la percezione di compiere un illecito. Addirittura, questi comportamenti sono ritenuti più giustificabili di viaggiare sui mezzi pubblici senza biglietto (64,6%), una pratica che a Roma è molto diffusa, soprattutto tra i giovani. Nella graduatoria costruita in base alle risposte dei ragazzi seguono: superare il limite di velocità in auto o motorino (ritenuto ammissibile dal 55,5%) e scrivere o disegnare sui muri (53,1%), comportamenti che più della metà dei giovani giudica poco gravi. Non sono pochi nemmeno quelli che trovano giustificazioni per l’acquisto di merce di dubbia provenienza (comportamento giudicato ammissibile da ben il 43,7% del campione) o di sigarette di contrabbando (35,6%): fare economia, soprattutto in tempi di crisi, può valer bene quella che giudicano come una piccola trasgressione, e che però spesso ha delle implicazioni che vanno molto al di là dell’atto di acquisto. I comportamenti ritenuti più gravi, e per questo giudicati meno ammissibili, sono l’evasione fiscale (il 16,8% giustifica chi dichiara al fisco meno di quanto guadagna) e, da ultimo, compiere un abuso edilizio (ritenuto ammissibile da un esiguo 8,6%) (fig. 4). 98 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese )LJ&RPSRUWDPHQWLULWHQXWLDPPLVVLELOLGDLJLRYDQLURPDQL(val. %) 80,9 Scaricare materiale pirata da internet 67,6 Acquistare merce contraffatta Utilizzare i mezzi di trasporto senza pagare il biglietto 64,6 55,5 Superare il limite di velocità in auto/motorino 53,1 Scrivere o disegnare su un muro con lo spray 43,7 Comprare merce di dubbia provenienza Acquistare sigarette di contrabbando 35,6 Assentarsi dal lavoro senza essere davvero malati 35,2 Ricorrere a raccomandazione per ottenere un posto di lavoro 33,7 25,8 Copiare a un concorso pubblico 16,8 Dichiarare al fisco meno di quanto si guadagna Compiere un abuso edilizio 8,6 Il totale non è uguale a 100 perché erano possibili più risposte Fonte: indagine Censis, 2014 Sull’acquisto dei falsi è stato condotto un approfondimento: dall’indagine emerge come ben il 74,6% dei giovani acquisti spesso (15,2%) o qualche volta (59,4%) merce falsa, con una percentuale che raggiunge l’81,3% tra i maschi (fig. 5). I giovani comprano soprattutto articoli di abbigliamento (il 67,3%) e accessori quali cinture, portafogli, borse (45,3%), scarpe (37,5%), occhiali (31,6%) e, in misura minore, orologi, bigiotteria e gioielli (20,1%). Tra i prodotti più indicati vi sono poi i cd e i dvd (48,3%) (fig. 6). Fig. 5 - Frequenza di acquisto di merce contraffatta da parte dei giovani romani, per sesso (val. %) Spesso Qualche volta Mai 63,4 59,4 55,5 31,9 25,4 17,9 18,7 15,2 12,6 Maschio Femmina Totale Fonte: indagine Censis, 2014 99 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese Fig. 6 - Tipologia di merce contraffatta acquistata dai giovani romani (val. %) 67,3 Abbigliamento 48,3 Cd, dvd 45,3 Accessori 37,5 Scarpe 31,6 Occhiali Cellulari, prodotti elettronici 20,1 Orologi/bigiotteria, gioielli 20,1 18,2 Prodotti informatici 16,1 Profumi, cosmetici 11,8 Tabacchi 8,0 Accessori-ricambi auto/moto Medicinali, integratori o simili Altro 4,3 1,6 Il totale non è uguale a 100 perché erano possibili più risposte Fonte: indagine Censis, 2014 100