SINTESI RAPPORTO CENSIS 2014.

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SINTESI RAPPORTO CENSIS 2014.
INDICE
Considerazioni generali
1
La società italiana al 2014
12
Processi formativi
35
Lavoro, professionalità, rappresentanze
44
Il sistema di welfare
53
Territorio e reti
61
I soggetti economici dello sviluppo
70
Comunicazione e media
79
Governo pubblico
87
Sicurezza e cittadinanza
92
Considerazioni generali
(pp. IX – XXIII del volume)
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
Dopo anni di trepida attesa, la ripresa non è arrivata e non è più data come imminente; e quasi si ha il pudore, forse la stanchezza, di continuare a usare un termine
ormai consumato nel racconto collettivo.
Si affermano così altre trame del racconto. Da una parte ci si adagia, con un pizzico
di fatalismo, a introiettare un galleggiamento su antiche mediocrità, senza troppi
drammi per le ricorrenti notizie traumatiche, incasellandole con il sorriso dolente
del “ce ne faremo una ragione”. Mentre dall’altra parte si fugge in avanti moltiplicando incentivi, riforme e manovre volte a spezzare l’inerzia del corpo sociale, a
valorizzare qualche vecchio o nuovo cespuglio di vitalità, a recuperare credibilità e
peso a livello europeo.
Due modi di vedere le cose che certo non si integrano fra loro, anzi neppure si confrontano, tanto più che nell’attenzione collettiva precipitano ogni giorno stimoli diversissimi e parziali (l’Ebola come diffuse storiacce di cronaca) che riducono la
stessa volontà di guardare con attenzione la congiunzione fra una sconcertante rassegnazione collettiva e un’affannosa moltiplicazione dei tentativi per sfuggire ad
essa. Ne risulta una società sempre più informe, sghemba addirittura nei suoi pensieri.
È giusto quindi riprendere il filo dei nostri pensieri collettivi a partire dall’aggancio
a come eravamo qualche anno fa. Non si tratta di un proposito continuista, che sarebbe in questo periodo poco di moda e forse rischioso. Si tratta solo di richiamare
due semplici verità: la prima, banale e kirkegaardiana insieme, è che non è pensabile
una ri-presa dello sviluppo senza un’adeguata ri-flessione della base reale su cui
operiamo; la seconda, forse ancora più banale, è che, come tutte le società complesse,
la nostra società cambia non attraverso “svolte” (momenti magici decisivi), ma attraverso processi di “transizione”, necessariamente lenti e silenziosi.
Qual è allora la società in cui si sta attuando la strutturale transizione di questi anni?
Non c’è bisogno di inventarsi nuove metafore interpretative per ribadire una realtà
da tempo chiara: siamo una società molto differenziata, molecolare, ad alta soggettività, piena di aspettative e di obiettivi diversi. Altri l’hanno chiamata “società liquida” e la definizione può utilmente essere presa a riferimento di base, specialmente
da chi inclina spesso alle metafore idrauliche (si pensi a quanto anche questo Rapporto ha navigato su fenomeni quali il sommerso, il galleggiamento, la mucillagine).
Al di là delle metafore, siamo comunque una società indistinta e sfuggente: indistinta, perché non è più descrivibile con forme e figure delineate e significative (si
pensi al progressivo successo del termine “gente” e alla propensione a parlare di
“gentismo”); e sfuggente, perché tutto vaga senza radicamenti, per cui è impensabile
un ritorno ai fili d’erba e ai cespugli di sviluppo, fenomeni tipicamente terragni, che
hanno cioè bisogno di terra per sorgere e crescere.
Ma queste due caratteristiche sono quasi secondarie rispetto alla loro visibile incidenza su un processo oggi sempre più impressivo: la società liquida rende liquefatto
il sistema, o almeno mette in crisi le giunture sistemiche della vita collettiva.
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48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
Per anni sono stati esaltati i termini “sistema” e “sistemico”: l’abbiamo fatto ai piani
alti (il sistema politico, il sistema istituzionale, ecc.); l’abbiamo fatto a livello economico (nella programmazione di sistema, nel sistema bancario, nel sistema delle
partecipazioni statali, ecc.); l’abbiamo fatto nei processi intermedi di decisione e di
partecipazione (il sistema burocratico, il sistema sindacale, il sistema contrattuale,
ecc.); e abbiamo finito per farlo anche a livello micro, con l’invito a “fare sistema”
che echeggia in tante riunioni e convention collettive. Senza contare la sua massima
declinazione, il retorico richiamo cioè a un sistema-Italia che di fatto non esiste o al
massimo copre discutibili ambizioni progettuali.
Questo lungo innamoramento per l’approccio sistemico si è consumato via via negli
anni (si può ricordare che in questa sede avevamo segnalato l’esigenza di sostituire
il concetto di sistema-Paese con il concetto di “Paese contenitore”), in parte per
l’erosione costante e tenace (gutta cavat lapidem) della forza liquida della nostra
molecolarità, in parte per la incapacità della stessa cultura sistemica a rivedere i suoi
“fondamentali”.
Stiamo cioè diventando una società a-sistemica, visto che non è più governabile con
i tradizionali modelli sistemici (piramidali, collegiali, concertativi); visto che le forzature sui modelli tradizionali (in particolare l’accentuata verticalizzazione del modello piramidale) non sembrano ottenere risultati apprezzabili; visto che le catene
sistemiche di comunicazione e di comando (top-down e bottom-up) sembrano sempre più sfilacciate; visto che anche i tentativi di attestarsi su più ridotte dimensioni
sistemiche (dal federalismo al localismo esasperato) non sembrano per ora trovare
spazio; e visto che anche sul piano del fondamento teorico è ormai superato il primato del modello organicistico (che ci aveva guidato dall’apologo di Menenio
Agrippa in poi), mentre non riesce a imporre concrete relazioni di governance il modello cibernetico destinato a dominare nei prossimi decenni.
In una società senza ordine sistemico i singoli soggetti sono a dir poco a disagio:
non capiscono dove si collocano, negli anfratti o nei relitti di un assetto sistemico
che essi ritengono comunque necessario; soffrono tutti gli effetti negativi, anche psicologici, della crisi radicale delle giunture sistemiche; e si sentono alla fine abbandonati a se stessi (vale per il singolo imprenditore come per la singola famiglia), in
una obbligata solitudine.
Il sistema finisce per esser vissuto come cosa estranea e resta solo potenziale oggetto
di rancore e di denuncia. Con la conseguenza inevitabile che tale estraneità porta a
un fatalismo quasi cinico (tanto, tutto è fuori controllo e nessuno riesce a padroneggiarlo) e talvolta anche a episodi di secessionismo sommerso, ormai spesso presente
in varie regioni e realtà locali, specie al Sud.
Non c’è chi non veda come questa crisi profonda della cultura sistemica induca a
una ulteriore propensione della nostra società a vivere in orizzontale. Porta infatti a
interessi e comportamenti (individuali e collettivi, ma tutti segnati dalla solitudine)
che si aggregano in mondi che spesso non riescono a dialogare fra loro e, non co-
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municando in verticale, restano di fatto dei mondi che vivono di se stessi, senza
grandi confronti esterni.
La denominazione di questi mondi incomunicanti è semanticamente avventurosa
(circuiti, strati, vasi, tubi, bigonce), ma in via di consapevole approssimazione si
può avanzare il termine “giare”, a significare contenitori a ricca potenza interna, ma
con grandi difficoltà a stabilire significativi rapporti esterni. E facendo un più arrischiato passo in avanti si può definire allora l’attuale realtà italiana come una “società delle sette giare”, dove le dinamiche più significative avvengono all’interno
del loro parallelo sobollire, senza processi esterni di scambio e di dialettica. Si pensi
ai mondi:
- dei poteri sopranazionali, con la loro crescente cogenza;
- della politica nazionale, con la emergente istanza del primato della politica;
- del disordinato funzionamento dei ruoli e dei poteri nelle diverse sedi istituzionali;
- delle minoranze vitali e della loro crescente estraneità ai destini del Paese;
- della vita, squilibrata e difficile, della “gente del quotidiano”;
- della crescente quota di sommerso sempre più ambiguo;
- il tutto descritto e segnato dalla quotidiana incidenza di un mondo della comunicazione connotato più dal bisogno dell’evento (potenzialmente drammatizzabile)
che dall’aderenza ai processi reali della società.
È facilmente constatabile l’importanza che questi sette mondi, queste sette giare,
hanno nella fase attuale; e ancor più è intuibile la separatezza fra le loro dinamiche.
Converrà allora analizzarli con più dettaglio.
a) La prima giara che vive della propria potenza è quella del circuito sovranazionale da cui siamo sempre più condizionati. Molti problemi ci vengono dall’attuale dinamica geopolitica (si pensi alle vicende anche drammatiche del
Mediterraneo e del Medio Oriente); ma è ancora più pesante l’influenza da un
lato dei comportamenti del mercato finanziario mondiale, dall’altro dei comportamenti delle autorità comunitarie, attente all’equilibrio finanziario dell’insieme dell’economia europea.
Sono due comportamenti che la nostra collettività non domina, non capisce,
spesso non conosce. Specialmente ciò avviene per il mondo della finanza internazionale, che si regola e ci regola attraverso l’indiscutibile strumento del
mercato, con procedure (di scelte a tempi ravvicinatissimi, di propensioni speculative, di valutazioni quasi automatiche o spesso affidate agli algoritmi, con
volumi enormi di disponibilità e movimentazione) che vivono di vita propria.
Contrariamente al passato, tali procedure non sono padroneggiate da una cerchia
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di protagonisti capaci di fare planning e orientamento al futuro dello sviluppo
mondiale, ma vanno per proprio conto, lasciando le economie nazionali a fare
da spettatrici passive a eventi e periodi di sofferenza (si pensi a quanto noi italiani abbiamo sofferto per l’andamento dello spread) senza mai innervare una
reale dialettica con le realtà nazionali. Un grande potere senza reale efficacia
collettiva (si riscalda nella dinamica interna alla giara, ma a mala pena trasuda
da essa), che mai porta a corrispondere alle aspettative collettive, nazione per
nazione.
Le stesse cose si potrebbero dire, con ogni necessaria cautela, sul potere degli
organi comunitari europei. Qui, più che il mercato, sono importanti i vincoli
(parametri, patti di stabilità, fiscal compact, direttive, controlli) volti al rispetto
degli equilibri complessivi della costruzione europea. I modi in cui si mettono
in pratica tali vincoli portano a una crescente cessione di sovranità (quasi a una
sudditanza) delle diverse realtà nazionali, combinata però con grandi vuoti: di
protagonisti stabili e affidabili, di prospettazione di sviluppo futuro, di attenzione alle aspettative delle diverse popolazioni, di programmazione a medio e
lungo termine. Il che spinge a un crescente egoismo nazionale e a un continuo
duro confronto sui relativi interessi. Le esperienze anche recenti o in corso
stanno a certificare la problematica efficacia collettiva dei poteri europei: grande
sobollimento di istanze e compromessi “dentro la giara”, immancabili fotografie
di gruppo, qualche litigio bilaterale, ma poca incisività complessiva. Tranne naturalmente la delegazione di fiducia a una forte Banca centrale, che comunque
lavora più in autonomia che per dialogo.
b) Una dinamica analoga (vivere su se stessa senza efficacia collettiva) la si ritrova
nella seconda giara, quella della politica nazionale. Non riuscendo a modificare
più di tanto i citati circuiti di potere sovraordinato, essa è costantemente riconfinata nell’ambito nazionale; e la sua reazione, accentuatasi negli ultimi mesi,
è quella di confermare e rilanciare il proprio ruolo, o meglio il primato della
politica.
Era naturale che in una società molto frammentata e molecolare si fosse creato
un vuoto di decisionalità e di orientamento complessivo del sistema; ed è comprensibile che su questo vuoto si siano costruite un’esigenza e un’onda di rivincita (sulla rappresentanza, sui corpi intermedi, sulle istituzioni locali, sulle
stesse istanze di terzietà); così come è comprensibile l’empatia consensuale che
si è espressa verso di essa.
Ma tale primato della politica rischia di restare tutto interno ad essa, senza efficacia esterna e collettiva. Avendo un tetto basso di azione verso l’alto (per la
perdita di sovranità) e non avendo immediato potere verso il basso (non sempre
la volontà decisionale e/o la decretazione d’urgenza supportata dai voti di fiducia riescono poi a passare all’incasso sul piano dell’amministrazione corrente e
poi dei comportamenti collettivi), la politica rischia di restare confinata al giuoco
della sola politica. È naturale cioè che essa vinca sugli altri protagonisti quando
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si tratta di argomenti tutti politici (la legge elettorale, la riforma del Senato,
l’abolizione delle Province e del Cnel, la decostruzione delle strutture dei partiti,
la marginalizzazione di segmenti di alcune classi dirigenti, ecc.); ma è altrettanto
naturale che abbia difficoltà nel gestire il rapporto con altre istituzioni, con le
inefficienze dell’amministrazione pubblica, con i comportamenti collettivi e
con l’atonia di molte zone del Paese. Resta a sobollire, senza efficacia collettiva.
c) Ancora maggiore è tale rischio per il terzo circuito che occupa il panorama
socio-politico italiano: quello del funzionamento istituzionale. Per decenni sono
state le istituzioni a dare forma alla nostra società con l’amministrazione statale,
con gli organi di giurisdizione, con le strutture formative; poi, per effetto della
molecolarità e della complessità crescenti della vita sociale, quest’ultima è sfuggita alla regolazione, quasi alla guida delle istituzioni. E così queste cominciano
a vivere in una dinamica tutta loro e ad esprimere quasi una estraneità dalla realtà quotidiana.
Cambiano le strutture e si accavallano i ruoli. Abbiamo grandi strutture ormai
letteralmente vuote di competenze e di personale; abbiamo grandi ministeri e
grandi enti pubblici il cui funzionamento è appaltato a società esterne di consulenza o di informatica; abbiamo strutture pubbliche che sono ambigue proprietà
di principati personali; abbiamo personale pubblico (anche giudiziario) che per
una parte sente la tentazione di fare politica, ma per un’altra parte passa tranquillamente a occupare altri ruoli (di garanzia o di gestione operativa, o addirittura di commissariamento); abbiamo un costante rimpallo obliquo delle
responsabilità fra le diverse sedi di potere in occasione di crisi varie; abbiamo
rincorse infinite fra decisioni e ricorsi ad esse conseguenti; abbiamo un aumento
degli scandali direttamente proporzionale all’enfatizzazione di una mitica trasparenza.
È un mondo tutto a giuoco interno, senza alcun serio servizio alla dimensione
superiore (la politica) e senza adeguato servizio, al limite anche di comando,
verso la dinamica della società. La giara sobolle in piena inefficacia collettiva.
E con qualche sofferenza psicologica, perché i suoi protagonisti avvertono sulla
loro pelle la crisi di ruolo e di peso conseguente alla disfatta sistemica di cui si
è parlato nelle pagine iniziali. E non basta, nel clima attuale di continua denuncia
della “casta”, l’enfasi che il mondo delle istituzioni ha dato a due concetti fondamentali (legalità e trasparenza) per recuperare una qualche credibilità.
d) Per molti anni, specialmente in questo Rapporto, abbiamo sottolineato e incoraggiato la speranza che ci fosse in Italia una minoranza vitale capace di fare
da traino alla ripresa, prima, e allo sviluppo ulteriore, poi. Non avevamo naturalmente la speranza che i suoi componenti fossero un gruppo omogeneo, quasi
una classe neoborghese, ma li ritenevano capaci di trasmettere energia e orientamento agli altri segmenti della società.
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L’evoluzione di questi ultimi anni è andata in altra direzione.
La consistenza di quella minoranza è aumentata significativamente per merito
dei medio-piccoli imprenditori che hanno ulteriormente sviluppato il proprio
impegno sul versante dell’export e di una larga presenza internazionale nel comparto manifatturiero, ma anche nell’agroalimentare, nel turismo, nel digitale,
nel terziario di qualità. È un insieme variegato che si è rivelato molto competitivo e in crescita, che tende però a non fare gruppo. Preferisce vivere ancorato
alle proprie dinamiche aziendali o individuali (si pensi alle saghe personali dei
giovani che vanno a studiare e a lavorare all’estero); legato a una concentrazione
dell’attenzione sulle dinamiche (commerciali o legislative) dei luoghi in cui si
opera; con strategie imprenditoriali volte all’innovazione di prodotto o di catena
distributiva calibrata sui Paesi di destinazione; con una durezza della competizione (e della difesa della propria quota di mercato) che obbliga i protagonisti
ad alimentare il proprio gene egoista, riducendo la gamma delle relazioni verso
l’esterno. I vari protagonisti si sentono ben poco assistiti dal sistema pubblico,
così aumenta il loro congenito individualismo e si riducono le loro appartenenze
associative e di rappresentanza. È sconsolante dirlo per un segmento così meritevole, ma è vitalità senza efficacia collettiva.
e) Al destino di essere un mondo che vive di se stesso non sfugge neppure il mondo
della gente del quotidiano. È enorme, articolato, liquido, molecolare, di moltitudine, ma non riesce ad avere dinamica: né in avanti, attraverso nuove stagioni
di iniziativa e di impegno; né all’indietro, attraverso l’accettazione di un downgrading della composizione sociale, tanto che la precarietà crescente viene
vista non come un passo verso la proletarizzazione, ma come una fase permanente che comunque “regge”.
Questa sospensione delle aspettative non permette una piena coscienza del declino complessivo del sistema, visto che l’autostima individuale regge e che la
bassa reputazione complessiva è considerata ininfluente rispetto alle aspettative
e agli interessi dei singoli. Non c’è quindi mobilità verticale, sia essa perseguita
singolarmente, sia essa espressa in aggregazioni intermedie (sindacali, professionali, sociali); e non c’è neppure mobilità orizzontale, perché la vita viene gestita incastrandosi in luoghi relativamente stabili (lo sono non solo i piccoli
paesi, ma anche molte periferie urbane), capaci cioè di garantire minimali aspettative di qualità della vita.
È una sospensione che nella sua calma apparente può incubare sia una lenta
emersione di crescenti diseguaglianze economiche e, in prospettiva, di imprevedibili tensioni sociali; sia una propensione collettiva della popolazione a pensarsi come insieme indistinto (come “gente”), propenso a subire richiami di
“gentismo” contenenti una certa dose di populismo.
Per ora, fino a quando tale incubazione non avrà effetto, la scena principale è
occupata dalla tematica e dalla voglia dei diritti, sia quelli consolidati o in parte
superati (dal posto fisso all’articolo 18), sia e specialmente i nuovi diritti nella
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sfera individuale. In effetti, cresce il fervore nelle rivendicazioni soggettive (il
diritto di avere un figlio anche in età avanzata come il diritto alla “morte dolce”,
come il diritto ad avere matrimonio e sepolture di tipo paritario). La crescita
dei diritti (si comincia a parlare di “diritto al diritto”) non ha però la forza emotiva di quella crescita o crisi del desiderio su cui ci eravamo fermati anni fa;
tanto più se nel ricercare i relativi successi si tende a lavorare sul piano giurisprudenziale o amministrativo (dalle sentenze di corti supreme straniere alle
variazioni nei regolamenti cimiteriali comunali). E non è azzardato dire che
questa tematica dei diritti finisce per riguardare una minoranza attivista che non
è capace di indurre grandi trasformazioni sociali (come era invece avvenuto
negli anni ’70, anni di grandi battaglie sui diritti, ma anche di grandi desideri
collettivi).
f)
Fra i tanti circuiti che tendono a vivere prevalentemente in se stessi è sempre
più consistente e in crescita quello che da sempre vive isolato: il “sommerso”.
Quando, proprio in questa sede, oltre quarant’anni fa, mettemmo in luce l’esistenza e la vitalità dell’economia sommersa, eravamo convinti che fosse un fenomeno destinato a esaurirsi man mano che la dinamica fisiologica dello
sviluppo l’avesse incorporato in procedure sempre più trasparenti. A distanza
di oltre quarant’anni dobbiamo constatare che il fenomeno si è addirittura dilatato. Qualcuno ritiene che sia stata la crisi degli ultimi anni a provocare una recrudescenza congiunturale della propensione di tutti a nascondersi, proteggersi
e sommergersi; ma chi ha seguito l’evoluzione italiana recente deve far notare
che il sommerso è una componente ormai strutturale e permanente, come si può
rilevare:
- nella dinamica dell’occupazione, visto che la ricerca di qualsiasi occasione
di lavoro conseguente alla crisi spinge a una moltiplicazione, solo parzialmente trasparente, dei vari spezzoni di lavoro;
- nella formazione del reddito individuale, familiare, locale (se le povertà e le
diseguaglianze sociali non hanno finora prodotto tensioni di alta conflittualità, è pensabile che ciò sia dovuto a un flusso di reddito non istituzionale e
in diverso modo sommerso);
- nella propensione al risparmio, vista l’ottima salute delle sue diverse modalità (più depositi bancari, più polizze vita, più affidamenti ai fondi, e si può
cominciare a ipotizzare un risparmio anch’esso sommerso, in nero, cash).
Il mondo del sommerso, quindi, rinforza da un lato la sua interna dinamica e
dall’altro si rende lontano, estraneo alla generale evoluzione e alle generali politiche di sistema. Forse i ricercatori e gli studiosi lo capiranno ancora meno
che in passato, ma nella quotidianità esso è una potenza diffusa: è la base dei
meccanismi che consentono alle famiglie e alle imprese di reggere; è il riferimento adattativo di molti milioni di italiani; è uno spazio di accumulazione collettiva certo più consistente dei tanti “tesoretti” di cui spesso si discute.
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g) Il panorama dei circuiti che vivono di se stessi, non camminando in relazione
con gli altri, non sarebbe completo se non si prendesse in carico il grande e pervasivo mondo dei media. È un mondo forte, estremamente diffuso, che ha una
grande capacità di vivere di se stesso e di dialogare con gli altri mondi citati in
una intensa reciprocità di rimandi, citazioni, polemiche, convergenze e divergenze. Ma i mezzi di comunicazione stanno vivendo una doppia dinamica interna che in prospettiva li allontana da quel rigoroso mandato di aderenza alla
realtà e di sua rappresentazione cui implicitamente sono istituzionalmente chiamati.
La prima di tali dinamiche viene dal fatto che il mondo della comunicazione
appare incardinato al perno del binomio opinione-evento, in dimensioni tali da
domandarsi quali pezzi di società alla fine i media rispecchino, di quali blocchi
sociali avvertano le vibrazioni, di quali ceti intercettino malumori e bisogni, e
se abbiano effettivamente antenne protese a comprendere giorno per giorno i
cambiamenti reali in corso nella società.
Più sottile e profonda è la dinamica che deriva dal fatto che la crescita e l’innovazione degli strumenti digitali di comunicazione e relazione si esercitano compiutamente nella tendenza dei singoli alla introflessione. L’io è al tempo stesso
soggetto e oggetto della comunicazione mediatica anche perché l’autoproduzione di contenuti nell’ambiente web privilegia in massima parte l’esibizione
del sé digitale. Gli utenti della rete creano a getto continuo contenuti immettendo
in rete con grande disinvoltura una quantità di dati personali impressionante:
l’individuo si specchia nei media, di cui contemporaneamente è contenuto e
produttore. La pratica diffusa del selfie diviene così l’evidenza fenomenologica
della concezione dei media come specchi introflessi piuttosto che come strumenti attraverso i quali scoprire il mondo e relazionarsi con esso.
E così alla fine il mondo della comunicazione si relaziona poco con gli altri
mondi, con le altre giare, svolgendo solo ruoli di prevalente supporto (il ruolo
di trasparenza, di richiamo agli interessi collettivi, di denuncia delle devianze,
di espressione del giudizio morale, ecc.). Grande ed evidente presenza, limitata
efficacia collettiva.
Pur se ricco e articolato, il panorama delle sette giare qui analizzate non può essere
considerato esaustivo di una complessa interpretazione dell’attuale realtà. Troppe
variabili non sono infatti ad esso riconducibili, dalle tensioni geopolitiche internazionali (specie quelle più contigue a noi) allo squilibrato arrivo e alla difficile integrazione degli stranieri, al crescente protagonismo femminile, alla tendenziale
desertificazione del Sud, alle delicate intense dialettiche bioetiche: tutti temi da ricondurre necessariamente a una carrellata analitica sulla società di oggi.
Non è però furbizia di giustificazione ricordare in questa sede che l’interpretazione
non può limitarsi alla carrellata analitica; deve invece mettere a fuoco il nucleo fondante dell’attuale momento della società. E tale momento si identifica con la com-
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presenza di sette mondi distinti e incomunicanti, operanti in orizzontale, che aumentano il carattere ad architettura distribuita della nostra società.
Qualcuno dei loro protagonisti cerca rapporti in verticale (magari di comando), senza
rendersi conto che sono ambizioni comprensibili e generose, ma destinate a restare
inoperanti. Lo dimostrano gli esiti non entusiasmanti delle istanze di verticismo dei
diversi livelli di autorità: quelli europei nei confronti delle politiche nazionali, quelli
statuali nei confronti dei soggetti territoriali, quelli di indirizzo politico verso l’inerzia ed estraneità dell’apparato amministrativo, e così via.
È verosimile che le sette giare vadano connesse per come sono, tramite una crescita
della politica come funzione di rispecchiamento e orientamento della società, lontana
dalla tradizionale identificazione con il peso e il valore dell’apparato statuale. Sono
evidenti le difficoltà che incontra una tale prospettiva in un momento storico in cui
la politica viene enfatizzata come arte del comando (e del comando in verticale),
ma si tratta di una torsione di responsabilità assolutamente necessaria se si vuole
evitare che la dinamica tutta interna alle sette giare porti a una perdita di energia
collettiva del sistema, a una inerte accettazione collettiva dell’esistente, al consolidarsi della grande articolata deflazione che stiamo attraversando: quella economica,
di cui tutti parlano; quella del numero e delle iniziative delle imprese; quella delle
aspettative individuali e collettive; quella della mobilità verticale (individuale e di
gruppo); quella della rappresentanza degli interessi collettivi; quella delle capacità
di governo ordinario (malgrado o forse a causa della proliferazione decretizia di tipo
verticistico).
Se la deflazione è così ampia e pervasiva, il timore emergente è che dovremo con
essa convivere a lungo, in una stabile mediocrità. Per questo si capisce la crescente
esigenza di una cultura politica che comprenda l’articolazione e la separatezza dei
mondi di vitalità e di potere oggi esistenti, e riannodi i loro meccanismi operativi e
di orientamento.
Può apparire strano questo riproporre un ruolo trainante a una politica che soffre di
un picco negativo di bassa reputazione e fiducia, di rancore diffuso, di anti-politica,
di rabbia per l’intreccio fra politica e potere statuale. Ma si può partire proprio dallo
sciogliere quest’ultimo intreccio, con le sue diverse configurazioni (burocratica, autoritativa, illiberale, corrotta, inefficiente, ecc.) e restituire alla politica il diritto-dovere di connettere le aspettative individuali con orizzonti ed energie mirate al futuro.
Devono valere le aspettative della gente, non la connessione di vertice fra politica e
Stato (che nel Paese è arrivata anche al “partito-Stato”).
Se la politica però vuole, nei confronti della dinamica sociale, essere arte di guida e
non coazione di comando, deve operare su se stessa una torsione profonda, almeno
in due direzioni.
In primo luogo, deve fare pulizia delle incrostazioni accumulatesi negli ultimi anni:
la tentazione al moralismo come strumento politico di divisione e di delegittimazione
delle controparti; la invadente ipocrisia con cui la cosiddetta società civile ha osta-
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colato ogni tentativo di decisionalità collettiva; l’innamoramento per i diritti che ha
trasformato in dispute e regolamentazioni giuridiche le spinte a una vitale libertà
personale; la propensione a un bipolarismo predicato senza mai avere chiaro quale
fosse il fundamentum divisionis; la presenza di una atonia intellettuale ben più velenosa della pur circolante atonia etica; la tentazione di una leadership costruita su
una empatia consensuale e generalista. Non avrà facile e immediato successo questo
impegno di pulizia mentale, ma è un compito che vale la pena di perseguire, nella
consapevolezza che si attuerà non in una svolta, ma in una lenta transizione, con
frutti di medio periodo.
La politica deve altresì poter riacquisire coscienza di alcuni suoi “fondamentali”, di
alcune non transeunti virtù: in primo luogo, l’aderenza spietata alla realtà (“le opinioni non radunano, la realtà è”), prosaicamente ricordando che il nostro sviluppo è
stato fatto da protagonisti magari conflittuali, ma legati sempre alla situazione reale
(da Valletta negli anni ’50 ai piccoli imprenditori degli anni ’70, all’esplosione del
made in Italy negli anni ’80); in secondo luogo, la fedeltà alle nostre radici (di “scheletro contadino”, come abbiamo scritto in altre occasioni) rivisitate non nella retorica
dei valori, ma nell’aderenza alla serietà e sobrietà comportamentale (Giulio Bollati,
che ruralista non era, invitando un amico scrive: “Qui troverai un po’ di erba e una
buona minestra di ceci”); in terzo luogo, non avere paura della dialettica, l’unico
strumento per confrontare opinioni, per maturare decisioni, per far crescere classe
dirigente; infine, il coraggio di non imporre i propri pensieri, ma di sollecitare gli
altri a pensare con la propria testa (anche quando si sospetta che non ce l’abbiano,
la testa).
Con questo doppio passo (liberarsi dalle incrostazioni e recuperare i fondamentali),
il fare politica può recuperare l’antica eredità dei greci (combinare pensiero alto e
contaminazione pratica) e può riprendere la sua funzione di promotore dell’interesse
collettivo. Addirittura con l’ambizione di essere quel “soggetto generale dello sviluppo” su cui si articolò con successo il ruolo dello Stato, che ha governato l’Italia
per lunghi decenni, poi intellettualmente e istituzionalmente soffocato dalla voglia
di potere, di comando, di dominanza dell’apparato pubblico, quella voglia ereditata
dai partiti.
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La società italiana al 2014
(pp. 1 – 78 del volume)
La numerazione di tabelle, tavole e figure riproduce quella del testo integrale
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
1. Una società satura dal capitale inagito
L’attendismo cinico delle famiglie liquide
Dopo la paura della crisi, è un approccio attendista alla vita che si va imponendo tra
gli italiani. Anche se molto lentamente, si va facendo strada la convinzione che il
picco negativo della crisi sia alle spalle (lo pensa il 47% degli italiani: il 12% in più
rispetto all’anno scorso), tuttavia ora è l’incertezza a prevalere. Non a caso, la gestione dei soldi da parte delle famiglie è fatta di breve e brevissimo periodo, di contante e depositi bancari. Nel periodo 2007-2013 tutte le voci delle attività finanziarie
delle famiglie sono diminuite, tranne la voce “biglietti, monete e depositi”, salita in
termini reali del 4,9%, arrivando così a costituire il 30,9% del totale (era il 27,3%
nel 2007). A giugno 2014 questa massa liquida è cresciuta ancora, fino a 1.219 miliardi di euro. Prevale un cash di tutela, con il 44,6% delle famiglie che destina esplicitamente il proprio risparmio alla copertura da possibili imprevisti, come la perdita
del lavoro o la malattia, e il 36,1% che lo finalizza alla voglia di sentirsi con le spalle
coperte. La parola d’ordine è: soldi vicini per ogni evenienza (tab. 3).
7DE/HIXQ]LRQLDWWULEXLWHDOULVSDUPLRGDOOHIDPLJOLHSHUWLWRORGLVWXGLR(val. %)
Nessuno/
Licenza
elementare
Licenza
media/
Qual. prof.
Diploma
Laurea
o superiore
Totale
Fare fronte a possibili imprevisti
(salute, disoccupazione, ecc.)
43,4
39,1
49,2
44,9
44,6
Dare sicurezza, sensazione di avere
le spalle coperte
23,5
34,5
36,1
47,9
36,1
Garantire una vecchiaia serena (per avere
in futuro un più alto tenore di vita)
39,8
31,6
24,4
26,5
28,5
3DJDUHO·HGXFD]LRQHGHLÀJOL
6,4
15,0
23,0
23,2
18,9
Affrontare spese importanti in futuro,
FRPHO·DFTXLVWRGLXQDFDVD
7,8
5,3
9,5
7,4
7,6
19,5
17,9
8,1
4,1
11,9
Nessuna funzione: risparmiare non serve
a molto, perché il potere di acquisto
diminuisce nel tempo
Il totale non è uguale a 100 perché erano possibili più risposte
Fonte: indagine Censis, 2014
Si può stimare in circa 410 miliardi di euro la spesa pagata in contanti dalle famiglie
italiane. Il contante utilizzato nei pagamenti a livello nazionale è pari al 41% del totale della spesa e sale al 54% nel Sud e addirittura al 65% tra le persone con titolo
di studio più basso. Il fiume di contanti non può non essere ricollegato alla vocazione
al nero, al sommerso, a una fuga dalla tassazione: strategie minute che creano reddito
e abbattono i costi. In fondo, la gestione del contante è anche un meccanismo funzionale alla immersione difensiva degli italiani. L’informale si alimenta anche di almeno 700.000 persone che esplicitamente dichiarano di affiancare al lavoro primario
13
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
regolare un secondo lavoro. Inoltre, si stima che almeno un quarto dei lavoratori dipendenti part time (oltre 500.000) siano fasulli, ossia che a orari dichiarati e contributi pagati riferiti al part time corrispondano nella realtà orari interi e retribuzioni
senza i contributi dovuti legalmente.
Si è dinanzi a microstrategie massificate di risposta adattiva a quella incertezza che
tutto pervade, laddove risultano coinvolte dalla crisi anche famiglie che in passato
erano rimaste illese. Si stimano in 6,5 milioni le persone che negli ultimi dodici
mesi, per la prima volta nella loro vita, hanno dovuto integrare il reddito familiare
mensile con risparmi, prestiti, anticipi di conto corrente o in altro modo, magari per
affrontare una spesa imprevista. C’è quindi una vulnerabilità diffusa, tanto che il
60% degli italiani ritiene che possa capitare a chiunque di finire in povertà, quota
che sale al 67% tra gli operai e al 64% tra i 45-64enni.
Dalla vulnerabilità le famiglie sentono di doversi proteggere da un lato tenendo disponibili i soldi per ogni evenienza, “pronto cassa”; dall’altro, abbattendo i costi di
acquisto di beni, servizi e prestazioni. In tale contesto, il sentiment generale delle
famiglie si riassume con poche parole: incertezza, inquietudine, ansia. Pensando al
futuro, il 29% degli italiani si dichiara inquieto perché ha un retroterra fragile, il
29% in ansia perché non ha una rete di copertura, il 24% dice di non avere le idee
chiare sul futuro perché tutto è molto incerto, e solo poco più del 17% dichiara di
sentirsi abbastanza sicuro e con le spalle coperte. Tra i giovani di 18-34 anni di età
sale al 43% la quota di chi si dichiara inquieto e con un retroterra fragile, e scende
ad appena il 12% la quota di chi si dichiara al sicuro (tab. 5).
7DE,OsentimentGHJOLLWDOLDQLULVSHWWRDOIXWXURXQFRQIURQWRWUDmillennials HSRSROD]LRQH
WRWDOH(val. %)
Millennials (18-34 anni)
Totale
Inquieto, ho un retroterra fragile
43,2
29,2
In ansia, non ho una rete di copertura
26,6
29,0
Non so, è tutto molto incerto
17,9
24,2
Abbastanza sicuro, con le spalle coperte
12,3
17,6
100,0
100,0
7RWDOH
Fonte: indagine Censis, 2014
L’attendismo cinico degli italiani si alimenta anche della prosaica convinzione che
in fondo ci sono alcune invarianti nei processi sociali quotidiani che con la crisi finiscono per patologizzarsi. Richiesti di indicare quali siano i fattori più importanti
per riuscire nella vita, è vero che il 51% degli italiani richiama una buona istruzione
e il 43% il lavoro duro, tuttavia per entrambe le variabili il valore italiano è inferiore
a quello medio europeo, pari rispettivamente al 63% per l’istruzione solida e al 46%
per il lavoro sodo. In Italia risultano molto più alte le quote di chi indica che servono
le conoscenze giuste (il 29% contro il 24% medio europeo) e il fatto di provenire da
una famiglia benestante (il 20% contro il 10%). Inoltre, il riferimento all’intelligenza
come variabile determinante per l’ascesa sociale coagula il 7% delle risposte in Italia:
il valore più basso in tutta l’Unione europea (tab. 6).
14
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
7DE2SLQLRQLVXLIDWWRULSLLPSRUWDQWLSHUDYHUHVXFFHVVRQHOODYLWDXQFRQIURQWRLQWHUQD]LRQDOH(val. %)
,WDOLD
Francia
Germania
Regno Unito
Ue
Avere una buona istruzione
51
66
82
73
63
Lavorare sodo
43
53
30
74
46
Conoscere le persone giuste
29
21
21
19
24
Avere fortuna
23
19
20
9
22
Venire da una famiglia benestante
20
5
7
7
10
Essere intelligenti
7
18
21
7
16
Essere un maschio
4
3
2
2
3
Il totale non è uguale a 100 perché erano possibili più risposte
Fonte: elaborazione Censis su dati Eurobarometro, 2014
L’atonia del grande capitalismo
(e la rivincita dell’economia di territorio)
Nel 2013 si è registrato il valore più basso degli investimenti, a prezzi costanti, degli
ultimi tredici anni. Considerando la fase più acuta della crisi (a partire quindi dal
2008), i dati fanno impressione: la flessione delle spese produttive è stata superiore
al 23%. Si sono ridotti di più di un quarto gli investimenti in hardware (-28,8%),
costruzioni (-26,9%), mezzi di trasporto (-26,1%), ma anche le spese per macchinari
e attrezzature (una delle voci più consistenti) hanno registrato una flessione del
22,9%. Se si considera l’ammontare degli investimenti realizzati nel 2007 come un
benchmark (369 miliardi di euro), si può dire che da allora fino al 2013 c’è stata una
mancata spesa cumulata per investimenti superiore a 333 miliardi di euro (fig. 1).
)LJ$QGDPHQWRGHJOLLQYHVWLPHQWLÀVVLORUGL(var. %)
Totale beni fissi
-23,1
Telecomunicazioni
7,9
R&S
5,7
Prodotti di proprietà intellettuale
-5,9
App. informatica e telecom.
-11,6
Software e database
-17,1
Macchinari, attrezzature
-22,9
Mezzi di trasporto
-26,1
Costruzioni
-26,9
Computer hardware
-28,8
-35
-30
-25
-20
-15
-10
-5
0
5
10
Fonte: elaborazione Censis su dati Istat
15
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
Eppure, a una così accentuata flessione delle spese produttive, determinata dalla recessione in atto e dalle aspettative negative, non è corrisposto un peggioramento di
eguale portata dei conti delle imprese e un proporzionale prosciugamento di risorse
liquide. Dal 2008 a oggi il margine operativo lordo delle imprese si è mantenuto
elevato e a tratti crescente. E il patrimonio netto disponibile delle imprese, oltre a
essere 5,8 volte l’ammontare degli investimenti fissi lordi, rivela un andamento crescente (fig. 2).
)LJ,QYHVWLPHQWLÀVVLORUGLPDUJLQHRSHUDWLYRORUGRHSDWULPRQLRQHWWRGHOOHLPSUHVH
(miliardi di euro)
Margine operativo lordo
Patrimonio netto
Investimenti fissi lordi
1.800
1.600
1.553
1.481
1.591
1.527
1.486
1.382
1.400
1.200
1.000
835
820
802
788
800
812
809
600
400
200
357
322
320
314
291
275
2008
2009
2010
2011
2012
2013
0
Fonte: elaborazione Censis su dati Istat
Questa discrasia tra risorse disponibili e ciclo declinante delle spese produttive non
ha precedenti e appare anche inutile cercarne le cause nel razionamento del credito,
ovvero nel presunto atteggiamento eccessivamente prudente del sistema bancario,
visto che è in calo la stessa domanda di provvista finanziaria, mentre crescono le risorse liquide disponibili delle imprese (circolante e depositi), passate dai 238 miliardi
di euro del 2008 agli attuali 274 miliardi (fig. 3).
Se il grande capitalismo familiare italiano appare quasi sotto assedio (la famiglia
Bulgari vende le quote di controllo della propria azienda al polo del lusso Lvmh,
Merloni Elettrodomestici cede all’americana Whirlpool dopo un periodo travagliato
di ridefinizione della governance interna, Brioni vende al francese Pinault, le preziose lane biellesi di Loro Piana passano al gruppo Louis Vuitton, per non citare la
fine disastrosa della famiglia Riva che dall’Italia guidava uno dei principali poli
mondiali dell’acciaio e la difficile ricerca di nuovi equilibri nel consiglio di amministrazione di uno dei campioni dell’industria italiana come Luxottica), resta una
carta vincente per il Paese il microcapitalismo di territorio. Ancora nel primo semestre del 2014 le esportazioni degli oltre 100 distretti industriali italiani (che contribuiscono a più di un quarto del valore aggiunto manifatturiero) sono cresciute del
4,2%, in termini tendenziali, a fronte di un incremento del 2,2% di aree simili, specializzate nel manifatturiero ma con una conformazione diversa da quella dei distretti, e a fronte di un incremento dell’1,2% dell’export manifatturiero complessivo.
Nel 2014 il fatturato dei distretti è stimato in crescita del 2,2% e del 4,7% nel 2015.
16
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
)LJ$WWLYLWjOLTXLGHGHOOHVRFLHWjQRQÀQDQ]LDULHFRQVLVWHQ]HGLFLUFRODQWHHGHSRVLWL,
WULPHVWUH(miliardi di euro)
300
279,3
238,1
250
200
273,7
183,6
150
100
50
0
2005
2008
2013
I trim. 2014
Fonte:HODERUD]LRQH&HQVLVVXGDWL%DQFDG·,WDOLD
La dissipazione del capitale umano
che non si trasforma in energia lavorativa
Se si guarda al numero di disoccupati, che nel 2013 sono più di 3 milioni, di cui più
della metà ha perso un posto di lavoro precedente, e aggiungiamo loro i circa
1.780.000 cittadini in età lavorativa inattivi perché scoraggiati e gli oltre 3 milioni
di persone che pur non cercando attivamente un lavoro sarebbero disponibili a lavorare, otteniamo nel complesso un capitale di quasi 8 milioni di individui che dovrebbero essere valorizzati e instradati verso il mercato del lavoro al fine di tradurre
il loro potenziale umano in energia lavorativa e produttiva (tab. 8).
È noto lo spreco di capitale umano tra le leve giovanili:
- i 15-34enni costituiscono il 50,9% dei disoccupati totali e, con la crisi, il loro numero è aumentato del 75,9%;
- se concentriamo l’analisi della dissipazione sulla fascia più giovane dei 15-29enni
che non sono impegnati nel ricevere un’istruzione o una formazione, non hanno
un impiego né lo cercano – ormai stigmatizzati con l’acronimo anglosassone Neet
–, è possibile osservare come questa sottopopolazione sia in continua crescita,
passando da quasi 1.946.000 di individui nel 2004 a 2.435.000 nel 2013.
Il potenziale femminile è anch’esso ampiamente mortificato: le donne costituiscono
il 45,3% dei disoccupati, ma soprattutto il 65,8% degli inattivi scoraggiati e il 60,6%
delle persone disponibili a lavorare.
17
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
7DE/HHQHUJLHGLVVLSDWHLOFDSLWDOHXPDQRQRQXWLOL]]DWR(v.a., migliaia e val. %)
2007
Capitale inutilizzato
Disoccupati totali (15 anni e più) (1)
mgl.
2013
val. %
mgl.
val. %
Var. %
2007-2013
1.506
6,1
3.113
12,2
106,7
Donne
784
52,0
1.411
45,3
80,1
Laureati
171
11,3
346
11,1
102,9
15-34 anni
900
59,8
1.584
50,9
75,9
Mezzogiorno
808
53,6
1.450
46,6
79,5
Da 12 mesi e più
704
46,8
1.755
56,4
149,2
Durata media della disoccupazione (mesi)
Disoccupati ex occupati (15 anni e più) (2)
19
22
15,8
633
42,0
1.664
53,5
162,9
Donne
260
41,1
609
36,6
133,9
Mezzogiorno
319
50,4
714
42,9
123,7
Da 12 mesi e più
240
38,0
820
49,3
240,9
1.287
8,8
1.790
12,4
39,1
Donne
900
69,9
1.178
65,8
30,9
Mezzogiorno
964
74,9
1.180
65,9
22,4
2.541
12,5
3.091
15,1
21,6
1.673
65,8
1.875
60,6
12,1
183
7,2
243
7,9
32,8
15-34 anni
1.187
46,7
1.263
40,9
6,4
Mezzogiorno
1.736
68,3
1.955
63,2
12,6
1.832
18,9
2.435
26,0
32,9
1.083
59,1
1.274
52,3
17,6
166
9,1
240
9,9
44,8
1.161
63,4
1.317
54,1
13,4
Inattivi “scoraggiati” (15-64 anni) (3)
Persone che non cercano lavoro ma
disponibili a lavorare (15-74 anni) (3)
Donne
Laureati
Neet (15-29 anni) (4)
Donne
Laureati
Mezzogiorno
(1) Il valore percentuale è calcolato rispetto alla popolazione in età attiva della stessa fascia di età
(2) Il valore percentuale è calcolato rispetto al totale disoccupati della stessa fascia di età
(3) Il valore percentuale è calcolato rispetto al totale inattivi della stessa fascia di età
(4) Il valore percentuale è calcolato rispetto alla popolazione della stessa fascia di età
Fonte: elaborazione Censis su dati Istat
A ciò si accompagna, sul fronte dell’occupazione, un disequilibrato e antieconomico
utilizzo dell’offerta di lavoro. I dati riportati nella tabella 9 evidenziano l’ampiezza
del capitale umano sottoutilizzato, composto dagli occupati part time involontari
(2,5 milioni di occupati nel 2013, più che raddoppiati rispetto al 2007), da quelli
che, seppure “volontari del part time”, sarebbero disponibili a lavorare per più ore
(642.000 persone), e dagli occupati in Cassa integrazione, il cui numero di ore è
passato nel periodo 2007-2013 da poco più di 184.000 a circa 1,2 milioni, corrispondenti a 240.000 lavoratori non utilizzati.
18
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
7DE/HHQHUJLHGLVVLSDWHLOFDSLWDOHXPDQRVRWWRXWLOL]]DWR(v.a., migliaia e val. %)
2007
2013
Var. %
2007-2013
mgl.
val. %
mgl.
val. %
364
1,6
642
2,9
76,2
Donne
237
65,2
393
61,3
65,6
15-34 anni
141
38,7
203
31,6
44,2
Mezzogiorno
134
36,9
186
29,0
38,6
1.216
38,5
2.470
61,6
103,1
Donne
872
71,7
1.729
70,0
98,2
15-34 anni
526
43,3
849
34,4
61,4
Mezzogiorno
467
38,4
790
32,0
68,9
4.434
19,1
4.378
19,5
-1,3
Laureati
1.747
39,4
1.808
41,3
3,5
Diplomati
2.228
50,2
2.335
53,3
4,8
Sottoccupati di 15 anni e oltre (1)
Occupati con part time involontario (2)
Occupati sottoinquadrati (1)
Ore di Cig (v.a.)
184.118
1.182.357
542,2
(1) Il valore percentuale è calcolato rispetto agli occupati della stessa fascia di età
(2) Il valore percentuale è calcolato rispetto agli occupati part time della stessa fascia di età
Fonte: elaborazione Censis su dati Istat e Isfol
Ma è soprattutto nel fenomeno dell’overeducation che si sostanzia la dissipazione
dell’energia lavorativa, in particolare quella espressa dalle giovani generazioni. Se
in valori assoluti nel periodo 2007-2013 diminuisce lievemente il numero di occupati
sottoinquadrati, che ricoprono cioè posizioni lavorative per le quali sarebbe sufficiente un titolo di studio inferiore a quello posseduto, il loro peso sul totale degli
occupati passa dal 19,1% al 19,5%, e si tratta sempre di più di 4 milioni di lavoratori.
Di questi, il 53,3% è costituito da diplomati, un esercito di 2,3 milioni di lavoratori,
e un ulteriore 41,3% da laureati (1,8 milioni di occupati).
Se si guarda all’overeducation degli occupati laureati disaggregata per l’indirizzo
di studi, si scopre che essa è più trasversale di quanto ci si aspetti. Se, infatti, risulta
elevata in lauree considerate deboli sul mercato del lavoro, come quelle in scienze
sociali e umanistiche (43,7%), è ancora più elevata tra i laureati in scienze economiche e statistiche (57,3%), e riguarda anche un ingegnere su tre. Solo il settore medico e infermieristico si posiziona ampiamente sotto la soglia del 20% (13,9%)
(tab. 10).
19
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
Tab. 10 - OvereducationWUDLGLSORPDWLHLODXUHDWLSHUDUHDGLVFLSOLQDUHHWLSRGLGLSORPD
(val. %)
Val. %
Laurea
Scienze mediche e infermieristiche
13,9
Architettura
27,3
*UXSSRVFLHQWLÀFR
30,8
Giurisprudenza
32,0
Ingegneria
33,0
Scienze sociali e umanistiche
43,5
Scienze economiche e statistiche
57,3
Altra laurea
7RWDOH
Diploma
Liceo classico
43,9
37,2
37,8
/LFHRVFLHQWLÀFR
35,2
Liceo linguistico
34,2
Altro liceo
63,4
Istituto tecnico
31,2
Istituto professionale
46,5
Altro diploma
28,6
7RWDOH
34,8
Fonte: elaborazione Censis su dati Istat
Il patrimonio culturale che non produce valore
Primo Paese al mondo nella graduatoria dei siti Unesco, sede di opere architettoniche
e artistiche uniche, con un’offerta culturale estremamente variegata (tav. 2), l’Italia
riesce solo in minima parte a mettere a valore il ricco patrimonio culturale di cui dispone. Con un numero di lavoratori nel settore (304.000, pari all’1,3% del totale)
pari alla metà di quello di Regno Unito (755.000) e Germania (670.000), e di gran
lunga inferiore rispetto a Francia (556.000) e anche Spagna (409.000), nel 2013 il
settore della cultura produceva un valore aggiunto di 15,5 miliardi di euro (contro i
35 miliardi della Germania e i 27 della Francia) e pesava solo per l’1,1% su quello
totale del Paese (meno che negli altri Paesi europei).
7DY,QXPHULGHOSDWULPRQLRFXOWXUDOHLWDOLDQRLVWLWX]LRQLSULQFLSDOLSDWULPRQLRVWRULFRDUFKLWHWWRQLFR´PLQRUHµFHQWULVWRULFLHERUJKL
Istituzioni
principali
Quasi 5.000 musei, monumenti e aree archeologiche fruibili: 424 statali e 4.340 non
statali.
Patrimonio
“minore”
In questa categoria rientrano siti culturali ben individuati e censiti come chiese
(85.000 soggette a tutela; di queste, 30.000 di rilevante valore), ville e palazzi nobiliari
(40.000), castelli (20.000), giardini storici (4.000) e conventi (1.500), ma anche quel
SDWULPRQLRFKHSXUDVVDLULOHYDQWHqGLIÀFLOHGDTXDQWLÀFDUHFRPHOHPDVVHULHOHWRUUL
costiere, gli eremi, ecc. disseminati nel territorio.
Centri storici
e borghi
/·,WDOLD q LO 3DHVH DO PRQGR FRQ LO PDJJLRUH QXPHUR GL VLWL 8QHVFR 'L TXHVWL XQD
buona parte coincide con centri storici o è rappresentata da monumenti o altre opere
DUFKLWHWWRQLFKHRVSLWDWHDOO·LQWHUQRGHOOHQRVWUHFLWWjHERUJKL$IURQWHGLFLUFD
comuni in Italia, si contano 7.800 centri storici, di cui 900 di principale rilevanza. La
UHWHGHL%RUJKLSLEHOOLG·,WDOLDSURPRVVDGDOO·$QFLFRQWDERUJKLGLJUDQGHYDORUH
quella del Touring Club (Bandiere arancioni) ne associa 198.
Fonte: elaborazione Censis su fonti varie
20
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
Mentre le principali economie europee, ad esclusione del Regno Unito, hanno registrato dal 2007 un significativo sviluppo del settore, sia in termini occupazionali che
economici, da noi la situazione è ben diversa: -1,6% tra il 2007 e il 2013 in termini
di valore aggiunto (contro il +4,8% della Germania e il +9,2% della Francia nel periodo 2007-2012) e +3,3% in termini occupazionali (contro il +10,9% della Germania e il +6,3% della Francia) (tab. 11).
7DE,OYDORUHRFFXSD]LRQDOHHGHFRQRPLFRGHOVHWWRUHFXOWXUDOHXQFRQIURQWRWUDO·,WDOLDHL
SULQFLSDOL3DHVL8H(migliaia, miliardi di euro, val. % e var. %)
V.a.
Incidenza %
sul totale
Numeri indice
(Italia=100)
Var. %
2007-2013
Regno Unito
755,0
2,6
248,3
0,7
Germania
670,0
1,6
220,3
10,9
Francia
555,9
2,1
182,8
6,3
Spagna
409,1
2,2
134,5
4,3
,WDOLD
304,1
1,3
100,0
3,3
Occupati (migliaia) (1)
Valore aggiunto (miliardi di euro) (2)
Germania
34,9
1,5
224,7
4,8
Francia
26,7
1,5
171,8
9,2
Regno Unito
23,5
1,5
151,3
-6,3
Spagna
16,9
1,8
108,8
0,6
,WDOLD
15,5
1,1
100,0
-1,6
(1) I dati di Regno Unito, Germania e Francia sono al 2012, quelli della Spagna al 2011
(2) I dati di Germania, Francia e Spagna sono al 2012, quelli del Regno Unito al 2011
Fonte: elaborazione Censis su dati Eurostat
Nel corso degli anni le politiche si sono indirizzate sempre più verso obiettivi di
conservazione e tutela dei beni a scapito sia della valorizzazione del capitale “giacente”, sia dello sviluppo di capitale culturale “vivente”, vale a dire la capacità di
sviluppare attività culturali che coinvolgessero la società e i suoi molteplici attori. I
lo sviluppo
un approccio
alla gestione più
modelli gestionali
hanno
ostacolato
di
imprenditoriale. Basti pensare a come finora è stato gestito il parziale ingresso dei
soggetti privati nei musei: una presenza che è ancora sostanzialmente limitata all’ambito dei cosiddetti “servizi aggiuntivi”, vale a dire la prenotazione di biglietti,
la gestione dei bookshop, della caffetteria e delle audioguide, che nel 2013 ha contabilizzato un fatturato del tutto risibile rispetto alle potenzialità del business, pari a
45 milioni di euro.
Certo, non aiuta la constatazione
al 2013 la quota
di
che dal
2010
italiani
che nel
corso dell’anno sono andati a un
museo
o a una mostra
è passata
dal 30,1%
al 25,9%,
a visitare siti archeologici e monumenti dal 23,2% al 20,7%, ad assistere a uno spet tacolo a teatro dal 22,5% al 18,5%, ad ascoltare un concerto di musica classica dal
10,5% al 9,1%.
21
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
2. La solitudine dei soggetti
I dispositivi di introflessione
di un popolo di singoli narcisisti e indistinti
Gli utilizzatori dei nuovi media rappresentano quote sempre più ampie di popolazione e crescono con un ritmo decisamente accelerato. Dai dati dell’ultimo Rapporto
sulla comunicazione del Censis emerge che, a fronte del 63,5% di italiani che utilizzano internet, gli utenti dei social network sono il 49% della popolazione e arrivano all’80% tra i più giovani di 14-29 anni (tab. 14). Considerando i dati relativi a
Facebook, il più diffuso tra i social network, tra il 2009 e il 2014 si è accentuato il
processo di saturazione già riscontrato per gli utenti più giovani. Il fenomeno più
significativo è certamente rappresentato dalla crescita dei fruitori della fascia adulta,
con incrementi del 153,4% per i 36-45enni e del 404,7% per gli over 55. Considerando il totale degli iscritti italiani a Facebook, le quote prevalenti sono rappresentate
dai 36-45enni (pari al 21,3% del totale degli iscritti) e dai 19-24enni (18,1%).
7DE*OLLWDOLDQLFRQQHVVL(val. %)
Totale
Giovani
(14-29 anni)
Adulti
(30-44 anni)
Utenti di internet complessivi
63,5
90,4
84,3
Utenti di internet abituali
56,5
84,4
78,3
Utenti di almeno un social network
49,0
79,8
68,8
Utenti di almeno uno tra smartphone, tablet, e-reader
43,8
70,5
63,1
Utenti di smartphone
39,9
66,1
58,9
(*) Popolazione di riferimento: 14-80 anni
Fonte: indagine Censis, 2013
Il mondo dei social network non è solo densamente abitato, ma anche ampiamente
frequentato, con connessioni continuate nel tempo. Delle 4,7 ore trascorse mediamente in un giorno su internet, 2 sono dedicate ai social network, con una modalità
di connessione praticamente continua grazie all’uso sempre più diffuso dei device
mobili. Il numero
a internet
di
chi accede
tramite
cellulare
in un giorno
medio (7,4
milioni di persone) è ormai più alto di quanti accedono solo da pc (5,3 milioni) o da
entrambi (7,2 milioni).
Una delle attività più praticate nella fruizione attiva dei social network consiste nell’upload di foto e video personali. Secondo i dati forniti da Global Web Index relativi
all’Italia, il 73% degli utenti che hanno utilizzato i social network nel 2013 ha indicato di aver caricato fotografie e di aver interagito con i contenuti postati. In Italia
sono circa 4 milioni gli utenti che utilizzano Instagram, dove il 58% dei contenuti
condivisi al giorno nel mondo (32 milioni giornalmente nel 2013) sono autoritratti
fotografici, i cosiddetti selfie.
22
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
La pratica diffusa del selfie diviene così l’evidenza fenomenologica incontrovertibile
della concezione dei media come specchi introflessi in cui riflettersi narcisisticamente, piuttosto che strumenti attraverso i quali scoprire il mondo e relazionarsi con
l’altro da sé. Non è contraddittorio, così, il dato che emerge da una rilevazione del
Censis secondo cui la solitudine è oggi una componente strutturale della vita delle
persone: il 47,2% degli italiani dichiara di rimanere solo durante il giorno per una
media quotidiana di solitudine pari a 5 ore e 10 minuti. Vivono di più la solitudine
nel quotidiano le donne (il 54% contro il 39,5% dei maschi), i residenti al NordOvest (52,3%) e al Nord-Est (58,2%), più che al Sud (38,4%), nonché le persone
più avanti con l’età, con 65 anni e oltre (55%). È come se ogni italiano vivesse 78
giorni di isolamento in un anno, senza la presenza fisica di alcuna altra persona.
Il bypass dei corpi intermedi
Dall’autunno 2011 è partita una stagione di riforme che ha portato a 86 decreti approvati dal Consiglio dei ministri e presentati al Parlamento per la conversione in
legge. Di questi, 72 sono stati convertiti in legge, 6 decreti sono confluiti in altri
provvedimenti e 3 sono in corso di conversione (a ottobre 2014). La tabella 17 riporta
una sintesi quantitativa dei 72 decreti:
- in sede di conversione in legge sono state introdotte oltre 1.300 modifiche, spesso
con la tecnica del maxi-emendamento approvato con voto di fiducia;
- successivamente alla conversione in legge, i testi sono stati nuovamente modificati più volte, quasi sempre con altri decreti legge e in alcuni casi per effetto di
sentenze della Corte Costituzionale;
- il testo complessivo in vigore al 1° ottobre 2014 corrisponde a un volume di circa
1,2 milioni di parole, vale a dire 11,6 volte la Divina Commedia di Dante.
7DE,SHUFRUVLGHOODGHFUHWD]LRQHG·XUJHQ]D
0RGLÀFKH
in sede di
conversione
0RGLÀFKH
successive (2)
Decreti legge
Convertiti in
legge (1)
Governo Monti
(novembre 2011-aprile 2013)
41
35
695
457
590.313
Governo Letta
(aprile 2013-febbraio 2014)
25
22
356
87
373.492
Governo Renzi
(febbraio-settembre 2014)
20
15
254
4
220.375
7RWDOH
86
72
1.305
548
1.185.171
Numero di
parole (3)
GHFUHWLVRQRFRQÁXLWLLQDOWULSURYYHGLPHQWLJOLXOWLPLGHFUHWLVRQRLQFRUVRGLFRQYHUVLRQHGDWLDO
6 ottobre 2014)
0RGLÀFKHLQWHUYHQXWHDOWHVWRFRPHFRQYHUWLWRLQOHJJH
(3) Parole che compongono il testo in vigore al 6 ottobre 2014 con esclusione degli elenchi allegati
Fonte: Censis, 2014
23
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
La trappola della promessa che non si traduce in processi (amministrativi, economici,
sociali) e la lunga strada dei decreti non hanno ancora portato concretamente al decollo dello sviluppo e dell’occupazione. Il ripetuto richiamo alla straordinaria urgenza delle riforme e il conseguente ricorso alla decretazione ha una duplice chiave
di lettura fenomenologica: da un lato, è l’effetto di un progressivo aggiramento da
parte della politica delle diverse componenti istituzionali; dall’altro, la causa di
un’accelerazione nel bisogno degli organi di governo di parlare direttamente agli
elettori. Si viene in questo modo a creare un circuito vizioso nel quale la dimensione
intermedia della vita collettiva si macera nella crisi della politica e quest’ultima alimenta la disintermediazione dei rapporti tra istituzioni e cittadini annunciando nuove
riforme: unica risposta possibile al ritardo degli effetti di quelle già avviate.
Il decreto legge assunto come strumento di governo e il parlare direttamente ai cittadini hanno però un difetto strutturale: obbligano tutti a una lettura superficiale, a
grana grossa, delle azioni necessarie a uscire dalla paura e dalla crisi di fiducia che
bloccano il Paese. L’aggiramento delle mediazioni istituzionali e la disintermediazione attraverso i social network, se efficaci sotto il profilo della comunicazione,
comportano un sostanziale appiattimento delle differenze: nero o bianco, dentro o
fuori, a favore o contro. E impediscono di lavorare sulle basi amministrative delle
riforme come frutto di un’intelligente mediazione.
Le scissioni territoriali e sociali
che corrodono il ceto medio
In un contesto nazionale in cui, negli anni della crisi, le disuguaglianze sociali si
sono ampliate, il ceto medio si è indebolito, le opportunità di integrazione sono diminuite, particolarmente grave ed evidente risulta lo slittamento verso il basso delle
grandi città del Sud. Lo dimostrano in modo evidente i dati della tabella 19, che mettono impietosamente a confronto Napoli, Bari, Palermo e Catania con Milano, Bologna e Roma. Il tasso di occupazione dei 25-34enni oscilla tra il 34,2% di Napoli
e il 79,3% di Bologna, la quota di persone con titolo di studio universitario passa
dall’11,1% di Catania al 20,9% di Milano, il tasso di astensionismo alle ultime elezioni è pari al 59,7% a Palermo e scende al 34,9% a Bologna, gli evasori del canone
Rai sono il 58,9% a Napoli ma diminuiscono al 26,8% a Roma, a Bari solo 2,8 bambini di 0-2 anni ogni 100 sono presi in carico dai servizi comunali per l’infanzia
contro i 36,7 di Bologna, a Palermo ci sono appena 3,4 mq per abitante di verde urbano rispetto ai 22,5 bolognesi, la percentuale di raccolta differenziata dei rifiuti si
ferma al 10,6% nel capoluogo siciliano mentre arriva al 38,2% nel capoluogo lombardo.
Per un Paese come l’Italia, che ha fatto della coesione sociale un valore centrale e
che si è spesso ritenuto indenne dai rischi connessi alle fratture sociali che si ritrovano nelle banlieue parigine o nei quartieri degradati della inner London, le proble-
24
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
maticità ormai incancrenite di alcune zone ad elevatissimo degrado non possono essere ridotte a una semplice eccezione alla regola del “buon vivere”.
7DE, QXPHUL GHO SHUPDQHQWH GLYDULR WUD OH JUDQGL FLWWj GHO 6XG H TXHOOH GHO &HQWUR1RUG
(val. %)
Indicatori
Napoli
Bari
Palermo
Catania
Milano
Bologna
Roma
Tasso di occupazione
25-34 anni (1)
34,2
50,2
36,3
38,1
78,2
79,3
63,6
Persone con titolo di studio
universitario
11,7
14,1
11,6
11,1
20,9
22,9
18,5
Livello di competenza alfabetica
degli studenti
(numeri indice: Italia =200)
185,9
197,6
188,6
n.d.
203,4
209,5
200,9
Astenuti alle elezioni europee
del 2014
56,6
(2)
59,7
60,2
40,0
34,9
48,0
Famiglie che non pagano
il canone Rai
58,9
21,8
55,6
58,1
37,4
25,8
26,8
Passeggeri annui del trasporto
pubblico per abitante
173,2
63,4
42,9
57,7
689,2
246,4
438,2
Presa in carico dai servizi
FRPXQDOLSHUO·LQIDQ]LD
(per 100 bambini di 0-2 anni)
2,2
2,8
4,8
n.d.
25,3
36,7
17,6
Verde urbano pubblico fruibile
(mq/ab.)
4,4
5,3
3,4
7,5
12,3
22,5
16,7
Cinema (schermi ogni 10.000
abitanti)
0,37
0,60
0,40
0,68
0,64
0,85
0,86
Vetture Euro 0, 1 e 2 sul parco
auto circolante
54,3
30,9
37,6
49,3
27,7
24,8
28,6
Raccolta differenziata
21,8
21,0
10,6
12,8
38,2
35,4
25,7
(1) Dato provinciale
(2) Il dato di Bari non è comparabile, perché si votava anche per le comunali
Fonte: elaborazione Censis su fonti varie
L’adattamento interstiziale degli immigrati
In un anno ancora di crisi economica, in cui sono aumentate le divaricazioni territoriali e sociali, c’è un segmento della società che, seppure faticosamente, continua
a dare segnali di vitalità. Si tratta degli immigrati che hanno scelto di vivere stabilmente nel nostro Paese e che, pur mantenendo intatta la propria soggettività, reagiscono alla crisi inserendosi negli spazi lasciati liberi dai nostri connazionali, in alcuni
casi cercando di fare mixité tra la propria cultura e la nostra.
Negli anni della crisi, le imprese con titolare straniero in Italia sono passate da
312.838 a 399.764, con una crescia del 27,8% nei sette anni considerati e del 2%
solo nell’ultimo anno. Tra gli stranieri sono particolarmente vitali gli extracomunitari, che in tutto il periodo crescono del 31,4% e del 2,7% quest’anno. Tutto ciò avviene mentre le imprese gestite dagli italiani calano del 10% (-1,6% nell’ultimo
anno) (tab. 20).
Sono due i settori in cui gli stranieri stanno esercitando maggiormente la loro capacità di fare impresa e di infilarsi silenziosamente nelle nostre radici e nelle nostre
tradizioni: il commercio e l’artigianato.
25
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
7DE7LWRODULG·LPSUHVDSHUQD]LRQDOLWj(v.a., val. % e var. %)
2008
Nazionalità
v.a.
2013
val. %
v.a.
2014 (1)
val. %
v.a.
Var. %
Var. %
val. % 2008-2014 2013-2014
Stranieri (2)
312.838
9,2
391.786
12,2
399.764
12,6
27,8
2,0
Extra Ue
239.296
7,1
306.322
9,5
314.488
9,9
31,4
2,7
Italiani
3.076.230
90,8
2.815.220
87,8
2.769.892
87,4
-10,0
-1,6
7RWDOH
3.389.068 100,0
3.169.656 100,0
-6,5
-1,2
3.207.006 100,0
(1) Dato di stock provvisorio al II trimestre
&RPSUHQGRQRXQDTXRWDDQD]LRQDOLWjQRQFODVVLÀFDWD
Fonte: elaborazione Censis su dati Infocamere
Le imprese di commercio al dettaglio gestite da stranieri sono complessivamente
125.965, rappresentano il 15% del totale e sono cresciute del 13,4% dal 2011 a oggi,
mentre quelle italiane si sono ridotte del 2,4%. In particolare, nel commercio al det fissa
scomparsa
di circa
taglio in sede
abbiamo
assistito
alla
10.000
negozi su tutto
il territorio nazionale. I negozi gestiti dagli stranieri, invece, che sono 40.504 e rappresentano il 6,2% del totale, crescono di oltre 3.000 unità, con una variazione positiva del 9,2%. E i dati relativi ai primi sei mesi del 2014 confermano questa
tendenza. Aumenta, in particolare, il comparto alimentare, che conta 5.031 punti
vendita e cresce
del 22% nei due anni considerati. L’incremento risulta addirittura
del 33,9% per i negozi di frutta e verdura, che a fine 2013 erano 1.827 e rappresentavano il 10% dei negozi di questo tipo aperti sul territorio nazionale. Per il resto, si
segnala l’aumento dei negozi non specializzati, una sorta di empori che vendono
merci di ogni tipo: nel 2013 erano 10.342 e dal 2011 sono aumentati del 18,2%. Ci
sono poi alcuni comparti in cui gli immigrati si vanno specializzando, quali le rivendite di apparecchiature informatiche e di telefonia (+15,8% in due anni), i fiorai
(+7,7%) e i tabaccai (+11%). Ma il segmento del commercio in cui gli immigrati
ormai la fanno da padroni è quello dell’ambulantato: un settore che negli ultimi due
anni mostra una buona vitalità complessiva, con una crescita di oltre 7.000 imprese
registrate. Tale crescita è dovuta interamente agli stranieri, che sono passati dalle
73.959 imprese ambulanti registrate nel 2011 alle 85.461 del 2013 (+15,6%). Il risultato è che i venditori ambulanti stranieri rappresentano oggi il 46,8% del totale,
ma sono decisamente la maggioranza nella vendita dei prodotti di abbigliamento e
dei non alimentari.
Il moltiplicarsi dell’offerta ha provocato un cambiamento nelle abitudini di spesa
degli italiani. Una indagine del Censis testimonia come sono più di 33 milioni gli
italiani che si recano, almeno qualche volta, a fare la spesa in negozi gestiti da immigrati, e di questi circa 6 milioni vi si recano regolarmente. I più frequentati risultano i negozi di casalinghi, ovvero i mini-empori dove si trova di tutto (vi si servono
regolarmente quasi 3,5 milioni di persone), seguono gli alimentari (dove gli acquirenti superano i 2,6 milioni), i negozi che vendono saponi e detersivi, quelli di frutta
e verdura.
26
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
Nel 2013 le imprese artigiane straniere erano 175.039, con una crescita del 2,9%
negli ultimi due anni, quando le imprese italiane sono calate del 4,5%, e impiegano
284.613 addetti (+1,3% rispetto al 2011). Le attività cui si dedicano maggiormente
gli stranieri sono i lavori di costruzione e di rifinitura degli edifici. In particolare, si
contano 91.706 imprese specializzate nel settore, che rappresentano circa un quinto
del totale delle imprese, e 15.840 ditte che si occupano della costruzione propriamente detta (tab. 22).
7DE/HLPSUHVHDUWLJLDQHVWUDQLHUHSHUVHWWRUHGLDWWLYLWjHFRQRPLFD(v.a., val. %
e var. %)
Imprese artigiane
Straniere
Settori di attività economica
Lavori di costruzione specializzati
v.a.
Italiane
val. %
var. %
sul totale 2011-2013
var. %
2011-2013
91.706
21,3
0,0
-5,8
4.962
3,7
3,4
-2,7
15.840
13,5
-4,4
-8,9
Confezione di articoli di abbigliamento e in pelle
9.588
31,6
6,3
-8,9
$WWLYLWjGLVHUYL]LSHUHGLÀFLHSDHVDJJLR
8.095
20,4
20,6
6,4
Altre attività di servizi per la persona
7.780
5,2
11,2
-0,8
Lavanderia e pulitura di articoli tessili e pelliccia
1.216
7,4
1,8
-7,9
Servizi dei parrucchieri e di altri trattamenti estetici
5.920
4,6
8,0
-0,9
Attività dei servizi di ristorazione
7.434
15,0
15,2
0,0
Trasporto terrestre e trasporto mediante condotte
6.347
6,9
1,8
-5,6
-8,6
Installazione di impianti elettrici, idraulici e altri
&RVWUX]LRQHGLHGLÀFL
5.593
8,8
0,7
Fabbricazione di prodotti in metallo
Trasporto di merci su strada
4.759
6,8
-2,1
-6,7
Fabbricazione di articoli in pelle e simili
3.370
25,5
16,7
-6,1
&RPPHUFLRDOO·LQJURVVRHDOGHWWDJOLRHULSDUD]LRQH
di autoveicoli e motocicli
2.243
2,8
11,6
-2,9
2.169
2,8
11,1
-3,0
7RWDOHLPSUHVH
175.039
12,4
2,9
-4,5
7RWDOHDGGHWWL
284.613
9,1
1,3
-6,9
Manutenzione e riparazione di autoveicoli
Fonte: elaborazione Censis su dati Infocamere
La sommersa esigenza di un nuovo umanesimo
La crisi economica, che continua a mordere individui e famiglie, accresce ansie e
inquietudini. È difficile cogliere tracce di una nuova fiducia nel futuro e negli altri.
Solo il 20,4% degli italiani pensa che gran parte della gente sia degna di fiducia,
mentre il restante 79,6% è invece convinto che bisogna stare molto attenti (tab. 23).
La propria personalissima crescita umana sta diventando l’unica certezza. Non vi
contribuisce più il territorio (troppo violato fisicamente e moralmente per sentirlo
proprio), né il lavoro (che spesso non è quello che si vorrebbe), non il reddito (sempre più incerto), né i consumi (che si riducono). Secondo gli italiani l’identità si
fonda soprattutto sulla nostra natura, sul nostro carattere e sull’educazione ricevuta,
sul bagaglio di principi che custodiamo, sul capitale di conoscenze che possediamo
nella nostra mente, sulla nostra interiorità (tab. 24).
27
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
7DE/DVÀGXFLDQHJOLDOWUL(val. %)
3HQVDFKHFLVLSRVVDÀGDUHGHOODPDJJLRUSDUWHGHOODJHQWH
oppure bisogna stare molto attenti?
Val. %
Bisogna stare molto attenti
79,6
*UDQSDUWHGHOODJHQWHqGHJQDGLÀGXFLD
20,4
7RWDOH
100,0
Fonte: indagine Censis, 2014
7DE2SLQLRQLVXLIDWWRULVXFXLVLIRQGDO·LGHQWLWj(val. %)
&ODVVHG·HWj
Sesso
Maschio Femmina
18-29
anni
30-44
anni
45-64
anni
65 anni
e oltre
Totale
51,3
/·HGXFD]LRQHULFHYXWD
57,1
45,5
47,6
49,3
52,8
54,5
/·LVWUX]LRQHHODFXOWXUD
46,8
44,0
51,2
36,1
49,3
47,3
45,5
Il carattere personale
40,9
49,5
44,0
47,5
46,3
41,0
45,1
Gli interessi e le passioni
33,3
37,0
50,6
30,4
32,7
33,3
35,2
Il territorio in cui si è nati
21,1
16,8
22,3
21,4
15,6
18,5
19,0
La famiglia di provenienza
16,6
19,8
13,3
22,9
16,8
18,0
18,2
Il lavoro
18,5
10,3
7,8
17,1
15,9
14,0
14,5
La nazionalità
9,2
8,9
10,2
6,1
8,6
12,6
9,0
Il territorio in cui si vive
7,0
4,8
3,0
6,8
6,8
5,9
6,0
Il genere (maschio o femmina)
2,9
8,1
3,0
6,1
6,8
4,5
5,5
Il tipo di consumi
2,9
4,0
4,2
4,3
4,1
0,9
3,5
Il livello di reddito
3,5
3,2
4,8
3,2
3,5
2,3
3,4
Altro
0,8
0,8
1,2
0,4
0,9
0,9
0,8
Il totale non è uguale a 100 perché erano possibili più risposte
Fonte: indagine Censis, 2014
3. L’Italia fuori dall’Italia
Il rischio di stare ai margini
dell’economia mondiale dei flussi
A causa della prolungata recessione, l’Italia rischia di restare ai margini dell’economia dei flussi, ultima incarnazione dei processi di globalizzazione dei mercati e degli
scambi. La quota dell’Italia sul volume globale delle esportazioni di merci si è atte
stata nel 2013
al 2,83%,
con
un incremento rispetto al 2012 del 3%. A livello mondiale, l’incremento è stato del 2%. Sul versante dei servizi commerciali, l’Italia copre
una percentuale di esportazioni pari al 2,37%. La crescita di questa partita negli ul
timi due anni è stata pari al 6%, in linea con quanto è accaduto a livello mondiale.
Ma la quota italiana di investimenti diretti dall’estero, che hanno raggiunto nel 2013
i 1.400 miliardi di dollari a livello globale, è pari solo all’1,17%.
28
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
Nel periodo precedente all’esplodere delle turbolenze finanziarie, i flussi in entrata
si erano attestati a un livello superiore ai 30 miliardi di euro; nel 2011 il relativo
rimbalzo del Pil aveva portato l’afflusso a meno di 25 miliardi; dopo un modestissimo risultato nel 2012 (appena 72 milioni di euro), nel 2013 si è potuto registrare
un dato superiore ai 12 miliardi. Le consistenze degli investimenti esteri sfiorano in
questi anni i 300 miliardi di euro, con un incremento tra il 2012 e il 2013 del 6,2%.
Per contro, i flussi in uscita degli investimenti da parte di operatori italiani sono stati
pari a circa 24 miliardi di euro nel 2013, portando lo stock di investimenti a oltre
430 miliardi, con un incremento nell’ultimo anno del 7% (tab. 27).
7DE*OLLQYHVWLPHQWLQHWWLGLUHWWLHVWHULGHOO·,WDOLD (milioni di euro e var. %)
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013
11.503
31.652
34.912
70.310
45.740
15.313
24.655
38.575
6.211
23.847
175,2
10,3
101,4
-34,9
-66,5
61,0
56,5
-83,9
283,9
18.729
33.943
32.038
-7.404
14.453
6.931
24.691
72
12.432
15,5
81,2
-5,6
-123,1
-295,2
-52,0
256,2
Flussi
Investimenti
GLUHWWLDOO·HVWHUR
Var. %
VXOO·DQQRSUHF
Investimenti
GLUHWWLGDOO·HVWHUR
Var. %
VXOO·DQQRSUHF
16.209
-99,7 17.166,7
Consistenze
Investimenti
GLUHWWLDOO·HVWHUR
Var. %
VXOO·DQQRSUHF
170.678 207.299 237.818 283.857 317.876 337.622 366.451 401.645 405.515 433.875
21,5
14,7
19,4
12,0
6,2
8,5
9,6
1,0
7,0
Investimenti
GLUHWWLGDOO·HVWHUR 170.172 201.300 237.254 255.766 235.619 252.969 245.515 274.462 275.598 292.761
Var. %
VXOO·DQQRSUHF
18,3
17,9
7,8
-7,9
7,4
-2,9
11,8
0,4
6,2
Fonte: HODERUD]LRQH&HQVLVVXGDWL%DQFDG·,WDOLD
Fra le categorie dei flussi indotte dalla integrazione di reti e di scambi, un ruolo significativo per l’Italia, in termini di attrattività, è rappresentato dai viaggi e dal turismo. Su un volume che a livello mondiale ha superato il miliardo di viaggiatori
nel 2013, l’Italia ha coperto una quota del 4,5% con quasi 49 milioni di unità. La rilevanza di questo settore per l’Italia, fra i primi cinque Paesi al mondo come destinazione, è strategica. Le previsioni di incremento dei viaggiatori al 2020 indicano
un volume che si potrà attestare a 1,3 miliardi, mentre alla fine del prossimo decennio potrebbe raggiungere 1,8 miliardi.
Ma l’intensificazione degli scambi e dei flussi viaggia anche attraverso l’integrazione di internet. Circa il 12% della quota mondiale di scambi di merci nel 2013 ricade nella categoria del commercio digitale; nel 2005 la quota era del 3%. Su un
totale di oltre 31.000 gigabyte per secondo che transitano su internet, solo il 2,5% è
riconducibile al traffico di matrice italiana.
29
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
La separatezza dai poteri reali in Europa
Gli italiani sono meno fiduciosi nell’operato dei principali luoghi del potere europeo.
Il 33% degli italiani ha fiducia nel Parlamento europeo (contro il 37% medio europeo), il 28% della Commissione europea (32% media Ue) e il 22% alla Banca centrale europea (31% media europea). Alle elezioni per il Parlamento europeo di
giugno l’affluenza alle urne dei cittadini italiani è stata pari al 57,2% (dato inferiore
alla partecipazione media nel caso delle elezioni politiche in Italia), mentre quella
complessiva si è fermata al 42,5%. I cittadini italiani ed europei, del resto, tracciano
un profilo dell’Unione europea tutt’altro che positivo: il 64% degli italiani e il 69%
degli europei percepisce l’Unione coe “burocratica”, il 57% in Italia e il 55% in Europa la considera “lontana”, solo il 29% degli italiani (contro il 45% medio europeo)
vede nell’Unione un fattore di protezione rispetto a condizioni di crisi e disagio,
mentre è considerata un’organizzazione efficiente dal 33% (31% media Ue). E mentre il 42% degli europei pensa che la propria voce conti in Europa, la percentuale
scende al 19% tra gli italiani.
Nella mappa delle principali istituzioni europee, gli italiani (che pesano per il 12%
in termini di popolazione sul totale dell’Unione a 28 Stati) che oggi occupano posizioni di vertice sono 178 su 2.242 (il 7,9%), tra cui 4 Direttori generali e 3 Vicedirettori generali della Commissione europea.
Al potere formale delle istituzioni è stata spesso affiancata l’attività di condizionamento delle decisioni da parte dei gruppi di interesse. L’azione dei lobbisti è in parte
evidenziata dalla presenza nel Registro di trasparenza voluto dall’Unione europea.
Ad oggi, risultano inserite in questo registro circa 6.600 organizzazioni, di cui poco
meno di 3.300 sono riconducibili, secondo le categorie riportate dal registro, a lobby
o associazioni professionali e commerciali, mentre sarebbero 1.700 le organizzazioni
non governative e 800 le società di consulenza o i consulenti che agiscono in forma
individuale.
Su 700 lobby attive in ambito finanziario a Bruxelles, più di 140 hanno sede nel
Regno Unito, seguono Germania, Francia e Stati Uniti con quote per tutti e tre i
Paesi pari alla metà di quella inglese. E sono proprio americane le società che dichiarano la spesa più alta in attività di lobby a Bruxelles. In particolare, Philip Morris
con 5 milioni di euro, la ExxonMobil con 4,7 milioni, Microsoft con 4,5 milioni. La
società europea che dichiara l’importo maggiore è invece la tedesca Siemens, seguita
dalla Shell e dalla francese Gdf Suez. La presenza italiana è riconducibile a circa 30
organizzazioni: un dato questo che, se confrontato con quanto riportato per il Regno
Unito, la Germania e la Francia, potrebbe in parte confermare la nostra scarsa capacità di incidere nelle fasi e nelle sedi strategiche di decisione.
30
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
7DE/·,WDOLDQHOO·8QLRQHHXURSHDSUHVHQ]DGLFRPSRQHQWLLWDOLDQLQHOOHLVWLWX]LRQL(v.a.
e val. %)
Di cui: italiani
N. componenti
v.a.
val. %
751
73
9,7
30
1
3,3
280
10
3,6
103
2
1,9
Commissione europea
28
1
3,6
Direttori generali
35
4
11,4
Vicedirettori generali
38
3
7,9
Corte di giustizia
37
2
5,4
Tribunale
28
1
3,6
7
1
14,3
Parlamento europeo
Consiglio europeo
&RQVLJOLRGHOO·8QLRQHHXURSHD
Comitato rappresentanti permanenti (designati)
&RUWHGLJLXVWL]LDGHOO·8QLRQHHXURSHD
Tribunale della funzione pubblica
Banca centrale europea
6
1
16,7
Consiglio direttivo
Comitato esecutivo
24
2
8,3
Consiglio generale
30
2
6,7
Corte dei conti europea
28
1
3,6
6HUYL]LRHXURSHRSHUO·D]LRQHHVWHUQD
17
2
11,8
Comitato economico e sociale europeo
353
24
6,8
Comitato delle regioni
353
40
11,3
Board of Governors
28
1
3,6
Board of Directors
29
1
3,4
Comitato esecutivo
9
1
11,1
Audit committee
6
0
0,0
Top management
11
3
27,3
Consiglio direttivo
7
1
14,3
Mediatore europeo
1
0
0,0
Garante europeo della protezione dei dati
2
1
50,0
Banca europea per gli investimenti
Fondo europeo per gli investimenti
Scuola europea di amministrazione
7RWDOH
$JHQ]LHGHOO·8H
1
0
0,0
2.242
178
7,9
46
2
4,3
Agenzie decentrate
37
2
5,4
Agenzie esecutive
6
0
0,0
Agenzie Euratom
2
0
0,0
Istituto europeo di innovazione e tecnologia
1
0
0,0
Fonte: elaborazione Censis su dati istituzioni europee
L’Italian way of life: cosa piace di noi all’estero
L’interesse suscitato all’estero dall’Italia, sebbene non adeguatamente sfruttato, non
sembra conoscere crisi. Aumentano le presenze turistiche straniere (viaggiatori per
numero di notti trascorse): 186,1 milioni nel 2013 e 20,7 miliardi di euro spesi. I
visti per l’ingresso dall’estero sono raddoppiati rispetto al 2004 sotto la spinta di
Russia e Cina. L’export delle “4 A” del made in Italy (alimentari, abbigliamento, arredo-casa e automazione) è aumentato del 30,1% in quattro anni (tav. 5).
31
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
7DY/·,WDOLDQHOPRQGRFUHVFHO·LQWHUHVVHHDXPHQWDQRLtestimonial
La crescita
di interesse
SHUO·,WDOLD
/·DXPHQWR
dei potenziali
testimonial
Il turismo straniero
Sono in continua crescita le presenze turistiche: 166,1
milioni nel 2010, 183,5 milioni nel 2012, 186,1 milioni
QHO/·,WDOLDULPDQHODPHWDWXULVWLFDDOPRQGR
La spesa dei turisti
e dei viaggiatori
Nel 2013 i turisti stranieri hanno speso 20,7 miliardi
di euro (+6,8% rispetto al 2012). La spesa totale dei
viaggiatori nel 2013 è di 33,1 miliardi di euro (+3,1%).
/·LQJUHVVRQHO3DHVH
1HO VRQR VWDWL ULODVFLDWL YLVWL SHU O·LQJUHVVRGDOO·HVWHURLOGRSSLRGHOHLOLQSL
ULVSHWWRDOSHUO·HUDULRTXHVWRYDOHPLOLRQLGL
HXUR/·,WDOLDqLOƒ3DHVHGHOO·DUHD6FKHQJHQGRSROD
Francia. I visti per turismo sono aumentati del 21,5%
nel 2013. Forte incremento di Russia e Cina (primi due
Paesi per visti rilasciati).
/·H[SRUW
'RSR LO FDOR GHO O·H[SRUW LWDOLDQR KD ULSUHVR D
FUHVFHUHWUDLOHLOGHOO·H[SRUW
PRQGLDOH ,O YDORUH GHOO·LQWHUVFDPELR PDQLIDWWXULHUR
nel 2013 è di circa 98 miliardi di euro. Le esportazioni
delle “4 A” del made in Italy (alimentari, abbigliamento,
arredo-casa e automazione) sono cresciute del 30,1%
tra il 2009 e il 2013. Le aziende che hanno esportato
nel 2013 sono 211.756 (+1,3% rispetto al 2012).
Le ricerche online
&UHVFHVXLQWHUQHWO·LQWHUHVVHSHULSURGRWWLLWDOLDQLQHO
2013 +12% di ricerche relative ai settori del made in
Italy).
Gli italiani residenti
DOO·HVWHUR
1HOPRQGRFLUFDPLOLRQLGLSHUVRQHYDQWDQRXQ·RULJLQHLWDOLDQD*OLLWDOLDQLRJJLLVFULWWLDOO·$LUH$QDJUDIHGHJOLLWDOLDQLUHVLGHQWLDOO·HVWHURVRQR
rispetto al 2013). Nel 2013 sono espatriati 94.126
italiani (per il 36,2% giovani tra 18 e 34 anni). Tutte
OHSULPHFRPXQLWjLWDOLDQHDOO·HVWHURVRQRFUHVFLXWH
QHOO·XOWLPRDQQROHSLQXPHURVHVRQRTXHOODDUJHQWLna (836.736), tedesca (704.135) e svizzera (582.172).
*OLLWDOLDQLHPLJUDWLDOO·HVWHURQHOO·XOWLPRDQQRVRQRSHU
il 27,6% laureati (dieci anni fa erano il 12%).
Le imprese italiane
DOO·HVWHUR
/HLPSUHVHDFRQWUROORLWDOLDQRSUHVHQWLDOO·HVWHURVRQR
21.682. Sono presenti in 161 Paesi con 1,7 milioni di
addetti e 510 miliardi di euro di fatturato.
Le catene italiane
in IUDQFKLVLQJ
Nel 2013 si rilevano 149 reti di IUDQFKLVLQJ italiano
DOO·HVWHURSHUXQWRWDOHGLSXQWLYHQGLWD
rispetto al 2011). Ai primi posti abbigliamento, enogastronomia e accessori moda.
/·LQWHUHVVHSHUODOLQJXD Nel mondo circa 200 milioni di persone sono in grado
italiana
di parlare italiano (75 milioni come prima lingua e 125
milioni come seconda). Nel 2013 297.675 persone (più
della metà adulti) hanno seguito un corso di lingua itaOLDQDDOO·HVWHUR,,VWLWXWLGLFXOWXUDLWDOLDQDDOO·HVWHUR
hanno accolto circa 70.000 corsisti.
Studenti e ricercatori
Sono attualmente 2.693 i ricercatori italiani impegnati
DOO·HVWHUR*OLVWXGHQWLLWDOLDQLFKHVRJJLRUQDQRDOO·HVWHro attraverso il programma Erasmus sono 25.805.
Fonte: elaborazione Censis su fonti varie
Questo interesse continuerà ad aumentare nei prossimi anni in ragione della crescita
dei testimonial dell’Italia nel mondo, pensando alle presenze capillarmente diffuse
nel mondo di italiani, aziende italiane, prodotti e brand italiani. Tutte le comunità
italiane nel mondo crescono numericamente e aumenta il livello di istruzione degli
italiani che espatriano: oggi il 27,6% di coloro che emigrano possiede una laurea,
ma non si andava oltre il 12% tra le uscite dello scorso decennio. Sempre più persone
parlano la lingua italiana, e non solo per i circa 60 milioni di persone di origine italiana presenti all’estero, ma anche per il numero crescente di coloro che scelgono di
apprendere l’italiano iscrivendosi a un corso di lingua. Ne discende che oggi, nel
32
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
complesso, sono circa 200 milioni le persone in grado di parlare la nostra lingua.
Crescono le reti di aziende italiane in franchising all’estero: 149 reti al 2013 per un
totale di 7.731 punti vendita (+5,3% rispetto al 2011).
Il soft power dell’enograstronomia nazionale
che conquista le culture globali
La spesa per generi alimentari delle famiglie italiane è diminuita nel periodo di crisi
2007-2013 del 12,9% in termini reali, contro una dinamica complessiva della spesa
per consumi pari a -8%. A fronte di una caduta della spesa, si registra però una espansione del significato sociale del rapporto con il cibo, che si spinge ben oltre la sua
funzionalità primaria. Il successo di vino e cibo italiani nel mondo è uno degli indicatori più significativi del fortissimo appeal del nostro stile di vita come interprete
di valori ‒ dalla domanda di qualità alla sostenibilità ‒ che nel post-crisi saranno
sempre più importanti nelle culture globali.
Lo dimostrano vari fenomeni, a cominciare dalla buona performance del made in
Italy agroalimentare, che è una delle componenti più dinamiche dell’export, tanto
che nel 2013 la voce “prodotti alimentari e bevande” vale 27,4 miliardi di euro:
+26,9% rispetto al 2007. L’Italia, inoltre, è il Paese con il più alto numero di alimenti
a denominazione o indicazione di origine (266), seguito a distanza da Francia (219)
e Spagna (179).
Per il 51% degli italiani la tipicità si sostanzia nel patrimonio culturale, storico e artistico, e per il 50% nel cibo e nel vino. Per i giovani di età compresa tra i 18 e i 34
anni la tipicità di un territorio è espressa più dal patrimonio enogastronomico
(55,7%) che da quello culturale, storico e artistico (55,2%), o da quello paesaggistico
(47,1%), ed è così anche per i residenti nel Nord-Est (52,7%) e nel Sud (53,1%)
(tab. 32).
7DE2SLQLRQLVXLIDWWRULFKHHVSULPRQRODWLSLFLWjGLXQWHUULWRULRSHUFODVVLGLHWj(val. %)
Il territorio in cui lei vive ha una sua tipicità
che lo distingue?
Sì
Millennials
(18-34 anni)
Baby-boomers
Aged
(35-64 anni) (65 anni e oltre)
Totale
97,1
94,0
89,2
93,6
Il patrimonio culturale, storico, artistico
55,2
53,4
42,1
51,1
Il cibo e il vino
55,7
53,8
36,8
50,2
Il patrimonio paesaggistico
47,1
44,6
32,9
42,4
Il dialetto, la lingua parlata localmente
38,4
32,5
35,2
34,6
Un particolare evento, manifestazione
(festival, evento sportivo, ecc.)
38,2
26,4
27,7
29,5
Lo stile di vita
19,0
19,5
15,3
18,4
/·LGHQWLWjVHQVRGLDSSDUWHQHQ]D
13,6
15,6
9,2
13,6
No
1,7
5,6
6,3
4,8
Non so
1,2
0,5
4,5
1,6
7RWDOH
100,0
100,0
100,0
100,0
Fonte: indagine Censis, 2014
33
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
Esempi di comportamenti quotidiani improntati alla voglia di qualità, pur nel contesto di una diminuzione del reddito disponibile e di un approccio più sobrio ai consumi, sono:
- l’acquisto di prodotti di stagione, praticato regolarmente da oltre 9 milioni di famiglie e da 13,4 milioni di tanto in tanto. A praticarlo è il 97,4% del totale (di cui
il 71,1% regolarmente e il 26,3% di tanto in tanto), con una maggiore propensione
tra gli abitanti del Nord-Ovest (il 99,4%, di cui il 73,9% lo fa regolarmente e il
25,5% di tanto in tanto) e tra chi definisce il proprio livello socio-economico alto
(il 98,8%, di cui il 67,8% regolarmente e il 31% di tanto in tanto);
- l’acquisto di prodotti a “chilometro zero”, entrati ormai nel quotidiano della tavola degli italiani, con 18 milioni che lo fanno regolarmente e 25,3 milioni di
tanto in tanto. Sono più propensi all’acquisto di tali beni i millennials (18-34 anni:
il 42% lo fa regolarmente e il 48,9% di tanto in tanto) rispetto ai baby-boomers
(35-64 anni: il 31,2% regolarmente e il 57% di tanto in tanto) e agli aged (65
anni e oltre: il 42,1% regolarmente e il 40,4% di tanto in tanto);
- la disponibilità a spendere di più per prodotti biologici, indicata da 29,2 milioni
di italiani. Una più spiccata propensione si rileva tra i laureati (il 71,3% a fronte
del 58,9% del totale) e tra chi definisce il proprio livello socio-economico alto
(64%). L’attenzione al biologico è confermata anche dai dati relativi al prodotto
biologico intermediato dalla Grande distribuzione organizzata, cresciuto in valore
dai 375 milioni di euro del 2008 a 720 milioni di euro nel 2014.
E colpisce il successo della cucina in gruppi socio-demografici tradizionalmente
meno permeabili a un’attività per molto tempo inchiodata alla pura funzionalità o
alla dimensione di genere. Un esempio emblematico è rappresentato dai millennials,
tra i quali cucina il 97,5%. Al 92,1% di essi piace cucinare e tra questi il 38,6% dichiara di essere appassionato di fornelli (tab. 33).
7DE,OVXFFHVVRGHOODFXFLQD´IDLGDWHµ(val. %)
Di cui: (motivazioni)
Cucinano
Di cui:
amano cucinare
Appassiona
Rilassa
*UDWLÀFD
Millennials
97,5
92,1
38,6
24,4
24,5
Single
98,2
75,6
28,7
25,3
14,6
,WDOLDQL
95,9
82,0
32,5
23,4
20,9
Fonte: indagine Censis, 2014
Grazie a questo meccanismo sociale, l’onnipresenza del cibo, che contagia anche i
luoghi più avanzati della globalizzazione, costituisce uno dei veicoli primari tramite
il quale il nostro Paese sta riuscendo a conquistare, con logica da soft power, cuori,
menti e portafogli dei cittadini a livello globale. L’Italian food, inteso come prodotti
e come modalità di rapporto con la produzione e il consumo di cibo, è lo straordinario ambasciatore del nostro Paese nel mondo globalizzato.
34
Processi formativi
(pp.81 – 135 del volume)
La numerazione di tabelle, tavole e figure riproduce quella del testo integrale
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
Investire nell’infanzia
Già nel 2002 l’Unione europea ha riconosciuto la strategicità dell’ampliamento dei
servizi prescolari per lo sviluppo socio-economico, individuando alcuni obiettivi
specifici: la copertura del 33% dei bambini sotto i 3 anni e del 90% per quelli dai 3
anni fino all’età di ingresso nel ciclo primario. Obiettivi non raggiunti nel 2010 e riproposti per il 2020.
Nel 2012-2013 solo il 54,6% dei Comuni italiani ha attivato servizi per l’infanzia,
arrivando a coprire appena il 13,5% dei potenziali utenti. In nessuna regione si raggiunge l’obiettivo comunitario e si va dal 27,3% dell’Emilia Romagna al 2,1% della
Calabria. Il numero di posti disponibili nelle scuole dell’infanzia, statali, comunali
e paritarie, è invece sufficiente a coprire la domanda, coinvolgendo ormai quasi la
totalità degli aventi diritto. Ma anche questo segmento non è esente da criticità.
I primi risultati di un’indagine del Censis sull’offerta prescolare su 1.200 dirigenti
di scuola dell’infanzia statale e non statale mostrano che nel 2013-2014, se il 56,6%
delle scuole intervistate
non ha dovuto predisporre liste d’attesa, più di una su tre
ha avuto liste d’attesa, comunque via via assorbite dalla scuola (25,5%) o anche da
altre scuole
(7,4%).
Vi
è poi il 10,1% di dirigenti che dichiara di non essere riuscito
in ogni caso a rispondere alla domanda espressa dal territorio di riferimento, valore
che sale al 16,2% nelle regioni del Nord-Ovest (tab. 2).
7DE5LVSRQGHQ]DGHOO·RIIHUWDGLSRVWLDOODGRPDQGDGHOOHIDPLJOLHQHOOHVFXROHGHOO·LQIDQ]LD
intervistate (val. %)
Val. %
A.s. 2013/1014
6uVHQ]DOLVWHG·DWWHVD
56,6
6uFRQOLVWHG·DWWHVDYLDYLDDVVRUELWHGDOODVFXROD
25,5
6uFRQOLVWHG·DWWHVDYLDYLDDVVRUELWHDQFKHGDDOWUHVFXROH
No
Totale
7,4
10,1
100,0
A.s. 2014/2015
6FXROHGHOO·LQIDQ]LDFKHKDQQRSUHGLVSRVWROLVWHG·DWWHVD
41,0
)RQWH indagine Censis, 2014
36
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
Quando la scuola incontra il lavoro
I dati di monitoraggio sull’alternanza scuola-lavoro evidenziano che nell’arco di
sette anni questa metodologia si è diffusa in maniera sostenuta, passando dai 45.879
studenti coinvolti nel 2006-2007 ai 227.886 del 2012-2013. Nell’alternanza sono
oggi coinvolte quasi 78.000 strutture ospitanti, tra imprese (58,2% del totale), professionisti, ma anche strutture pubbliche di diversa natura (enti locali, scuole, Asl,
università, Camere di commercio, ecc.). Nonostante la vivacità dimostrata, i percorsi
di alternanza coinvolgono però appena il 9% degli studenti di scuola secondaria superiore.
L’attuazione dei percorsi di alternanza scuola-lavoro non appare esente da problematiche agli occhi dei dirigenti che sono chiamati a realizzarli. Il principale aspetto
qualificante di tali percorsi è ritenuto, secondo un panel di 800 dirigenti di scuola
secondaria di II grado, quello del fornire una maggiore conoscenza del mondo del
lavoro (66,2%), anche in funzione orientativa per la eventuale scelta di proseguire
negli studi (47,3%), ma gli intervistati segnalano la loro difficoltà a coinvolgere le
aziende e il mondo del lavoro in genere (47%), cui è possibile correlare il 42,2% di
coloro che rimarcano la difficoltà a offrire percorsi in alternanza a tutti gli studenti
dell’istituto, oltre alle risorse finanziarie insufficienti (46,4%). Solo poco più di un
terzo (34,3%) dei rispondenti ritiene che l’avere effettuato un’esperienza in alternanza aumenti in maniera diretta le opportunità occupazionali dei diplomati, mentre
sul versante dell’organizzazione didattica la principale criticità sembra essere costituita dalla difficoltà a realizzare una effettiva integrazione dell’esperienza di alternanza nel curricolo scolastico (tab. 4).
Per quanto riguarda i percorsi di istruzione tecnica superiore (Its), dal primo periodo
di sperimentazione 2010-2012, con 59 Fondazioni e più di 70 percorsi avviati, si è
giunti oggi a 64 Fondazioni (più 10 in corso di attivazione), 240 percorsi tra già realizzati, in attuazione e in corso di attivazione, e circa 5.000 studenti. I referenti delle
41 Fondazioni intervistate nell’ambito di una indagine Censis-Cnos si dichiarano in
maggioranza molto (31,7%) o abbastanza (56,1%) soddisfatti degli esiti occupazionali dei primi diplomati. In relazione ai 518 diplomati intervistati, il dato più eclatante è quello relativo agli ampi livelli di soddisfazione registrati sia in merito
all’esperienza formativa in sé (i diplomati molto o abbastanza soddisfatti sono
l’82,4% del totale), sia tra gli occupati al momento dell’intervista (occupati molto o
abbastanza soddisfatti: 88,2%). Il 48,5% dei diplomati ritiene molto utile il corso,
perché ha aumentato le possibilità di trovare lavoro, e il 56% suggerisce di migliorare
proprio le relazioni delle Fondazioni con il mondo del lavoro. Più della metà degli
attuali diplomati occupati ha trovato lavoro soprattutto nell’azienda in cui ha effettuato lo stage (43,3%) (tab. 5).
37
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
7DE2SLQLRQHGLXQpanelGLGLULJHQWLVFRODVWLFLGLVFXRODVHFRQGDULDGL,,JUDGRVXJOLDVSHWWL
TXDOLÀFDQWLHVXOOHFULWLFLWjGHOO·DOWHUQDQ]DVFXRODODYRUR(val. %)
Val. %
$VSHWWLTXDOLÀFDQWL
Maggiore conoscenza del mondo del lavoro
66,2
9DORUHRULHQWDWLYRGHOO·HVSHULHQ]DDQFKHLQIXQ]LRQHGHOODVFHOWDXQLYHUVLWDULD
RGHOSHUFRUVRSRVWGLSORPD
47,3
,QÁXHQ]DVXLOLYHOOLPRWLYD]LRQDOLHULGX]LRQHGHJOLDEEDQGRQL
37,3
$XPHQWRGHOOHRSSRUWXQLWjRFFXSD]LRQDOLSHULGLSORPDWLFKHVLIDQQRFRQRVFHUH
dalle aziende
34,3
0DJJLRUHDGHJXDWH]]DGHOFXUULFRORDOOHHVLJHQ]HGHOPRQGRGHOODYRUR
32,5
,QVWDXUD]LRQHGLUDSSRUWLSURÀFXLHVWDELOLFRQOHD]LHQGHFKHKDQQRLQYHVWLWR
DQFKHDOWULDVSHWWLGHOYLVVXWRVFRODVWLFR
25,5
6WLPRORDGXQDFRQWLQXDLQQRYD]LRQHGHOODGLGDWWLFD
24,3
$XPHQWRGHOO·DWWUDWWLYLWjGHOODVFXROD
13,9
Aggiornamento e maggiore specializzazione del corpo docente
5,0
&ULWLFLWj
'LIÀFROWjDFRLQYROJHUHD]LHQGHPRQGRGHOODYRUR
47,0
5LVRUVHÀQDQ]LDULHLQVXIÀFLHQWL
46,4
/DGLIÀFROWjDGRIIULUHSHUFRUVLLQDOWHUQDQ]DDWXWWLJOLVWXGHQWLGHOO·LVWLWXWR
42,2
/DGLIÀFROWjQHOODDWWXD]LRQHGHOSURJHWWRGLDOWHUQDQ]DDUHDOL]]DUHXQDHIIHWWLYD
LQWHJUD]LRQHGHOO·HVSHULHQ]DFRQLOFXUULFRORVFRODVWLFR
41,5
Coerente programmazione ed ottimizzazione di tempi e risorse
HVDUPRQL]]D]LRQHWHPSRVFXRODHGHVLJHQ]HGHOO·LPSUHVDGLVSRQLELOLWj
HLQWHJUD]LRQHWUDWXWRUVFRODVWLFRHWXWRUD]LHQGDOHHFF
31,1
'LIÀFROWjQHOODYDOXWD]LRQHGHOOHFRPSHWHQ]HDFTXLVLWHGDJOLVWXGHQWLQHLFRQWHVWL
di lavoro
22,6
,QVXIÀFLHQWHSUHSDUD]LRQHLQWHUHVVHGDSDUWHGHLGRFHQWL
14,8
$VVHQ]DGLXQDSSDUDWRGLPRQLWRUDJJLRHYDOXWD]LRQHFRQGLYLVRFKHSHUPHWWD
DOOHVFXROHGLDSSRUWDUHPLJOLRUDPHQWLHYHULÀFDUHLOUDJJLXQJLPHQWRGHJOLRELHWWLYL
10,7
'LIÀFROWjQHOODFRPSUHQVLRQHDSSOLFD]LRQHGHOODQRUPDWLYD
6,2
6FDUVRLQWHUHVVHGDSDUWHGHOOHIDPLJOLHSUHRFFXSDWHGHOUHQGLPHQWRVFRODVWLFR
4,9
)RQWH indagine Censis, 2014
38
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
7DE2SLQLRQLHGHVLWLRFFXSD]LRQDOLGHLSULPLGLSORPDWL,WV(val. %)
Val. %
/HRSLQLRQLVXOFRUVRIUHTXHQWDWR
8WLOLWjSHUDFTXLVL]LRQHGLFRPSHWHQ]HWHFQLFRSURIHVVLRQDOL
61,9
8WLOLWjSHUDXPHQWRFDSDFLWjGLUDSSRUWDUVLFRQJOLDOWUL
59,7
8WLOLWjSHUDXPHQWRGHOOHRSSRUWXQLWjGLWURYDUHODYRUR
48,5
2ELHWWLYLG·DSSUHQGLPHQWRSLHQDPHQWHRDEEDVWDQ]DUDJJLXQWL
90,7
'LSORPDWLPROWRRDEEDVWDQ]DVRGGLVIDWWL
82,4
*OLDVSHWWLGDPLJOLRUDUH
,QWURGX]LRQHQHOPRQGRGHOODYRURFRQWDWWLFRQD]LHQGHSHUIDYRULUHO·RFFXSD]LRQH
56,0
Maggiore organizzazione
55,6
,QWURGX]LRQHGLDWWLYLWjSUDWLFKH
48,1
*OLHVLWLRFFXSD]LRQDOL
2FFXSDWL
54,8
2FFXSDWLFKHODYRUDQRQHOO·D]LHQGDLQFXLKDQQRHIIHWWXDWRORVWDJH
43,3
8WLOLWjGHOOHFRPSHWHQ]HDFTXLVLWHSHUORVYROJLPHQWRGHOODYRUR
69,8
2FFXSDWLVRGGLVIDWWLGHOODYRURVYROWR
88,2
3XQWHJJLHVXXQDVFDODYDORULDOHFKHYDGD SHUQLHQWHXWLOHD PROWRXWLOH
5LVSRVWHPROWRDEEDVWDQ]DXWLOHVRGGLVIDWWR
)RQWH indagine Censis, 2014
L’attuazione della scuola digitale
secondo i dirigenti scolastici
Se 100 studenti italiani iscritti all’ultimo anno di scuola secondaria di I grado o al
terzo della scuola secondaria di II grado dispongono rispettivamente di 8,3 e 8,2
personal computer, 100 dei loro coetanei europei ne dispongono mediamente di 21,1
e 23,2. Il 25,3% degli studenti di terza media e il 17,9% dei loro colleghi del terzo
anno di scuola superiore frequentano scuole prive di connessione alla banda larga,
a fronte di corrispondenti valori medi europei di gran lunga inferiori (rispettivamente, 5% e 3,7%). La frequenza di scuole dotate di ambienti di apprendimento virtuale è un’esperienza che coinvolge il 19% degli studenti in uscita dalla scuola media
di I grado e il 33% degli iscritti al terzo anno della secondaria di II grado, quote ancora una volta sensibilmente inferiori alle medie europee (nell’ordine, 58% e 61%
di studenti in età corrispondente).
I dirigenti si scuola secondaria di II grado intervistati dal Censis hanno evidenziato,
quali principali problematicità, l’obsolescenza troppo rapida della dotazione tecnologica, i costi che devono essere sostenuti per il collegamento internet e la carente
disponibilità di spazi e strumenti adeguati. Nell’86,6% e nel 68,2% dei casi i rispondenti ritengono che la creazione di piattaforme per il reperimento e la fruizione di
materiale e servizi didattici, insieme al passaggio da una logica di proprietà (di infrastrutture, dispositivi, ecc.) a una logica di servizio (a canone), siano soluzioni migliorative molto praticabili. A questi aspetti si aggiungono l’autonomia scolastica
quale leva per l’adeguamento strutturale (70,5%) e l’aumento del materiale didattico
digitale autoprodotto dalle scuole (67,5%) (tab. 8).
39
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
7DE6FXRODGLJLWDOHSUDWLFDELOLWjGLDOFXQHVROX]LRQLPLJOLRUDWLYH(val. %)
0ROWR
DEEDVWDQ]D
3RFR
per niente
&RLQYROJLPHQWRÀQDQ]LDULRHWHFQLFRGHLSULYDWLSHUODLQIUDVWUXWWXUD]LRQH
e la gestione della rete digitale scolastica
47,8
52,2
3RWHQ]LDPHQWRGHOODUHWHLQIUDVWUXWWXUDOHDVFDSLWRGHOO·DFTXLVWRGHL
GLVSRVLWLYLFKHGLYHQWDQRDFDULFRGHOOHIDPLJOLHHGHJOLVWXGHQWLVHFRQGR
la modalità %ULQJ\RXURZQGHYLFHSRUWDLOWXRGLVSRVLWLYRDSDUWHLFDVL
GHOOHIDPLJOLHFKHQRQSRVVRQRVRVWHQHUHO·DFTXLVWRGHOGLVSRVLWLYR
53,9
46,1
$XPHQWRGHOPDWHULDOHGLGDWWLFRGLJLWDOHDXWRSURGRWWRGDOOHVFXROH
67,5
32,5
&UHD]LRQHGLSLDWWDIRUPHSHULOUHSHULPHQWRHODIUXL]LRQHGLPDWHULDOH
e servizi didattici
86,6
13,4
3DVVDUHGDXQDORJLFDGLSURSULHWjGLLQIUDVWUXWWXUHGLVSRVLWLYLHFF
DXQDORJLFDGLVHUYL]LRDFDQRQH
68,2
31,8
$XWRQRPLDGHOOHVFXROHSHUDGHJXDPHQWRVWUXWWXUDOH
70,5
29,5
&UHD]LRQHGLVSD]LVFRODVWLFLSURJHWWDWLSHUXQDGLGDWWLFDWUDVPLVVLYD
FODVVH´VFRPSRVWDµ
66,3
33,7
)RQWH indagine Censis, 2014
L’uso diffuso di materiale didattico digitale è riscontrabile solo nel 18,1% delle
scuole intervistate, tuttavia nell’88,4% dei casi alcuni docenti si sono cimentati nella
produzione di questo tipo di risorse. I dirigenti scolastici intervistati riscontrano,
conseguentemente all’impiego di tale materiale didattico, miglioramenti nell’efficacia della didattica e nell’interesse e coinvolgimento degli studenti (rispettivamente,
89% e 96,5%); minore condivisione si registra rispetto a eventuali miglioramenti
nell’interesse e nel coinvolgimento di altri docenti (61%).
La pratica sportiva a scuola tra retorica educativa
e carenze strutturali
Da un’indagine del Censis su 2.425 istituti di istruzione secondaria emerge una dotazione strutturale delle scuole parzialmente deficitaria, che riflette non solo un divario tra le scuole del Nord e quelle del Sud del Paese, ma anche tra quelle
appartenenti ai diversi indirizzi di istruzione. Gli istituti che si compongono di più
plessi si caratterizzano prevalentemente per una qualità/adeguatezza dei loro spazi,
impianti e attrezzature diversificata, non omogenea (66,7%). Ciò è particolarmente
vero al Sud (72%) e negli istituti professionali (69,8%). Per il 39,7% di essi, eterogeneità equivale alla presenza di sedi scolastiche del tutte prive di strutture; percentuale che al Sud sale al 43,2%.
Ciò nonostante, per la maggioranza dei dirigenti intervistati sono abbastanza adeguati gli spazi fisici dedicati allo sport (57,9%), gli strumenti e le attrezzature sportive (56%), e le ore dedicate allo sport (61,8%). Se però si va oltre il cono d’ombra
dell’abbastanza adeguato e si analizzano i dati rispetto agli altri livelli della scala
valoriale, alcune differenziazioni qualitative emergono. Ad esempio, spazi, attrezzature, competenze e tempi per lo sport molto adeguati ricorrono in misura inferiore
40
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
al valore medio nazionale nelle scuole del Sud. Nell’ambito dell’offerta di istruzione
secondaria di II grado, sono gli istituti tecnici a mostrare i più alti livelli di adeguatezza delle infrastrutture sportive. Infatti, spazi, competenze e tempi sono molto adeguati per il 29,9%, il 56,1% e il 28,4% dei dirigenti. Le attrezzature solo per il 16,7%,
sebbene nelle altre tipologie di scuole quelle molto adeguate rappresentino quote
inferiori alle due cifre percentuali. Negli istituti professionali, invece, spazi e tempi
per lo sport sono molto adeguati solo nel 7,8% e 9,4% dei casi, mentre le attrezzature
sono molto adeguate solo nell’1,6% dei casi.
Con riferimento alla funzione educativa dello sport, i dirigenti scolastici intervistati
ne sottolineano soprattutto l’efficacia nella promozione della socializzazione tra pari
(81,8%), mentre per il 77,4% il ricorso alle pratiche sportive è importante per promuovere atteggiamenti di fair play e di rispetto delle regole della convivenza. Il
69,6% dei dirigenti evidenzia come l’educazione fisica sia funzionale a promuovere
stili di vita salutari e, in misura minore (31,1%), a prevenire fenomeni di dipendenza,
ad esempio da alcol, fumo, droghe. Lo sport a scuola è importante per promuovere
comportamenti non violenti e contrastare il bullismo per il 65,5% dei dirigenti intervistati, ma è anche funzionale a prevenire la dispersione scolastica, sia in quanto
valorizza le competenze individuali dello studente, agendo sull’autostima e sulla costruzione di un progetto di vita (55,1%), sia perché favorisce il benessere dello studente e la costruzione di un clima piacevole (45,1%) (tab. 13).
7DE2ELHWWLYLHGXFDWLYLSHULOUDJJLXQJLPHQWRGHLTXDOLqSLHIÀFDFHLOULFRUVRDOOHDWWLYLWj
sportive (val. %)
Val. %
3URPXRYHUHODVRFLDOL]]D]LRQHWUDSDUL
81,0
3URPXRYHUHDWWHJJLDPHQWLGLIDLUSOD\ e di rispetto delle regole di convivenza
77,4
3URPXRYHUHVWLOLGLYLWDVDOXWDUL
69,5
3URPXRYHUHFRPSRUWDPHQWLQRQYLROHQWLSUHYHQLUHHFRQWUDVWDUHIHQRPHQLGLEXOOLVPR
65,5
3UHYHQLUHODGLVSHUVLRQHVFRODVWLFDYDORUL]]DQGROHFRPSHWHQ]HLQGLYLGXDOLGHOORVWXGHQWH
HDJHQGRVXOODDXWRVWLPDHVXOODFRVWUX]LRQHGLXQSURJHWWRGLYLWD
55,1
3URPXRYHUHO·LQFOXVLRQHGLDOXQQLGLVDELOL
53,1
3URPXRYHUHO·LQFOXVLRQHGLDOXQQLLPPLJUDWL
46,7
3UHYHQLUHODGLVSHUVLRQHVFRODVWLFDIDYRUHQGRLOEHQHVVHUHGHOORVWXGHQWHHODFRVWUX]LRQH
GLXQFOLPDSLDFHYROH
45,1
3UHYHQLUHIHQRPHQLGLGLSHQGHQ]DDOFROIXPRVRVWDQ]HGURJKHHFF
31,1
,OWRWDOHQRQqXJXDOHDSHUFKpHUDQRSRVVLELOLSLULVSRVWH
)RQWH indagine Censis, 2014
Attualmente il contributo finanziario aggiuntivo per attività e manifestazioni sportive
a scuola è molto limitato: solo il 13,1% dei dirigenti dichiara di avere ricevuto contributi negli ultimi cinque anni, e nella maggior parte dei casi si tratta comunque di
finanziamenti pubblici, erogati dagli enti locali, oppure di finanziamenti da parte di
associazioni sportive che spesso in cambio possono utilizzare spazi e attrezzature
scolastiche per le loro attività. Quasi del tutto assente è l’interesse da parte delle imprese di settore a far crescere la cultura e la pratica sportiva nelle leve studentesche,
nonostante gli indubbi ritorni economici che un maggiore coinvolgimento potrebbe
41
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
apportare: nella fascia d’età 11-19 anni ben il 22,1% di giovani, più di un milione di
individui, non pratica sport né attività fisica.
Un beneficio certo in termini di interesse e coinvolgimento delle giovani generazioni
potrebbe essere apportato, infine, da una maggiore partecipazione delle figure “simbolo” del mondo sportivo. Ai dirigenti scolastici intervistati piacerebbe molto poter
coinvolgere in progetti di educazione sportiva, in quanto esempi e modelli positivi
per gli studenti a rischio, in primo luogo ovviamente giocatori e atleti (70,4%), ma
anche allenatori (46,2%) e arbitri (30,9%) (tab. 14).
7DE,VRJJHWWLGDFRLQYROJHUHSHUSRWHQ]LDUHOHDWWLYLWjVSRUWLYHQHOODVFXROD(val. %)
Val. %
,VWLWXWLVFRODVWLFLFKHKDQQRULFHYXWRQHJOLXOWLPLDQQLDLXWLÀQDQ]LDULVSRQVRUVKLS
SHUODUHDOL]]D]LRQHGLDWWLYLWjPDQLIHVWD]LRQLVSRUWLYHGDSDUWHGLSULYDWL
Nord
16,9
Centro
13,0
6XGHLVROH
9,2
Italia
13,1
)LJXUHGHOPRQGRGHOORVSRUWFKHOHVFXROHYRUUHEEHURFRLQYROJHUHLQSURJHWWL
GLHGXFD]LRQHVSRUWLYDLQTXDQWRHVHPSLHPRGHOOLSRVLWLYLSHUJOLVWXGHQWLDULVFKLR
*LRFDWRUHDWOHWD
70,4
Allenatore
46,2
$UELWUR
30,9
5DSSUHVHQWDQWHGLXQDIHGHUD]LRQHVSRUWLYD&RQL
22,0
5DSSUHVHQWDQWHGLXQFOXEDVVRFLD]LRQHVSRUWLYD
17,6
Dirigente sportivo
10,2
)RQWH indagine Censis, 2014
L’università italiana
un sistema sempre più territorialmente connotato
Tra il 2008 e il 2013 gli iscritti alle università statali sono diminuiti del 7,2% e gli
immatricolati del 13,6%. L’andamento decrescente ha interessato tutti gli atenei
tranne quelli del Nord-Ovest, dove gli iscritti sono aumentati del 4,1% e gli immatricolati dell’1,3%. Nelle università del Nord-Est la contrazione dell’utenza è stata
più contenuta: -2,3% di iscritti e -5,9% di immatricolati. Al Centro il numero degli
studenti iscritti si è contratto del 12,1% e quello degli immatricolati del 18,3%. Negli
atenei meridionali rispettivamente dell’11,6% e del 22,5%.
L’indice di attrattività delle università sembra premiare non solo le università del
Nord-Ovest
(da
3,9%
a 8,6%
nel 2013),
del
nel 2008
ma
anche
quelle
Nord-Est,
che, sebbene
abbiano
ridotto
la
loro
utenza
complessiva,
hanno
comunque
accre
sciuto quella proveniente da fuori regione, passando dall’11% all’11,8%. L’ulteriore
contrazione dell’indice
di attrattività
degli atenei meridionali (da -21,8% nel 2008 a
42
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
-22,8% nel 2013) sembra confermare la presenza di criticità strutturali note, a loro
volta inserite nell’ambito di contesti territoriali segnati da derive di sottosviluppo
economico di lungo periodo. Il dato che invece sembra essere più allarmante è la
caduta nei cinque anni di riferimento dell’indice di attrattività delle università del
Centro Italia, che è passato da 21,8% nel 2008 a 12,4% nel 2013, marcando un’apprezzabile riduzione del capitale reputazionale di tali istituzioni.
Aumenta l’incidenza delle tasse di iscrizione sul totale delle entrate delle università
italiane: da un valore intorno all’11% dei primi anni 2000, le entrate contributive si
attestano al 13% nel 2010, per poi raggiungere nel 2012 quota 13,7%. I dati disaggregati per ripartizione territoriale indicano una separazione netta nel tempo degli
andamenti delle entrate contributive tra le università settentrionali, da un lato, e
quelle centrali e meridionali, dall’altro. Le prime si pongono, infatti, al di sopra delle
medie nazionali e oltre la soglia del 15% sia nel 2011, sia nel 2012; le seconde, invece, al di sotto.
43
Lavoro, professionalità, rappresentanze
(pp. 137 – 196 del volume)
La numerazione di tabelle, tavole e figure riproduce quella del testo integrale
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
Occupazione:
ladebolezzadell’emergenzacontinuativa
Il lavoro continua a configurarsi come il problema più avvertito dalle famiglie italiane e quello che provoca maggiore disagio sociale. Il primo round del Jobs Act,
così come approvato dal Senato, ha indubbiamente rappresentato una svolta innovativa di grande interesse, modificando in punti cruciali la normativa del lavoro. A
questo proposito è opportuna una verifica sulla situazione occupazionale come si
presenta nel 2014, soprattutto in relazione agli altri grandi o più significativi Paesi
europei.
Il problema da cui partire è certamente il difficile accesso al lavoro e gli elevati tassi
di disoccupazione della popolazione giovanile. Se consideriamo i Paesi europei di
eguale grandezza demografica rispetto al nostro, troveremo più similitudini che differenze: i disoccupati tra i 15 e i 24 anni sono 710.000 in Italia, 713.000 nel Regno
Unito, 654.000 in Francia. Ai due estremi opposti si collocano la Spagna, con
837.000 disoccupati, e la Germania, con 332.000. In Italia la quota di giovani sul
totale dei disoccupati è pari al 22,7%, in Francia è del 21,5%, ma nel Regno Unito
tale quota supera un terzo (35,8%). In Spagna, dove c’è forte carenza di lavoro, la
quota dei giovani in cerca di occupazione è del 15% sul totale dei disoccupati; in
Germania, dove c’è piena occupazione, la quota è pure del 15,8%, con una proporzionalità rispetto alle varie fasce demografiche (fig. 1).
Fig. 1 - La disoccupazione giovanile (15-24 anni) nei grandi Paesi europei, agosto 2014 (migliaia
e val. %)
900
Disoccupati giovani (migliaia)
800
35
700
30
600
22,7
25
21,5
500
20
400
15,8
15,0
15
300
10
200
5
100
Incidenza % disoccupati giovani sul totale
40
35,8
0
0
Spagna
Regno Unito
Italia
Francia
Germania
Fonte: elaborazione Censis su dati Eurostat
Il Jobs Act, inoltre, dà rilievo e centralità al lavoro a tempo indeterminato, confidando che possa costituire un vantaggio per incrementare le opportunità di lavoro.
Il confronto con un significativo numero di Paesi europei fa emergere una realtà più
45
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
variegata: considerando la quota dei contratti part time e a tempo determinato sul
totale degli occupati, sembra esserci una certa correlazione fra la loro diffusione e
più alti tassi di occupazione rispetto all’Italia. Il nostro tasso di occupazione nel
2013 è stato del 59,8%, mentre la quota di part time è pari al 17,9% e i contratti a
termine rappresentano il 13,2%. Paesi con tassi di occupazione molto superiori al
nostro, come la Germania (77,1%) o i Paesi Bassi (76,5%), hanno quote di contratti
a tempo determinato superiori alla nostra. Senza dimenticare i mini-jobs per i giovani
tedeschi, che non rispondono certo alla logica della sicurezza e della tutela (tab. 2).
7DE)RUPHFRQWUDWWXDOLLQDOFXQL3DHVLHXURSHL(val. %)
Tasso di occupazione
Quota di lavoro
part time
Quota di lavoro a tempo
determinato
Germania
77,1
27,3
13,4
Paesi Bassi
76,5
50,6
20,6
Danimarca
75,8
25,4
8,8
Regno Unito
74,9
26,9
6,2
Francia
69,6
18,4
16,4
Ue 28
68,4
20,3
13,8
Polonia
64,9
7,8
26,9
Italia
59,8
17,9
13,2
Spagna
58,6
15,8
23,1
Fonte: elaborazione Censis su dati Eurostat
Ripartiredalvaloredellecompetenze
perrimettereinmotoillavoro
Secondo i risultati di una condotta nel 2013 dal Censis per conto del Ministero del
Lavoro su un campione rappresentativo di imprese con oltre 20 addetti, una quota
rilevante di aziende ha avviato negli anni della crisi un vero e proprio processo di
ristrutturazione aziendale. Ben il 41,8% ha rimesso mano all’organizzazione aziendale apportando significativi cambiamenti. Se la sostituzione di professionalità divenute ormai obsolete (effettuata dal 40,3% del totale delle imprese) ha rappresentato
un passaggio ineludibile, d’altro canto le aziende sono state spinte a innovare le
competenze, aggiornando quelle esistenti e acquisendone di nuove: il 41,9% ha effettuato assunzioni inserendo nuove professionalità in azienda e il 26,9% si è attivato
per riconvertire e riqualificare il personale esistente (tab. 4).
L’inserimento di nuove risorse in sostituzione delle vecchie o il ricorso a competenze
esterne più specialistiche, utili a supportare il cambiamento in corso, si sono accompagnati all’esigenza di ottimizzare l’organizzazione interna e rimotivare i gruppi di
lavoro, in un processo complesso che ha visto ridisegnare dal basso l’organizzazione
aziendale, con il reengineering dei processi lavorativi (38%), l’introduzione di nuove
prassi, la riorganizzazione dei gruppi di lavoro (31,7%), la revisione dei turni e degli
orari interni (26,5%). Ancora, ben il 28% delle aziende, coerentemente con gli obiettivi di produttività fissati, ha ridefinito il sistema di valutazione e i meccanismi premiali.
46
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
Tab. 4 - Iniziative di riorganizzazione intraprese dalle aziende con più di 20 addetti tra il 2010 e il
2013, per fase aziendale (val. %)
Fase aziendale
Iniziativa
Imprese che hanno effettuato una vera e propria
ristrutturazione aziendale
Crescita
Ripresa
42,8
38,0
Staziona- Ridimenrietà
sionamento
37,6
48,4
Totale
41,8
Azioni intraprese
Inserimento di nuove professionalità
75,0
65,1
42,7
22,5
41,9
Sostituzione/uscita di professionalità obsolete
19,4
54,8
36,2
48,7
40,3
Introduzione di nuove procedure/processi di lavoro
56,7
50,4
45,3
15,3
38,0
Riorganizzazione dei gruppi di lavoro
47,9
30,8
26,4
34,7
31,7
'HÀQL]LRQHVLVWHPDGLYDOXWD]LRQHHSUHPLDOH
36,3
30,0
36,9
10,0
28,0
5LTXDOLÀFD]LRQHULFRQYHUVLRQHGHOSHUVRQDOH
23,3
34,3
23,3
30,9
26,9
5LGHÀQL]LRQHRUDULWXUQLGLODYRUR
33,9
18,6
18,9
39,8
26,5
9,8
12,2
11,4
45,7
21,6
16,5
17,4
12,6
10,5
12,7
6,6
11,9
2,6
2,4
4,2
Riduzione orari di lavoro
Esternalizzazione di funzioni prima svolte
internamente
Internalizzazione di funzioni esterne
Il totale non è uguale a 100 perché erano possibili più risposte
Fonte: indagine Censis, 2013
Da un lato, dunque, è emersa una logica di tipo difensivo soprattutto da parte di
quelle aziende che vivono una fase di ridimensionamento e per le quali la riorganizzazione rappresenta l’ultima chance di sopravvivenza in un mercato in cui è alto il
rischio di espulsione (su 100 aziende che si sono riorganizzate, 36 si trovano in una
situazione di grossa difficoltà). L’azione, in questo caso, si caratterizza per un intervento drastico sul fronte organizzativo, che prevede soprattutto tagli al personale
(48,7%), riduzione di orari (45,7%), riqualificazione e riconversione delle figure
professionali esistenti (30,9%).
Dall’altro lato vi è, invece, un modello di riorganizzazione aziendale che segue una
logica molto più spinta e aggressiva, che interessa circa l’8% delle aziende, che si
trovano a vivere una fase di crescita e di espansione, ma verso cui tendono anche
quelle realtà che, pur in fase di stazionarietà, stanno rivedendo la propria struttura
organizzativa. Quale che sia il rapporto di causa-effetto, in queste realtà l’occupazione cresce. Il 75% ha assunto nuove professionalità e ben il 53,7% ha dovuto acquisire competenze del tutto nuove che prima non aveva: ingegneri innanzitutto
(sono le figure prescelte dal 50,2% delle imprese), da inserire nelle funzioni produttive, di ricerca e sviluppo, ma anche gestionali e di controllo; a seguire, tecnici (il
40,6% dei casi), commerciali (35,7%) e amministrativi (29,9%).
Giovanielavoro:dalletecnologiepiùopportunità
Pure a fronte di una situazione tanto complicata per le nuove leve del mercato del
lavoro, si intravvedono spiragli incoraggianti. C’è grande voglia di darsi da fare proprio tra i giovani italiani, i quali aspirano in più casi a creare da sé un business: il
47
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
22% ha già avviato una start up o intende seriamente farlo nei prossimi anni, e il
dato europeo è perfettamente in linea, mentre quello tedesco nettamente inferiore
universo di giovani
intraprendenti,
peraltro,
ancora più
ampio
(15%). Tale
sarebbe
se soltanto ci fosse un tessuto di imprese e istituzioni pronto a dare loro sostegno
nell’avvio di una nuova attività (il 38%, infatti, sarebbe interessato ad avviare un
proprio business, ma ritiene che sia troppo complicato, mentre in Europa tale quota
scende al 22% e in Germania al 12%).
Occorre, dunque, ripartire dal rinato spirito di intraprendenza dei giovani e sostenerlo, e magari convogliarlo verso quei settori più dinamici del mercato, che offrono
buone opportunità sia di impiego presso le imprese, sia di business. A titolo esemplificativo, basta osservare l’analisi delle assunzioni previste dalle imprese nel 2014,
che mostra le buone chance offerte dal settore dei servizi informatici e delle telecomunicazioni, in particolare ai giovani lavoratori: il 37,8% delle assunzioni previste
dalle aziende del settore è infatti rivolto a giovani fino a 29 anni, a fronte di un dato
che nell’industria si ferma al 23,8% e nel mercato del lavoro nel complesso al 27,2%;
ben il 15% di queste figure, peraltro, è considerato dalle imprese di difficile reperimento a causa del ridotto numero di candidati (fig. 3).
)LJ$VVXQ]LRQLSUHYLVWHGDOOHLPSUHVHSHULOSHUFDQGLGDWLÀQRDDQQLHTXRWDFRQVLGHUDWDGLGLIÀFLOHUHSHULPHQWRSHUULGRWWRQXPHURGLFDQGLGDWL(val. %)
Fino a 29 anni
Considerate di difficile reperimento per ridotto numero di candidati
37,8
28,5
27,2
23,8
15,0
5,0
3,7
Servizi informatici e
telecomunicazioni
Totale servizi
Totale industria
4,1
Totale imprese
Fonte: elaborazione Censis su dati Excelsior Unioncamere
Dal canto suo, l’universo giovanile appare ben disposto ad intraprendere percorsi
professionali che abbiano a che fare con le nuove tecnologie e la rete e ad inserirsi
in contesti aziendali che operano principalmente sul web. Una recente indagine del
Censis rivolta a studenti calabresi di età compresa tra 16 e 18 anni mostra, infatti,
come il 31,6% dei ragazzi intervistati di sesso maschile è interessato all’idea di poter
svolgere in futuro un lavoro in rete (solo il 9,6% tra le ragazze), e la percentuale
48
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
raddoppia se la prospettiva è di poter lavorare per qualche azienda che opera principalmente in rete, come ad esempio Facebook e Google (60,2%, a fronte del 31,5%
tra le ragazze).
Over50tralavoro,nonlavoroequasilavoro
Se i risultati peggiori in questi anni hanno riguardato i giovani, la componente più
anziana (fra i 50 e i 69 anni) presenta un andamento in controtendenza nei risultati
relativi a tutti gli indicatori: aumenta la partecipazione al lavoro di oltre 6 punti tra
il 2008 e il 2013 (e su questo pesa certamente lo spostamento in avanti dell’età del
ritiro dal lavoro), subisce a prima vista meno degli altri la diffusione della disoccupazione (con un tasso che si aggira intorno al 6%) e aumenta di quasi 5 punti il tasso
di occupazione. Ma è importante un supplemento di indagine sulla componente con
più di 50 anni per cogliere alcuni segnali di reazione e di adattamento all’intreccio
fra impatto della crisi, decisioni collettive (le riforme del lavoro e delle pensioni su
tutte) e decisioni individuali maturate in questi anni.
Il boom di occupati over 50 registrato dal 2011 a oggi (+19,1%), proprio in concomitanza del crollo osservato tra quanti hanno un’età inferiore (-11,5%), se da un lato
è un effetto diretto delle riforme previdenziali entrate a regime, dall’altro contiene
in sé le disfunzioni di un mercato del lavoro che serra le porte alle nuove leve e le
spalanca ai lavoratori più anziani, oltre ai numerosi casi di chi sceglie di restare al
lavoro pur avendo maturato i requisiti per il pensionamento per non intaccare il livello di reddito, e di coloro che si erano chiamati fuori dal mercato del lavoro, ma
sono stati indotti a rimettersi in gioco dal peggiorare delle condizioni economiche.
Sul versante degli inattivi (oltre 17 milioni over 50), la grande maggioranza, pari a
circa 14 milioni, non cerca lavoro e si dichiara indisponibile a lavorare, ma ci sono
anche quasi 700.000 over 50 che si configurano come “forze lavoro potenziali”, persone cioè che non cercano lavoro, ma sarebbero disponibili a lavorare a determinate
condizioni. Anche questo è un segnale delle difficoltà contingenti attraversate da
questa schiera di persone e del radicale mutamento di prospettive dal quale sono
state investite. Rispetto al 2008, sono aumentati di ben il 33,3%, e tra questi la maggior parte è costituita da donne (oltre 400.000), che probabilmente a causa delle difficoltà economiche non rinunciano a cogliere eventuali chance occupazionali per
integrare il reddito o fare fronte a improvvise e non preventivate spese. Ma colpisce
ancora di più la dinamica che ha riguardato i senza lavoro over 50 in questi anni. I
disoccupati hanno raggiunto nel 2013 le 438.000 unità, con un incremento rispetto
al 2008 di 260.000 unità in termini assoluti e del 146% in termini relativi (tab. 10).
49
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
Tab. 10 - Il non lavoro degli over 50, 2008-2013 (migliaia, diff. ass. e var. %)
2008
2013
Condizione occupazionale
v.a. (mgl.)
v.a. (mgl.)
diff. ass. (mgl.)
var. %
In cerca di occupazione
1.692
3.113
1.421
84,0
178
438
260
146,1
34.240
35.135
895
2,6
17.026
17.382
356
2,1
2.788
3.205
417
15,0
Forze di lavoro potenziali di 50 anni
e oltre
516
688
172
33,3
Uomini
206
287
81
39,3
Donne
311
402
91
29,3
Disoccupati di 50 anni e oltre
Non forze di lavoro
Non forze di lavoro di 50 anni e oltre
Forze di lavoro potenziali
2008-2013
Fonte: elaborazione Censis su dati Istat
Rappresentanzeincrisid’identità
Se i soggetti di rappresentanza appaiono sempre più svuotati di ruolo è anche perché
stanno vivendo al proprio interno una crisi profonda, di identità, che nasce dall’incapacità di ricondurre a un unico modello di riferimento dimensioni sociali sempre
più complesse e poliedriche. Il lavoro, che un tempo rappresentava una dimensione
cristallizzata nella vita delle persone, ha finito per diventare una sommatoria di esperienze, spesso intermittenti e sempre
meno
capaci
di identifi di costruire
percorsi
cazione professionale.
Si moltiplicano, infatti, i tempi di non lavoro nell’ambito della vita delle persone:
stando ai dati dell’Istat, il 14% degli occupati si è trovato negli ultimi tre anni a in
terrompere il proprio percorso professionale,
incorrendo
in uscite
temporanee
o ri petute dall’attività lavorativa. Tale rischio è maggiore nelle fasce generazionali più
ben
si
è trovato
a vivere
giovani, tra 16 e 34 anni, dove
il 20,5%
degli
occupati
dei
periodi di non lavoro.
Si affermano, inoltre, identità lavorative sempre più ibride, non collocabili in quei
format di profili (gli operai, gli impiegati, i professionisti, gli imprenditori) sulla
base dei quali i soggetti di rappresentanza hanno tradizionalmente organizzato la
loro azione. Si pensi alla crescita che si è avuta negli ultimi anni di tutta quell’area
di lavoro ibrido collocabile in quella terra di mezzo tra il lavoro dipendente tradizionale e autonomo di tipo imprenditoriale e professionale. Un’area di lavoro che
nel 2013 contava quasi 3,4 milioni di occupati (il 15,1% del totale) tra temporanei,
intermittenti, collaboratori, finte partite Iva e prestatori d’opera occasionale, e che
soprattutto tra i giovani rende sempre più ardua l’autocollocazione rispetto a quella
che fino a qualche tempo fa rappresentava una dimensione chiara e netta dell’identità
lavorativa. Tra gli occupati di età compresa tra i 15 e i 24 anni la quota di “ibridi” è
50
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
addirittura maggioritaria, pari al 50,7%, mentre scende progressivamente all’aumentare dell’età (il 22,9% tra i 25 e i 34 anni) e risale in prossimità dell’uscita definitiva
dal mercato del lavoro (il 20,6% tra gli over 65) (fig. 8).
)LJ/·LEULGD]LRQHWUDODYRURDXWRQRPRHGLSHQGHQWHSHUFODVVHG·HWj(val. %)
Lavoro tradizionale dipendente
100
9,1
90
14,8
19,4
19,7
22,9
12,3
10,0
68,3
70,3
80
70
Lavoro ibrido
Lavoro tradizionale autonomo
19,6
23,8
9,2
50,7
60,3
15,1
60
50
40
20
67,0
62,2
30
65,3
20,6
40,2
10
19,1
0
15-24 anni 25-34 anni 35-44 anni 45-54 anni 55-64 anni
65 anni
e oltre
Totale
1HOODFODVVLÀFD]LRQHGLODYRURLEULGRULHQWUDQROHVHJXHQWLFDWHJRULHGLODYRUDWRULGLSHQGHQWHDWHUPLne, collaboratore a progetto, collaboratore occasionale, autonomo senza addetti e monocommittente
Fonte: elaborazione Censis su dati Istat
Malgrado la sfiducia generalizzata che gli italiani nutrono verso le classi dirigenti
del Paese, rappresentanze sociali comprese, la maggioranza (il 60% circa) continua
a considerare gli organismi intermedi come un elemento centrale nel funzionamento
democratico. Il 42,5% li ritiene importanti, in quanto rappresentanti di interessi e
valori comuni a gruppi di cittadini, e pertanto fondamentali nell’incidere sulle decisioni della politica; mentre un altro 17,2% ritiene un valore la loro presenza, in
quanto collante aggregativo in una società sempre più individualista. Di contro, tra
quanti non reputano i soggetti intermedi utili alla vita democratica (il 40% circa) è
solo il 12,7% a considerare il loro ruolo del tutto inutile, in considerazione del fatto
che gli interessi devono esprimersi attraverso la politica e le istituzioni; il 16,9%
pensa infatti che siano superati perché superate sono le logiche aggregative degli
interessi, non più basate su appartenenze professionali, mentre ben il 10,7% punta
proprio il dito sull’approccio corporativo e la tendenza a chiudersi nella difesa di
microinteressi settoriali (tab. 12).
51
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
Tab. 12 - Il giudizio sul ruolo delle strutture di rappresentanza, per condizione personale (val. %)
Condizione
Riguardo a strutture come sindacati e associazioni
LPSUHQGLWRULDOLOHLULWLHQHFKH
Dipendenti Autonomi
Totale
occupati
Non
occupati
Totale
Sono importanti, perché rappresentano cittadini
con interessi comuni che in questo modo possono
incidere sulle decisioni della politica
40,8
35,5
39,5
44,9
42,5
Sono un valore, perché sono un baluardo nella
VRFLHWjFRQWURO·LQGLYLGXDOLVPR
17,1
19,7
17,7
17,0
17,2
Sono superate, perché le persone ormai si
aggregano su basi diverse da quelle del lavoro
16,7
27,3
19,1
15,3
16,9
Sono inutili, perché interessi e convinzioni devono
esprimersi tramite la politica e le sue istituzioni
13,8
7,8
12,6
12,4
12,7
Sono dannose, perché rendono la società
corporativa, chiusa su interessi particolari
Totale
11,6
9,7
11,1
10,3
10,7
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
Fonte: indagine Censis, 2013
52
Il sistema di welfare
(pp. 197 – 269 del volume)
La numerazione di tabelle, tavole e figure riproduce quella del testo integrale
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
Le diseguaglianze di salute,
nuova frontiera per il servizio sanitario
Le manovre sulla sanità, la spending review e i Piani di rientro nelle regioni in cui
sono attivati hanno contributo all’ampliamento delle vecchie disparità e alla creazione di nuove nelle opportunità di cura. Il 50,2% degli italiani è convinto che tali
politiche di contenimento abbiano aumentato le disuguaglianze (tab. 1).
Tab. 1 - Impatto delle politiche di contenimento della spesa sanitaria sulle disuguaglianze in
VDQLWjSHUDUHDJHRJUDÀFD(val. %)
Secondo lei le recenti politiche volte
al contenimento della spesa pubblica
in sanità hanno:
Nord-Ovest
Nord-Est
Centro
Sud e isole
Totale
54,7
48,4
44,5
51,1
50,2
Ridotto le disuguaglianze
2,3
6,1
2,0
4,4
3,7
Né aumentate, né ridotte
le disuguaglianze
27,2
33,1
33,1
32,8
31,4
Non so
15,8
12,4
20,4
11,7
14,7
Totale
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
Aumentato le disuguaglianze
Fonte: indagine Censis, 2014
La spesa sanitaria privata è cresciuta da 29.578 milioni di euro nel 2007 a 31.408
milioni di euro nel 2013, con una dinamica incrementale interrotta solo nell’ultimo
anno, presumibilmente per la convergenza di spese di altro tipo sui bilanci di tante
famiglie. Nel nuovo contesto si registra non solo un approfondimento di disuguaglianze antiche, ma anche l’insorgenza di disuguaglianze inedite legate alla nuova
geografia dei confini pubblico-privato in sanità, e all’espansione della sanità a pagamento o, per chi non ce la fa, la rinuncia a curarsi e a fare prevenzione.
Non è un caso che alla richiesta di indicare i fattori più importanti in caso di malattia
di una persona, il 48,1% degli italiani richiama il denaro che si possiede. Più disuguaglianze, quindi, che penalizzano i soggetti più fragili dal punto di vista socioeconomico e che nascono da una erosione di fatto della copertura pubblica, e dalla
necessità per i cittadini di ricorrere in misura maggiore all’acquisto di prestazioni
nel privato.
In ogni caso il servizio sanitario rimane una istituzione essenziale e non può essere
smantellato o ridimensionato drasticamente: è l’86,7% dei cittadini a ritenere che
nonostante i suoi difetti, il Servizio sanitario nazionale sia comunque fondamentale
per garantire salute e benessere a tutti.
54
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
Informati e incerti: gli effetti negativi del boom
dell’informazione sanitaria
Negli ultimi decenni è cresciuta l’attenzione della popolazione rispetto ai temi sanitari: gli italiani si giudicano sempre più informati sui temi sanitari e indicano di
prestare sempre più attenzione quando si parla di salute. Se, da un lato, il bagaglio
di saperi degli italiani sui temi sanitari va ricondotto prima di tutto ai professionisti
della sanità (in particolare al medico di medicina generale), dall’altro appare sempre
più ampia la porzione di popolazione che afferma di tradurre quanto appreso in tv,
sulla stampa o su internet in comportamenti finalizzati alla prevenzione o alla cura
della salute. La pratica dell’e-health, sempre più diffusa (il 41,7% degli italiani nel
2014 cerca informazioni online sulla salute), ha inevitabilmente contribuito a ridisegnare il rapporto che il paziente instaura con il medico. Non di rado le informazioni
reperite online vengono chiamate in causa al momento del confronto diretto con il
medico e utilizzate per discutere e confrontarsi sui risultati, ma anche per contestare
al medico l’esattezza della sua diagnosi. In aumento è anche il ricorso a forum e
blog per discutere di questioni sanitarie (fig. 3).
)LJ&LUFRVWDQ]H FKH VL VRQR YHULÀFDWH LQ FRQVHJXHQ]D GHOO·XVR GL LQWHUQHW SHU TXHVWLRQL
sanitarie (val. %)
58,1
Cercare su internet informazioni per capire
meglio le indicazioni del medico
Verificare la diagnosi e le indicazioni del medico
mediante una ricerca su internet
55,3
Discutere con il medico dei risultati delle sue
ricerche su internet
37,1
Prenotare una prestazione o ottenere
un servizio amministrativo online
Non ricorrere al medico perché ha già ottenuto su
internet le informazioni necessarie per far fronte
al suo problema sanitario
Contestare al medico l’esattezza di diagnosi
e terapie in base a quanto ha appreso su internet
29,8
21,6
20,5
Ricevere attraverso i social network informazioni
utili sulla salute senza averle cercate
20,4
Seguire un blog o far parte di un forum di
discussione su temi della salute
Consultare un sito di associazioni dei pazienti per
capire meglio le caratteristiche di una malattia,
cosa fare, a chi rivolgersi
Iniziare una cura grazie alle informazioni reperite
su internet senza parlarne con il medico
19,9
19,3
18,8
Discutere sui social network di episodi relativi
alla salute
17,8
16,2
Chiedere un consulto medico su un forum
Altro
3,0
,OWRWDOHQRQqXJXDOHDSHUFKpHUDQRSRVVLELOLSLULVSRVWH
Fonte: indagine Censis, 2014
55
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
L’esposizione a un numero molto elevato di contenuti determina come conseguenza
un’alterazione della percezione relativa al proprio livello di conoscenze su temi sanitari. Questa discrepanza tra conoscenze presunte e informazioni possedute è stata
messa in luce da diverse ricerche che il Censis ha condotto tra il 2012 e il 2014,
dalle quali è emerso che la conoscenza su temi sanitari non risulta completamente
adeguata anche nei casi in cui il soggetto risulti direttamente coinvolto in una specifica situazione patologica. Tra i pazienti affetti da fibrillazione atriale, ad esempio,
solo il 58,8% ha correttamente definito l’ictus una malattia del cervello, con un dato
che varia con il titolo di studio: dal 74,1% di chi ha più titoli di studio al 45,6% di
chi ha titoli più bassi, rivelando un’incertezza particolarmente grave in quanto presente in una popolazione ad alto rischio. Cittadini e pazienti si ritrovano dunque
spesso sotto una pioggia di contenuti e notizie tra cui non è sempre facile selezionare
le informazioni corrette e affidabili. E così è sempre più ampia, e anzi nell’ultimo
anno è diventata maggioritaria, la percentuale di italiani che pensano che troppe informazioni sulla salute rischiano di creare confusione e incertezza.
Dove e perché sta diventando difficile
nascere in Italia
La denatalità è un dato ormai strutturale del nostro Paese, che presenta uno dei tassi
di natalità più bassi a livello europeo (8,5 bambini nati per 1.000 abitanti). Nel 2013
si è raggiunto il minimo storico dei nati (514.308) dopo il massimo relativo di
576.659 del 2008: una riduzione di circa 62.000 nati.
C’è da valutare un primo elemento strutturale legato alla riduzione del numero di
donne in età fertile lungo tutto il territorio nazionale, sia italiane che straniere. Ad
oggi le donne fertili dai 15 ai 30 anni sono circa 4,9 milioni, poco più della metà
delle circa 8.660.000 che hanno dai 31 ai 49 anni. Inoltre, questo numero progressivamente sempre minore di donne fertili tende a fare figli sempre più tardi (l’età
media al parto di 31,4 anni è tra le più alte in Europa), riducendo così nei fatti la
fertilità e la possibilità di avere figli, soprattutto oltre il primo e il secondo. A confermare questa tendenza a ritardare la procreazione è la recente indagine del Censis
sulla fertilità, dalla quale emerge che per il 46% degli italiani una donna che vuole
avere figli dovrebbe cominciare a preoccuparsi di non averne non prima dei 35 anni,
come segnale ulteriore di un modello sociale segnato dalla tendenza a procrastinare
tutti i momenti di passaggio alla vita adulta.
Al Sud si registra una natalità più bassa di quella del Nord e del Centro (tab. 6). Si
tratta di un’area che gode meno dell’effetto compensatorio della fecondità delle straniere e a questo aspetto vanno associati fattori strutturali legati al quadro di incertezza occupazionale ed economica che contribuiscono certamente a una profonda
revisione anche dei modelli culturali relativi alla procreazione. Gli indicatori di precarietà della condizione lavorativa, come la quota di occupati a tempo determinato
e collaboratori da almeno cinque anni, così come quella dei dipendenti con bassa
56
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
paga, evidenziano in modo netto la condizione più problematica dei residenti al Sud.
Inoltre, il tasso di disoccupazione per i 25-34enni del Mezzogiorno sfiora il 30% e
quello femminile totale il 21,5% contro il 9,5% del Nord.
Tab. 6 - Tassi di natalità e nati da madri straniere, 2008-2013 (val. %)
7DVVRGLQDWDOLWj
Diff. ass. tasso Diff. ass. tasso
2008-2013
2012-2013
Val. % nati
da madri
straniere
2012
2008
2012
2013
9,1
8,5
8,1
-1,0
-0,4
25,0
9DOOHG·$RVWD
10,3
9,3
8,3
-2,0
-1,0
19,5
Lombardia
10,4
9,4
8,9
-1,4
-0,5
27,3
Trentino Alto Adige
10,8
10,2
9,9
-0,9
-0,3
22,2
Veneto
10,1
9,1
8,6
-1,6
-0,6
26,8
Friuli Venezia Giulia
8,6
8,1
7,7
-0,9
-0,4
22,0
Liguria
7,9
7,4
7,0
-0,9
-0,4
24,0
Emilia Romagna
9,9
9,0
8,6
-1,3
-0,4
29,8
Toscana
9,3
8,5
7,9
-1,3
-0,5
24,2
Umbria
9,5
8,6
8,3
-1,2
-0,3
24,7
Marche
9,5
8,6
8,2
-1,3
-0,4
23,9
10,6
9,6
9,1
-1,4
-0,5
19,6
Abruzzo
9,0
8,5
8,2
-0,9
-0,4
15,1
Molise
7,9
7,4
7,2
-0,7
-0,2
9,0
10,6
9,5
9,1
-1,5
-0,4
6,0
Puglia
9,5
8,6
8,3
-1,2
-0,3
6,0
Basilicata
8,4
7,8
7,1
-1,3
-0,7
7,4
Calabria
9,1
8,7
8,5
-0,6
-0,2
9,4
10,0
9,3
8,8
-1,2
-0,4
6,7
Sardegna
8,2
7,6
7,2
-1,0
-0,4
6,9
Nord
9,8
9,0
8,6
-1,3
-0,5
26,6
Centro
9,9
9,0
8,6
-1,4
-0,5
21,9
Mezzogiorno
9,7
8,9
8,5
-1,2
-0,4
7,2
Italia
9,8
9,0
8,5
-1,3
-0,4
19,0
Piemonte
Lazio
Campania
Sicilia
Fonte: elaborazione Censis su dati Istat
Non stupisce quindi che, interrogati sulle possibili cause della scarsa propensione
degli italiani ad avere figli, gli intervistati della recente ricerca del Censis sulla fertilità abbiano sottolineato nella grande maggioranza (85,3%) il peso della cause economiche, e in misura più marcata proprio al Sud (91,5%). Se l’83,3% degli italiani
57
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
è convinto che la crisi economica abbia un impatto sulla propensione alla procreazione, rendendo la scelta di avere un figlio più difficile da prendere anche per chi lo
vorrebbe, questa quota raggiunge il 90,6% proprio tra i giovani fino a 34 anni, che
sono contemporaneamente coloro che più subiscono l’impatto della crisi e nello
stesso tempo dovrebbero essere i protagonisti delle scelte di procreazione (fig. 9).
)LJ&DXVHGHOODVFDUVDSURSHQVLRQHDGDYHUHÀJOLLQ,WDOLDSHUDUHDJHRJUDÀFD (val. %)
Nord-Ovest
Nord-Est
Centro
Sud e isole
Totale
91,5
85,3
79,8 80,9
85,3
40,2 39,1
43,4
38,1 40,0
38,7
29,4
Economiche
Culturali
33,9
29,0
32,1
Politiche
Fonte: indagine Censis, 2014
Il rischio di scissione tra il welfare e i giovani
Esiste un’accentuata diversificazione generazionale delle condizioni di vita e delle
opportunità tra i cittadini che si riflette anche nella composizione dei bisogni sociali
di tutela. Più in particolare, c’è un “dare e avere” rispetto al welfare che in questa
fase storica penalizza pesantemente i giovani, fino a produrre una sorta di loro estraneità alla protezione sociale.
La radice della fragilità globale della condizione giovanile è occupazionale: nel 2004
era occupato il 60,5% dei giovani, nel 2012 era occupato il 48%. In meno di dieci
anni sono scomparsi oltre 2,6 milioni di occupati e il costo della perdita ammonta a
oltre 142 miliardi di euro.
Alle difficoltà reddituali si affianca una fragilità delle condizioni patrimoniali, in
particolare in relazione alle altre generazioni: nel 2012 la ricchezza familiare netta
delle famiglie con capofamiglia giovane risulta pari a 106.766 euro (-25,8% rispetto
al 1991), laddove le famiglie con capofamiglia un baby-boomer di età compresa tra
35 e 64 anni hanno visto un incremento del 40,5% e quelle con capofamiglia un anziano addirittura di quasi il 118% (tab. 8).
58
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
Tab. 8 - Ricchezza familiare netta per classe di età del capofamiglia (1), 1991-2012 (euro costanti
e var. %)
1991
2012 (2)
Var. % 1991-2012
Fino a 34 anni
143.811
106.766
-25,8
Da 35 a 64 anni
199.442
280.214
40,5
65 anni e oltre
125.281
272.887
117,8
Totale
169.008
261.295
54,6
(1) Inteso come maggiore percettore di reddito
'HÁD]LRQDWRXWLOL]]DQGRO·LQGLFH)RL
Fonte: elaborazione Censis su fonti varie
In questa fase, poi, sulla fragilità patrimoniale e di reddito si abbatte una serie di
spese impreviste che i giovani richiamano come una sorta di incubo (affitto, spese
condominiali, spese per le bollette di luce, gas, telefono, ecc.). Esiti di questa situazione socio-economica dei giovani sono la necessità nel quotidiano di stringere la
cinghia e, al contempo, una dipendenza strutturale dalle famiglie di provenienza:
dei circa 4,7 milioni di giovani che vivono per conto proprio, oltre un milione non
riesce ad arrivare a fine mese; si stimano infatti in 2,4 milioni i giovani che ricevono
regolarmente o di tanto in tanto un aiuto economico dai propri genitori. L’aiuto regolare genera un flusso di risorse pari a oltre 5 miliardi di euro annui.
In tale contesto, il rapporto dei giovani con il welfare sta diventando più problematico, poiché il 40,2% dei giovani dichiara che negli ultimi dodici mesi ha verificato
che ci sono prestazioni di welfare (sanitarie, per istruzione, di altro tipo) che prima
aveva gratuitamente e per le quali ora deve pagare un contributo, il 57,5% registra
prestazioni per le quali è aumentato il contributo che già pagava e l’11,7% richiama
prestazioni che prima aveva gratuitamente o con un contributo e che ora deve pagare
per intero. Non avere le spalle coperte e dipendere strutturalmente dai genitori genera
un inevitabile deficit di progettazione nella vita.
Altro che un costo:
le funzioni economiche e sociali dei longevi
Se si considerano la spesa pubblica per le pensioni, pari in Italia al 61,9% della spesa
per prestazioni sociali (il 16,1% in più della media Ue), e l’elevato consumo di sanità
pubblica, non può non emergere un notevole costo sociale della longevità. In realtà,
occorre leggere come la crescente complessità della condizione longeva rimetta in
discussione i meccanismi di welfare più consolidati.
In primo luogo, va sottolineata la crescente tendenza dei longevi a integrare la propria pensione: le pensioni sono il 64,3% del reddito familiare degli anziani, i redditi
da capitale il 27,6%, quelli da lavoro dipendente o da libera professione l’8,1%. Di
particolare importanza sono le forme di partecipazione al mercato del lavoro, che
sfatano il tabù di una piena coincidenza tra terza età e pensionamento o, più ancora,
quello di una definitiva fuoriuscita dal mercato del lavoro: svolgono attività lavoraiva
regolare o in nero quasi 2,7 milioni di persone con 65 anni e oltre. Inoltre, la ric-
59
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
chezza familiare netta delle famiglie anziane è cresciuta del 117,8% tra il 1991 e il
2012 e vale in media 273.000 euro: un quadro di buona disponibilità economica che
ridimensiona le letture poveriste che troppo spesso associano la vecchiaia alla povertà e alla marginalità.
C’è poi una serie di fenomenologie che vedono i longevi non come passivi destinatari di risorse monetarie o di servizi, piuttosto tra i protagonisti di una distribuzione
orizzontatale che colma i vuoti del welfare. Un esempio è rappresentato dai longevi
che si prendono cura in modo regolare di altre persone anziane parzialmente o totalmente non autosufficienti, che risultano essere oltre 972.000, mentre 3,7 milioni
lo fanno di tanto in tanto. Un altro esempio è rappresentato dai 3,2 milioni che si
prendono regolarmente cura dei nipoti e dai quasi 5,7 milioni che lo fanno di tanto
in tanto.
Un altro filone di impegno da protagonisti dei longevi è quello del supporto economico fornito alle famiglie di figli e nipoti. Sono oltre 1,5 milioni i longevi che contribuiscono regolarmente con i propri soldi alla famiglia di figli o nipoti, mentre
sono circa 5,5 milioni i longevi che lo fanno di tanto in tanto (tab. 12).
Tab. 12 - Il contributo dei longevi alle reti familiari (v.a.)
Regolarmente
Di tanto in tanto
Totale
Si occupa dei nipoti
3.211.000
5.637.000
8.848.000
Contribuisce con risorse monetarie
DOODIDPLJOLDGLÀJOLHRQLSRWL
1.565.000
5.447.000
7.012.000
972.000
3.719.000
4.691.000
Si occupa di altri anziani
Fonte: indagine Censis, 2014
60
Territorio e reti
(pp. 271 – 346 del volume)
La numerazione di tabelle, tavole e figure riproduce quella del testo integrale
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
La spesa per le politiche di coesione si arena
nella palude dei lavori pubblici
Le difficoltà ad avviare e portare a compimento lavori pubblici importanti, anche
quando si dispone di risorse dedicate, tornano periodicamente all’attenzione nazionale in relazioni a emergenze (vedi alluvione di Genova) o al prolungarsi indefinito
di operazioni complesse (come la ricostruzione post-sismica dell’Aquila). Il tema
si incrocia con un’altra grave criticità nazionale, cioè il parziale e limitato utilizzo
delle risorse comunitarie. Al riguardo, utili informazioni derivano dagli 807.000 progetti monitorati nell’ambito delle politiche di coesione 2007-2013. Il volume di risorse programmate corrispondente a questa massa di progetti è di poco superiore
agli 80 miliardi di euro, cui corrisponde una spesa certificata pari (a luglio 2014) ad
appena 32,3 miliardi di euro, con un avanzamento cioè del 40,4%. Di questi 80 miliardi di euro programmati, ben 45,6 miliardi (il 57%) sono relativi a interventi infrastrutturali, cioè ad opere pubbliche. In misura minore i progetti monitorati
riguardano acquisizioni di beni e servizi (21% dei finanziamenti) e incentivi alle imprese (10% dei finanziamenti) (tab. 1).
7DE3ROLWLFKHGLFRHVLRQHFRVWRWRWDOHHVSHVDHIIHWWXDWDSHUQDWXUDGHOSURJHWWR
DOJLXJQR(miliardi di euro e val. %)
Natura del progetto
Costo totale
Spesa effettuata
Infrastrutture
45,6
9,3
20,4
Acquisto beni e servizi
20,6
13,7
66,5
Incentivi alle imprese
9,8
6,2
63,2
Contributi a persone
3,1
2,1
67,7
Conferimenti capitale
0,9
0,9
98,0
80,0
32,3
40,3
7RWDOH
Avanzamento % della spesa
Fonte: elaborazione Censis su dati OpenCoesione
Se si analizza l’avanzamento della spesa si nota come proprio nel caso degli inter venti di natura infrastrutturale
le percentuali
sono decisamente deludenti: a un anno
dalla chiusura del periodo di programmazione europea si è speso appena un quinto
delle risorse (20,4%). Nel caso degli acquisti di beni e servizi, invece, così come in
quello dei contributi alle persone, la spesa certificata equivale a due terzi delle risorse, in quello degli incentivi alle imprese si attesta al 63% del costo totale.
Il lungo e complesso processo amministrativo e tecnico sotteso alla realizzazione
delle opere pubbliche rappresenta evidentemente il principale fattore critico che penalizza la capacità italiana di utilizzare le risorse comunitarie e nazionali. Questo
dovrebbe essere il tema su cui concentrare principalmente l’attenzione per migliorare
la capacità di spesa nell’ambito delle politiche di coesione dei prossimi anni.
62
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
L’Italia metropolitana
Il tema del governo delle aree metropolitane ha sicuramente una grandissima rilevanza in Europa. Sempre vivo è il dibattito tra urbanisti, sociologi, statistici sulle
modalità di classificazione e sull’interpretazione dei fenomeni che interessano i
grandi agglomerati urbani. D’altra parte, circa il 68% della popolazione dell’Unione
europea risiede attualmente in regioni metropolitane dove si generano più di due
terzi del Pil europeo. Anche in Italia il tema ha di recente assunto notevole centralità,
assumendo tuttavia un connotato di assoluta specificità, che non trova riscontro in
Europa. Il dibattito ha infatti interessato più la sfera politica che quella scientifica e
si è polarizzato sulla istituzione, attraverso la legge nazionale, della cosiddetta “Città
metropolitana”, ossia di un nuovo ente a cui assegnare le funzioni del governo metropolitano in un numero consistente di realtà territoriali. Nella sostanza, il tema è
stato utilizzato per fronteggiare contingenze sicuramente importarti per il Paese, ma
che poco hanno a che fare con la questione, necessaria e urgente, di governare i processi di addensamento metropolitano di alcune circoscritte aree del Paese.
Oggi sarebbe interessante chiedersi quanti sono i cittadini italiani che hanno consapevolezza di vivere all’interno di un’area metropolitana. Difficile comunque che arrivino, o anche che si avvicinino, a quei 21 e più milioni di abitanti che possono
desumersi dall’applicazione della legge 56 in vigore dall’8 aprile 2014 (“Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni”).
Eppure questo è quanto si può desumere dal calcolo degli abitanti delle 9 Città metropolitane istituite nelle Regioni a statuto ordinario più le 4 delle Regioni a statuto
speciale (tab. 5).
7DE/H QXRYH &LWWj PHWURSROLWDQH FRPXQL VXSHUÀFLH SRSROD]LRQH H GHQVLWj GHPRJUDÀFD
(v.a.)
Regioni
Città
metropolitana
Numero
di comuni
6XSHUÀFLH
(kmq)
Popolazione
Densità
GHPRJUDÀFD
(ab./kmq)
Lazio
Roma
121
5.380,95
4.321.244
803,06
Lombardia
Milano
134
1.578,90
3.176.180
2.011,64
Campania
Napoli
92
1.171,13
3.127.390
2.670,40
Piemonte
Torino
315
6.821,96
2.297.917
336,84
Puglia
Bari
41
3.825,41
1.261.964
329,89
Sicilia
Palermo
27
1.395,95
1.072.724
768,45
Toscana
Firenze
42
3.514,38
1.007.252
286,61
Emilia Romagna
Bologna
56
3.702,41
1.001.170
270,41
Liguria
Genova
67
1.838,47
868.046
472,16
Veneto
Venezia
44
2.466,49
857.841
347,80
Catania
27
952,11
788.238
827,89
Reggio Calabria
97
3.183,19
559.759
175,85
423,45
Sicilia
Calabria
Sicilia
Messina
51
1.129,50
478.285
Sardegna
Cagliari
16
1.113,10
421.986
379,11
1.130
38.073,95
21.239.996
557,86
7RWDOH
Fonte: Anci
63
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
È forte la sensazione che alle radici delle scelte italiane ci siano tante ragioni di opportunità politica e pochi riferimenti alle esigenze di assicurare un governo metropolitano là dove serve davvero. In questa fase è molto importante che i nuovi enti
assumano rapidamente legittimazione democratica aprendosi all’esterno, alimentando un dibattito sulle loro funzioni e sul traino possibile per i meccanismi socioeconomici e le funzioni metropolitane che si dipanano nell’area vasta. I temi da
affrontare non sono di poco conto, a partire dai rapporti tra i Comuni capoluogo e
quelli ricadenti nel perimetro delle ex Province. Erano rapporti complicati quando
si dipanavano al livello di un soggetto terzo ed è probabile che da ora in poi lo saranno ancora di più, specie se si vorranno sottrarre spazi di potere decisionale delle
istituzioni comunali trasferendoli ai nuovi enti. Non si può trascurare il fatto che
esisteranno Città metropolitane composte da 315 Comuni (Torino) e altre da 16 (Cagliari) con problematiche di sviluppo e gestione dei servizi assolutamente diverse
tra loro.
Gli italiani e l’auto: le determinanti economiche e
sociali di un rapporto da ricostruire
Tra il 2003 e il 2010 il segmento del mercato italiano dell’auto costituito dai privati
si è mantenuto sostanzialmente stabile con circa 1,6 milioni di autovetture immatricolate ogni anno (il range di variazione andava da 1,4 a 1,8 milioni). Nel 2011 si è
registrato un primo assestamento in basso (poco meno di 1,2 milioni di autovetture
vendute). Il 2012 è stato l’anno del crollo, con circa 900.000 vetture vendute (-22,8%
rispetto al 2011), confermato poi nel 2013, con 833.000 vetture. Nel 2014, i segnali
relativi alle vendite nei primi sei mesi confermano il trend di un sostanziale dimezzamento delle vetture vendute rispetto agli anni della prima decade del millennio.
Di fronte a una fenomenologia di questa portata è inevitabile chiedersi cosa stia accadendo a questo settore che ha una rilevanza strategica nel panorama economico e
occupazionale del Paese e che costituisce il sostrato imprenditoriale sul quale poggiano le scelte di mobilità degli italiani. Gli italiani che si spostano quotidianamente
per motivi di lavoro o di studio, ossia la componente preponderante della domanda
di mobilità che esprime il Paese, sono quasi 29 milioni (2,1 milioni in più rispetto a
dieci anni fa). Per soddisfare la domanda di mobilità pendolare l’auto privata è di
gran lunga il mezzo più utilizzato: 60,8% (44,9% del totale come conducente e
15,9% come passeggero). Si tratta di un dato peraltro in crescita nel decennio (58,7%
del totale nel 2001) che attesta la perdurante centralità dell’auto nelle scelte di chi
quotidianamente deve raggiungere il proprio luogo di lavoro o di studio.
Ma la centralità dell’auto negli equilibri del Paese si legge anche nel suo peso economico complessivo. La filiera dell’automotive vale 421.500 addetti diretti (26.500
in meno rispetto al 2008) che, uniti all’indotto da essi generato, sono stimabili complessivamente in 1,2 milioni di addetti. Il fatturato diretto delle aziende della filiera
64
55,8
Fatturato
(mld. euro)
47,5
810
95.000
2013
-14,8
-10,0
-9,5
var. %
Fonte: elaborazione Censis su stime Unrae
900
105.000
Aziende
Addetti
2008
Produzione
51,8
15.806
173.000
2008
40,0
14.200
160.500
2013
-22,8
-10,2
-7,2
var. %
Distribuzione e assistenza autorizzata
7DE/DÀOLHUDLWDOLDQDGHOO·automotive(v.a. e var. %)
47,84
2.600
170.000
2008
39,0
2.400
166.000
2013
Componentistica
-18,5
-7,7
-2,4
var. %
155,4
19.306
448.000
2008
126,5
17.410
421.500
2013
Totale
-19,2
-9,8
-5,9
var. %
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
vale 126,5 miliardi di euro (in calo rispetto ai 155,4 del 2008) corrispondente al
7,8% del Pil del Paese. Nella sostanza, tra il 2008 e il 2013 la crisi dell’auto ha prodotto la perdita di 1,8 punti di Pil (tab. 8).
65
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
L’irresistibile voglia di nuovi stadi nelle città italiane
Dopo l’esperienza apripista dello Juventus Stadium, in cui si è riusciti a importare
il modello degli stadi inglesi (proprietà dei club, tribune vicine al campo di gioco,
elevato livello di comfort e corredo di attività commerciali e di intrattenimento), si
parla molto della realizzazione di nuovi stadi per il calcio anche in altre città italiane.
La convinzione dei club sembra essere quella che solo stadi di proprietà, più piccoli
e confortevoli, gestiti come grandi attrattori del tempo libero, possano garantire quei
consistenti ricavi aggiuntivi necessari per il rilancio del settore. In effetti, i raffronti
europei sul fronte dei cosiddetti “ricavi da stadio” (vendita dei biglietti, abbonamenti
e altre attività commerciali relative alle partite giocate in casa) segnalano una distanza notevole tra i club italiani e quelli spagnoli, inglesi e tedeschi. Gli incassi
della stagione 2012/2013 di squadre come Manchester United (127,3 milioni di
euro), Barcellona (117,6 milioni), Real Madrid (119 milioni) o Bayern Monaco (87,1
milioni) sono incomparabili con quelli, assai più modesti, dei maggiori club italiani:
Juventus (38 milioni di euro), Milan (26,4 milioni), Roma e Inter (rispettivamente
20,1 e 19,4 milioni) (fig. 7).
)LJ5LFDYLQHOODVWDJLRQHGHLJUDQGLFOXEHXURSHLHLWDOLDQL(milioni di euro)
Ricavi attività commerciali
124,4
168,8
20,1
19,4
26,4
38,0
100
53,2
127,3
87,1
119,0
117,6
300
263,5
272,4
400
200
Totale
398,8
423,8
500
431,2
600
Ricavi diritti televisivi
482,6
518,9
Ricavi stadio
Roma
Inter
Milan
Juventus
Paris
St Germain
Manchester
United
Bayern
Monaco
Barcellona
Real Madrid
0
Fonte: elaborazione Censis su dati Deloitte
Non si può negare che la situazione dei nostri stadi sia piuttosto arretrata: sono generalmente vecchi e, sebbene su di essi si sia intervenuti all’epoca dei mondiali di
Italia ’90, sono rimasti sostanzialmente scomodi e poveri di funzioni complementari.
Inoltre sono ancora in larga misura di proprietà delle amministrazioni comunali.
Anche per effetto delle dirette televisive di tutti gli eventi calcistici, la maggior parte
delle partite si svolge ormai davanti a un pubblico numericamente ridotto: Juventus
a parte, che in media riempie lo Stadium al 93%, negli altri casi i tassi di riempimento
medi sono spesso piuttosto bassi, tra il 30% e il 60%.
66
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
Risorse idriche nazionali:
gli effetti di una cronica debolezza infrastrutturale
I dati riguardanti la gestione delle risorse idriche per uso civile rilanciano l’allarme
su un settore che, mentre cerca di migliorare la propria efficienza gestionale, continua a operare in un contesto di pesante obsolescenza delle infrastrutture di base.
Basta un solo dato per evidenziarlo: le perdite delle reti acquedottistiche tra il 2008
e il 2012 sono aumentate ulteriormente, passando dal 32,1% al 37,4%. In pratica,
rispetto alla totalità dell’acqua che viene immessa in rete, più di un terzo sparisce,
non viene consumata né fatturata, non arrivando all’utente finale (tab. 11).
7DE'LVSHUVLRQLQHOOHUHWLFRPXQDOLGLDFTXDSRWDELOHSHUULSDUWL]LRQHJHRJUDÀFD
(mc dispersi per 100 mc erogati agli utenti)
1999
2005
2008
2012
Nord-Ovest
25,4
25,4
24,7
37,4
Nord-Est
29,1
29,1
28,6
30,0
Centro
31,5
32,4
32,2
32,6
Sud
41,9
41,5
40,3
41,4
Isole
39,0
38,7
38,4
40,9
,WDOLD
32,4
32,4
32,1
37,4
Fonte: Istat
Il dato sulle perdite di rete ci caratterizza come una vera e propria anomalia tra i
grandi Paesi europei: queste sono infatti pari al 6,5% in Germania, al 15,5% in Inghilterra e Galles, al 20,9% in Francia. Questo livello di perdite, certo non consono
agli standard di un Paese avanzato, ha pesanti effetti economici e ambientali obbligando le aziende a prelievi eccessivi alla fonte, contribuendo così al depauperamento
della risorsa. Non è dunque un caso se l’Italia è oggi un Paese che presenta un elevato
prelievo di acqua ad uso potabile (circa 9,5 miliardi di metri cubi nel 2012). Un prelievo, tra l’altro, che tende ad aumentare progressivamente.
Se questa è la situazione degli acquedotti, ancora più allarmante è il ritardo accumulato dal Paese sul fronte della raccolta e depurazione delle acque reflue. Le recenti
stime parlano di un 6-7% del carico inquinante totale che non viaggia in reti fognarie
e di un 20-21% che non viene in alcun modo depurato prima di raggiungere i corpi
idrici di destinazione.
Per recuperare il terreno perduto, rimettendo a posto reti acquedottistiche colabrodo
e realizzando finalmente reti fognarie e impianti di depurazione delle acque reflue
adeguati, servono investimenti rilevanti. Anche da questo punto di vista il confronto
con l’Europa più avanzata è preoccupante: in Italia si investe ogni anno l’equivalente
di 30 euro ad abitante, in Germania 80, in Francia 90 e nel Regno Unito addirittura
100 euro.
67
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
Le politiche energetiche tra obiettivi ambientali e
rapporti costi-benefici
In un quadro comunitario in cui in questi ultimi anni è apparsa evidente la sovraordinazione delle politiche ambientali rispetto alle scelte nel settore dell’energia, fatica
particolarmente l’Italia, il cui mix energetico ha peraltro registrato negli ultimi anni
significative variazioni. Se si guarda all’andamento dei consumi lordi tra il 2000 e
il 2013 per fonte primaria si vede quanto sia diminuito il contributo del petrolio, la
cui quota è passata dal 49,5% al 34,5%, ormai raggiunto in termini percentuali dal
gas (33,5%). Di contro, gli incentivi e i forti investimenti per lo sviluppo e l’adozione
delle tecnologie rinnovabili hanno portato a una crescita del settore che dal 6,9%
del 2000 ha raggiunto nel 2013 il 18% del consumo nazionale.
La penetrazione delle rinnovabili è stata molto significativa nel comparto elettrico,
dove nel 2013 un terzo dei consumi (33,4%) è stato coperto dalla produzione idroelettrica, eolica, fotovoltaica e geotermica (tab. 16). Vale a dire che già oggi abbiamo
superato di ben 8 punti percentuali quel 26,4% che rappresenta l’obiettivo-impegno
assunto dall’Italia per l’anno 2020.
Se in questo ambito fino a pochi anni fa l’impegno del governo è stato focalizzato
sul tema dell’incentivazione, nella fase attuale il tema è invece quello della rimodulazione degli incentivi. Non vi è dubbio che i sussidi, in particolare per il fotovoltaico, sono stati molto onerosi per la collettività: oggi i costi derivanti
dall’incentivazione delle fonti rinnovabili sono coperti per ben 12 miliardi di
euro/anno tramite la componente A3 della bolletta energetica di famiglie e imprese.
Il boom delle nuove rinnovabili non programmabili (eolico e fotovoltaico) ha avuto
naturalmente importanti contraccolpi sul settore della generazione termoelettrica,
comportando una riduzione delle ore di utilizzo degli impianti che, tra l’altro, vengono sempre più impiegati per coprire le punte di carico, con la vanificazione degli
importanti investimenti recenti per la riduzione dell’inquinamento di processo e di
prodotto. Se tutto ciò poteva comportare problemi in uno scenario economico di sostanziale stabilità o di crescita, nell’attuale contesto può determinare effetti non previsti in grado di penalizzare il settore energetico nel suo complesso. Il problema di
come conciliare la fissazione di importanti obiettivi ambientali con l’attenzione alla
competitività del sistema energetico e industriale rappresenta in Europa il punto decisivo anche in vista dei traguardi futuri relativi alla scadenza del 2030.
68
319.129
57.801
313.887
48.123
46.283
Saldo scambio estero
Fonte: elaborazione Censis su dati Terna
339.927
282.953
Destinata al consumo
Energia elettrica
richiesta
7.654
Destinata ai pompaggi
Produzione netta
Energia destinata a
servizi ausiliari
Domanda
Di cui: rinnovabili
7RWDOH
339.480
40.034
293.608
7.618
301.226
5.520
5.569
Geotermica
290.607
193
39
Fotovoltaica
12.065
4.861
4.034
Eolica
12.589
47.227
38.481
Idroelettrica
Termoelettrica
261.328
2008
265.764
Produzione lorda
2007
320.269
44.959
295.500
5.798
301.298
11.534
66.004
292.642
5.342
676
6.543
53.443
226.638
2009
330.455
44.160
302.610
4.454
307.064
11.314
70.815
302.063
5.376
1.906
9.126
54.407
231.248
2010
334.639
45.732
278.569
2.539
281.108
11.124
74.063
302.570
5.654
10.796
9.856
47.757
228.507
2011
7DE3URGX]LRQHORUGDHULFKLHVWDGLHQHUJLDHOHWWULFD(GWh e val. %)
328.220
43.103
288.060
2.689
290.749
11.470
81.715
299.276
5.592
18.862
13.407
43.854
217.561
2012
318.475
42.138
276.337
2.495
278.832
10.970
96.816
289.803
5.659
21.589
14.897
54.672
192.987
2013
-6,3
-9,0
-2,3
-67,4
-4,1
-12,9
101,2
-7,7
1,6
55.256,4
269,3
42,1
-27,4
Var. %
2007-2013
15,3
100,0
1,8
0,0
1,3
12,3
84,7
Val. %
2007
33,4
100,0
2,0
7,4
5,1
18,9
66,6
Val. %
2013
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
69
I soggetti economici dello sviluppo
(pp. 347 – 400 del volume)
La numerazione di tabelle, tavole e figure riproduce quella del testo integrale
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
Il nuovo respiro del manifatturiero italiano
Tra il 2008, con la prima ondata di crisi, e la fine del 2014 l’Italia ha perso più di
47.000 imprese manifatturiere, con una flessione vicina all’8%. La flessione non
accenna a diminuire, dato che solo nell’ultimo anno la riduzione nel comparto è stata
dell’1,1%, con una fuoriuscita di oltre 5.700 imprese. I comparti in maggiore sofferenza sono quelli dei prodotti in legno, dei mobili, della produzione di pc e di prodotti
elettronici, il tessile, i prodotti farmaceutici, la produzione di macchinari, le apparecchiature elettriche e i prodotti in metallo. In questi comparti la flessione del numero di imprese, tra il 2008 e il terzo trimestre del 2014, è stata superiore al 10%
(fig. 1). La riduzione del numero di imprese manifatturiere si è accompagnata a una
drastica riduzione del valore aggiunto, in caduta libera del 17% tra il 2008 e il 2013.
Fig. 1 - Andamento del numero di imprese attive nei principali comparti manifatturieri, 2009-III
trimestre 2014 (var. %)
Rip. e manutenzione macchine
Alimentari
Art. pelle
-5,5
Carta
-6,1
Prod. chimici
-6,5
Art. in gomma
-7,1
Autoveicoli
-7,5
Altre manifatturiere
-8,6
Metallurgia
-9,3
Abbigliamento
-9,5
Stampa e riproduzione
-9,6
Prod. in metallo
-10,7
App. elettriche
-12,0
Minerali non metalliferi
-12,1
Macchinari
-12,1
Prod. farmaceutici
-12,3
Tessile
-12,4
Computer e prodotti elettronici
-13,6
Mobili -15,4
Legno e prod. in legno -16,3
Totale manifatturiero
-7,9
39,2
1,5
Fonte: elaborazione Censis su dati Infocamere
L’Italia ha però rivelato performance eccellenti sui mercati esteri. Ad eccezione del
2009, il livello delle esportazioni ha continuato a crescere, ma soprattutto continua
l’ascesa dei valori medi unitari all’export dei principali prodotti manifatturieri. Continuano a crescere le esportazioni di prodotti hi-tech, ovvero ad elevato contenuto
tecnologico: dalla farmaceutica alle Ict, dall’aerospazio alle apparecchiature elettroniche e di precisione, con una variazione di oltre il 6% tra il 2012 e il 2013, e del
35% rispetto al 2008. Ma crescono costantemente anche le esportazioni dei principali
comparti a media tecnologia, che rappresentano ben il 36% del valore complessivo
delle esportazioni italiane.
L’aggregazione formale o informale tra imprese di uno stesso territorio è ancora
oggi in grado di generare valore, di attivare professionalità, di generare modelli produttivi efficienti. Dal 2010, anno di lancio dello strumento del Contratto di rete, ad
oggi il numero di imprese aderenti a questo tipo di strumento è passato da poche
71
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
decine a migliaia. Attualmente si contano 1.772 Contratti di rete stipulati e 8.954
aziende aderenti, il 44% delle quali è rappresentato da strutture manifatturiere.
I distretti produttivi hanno registrato un incremento delle esportazioni pari al 4,2%
in termini tendenziali nel primo semestre 2014, proseguendo dal 2009 una crescita
ininterrotta attestatasi sempre su livelli più elevati di quelli del resto del sistema manifatturiero. Non solo, ma nella prima parte del 2014 si sono registrati i valori delle
esportazioni distrettuali più elevati di sempre, pari a più di 42 miliardi di euro (fig.
6). C’è ancora industria e imprenditoria di qualità oltre la recessione interminabile
che il Paese sta vivendo e c’è ancora una manifattura creativa, competitiva, in grado
di attivare strategie innovative, nonostante tutto. C’è spazio per parlare di un new
made in Italy.
Fig. 6 - Andamento tendenziale delle esportazioni dei distretti industriali e del manifatturiero
italiano, I semestre 2014 (var. %)
Distretti industriali
4,2
Aree di concentrazione
manifatturiera non distrettuali
Manifatturiero totale
2,2
1,6
Fonte: elaborazione Censis su dati Intesa Sanpaolo
Qualità per competere:
percorsi e strumenti per il sistema produttivo
Tra il 2007 e il 2013 la quota italiana sul commercio mondiale è passata dal 3,6% al
2,8%. Ma dopo l’inevitabile flessione registrata nel 2009 l’Italia è tornata a crescere
sul fronte delle esportazioni, mantenendosi nei primi 20 posti a livello mondiale per
operatività sull’estero. In particolare, il Paese è attualmente all’11° posto tra i principali esportatori a livello mondiale ed è al 4° posto tra i Paesi Ue.
A molti prodotti italiani vengono riconosciute caratteristiche distintive: artigianalità,
design, originalità, funzionalità, contenuto tecnologico attraente, rispondenza alle
aspettative del mercato, carattere innovativo, precisione nelle modalità di lavorazione, modalità di vendita e strategie di marketing innovative. In termini sintetici, i
prodotti italiani sono riconosciuti come prodotti di qualità.
72
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
Da anni i valori medi unitari delle esportazioni di un paniere ampio di prodotti italiani registra trend crescenti. Particolarmente sostenuto risulta l’incremento dei
prezzi di vendita all’estero degli articoli in pelle, dei prodotti agricoli, dei prodotti
tessili, dell’abbigliamento, degli articoli in gomma, dei prodotti della meccanica,
dei prodotti chimici. I dati relativi ai primi sette mesi del 2014 confermano questo
trend positivo: su 12 differenti tipologie di prodotti delle attività manifatturiere, 9
hanno registrato, rispetto al 2012, un incremento del valore medio unitario all’export
(fig. 9).
Fig. 9 - Indice dei valori medi unitari delle esportazioni, 2012 e gennaio-luglio 2014 (numeri indice:
2010=100)
2012
Gennaio-luglio 2014
112,1
Totale prod. attività
manifatturiere
Articoli farmaceutici
Apparecchi elettrici
Metalli di base e
prodotti in metallo
Legno e prodotti in legno
Mezzi di trasporto
Pc, appar. elettronici e ottici
Prodotti delle altre
attività manifatturiere
114,4
110,9
103,5
103,9
104,3
111,5
104,4
104,5
104,9
104,5
106,3
109,3
108,6
111,0
115,1
114,3
Prodotti chimici
Art. gomma, plastica,
min. non metalliferi
Alimentari
115,3
112,2
115,7
110,5
116,2
110,8
Macchinari e apparecchi n.c.a.
119,8
115,2
Tessile e abbigliamento, pelli
123,4
Fonte: elaborazione Censis su dati Istat-Ice
73
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
Impresa e territorio: scenari in transizione
Sfide complesse si profilano all’orizzonte per tutti gli attori istituzionali e di livello
intermedio chiamati a gestire le politiche per il territorio o che nel territorio hanno
un marcato radicamento. Tra il 2009 e la prima metà del 2014 il numero delle imprese attive risulta in forte diminuzione, con una flessione del 2,4%, che tuttavia diviene -7% tra le imprese manifatturiere, -12% in agricoltura, -7,1% nei trasporti
-5,7% nel comparto delle costruzioni (fig. 12).
Fig. 12 - Andamento del numero di imprese attive, 2009-I semestre 2014 (var. %)
Totale imprese
-2,4
Alberghi e ristoranti
9,6
Commercio
-0,4
Costruzioni
-5,7
Trasporti
-7,1
Industrie manifatturiere
Agricoltura
-7,7
-12,0
Fonte: elaborazione Censis su dati Infocamere
Sono numeri troppo grandi per non immaginare che la fisionomia dei territori produttivi, ovvero delle singole aree in cui le imprese sono radicate, non stia rapidamente mutando. Al di là della consueta, quanto innegabile, ripartizione tra il
Centro-Nord, provato dalla crisi ma dotato di una struttura produttiva ancora robusta,
e un Sud in forte ritardo di sviluppo e con aree a forte rischio di degrado sociale, il
Censis ha mappato 8 profili territoriali diversi. La radiografia territoriale che emerge
dalla cluster analysis evidenzia aspetti diversi dell’evoluzione e anche delle forme
di involuzione cui i singoli territori sono andati incontro negli ultimi anni. In particolare:
- lì dove si è maggiormente investito in conoscenza e innovazione, la crisi ha avuto
effetti di medio periodo più attutiti che altrove o sembrano più evidenti gli elementi strategici su cui ricostruire la ripresa;
- nei territori in cui la presenza di reti manifatturiere è più fitta, la diffusione di
nuove competenze innovative utili ad affrontare la crisi sembra più evidente che
nelle aree in cui l’industria ha avuto ed ha un peso minore;
74
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
- negli ambiti territoriali in cui si attuano o si prospetta in modo crescente nel tempo
una commistione tra industria e servizi avanzati, le possibilità di crescita e di
uscita dalla crisi appaiono vicine, rispetto agli ambiti territoriali che puntano in
modo preponderante sulla manifattura tradizionale, ancorché caratterizzata da un
buon posizionamento sui mercati esteri.
White economy: opportunità per il sistema-Paese
In un quadro di crisi economica pervasiva, la rimodulazione al ribasso dei budget
familiari ha riguardato tutte le voci di spesa. Si rinuncia sempre più al superfluo e
si ridefiniscono le priorità di consumo, risparmiando sulle spese essenziali, ma alle
cure mediche difficilmente si rinuncia, anche perché condizionate da situazioni di
urgenza e necessità.
La white economy, ovvero il vasto insieme di servizi, prodotti e professionalità dedicate alla salute e al benessere delle persone, può essere un’opportunità di crescita
per il Paese. Il sistema che attualmente in Italia offre servizi di cura, strumenti diagnostici, farmaci, ricerca in campo medico e farmacologico, tecnologie biomedicali
e servizi di assistenza a malati, disabili o ad altre tipologie di soggetti, genera un
valore della produzione superiore a 186 miliardi di euro annui, il 6% della produzione totale, con un’occupazione superiore a 2,7 milioni di unità (figg. 14-15).
Fig. 14 - Stima del valore della produzione dei comparti afferenti alla white economy, 2012
Valore della produzione
dei principali comparti
della white economy
Stime 2012
Spesa pubblica in R&S
per il settore medicosanitario e nel campo
della tutela della salute
1,0 mld. euro
Attività dei servizi sanitari
110,9 mld. euro
Servizi di assistenza
sociale
21,6 mld. euro
Spesa delle imprese
e spesa pubblica in R&S
nel settore farmaceutico
1,2 mld. euro
Industria farmaceutica
26,6 mld. euro
Spesa delle imprese
in R&S nel settore
biomedicale
e elettrodiagnostico
≈ 400 milioni euro
Produzione e
commercializzazione
di strumenti biomedicali,
elettromedicali e di
diagnostica e relativi servizi
17,6 mld. euro
Valore
della produzione
186,8 mld. euro
6% del valore
della produzione
totale in Italia
Servizi di assistenza
domiciliare, badantato
accompagnamento
9,4 mld. euro
Fonte: elaborazione Censis su dati Istat, Assobiomedica, Farmindustria
75
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
)LJ6WLPDGHOO·RFFXSD]LRQHQHLFRPSDUWLDIIHUHQWLDOODwhite economy, 2012
Attività dei servizi sanitari
1.200.000 occupati
Servizi di assistenza sociale
447.100 occupati
Industria farmaceutica
60.000 occupati
Produzione di strumenti
biomedicali, elettromedicali
e di diagnostica e relativi servizi
52.700 occupati
Servizi di assistenza domiciliare,
badantato, accompagnamento
967.000 occupati
Occupazione
2.733.000 unità
10,9% del totale degli
occupati in Italia
Fonte: elaborazione Censis su dati Istat, Assobiomedica, Farmindustria, Ministero del Lavoro e delle
Politiche Sociali
La white economy rappresenta tutto ciò che afferisce, in primo luogo, all’offerta di
cure mediche e alla diagnostica, oltre all’assistenza professionale, domiciliare o in
apposite strutture per persone disabili, malate, anziane. Questo nucleo centrale di
attività si avvale del lavoro di un numero piuttosto consistente di addetti. In particolare, nel settore delle prestazioni sanitarie operano 1,2 milioni di occupati (personale medico, paramedico, oltre a quello amministrativo e ad altri profili
professionali). Ma il comparto è molto altro, configurandosi come un cluster produttivo dalle molteplici articolazioni. Nel suo perimetro ricade l’industria farmaceutica, che conta 174 fabbriche e più di 6.000 addetti e che in Italia è uno dei comparti
industriali con la più elevata spesa di R&S per addetto. Nel cluster produttivo rientra,
inoltre, l’industria delle apparecchiature biomedicali e per la diagnostica, che conta
poco più di 800 imprese, tra produttori e contoterzisti, e poco più di 1.000 imprese
di distribuzione, più di 52.000 addetti e una consistente capacità di esportazione,
cresciuta in modo significativo soprattutto tra i primi anni 2000 e il 2008 (per poi
attestarsi su livelli più stabili), passando da meno di 3 miliardi di euro di vendite all’estero nel 2000 agli attuali 7 miliardi. Nel cluster va considerato anche il vasto
segmento dell’assistenza personale, delle badanti e dell’accompagnamento, che si
stima generi più di 9 miliardi di euro di valore della produzione e che appare in forte
espansione.
76
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
Vivere a consumo zero: le famiglie e la crisi
Nel 2013, per il secondo anno consecutivo, le spese complessive degli italiani si
sono attestate su livelli inferiori a quelli dei primi anni 2000. Anche nell’anno in
corso i consumi hanno registrato sia nel primo che nel secondo trimestre una variazione negativa in termini tendenziali (-3,6% e -2,9%). Le stime più ottimistiche indicano una variazione di +0,2% a fine 2014. Ridimensionamento è la parola che
meglio descrive i comportamenti di spesa delle famiglie. Dal 2010 a oggi, tutte le
voci hanno registrato una contrazione, ad eccezione di quelle per la telefonia e le
comunicazioni (fig. 18).
Fig. 18 - Andamento delle principali spese delle famiglie (valori concatenati con anno di riferimento il 2010), 2010-2013 (var. %)
Alberghi e ristoranti
-3,3
Giornali, periodici, stampa -23,5
Apparecchiature telefoniche
19,0
Spese d'esercizio mezzi trasporto
Trasporti
Elettrodomestici
Mobili
Manutenzione e riparazione abitaz.
-3,9
-15,6
-9,4
-9,2
-12,8
Abitazione, utenze
Vestiario, calzature
Alimentari, bevande
-1,0
-11,3
-7,8
Fonte: elaborazione Censis su dati Istat
Negli ultimi sei mesi del 2014, il 62% delle famiglie ha indicato di avere ridotto
pranzi o cene fuori casa, il 58% cerca di effettuare piccoli risparmi sulle spese per
cinema e svago, il 47% ha cercato di ridurre gli spostamenti con i mezzi propri per
cercare di risparmiare sulla benzina e quasi il 44% ha modificato i propri comportamenti alimentari al fine di ridurre gli sprechi, spendere meglio e risparmiare (fig.
19).
Se oggi le famiglie italiane disponessero di redditi o di risorse liquide più elevate di
quelle che hanno, nel 77% dei casi le metterebbero da parte e l’effetto sulla propensione al consumo sarebbe nullo. Viceversa, il 20% utilizzerebbe le maggiori disponibilità in denaro per effettuare spese consistenti o comunque oltre una certa soglia
(ad esempio, per la ristrutturazione di un immobile o per l’acquisto di un’autovettura)
e il restante 3% le utilizzerebbe per spese essenziali.
Cambiano anche le modalità di consumo grazie al ricorso diffuso a nuovi strumenti
di spesa come l’e-commerce. Il Censis stima che negli ultimi sei mesi oltre 7 milioni
di famiglie hanno proceduto ad almeno un acquisto online: il 12% ha effettuato un
solo acquisto, mentre il 17% ha effettuato due o più acquisti. Le voci di spesa più
77
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
frequenti nel ricorso all’e-commerce sono i cd e i libri, seguiti dai device elettronici
(tablet, pc, apparecchi fotografici), da abbigliamento e accessori, dall’acquisto di
una vacanza. La prima motivazione degli acquisti via internet è rappresentata dalla
possibilità di pagare per i singoli prodotti prezzi generalmente più contenuti rispetto
a quelli praticati nei punti di vendita tradizionali, seguita dalla comodità dell’acquisto
(fig. 21).
Fig. 19 - Comportamenti di consumo messi in campo negli ultimi 6 mesi dalle famiglie (val. %)
Ridotto pranzi e cene fuori casa
62,0
Ridotto spese per cinema e svago
58,2
Incrementato gli acquisti di prodotti a
marca commerciale
56,1
Incrementato gli acquisti presso
hard discount
47,4
Ridotto spostamenti in auto o scooter
per risparmiare
47,2
Modificato le abitudini alimentari
cercando di risparmiare
43,8
Fonte: indagine Censis, 2014
)LJ3ULQFLSDOLPRWLYD]LRQLGHOO·DFTXLVWRGLSURGRWWLHVHUYL]LYLDLQWHUQHW(val. %)
Prezzi generalmente inferiori a quelli
dei punti vendita tradizionali
72,1
Comodità dell’acquisto
Possibilità di scelta in tutta calma
Maggiore varietà dei prodotti
40,5
12,9
11,1
Possibilità di confrontare tante offerte
e prezzi diversi
9,7
Acquisto di prodotti o servizi non facili
da trovare nei negozi tradizionali
8,5
Fonte: indagine Censis, 2014
78
Comunicazione e media
(pp. 403 – 460 del volume)
La numerazione di tabelle, tavole e figure riproduce quella del testo integrale
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
Il cyberlettore: come la rivoluzione digitale ha
cambiato domanda e offerta di informazione
Oggi in Italia si vende poco più della metà delle copie di quotidiani che si vendevano
venticinque anni fa. Dal 1990, anno del massimo storico delle vendite, con poco
meno di 7 milioni di copie giornaliere, si è scesi sotto i 4 milioni. La quota di italiani
che fanno a meno dei mezzi a stampa nella propria die¬ta mediatica è salita a quasi
la metà della popolazione (precisamente, il 47%). Il 20,8% della popolazione legge
i quotidiani online e il 34,3% i siti web d’informazione. I lettori di quotidiani online
più forti appartengono alla fascia di età adulta (tra i 30-44enni il dato raggiunge il
31,8%). I siti web di informazione non legati direttamente ai quotidiani sono preferiti
anche dai più giovani (il 43% tra 14 e 29 anni, il 52,4% tra 30 e 44 anni) (tab. 1).
7DE/HWWRULGLTXRWLGLDQLFDUWDFHLRQOLQHHVLWLZHEGLLQIRUPD]LRQHSHUVHVVRHWjHOLYHOORGL
LVWUX]LRQH(val. %)
Sesso
Età
Livello di istruzione
Licenza
elementare Diploma
e media
e laurea
Totale
popolazione
Maschi
Femmine
14-29 30-44 45-64 65-80
anni anni anni anni
Quotidiani cartacei
43,5
47,7
39,5
22,9 44,2 51,1 52,3
40,6
46,9
Quotidiani online
20,8
26,4
15,4
21,1 31,8 19,3
6,1
12,3
31,0
Siti web di
informazione
34,3
38,7
30,2
43,0 52,4 27,5
8,4
22,3
48,6
Fonte: indagine Censis, 2013
Mettendo a confronto i dati relativi alle vendite di copie cartacee dei quotidiani e
agli abbonamenti dei loro corrispondenti digitali nel luglio 2013 e nel luglio 2014,
si nota come le prime hanno continuato nel trend regressivo, registrando un calo del
9,8%, mentre i secondi hanno fatto registrare un incremento del 57% (+186.000
unità).
Una domanda di informazione così radicalmente mutata ha determinato un cambio
di paradigma anche all’interno delle redazioni giornalistiche. Si registrano flessioni
nel numero dei giornalisti occupati in tutti i segmenti del settore editoriale. Nel 2013
il calo più pronunciato si è registrato nei periodici (-7,7%), seguiti dai quotidiani
(-5,6%) e dalle agenzie di stampa (-3,9%). In media, il ridimensionamento della
forza lavoro giornalistica è stato del 6,1%, pari in valore assoluto a 602 unità lavorative nei confronti dell’anno precedente. Tra il 2009 e il 2013 il numero dei giornalisti fuoriusciti dal settore dell’editoria giornalistica è stato di 1.662 unità, di cui
887 nell’area dei quotidiani (-13,4%) e 638 in quella dei periodici (-19,4%) (tab. 6).
E se gli iscritti all’Ordine dei giornalisti restano sostanzialmente invariati (112.046
contro i 110.966 del 2011, con un aumento dell’1% circa), sono cambiate però le
condizioni alle quali i giornalisti lavorano. Tra il 2000 e il 2013 si è ridotto il lavoro
dipendente (-1,6%) ed è cresciuto quello autonomo (+7,1%). Se nel 2000 il lavoro
autonomo era svolto da poco più di un giornalista su tre, nel 2012 i giornalisti freelance sono diventati 6 su 10.
80
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
7DE*LRUQDOLVWL RFFXSDWL QHL TXRWLGLDQL QHL SHULRGLFL H QHOOH DJHQ]LH GL VWDPSD (v.a., diff. ass. e var. %)
2009
2010
2011
2012
2013
Diff. ass.
2009-2013
Diff. ass.
2012-2013
Var. %
2009
-2013
Var. %
2012
-2013
Quotidiani
6.644
6.523
6.393
6.101
5.757
-887
-344
-13,4
-5,6
Periodici
3.288
2.891
2.912
2.872
2.650
-638
-222
-19,4
-7,7
Agenzie
1.036
1.076
1.034
935
899
-137
-36
-13,2
-3,9
10.968
10.490
10.339
9.908
9.306
-1.662
-602
-15,2
-6,1
7RWDOH
Fonte: elaborazione Censis su dati Inpgi
L’importanza dell’informazione policentrica
di prossimità
Nelle realtà locali si è affermato un marcato policentrismo degli strumenti mediatici
a disposizione dei cittadini, che passa dal recupero delle testate locali alla sperimentazione delle tante forme di web community, in cui dare valorizzazione alle vicende
delle singole realtà territoriali e alle diverse componenti sociali che animano la periferia territoriale, anche al di là dei soli avvenimenti di cronaca e delle ricorrenti
congiunture politico-elettorali.
A livello locale
si contano
più di 500 televisioni attive, oltre 1.000 emittenti radio, più di un centinaio di quotidiani, una miriade di testate web e blog.
L’apprezzamento del pubblico verso questo tipo di informazione emerge con evidenza dai dati. L’82,4% degli italiani dichiara di aver fatto ricorso a un mezzo di informazione locale negli ultimi sette giorni. Resta la televisione il dominus della
scena mediatica anche a livello locale. Con il 68,9% di utenti, il tg regionale della
Rai è il mezzo più usato. Seguono le tv locali private, con il 51,6% di utenza, e i
quotidiani locali (40,2%), che si confermano il terzo mezzo più seguito. Le radio
locali sono seguite da poco più di un terzo della popolazione (37,4%). L’utenza delle
testate locali online si attesta all’11,8% (tab. 9).
7DE0H]]LGLLQIRUPD]LRQHORFDOLXWLOL]]DWLSHUHWj(val. %)
Età
Totale
Almeno uno
14-29 anni
30-44 anni
45-64 anni
65-80 anni
82,4
63,0
82,3
88,9
93,1
Tg regionale della Rai
68,9
48,2
65,3
75,4
86,3
Tv locali
51,6
36,2
49,1
55,8
65,5
Quotidiani locali
40,2
23,3
40,5
46,4
48,0
Radio locali
37,4
25,4
42,1
44,0
32,1
11,8
12,0
15,2
12,2
5,5
17,6
37,0
17,7
11,1
6,9
Giornali online locali
Nessuno
Fonte: indagine Censis, 2013
81
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
Sono significativi i giudizi espressi dagli italiani in merito alle qualità dei media locali. I soggetti più istruiti, diplomati e laureati, li apprezzano perché li sentono più
vicini alla loro realtà quotidiana (69%), perché forni¬scono notizie utili (39,8%) e
perché è più facile entrare in contatto con le loro redazioni (23,1%), a testimonianza
di un interesse verso i mutamenti in corso nel territorio in cui inserirsi attivamente,
nonché di una necessità di avere un rapporto diretto con i soggetti territoriali (associazionismo sociale, rappresentanze imprenditoriali e categoriali, amministrazioni
pubbliche come Regioni, enti locali, ecc.). Le persone meno istruite li con¬siderano
più credibili (23,7%) e più professionali (14,6%), e in questi media cercano soprattutto un’informazione più semplice e vicina (tab. 10).
7DE*LXGL]LVXLPH]]LGLLQIRUPD]LRQHORFDOLFRQIURQWDWLFRQLPHGLDDGLIIXVLRQHQD]LRQDOH
SHUVHVVRHOLYHOORGLLVWUX]LRQH(val. %)
Sesso
Livello di istruzione
Totale
Maschi
Femmine
Licenza elementare
e media
Sono più vicini alla mia
realtà quotidiana
64,8
65,7
63,9
61,4
69,0
Forniscono più informazioni
utili di carattere pratico
32,5
34,0
31,1
26,5
39,8
6RQRPHQRLQÁXHQ]DELOL
dal potere
25,3
26,2
24,4
24,3
26,5
Permettono di avere
facilmente rapporti diretti
con le redazioni
20,8
21,7
19,9
18,8
23,1
Usano un linguaggio che
apprezzo di più
18,7
18,7
18,8
19,2
18,1
Sono più credibili
18,3
18,4
18,3
23,7
11,9
Sono più ricchi di dibattiti e
approfondimenti
13,4
13,4
13,4
15,3
11,1
Sono più professionali
11,6
9,4
13,7
14,6
8,0
3,3
4,4
2,2
2,6
4,3
2VSLWDQRÀUPHSL
prestigiose
Diploma
e laurea
Fonte: indagine Censis, 2013
L’Italia digitale in Europa
Il 19% dei cittadini europei di 16-74 anni non ha mai usato un computer. A questo
valore medio si avvicinano la Provincia autonoma di Bolzano (23%), l’Emilia Romagna e il Friuli Venezia Giulia (28%), la Lombardia (29%). Valori decisamente
al Sud: la maglia nera nella penetrazione dell’uso del pc spetta
peggiori si registrano
alla Campania (48%), ma anche Piemonte, Umbria (35%) e Lazio (30%) si segnalano con percentuali elevate (tab. 12).
Lo sviluppo della banda larga mobile e la diffusione degli smartphone si candidano
a diventare i vettori di inclusione nella quotidianità virtuale di una parte di popolazione italiana finora dissuasa dalla complessità di uso del personal computer, ma intrigata dalla tecnologia user friendly delle applicazioni su dispositivi mobili. La
priorità di ridurre al 2015 la percentuale di chi non ha mai usato Internet al 15%
della popolazione fissata dall’Agenda Digitale non è però l’unica battaglia che dovrebbe vedere attive le politiche di inclusione e sviluppo digitale del nostro Paese.
82
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
7DE,QGLYLGXLGLDQQLFKHQRQKDQQRPDLXWLOL]]DWRXQFRPSXWHU(val. %)
Regioni
Val. %
Piemonte
35
9DOOHG·$RVWD
29
Liguria
32
Lombardia
29
Abruzzo
37
Molise
41
Campania
48
Puglia
42
Basilicata
37
Calabria
44
Sicilia
42
Sardegna
32
Provincia autonoma di Bolzano
23
Provincia autonoma di Trento
32
Veneto
30
Friuli Venezia Giulia
28
Emilia Romagna
28
Toscana
30
Umbria
35
Marche
31
Lazio
30
Ue 28
19
Fonte: elaborazione Censis su dati Eurostat
L’Italia, infatti, sta accumulando ritardi sul fronte della modernità delle infrastrutture
rispetto agli altri membri dell’Unione europea. Se la banda larga ormai può vantare
una diffusione
con i richiami
di Bruxelles,
sul
fronte
della
in linea
velocità
di con
nessione e sulla diffusione delle cosiddette Nga (Next Generation Access), evoluzione nell’uso degli impianti a fibra ottica, il quadro appare meno roseo. Se nei
progetti strategici dell’Italia c’è il raggiungimento di una copertura a 30Mbps su
tutto lo stivale, e sulla metà addirittura l’implementazione a 100Mbps entro il 2020,
nel 2013 solo il 21% delle famiglie ha potuto avvantaggiarsi di una copertura ultratecnologica (Nga). E per quanto riguarda lo standard delle connessioni, l’1% dei
contratti è stipulato per una velocità pari o superiore a 30Mbps e lo 0% contempla
una velocità di rete pari o superiore a 100Mbps, mentre la media Ue segna un 5%
(tab. 16).
7DE/RVYLOXSSRGHOOHLQIUDVWUXWWXUHGLJLWDOLLQ,WDOLD(val. %)
Italia
Ue 27
21
62
Abbonamenti con velocità di connessione di almeno 30 Mbps
1
21
Abbonamenti con velocità di connessione di almeno 100 Mbps
0
5
Copertura Nga (% di famiglie)
Fonte: elaborazione Censis su dati Eurostat
83
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
La transizione della pubblicità: verso il continuum
tra online advertising e e-commerce
Il primo capitolo della transizione della pubblicità degli ultimi anni è costituito dalla
diffusione di nuove modalità di fruizione: ha fatto il suo ingresso in scena la pubblicità on demand, “fai da te”, autogestita dall’utente-consumatore del web 2.0. Il secondo capitolo è consistito nel passaggio dalla tradizionale réclame delle aziende
alla web reputation attraverso la costruzione di una immagine aziendale 2.0. Oggi
si può parlare di un terzo capitolo di questa transizione: la continuità tra online advertising e e-commerce.
Nei primi sei mesi del 2014 si evidenzia un calo degli investimenti pubblicitari del
2,4%. La televisione ha beneficiato dell’effetto della Coppa del mondo segnando
un +1,3% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, la carta stampata registra
una flessione dell’11%, la radio del 2,9% e internet, dopo la galoppata a due cifre
conosciuta fino al 2012, ha subito una battuta d’arresto (+0,1%) (tab. 17). La televisione si conferma il mezzo dominante, riuscendo a convogliare più della metà
delle risorse spese annualmente dalle aziende per l’informazione commerciale, i
quotidiani assorbono una fetta di mercato pari al 12,7% contro il 7,6% della stampa
periodica, internet si attesta al 7,3% del totale (fig. 1).
Nel commercio elettronico l’Europa registra un giro d’affari pari a 350 miliardi di
euro nel 2013, dimostrando così una buona vitalità. I Paesi con il maggiore sviluppo
sono il Regno Unito, con un valore di 107 miliardi di euro, la Francia, che può contare su un mercato di vendite che pesa 51 miliardi di euro, e la Germania, con 50
miliardi di euro derivanti dall’e-commerce. L’Italia, seppure lontana da queste cifre,
secondo le stime chiuderà il 2014 con più di 13 miliardi di euro e una crescita del
17% rispetto all’anno precedente.
7DE,QYHVWLPHQWLSXEEOLFLWDULSHUPH]]R,VHP,VHP(migliaia di euro e var. %)
Tv
I sem. 2013
I sem. 2014
Var. %
1.897.337
1.922.055
1,3
Radio
184.128
178.797
-2,9
Quotidiani
462.862
414.746
-10,4
Periodici
279.852
249.024
-11,0
Internet
240.198
240.514
0,1
290.980
269.898
-7,2
3.355.358
3.275.035
-2,4
Altro
7RWDOH
Fonte: elaborazione Censis su dati Nielsen
84
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
)LJ4XRWHGHOPHUFDWRSXEEOLFLWDULRSHUPH]]R,VHP(val. %)
Altro
8,2
Internet
7,3
Periodici
7,6
Tv
58,7
Quotidiani
12,7
Radio
5,5
Fonte: elaborazione Censis su dati Nielsen
In Italia la percentuale di consumatori elettronici si attesta al 29% con riferimento a
un negozio online domestico e l’11% ha scelto un rivenditore presente in un altro
Paese dell’Unione europea. Lo stesso vale anche per i tre big spender dell’Ue: nel
Regno Unito il 66% dei consumatori ha premiato un sito inglese, contro un 20% di
compere registrate sul server di un altro Paese europeo. Il 59% dei tedeschi compra
da siti web nazionali, contro il 13% che ha effettuato shopping da portali esteri. Non
dissimile la situazione in Francia, dove il 51% dei consumatori è cliente di una realtà
online di casa propria, a fronte di un 19% che fa shopping oltreconfine (fig. 3).
)LJ3HUVRQHFKHQHJOLXOWLPLGRGLFLPHVLKDQQRFRPSUDWREHQLRVHUYL]LYLDLQWHUQHW(val. %)
Da un rivenditore/provider del proprio Paese
Da un rivenditore/provider di altro Paese Ue
66
59
51
47
29
20
17
19
15
11
Regno Unito
Germania
Francia
Italia
Ue
Fonte: elaborazione Censis su dati Eurobarometro
85
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
Relativismo e soggettivismo narcisista nei media
Sia internet che la televisione consentono l’utilizzo da parte dei genitori di filtri per
evitare che i figli siano esposti a contenuti pericolosi per il loro equilibrato sviluppo
etico e psicologico. Secondo i dati di una ricerca realizzata dal Censis per il Corecom
Lazio (l’Autorità regionale per le comunicazioni), il 42% dei genitori usa un filtro
per l’utilizzo di internet da parte dei figli e solo il 24% usa il parental control in televisione sia per i contenuti definiti “adult”, sia per quelli classificati come “nocivi”
(tab. 23). Ciò
sebbene
gli stessi
genitori
sostengano
che il degrado morale della nostra epoca è fortemente connesso all’offerta dei media. I genitori sono preoccupati,
capiscono il rischio contenuto nei media, ma la loro azione di vigilanza consapevole
appare debole.
7DE/HL XWLOL]]D L ÀOWUL GLVSRQLELOL SHU OD WXWHOD GHL PLQRUL ULVSHWWR D LQWHUQHW H WY (parental
control)"(val. %)
Val. %
Internet
No, non sono interessato a esercitare questo tipo di controllo
41,8
1RWDQWRVHÀOWURLOVXRSFYDVXTXHOORGHJOLDPLFL
6,4
Ho provato, ma è complicato
4,8
Vorrei, ma non sapevo che si potesse
4,6
Sì
7RWDOH
42,4
100,0
Tv (parental control)
Lo uso abitualmente, sia per i contenuti “adult”, sia per quelli “nocivi”
24,1
Lo uso solo per i contenuti “adult”
6,4
Possiedo un vecchio decoder con cui non posso usufruire del parental control
7,5
1RQVRQRPDLULXVFLWRDGDWWLYDUORF·qTXDOFRVDFKHQRQYD
3,0
No, non lo uso
7RWDOH
59,0
100,0
/DGRPDQGDqVWDWDULYROWDDJHQLWRULFRQÀJOLGLDQQL
Fonte: indagine Censis, 2014
86
Governo pubblico
(pp. 461 – 504 del volume)
La numerazione di tabelle, tavole e figure riproduce quella del testo integrale
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
Capitale culturale di un territorio:
chance di crescita non solo economica
Il Censis, con il contributo dell’Assessorato alla Cultura della Regione Calabria, ha
analizzato lo stato dell’arte dell’offerta culturale regionale, misurandone la potenzialità di crescita per individuare alcune linee di sviluppo possibili.
Fra il patrimonio “giacente” - l’eredità materiale delle espressioni culturali del passato - si possono oggi annoverare in Calabria 13 siti archeologici e complessi monumentali, 284 musei, archivi e collezioni, 646 beni vincolati. A questi sono state
poi aggiunte alcune categorie:
- sono stati censiti i luoghi di rappresentazione e di diffusione della cultura come
le librerie (252), le sale teatrali e cinematografiche (rispettivamente, 186 e 60),
le biblioteche (oltre 400); a queste categorie sono state aggiunte le scuole di II
grado, in cui la costruzione e la diffusione della cultura e dell’istruzione rappresenta ovviamente il fine principale della propria attività;
- si è poi data evidenza a quella componente del paesaggio che negli ultimi anni
ha acquisito un forte visibilità e ha attratto l’attenzione del grande pubblico perché
declinata con la domanda di qualità della vita e della conservazione dell’ambiente: in Calabria si contano oggi 72 comuni con patrimonio edilizio storico,
159 centri storici e insediamenti minori suscettibili di tutela e valorizzazione, 13
fra i borghi più belli d’Italia e borghi autentici.
Lungo la dimensione del capitale culturale “vivente” si è ricostruito un palinsesto
che nel 2013 in Calabria ha annoverato 39 grandi eventi di qualità con una estesa
partecipazione (1,3 milioni di presenze, con una media a evento di circa 35.000
partecipanti), un elevato coinvolgimento del territorio (67 comuni), un volume di
spesa che ha sfiorato i 55 milioni di euro e un moltiplicatore, rispetto al finanziamento, molto vicino a 7 (tab. 4).
7DE/·HIIHWWRPROWLSOLFDWLYRGHLHYHQWLFXOWXUDOLGLTXDOLWjRUJDQL]]DWLLQ&DODEULD(v.a.
e euro)
N. visitatori (senza pernottamento)
996.896
Spesa visitatori (euro)
29.311.688
N. turisti (con pernottamento)
326.993
Spesa turisti (euro)
25.653.369
Totale turisti + visitatori (n.)
1.323.889
Totale spesa turisti + visitatori (euro)
54.965.057
Costo complessivo degli eventi (euro)
8.178.666
Effetto moltiplicativo
6,72
Fonte: elaborazione Censis su dati Regione Calabria
88
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
La fisiologia della Pubblica Amministrazione e
il progetto di rinnovamento generazionale
L’allungamento del mantenimento in servizio dei dipendenti pubblici in seguito all’adozione dell’ultima riforma previdenziale, collegato con il blocco del turn over –
unico strumento effettivo di contenimento della spesa utilizzato in questi anni –, ha
creato le premesse per una difficile ricomposizione dei problemi che affliggono la
Pubblica Amministrazione, soprattutto se proiettati nel lungo periodo. Oggi la distribuzione del personale pubblico per età evidenzia (tab. 6):
7DE$Q]LDQLWjPHGLDGLVHUYL]LRGHOSHUVRQDOHGHOOD3XEEOLFD$PPLQLVWUD]LRQH(v.a.)
Comparti
Anni
Servizio sanitario nazionale
18,1
Enti pubblici non economici
22,0
Enti di ricerca
16,2
Regioni e Autonomie locali
19,3
Ministeri
22,4
$JHQ]LHÀVFDOL
21,2
Presidenza del Consiglio dei Ministri
15,5
Scuola
18,0
Istituzioni di Alta Formazione e Specializzazione Artistica e Musicale
17,5
Università
17,3
Enti art.70, comma 4, D.Lgs. 165/01
15,5
Regioni a statuto speciale e Province autonome
14,6
Enti art. 60, comma 3, D.Lgs. 165/01
20,2
Autorità indipendenti
15,9
Corpi di polizia
20,2
Forze armate
15,9
Vigili del fuoco
16,9
Magistratura
20,9
Carriera diplomatica
17,8
Carriera prefettizia
24,7
Carriera penitenziaria
20,5
Totale Pa
19,0
Anzianità media totale Pa nel 2001
16,9
Anzianità media Dirigenti Pa nel 2012
15,8
Anzianità media Personale non dirigente Pa nel 2012
18,5
Anzianità media Docenti scuola a tempo indeterminato nel 2012
18,8
Anzianità media Magistrati, diplomatici, prefetti nel 2012
20,7
Fonte: elaborazione Censis su dati Aran
- un deciso spostamento in avanti dell’età media, che in termini assoluti e relativi
rappresenta di per sé un elemento critico anche per gli aspetti retributivi che porta
con sé in un sistema dove è premiata l’anzianità di servizio e non il merito. Se
nel 2001 l’età media era, infatti, pari a 44,2 anni, nel 2012 era cresciuta di oltre
4 anni portandosi a 48,7;
- una forte concentrazione delle componenti più anziane proprio nella fascia dirigenziale. Dei 182.000 dirigenti della Pa, quasi la metà (46,2%) ha più di 50 anni
e poco più del 14% ha almeno 60 anni (circa 26.000 dirigenti in termini assoluti).
89
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
L’età media è di 52,9 anni ed è di poco inferiore l’età media dei docenti e dei ricercatori universitari (51,2 anni);
- una maggiore incidenza della componente più anziana in comparti come i Ministeri (con un’età media di 51,9 anni e una quota di ultrasessantenni superiore al
10%), la Presidenza del Consiglio (51,8 anni in media), la carriera prefettizia
(52,8 anni).
L’attenzione al ricambio generazionale potrebbe essere il campo di sfida su cui misurare la qualità dell’intento riformistico del Governo. La questione della “staffetta
generazionale” agisce direttamente su un fattore strutturale delle risorse umane che
è dato dall’età, un elemento oggettivo che riflette ciò che accade a livello della popolazione. Bisogna, però, fare i conti anche con il fatto che quasi un dipendente su
cinque ha al massimo assolto alla scuola dell’obbligo. In termini assoluti si tratta di
oltre 600.000 dipendenti, di cui più della metà riconducibile al Servizio sanitario
nazionale (circa 148.000), alla scuola (poco meno di 128.000) e alle Regioni e Autonomie locali (124.000), cui si possono aggiungere altri 24.000 impiegati nelle Regioni a statuto speciale e nelle Province autonome.
Il nodo politico dei fondi strutturali
La crisi ha interrotto in tutta Europa quel processo di riduzione delle disparità regionali che è l’obiettivo ultimo dei fondi di coesione. Fino al 2008 le disparità tra le
economie regionali erano in diminuzione: nel 2000 il Pil medio pro-capite nel 20%
delle regioni più sviluppate era di circa 3,5 volte più alto di quello delle regioni meno
sviluppate. Questa disparità è andata diminuendo fino a raggiungere quota 2,8 nel
2009, per poi ricominciare a risalire.
Il fenomeno appare più chiaro analizzando l’andamento occupazionale. Nel 2000 il
tasso di disoccupazione medio nel 20% delle regioni con maggiore difficoltà era del
17,6% a fronte del 3,4% per il 20% delle regioni a maggiore occupazione. Il rapporto
tra i due valori era di 5,2: una distanza che si è andata assottigliando fino al 2007,
per poi risalire fino al 5,3 del 2013, portandosi su un valore più alto di quello di partenza, a testimoniare che nel 2013 la disparità regionale, in riferimento all’occupazione, era maggiore di quella del 2000.
Alla fine del periodo di programmazione 2007-2013 dei fondi strutturali, finalizzati
alla convergenza fra regioni ricche e regioni in ritardo di sviluppo, le risorse effettivamente impiegate in Italia sono risultate pari al 54% di quelle disponibili. Nello
scampolo di programmazione che ci resta (2014-2015) dovremmo portare a termine
gli interventi per il restante 47% (quasi 14 miliardi di euro) con una capacità di spesa
corrispondente a un miliardo al mese da qui alla fine: obiettivo forse difficilmente
raggiungibile.
90
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
Piccole imprese e ricercatori
puntano molto sui fondi di ricerca europei,
ma devono migliorare la progettazione
Nella società della conoscenza, il potenziale di ricerca di un Paese incide in maniera
determinante sulla sua capacità competitiva, dunque la ricerca andrebbe pensata
come un investimento e non come una spesa. Nel nostro Paese si stima un investimento in ricerca di 17,5 miliardi di euro, corrispondenti all’1,2% del Pil: un valore
al di sotto della media europea, che è dell’1,8%. Girano pochi investimenti, e questo
ha spinto negli anni i ricercatori e le imprese italiane a inseguire le cospicue fonti di
finanziamento comunitarie: moltissime le domande presentate nell’ambito del vecchio 7° Programma Quadro (11.474 idee di ricerca), ma pochi i progetti finanziati.
Siamo dietro Germania, Regno Unito e Francia, con un tasso di successo del 13,4%,
ancora una volta al di sotto della media europea (17,9%).
Con un budget di circa 80 miliardi di euro (il 30% in più dell’ultimo programma
quadro), da stanziarsi nei prossimi sette anni, Horizon 2020 non è solo il più grande
programma di ricerca dell’Unione europea, ma uno dei più grandi al mondo finanziato con fondi pubblici, e con un approccio integrato a favore delle Pmi, a cui dedica
il 15% della dotazione finanziaria: una mole di finanziamenti senza precedenti che
intende sovvenzionare le più innovative tra le piccole imprese, quelle con un potenziale di crescita maggiore.
Tra le domande pervenute sullo Strumento per le Pmi di Horizon 2020, l’Italia gioca
un ruolo di primo piano: ben 436 proposte italiane su 2.666 pervenute (il numero
più alto tra i Paesi dell’Unione) per la prima call di Fase 1 e 70 domande su 580 per
la prima call di Fase 2 (anche in questo caso il numero più alto di proposte pervenute
alla Commissione rispetto agli altri Paesi europei). Se però consideriamo i risultati
della prima valutazione (quella effettuata sulla Fase 1), portiamo a casa 20 progetti
finanziati su 436 proposte presentate. Un tasso di successo molto basso (4,6%), malgrado siamo il terzo Paese per numero di imprese sovvenzionate, dietro a Regno
Unito (26 con un tasso di successo dell’11,2%) e Spagna (39 con un tasso di successo
del 9,3%).
91
Sicurezza e cittadinanza
(pp. 505 – 543 del volume)
La numerazione di tabelle, tavole e figure riproduce quella del testo integrale
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
Oltre gli sbarchi
L’emergenza sbarchi che l’Italia ha vissuto nell’ultimo anno non ha precedenti: secondo i dati del Ministero dell’Interno, dal 1° gennaio a metà ottobre 2014 sono stati
gestiti 918 sbarchi, nel corso dei quali sono giunte 146.922 persone, per l’11% donne
e per il 21,2% minori (tav. 1). I dati dell’Agenzia europea Frontex indicano una prevalenza di eritrei e siriani tra coloro che hanno attraversato il Mediterraneo nei primi
otto mesi del 2014; seguono i cittadini di Mali, Nigeria, Gambia e Somalia. Numeri
che destano allarme, soprattutto se paragonati con quelli degli anni passati. Nel 2011,
che era stato un anno record per gli effetti delle “primavere arabe”, gli arrivi erano
stati 63.000, 13.000 nel 2012 e 43.000 in tutto il 2013.
7DY/·HPHUJHQ]DVEDUFKLLQ,WDOLD
Numero di sbarchi (1/1-13/10 2014)
918
I profughi sbarcati (1/1-13/10 2014)
146.922
di cui:
11% donne
21,2% minori
3HUVRQHWUDWWHLQVDOYRQHOO·DPELWRGHOO·RSHUD]LRQH
Mare Nostrum (1/8/2013-31/7/2014)
62.982
Persone che hanno perso la vita tentando di
raggiungere le nostre coste (1/1-30/9/2014)
3.072
Persone in strutture di accoglienza (a settembre 2014)
61.536
Domande di protezione (1/1-31/7/2014)
30.755
(+142% rispetto al periodo
corrispondente del 2013)
Fonte:HODERUD]LRQH&HQVLVVXGDWL0LQLVWHURGHOO·,QWHUQR2LPH(XURVWDW
L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni stima che siano stati oltre 3.000
i morti nel Mediterraneo
tra gennaio
e settembre
2014, e 22.400 quelli che complessivamente hanno perso la vita dal 2000 ad oggi (quasi dieci volte il numero delle
vittime degli attentati alle Torri Gemelle). Una tragica media di 1.500 morti ogni
anno, che diventano oltre 3.000 nei soli primi nove mesi del 2014.
Numeri che mettono a dura prova anche il sistema di accoglienza di chi riesce a
giungere a terra. Complessivamente, al 30 settembre le strutture di diversa natura
presenti sul territorio nazionale ospitavano 61.536 migranti, collocati per più della
metà in soluzioni alloggiative temporanee (il 52,8%, con un maggiore presenza in
Sicilia, Lombardia e Campania), per un ulteriore 30% nelle strutture facenti capo
allo Sprar (soprattutto nel Lazio, in Sicilia e in Puglia) e per il 17% circa nei centri
governativi (i maggiori si trovano in Sicilia, Puglia e Calabria) (tab. 1).
93
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
7DE/·DFFRJOLHQ]D GHL SURIXJKL QHOOH UHJLRQL LWDOLDQH SHU WLSR GL VWUXWWXUD DO VHWWHPEUH
(v.a. e val. %)
Strutture governative
(Cara, Cda e Cpsa)
Totale
Strutture
temporanee
Sprar
Sicilia
5.993
3.974
4.752
14.719
23,9
Lazio
2.629
4.367
826
7.822
12,7
Puglia
1.427
1.813
2.764
6.004
9,8
Lombardia
4.732
921
-
5.653
9,2
Calabria
1.614
1.506
1.438
4.558
7,4
Campania
3.035
1.069
-
4.104
6,7
Emilia Romagna
2.088
702
-
2.790
4,5
Regione
v.a.
val. %
Piemonte
1.873
846
-
2.719
4,4
Toscana
1.642
528
-
2.170
3,5
Veneto
1.491
283
-
1.774
2,9
Merche
931
495
116
1.542
2,5
1.113
289
-
1.402
2,3
Friuli Venezia Giulia
733
302
203
1.238
2,0
Molise
657
435
-
1.092
1,8
Sardegna
700
84
269
1.053
1,7
Umbria
497
327
-
824
1,3
Basilicata
432
380
-
812
1,3
Liguria
Abruzzo
513
227
-
740
1,2
Trentino Alto Adige
312
149
-
461
0,7
9DOOHG·$RVWD
-
59
0,1
Totale
32.471
59
18.697
10.368
61.536
100,0
Val. %
52,8
30,4
16,8
100,0
Fonte:HODERUD]LRQH&HQVLVVXGDWL0LQLVWHURGHOO·,QWHUQR
Quale integrazione senza partecipazione?
La partecipazione politica è una delle componenti fondamentali per sentirsi a pieno
titolo cittadini di uno Stato, un pilastro dell’integrazione, come viene riconosciuto
da non pochi Paesi europei che vantano discipline più inclusive rispetto all’Italia.
Ben 12 Paesi dell’Unione europea riconoscono a tutti gli immigrati non comunitari
il diritto di voto alle elezioni amministrative ponendo come vincolo un certo periodo
di residenza (2 anni per la Finlandia, 3 per Irlanda, Danimarca, Slovacchia e Svezia,
5 per Paesi Bassi, Lussemburgo, Belgio, Estonia, Slovenia, Lituania, Ungheria) e
ponendo, in alcuni casi, uno sbarramento all’elettorato passivo. In altri Paesi, come
Regno Unito, Spagna e Portogallo, vengono invece stabiliti dei requisiti maggiormente selettivi, privilegiando cittadini che provengono da Paesi che hanno legami
storici e/o con cui sono stati sottoscritti accordi di reciprocità. Ci sono poi 12 Paesi,
tra cui l’Italia, ma anche la Francia, la Germania e la Grecia (che nel 2010 aveva introdotto il diritto di voto, poi dichiarato incostituzionale nel 2013), in cui non è concessa la possibilità di votare (tav. 2).
Nel nostro Paese non sono mancate le proposte di legge in proposito, anche di iniziativa popolare, come quella di qualche anno fa legata alla campagna “L’Italia sono
anch’io”, ma al momento si registra un certo stagnamento per una questione sulla
94
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
quale, invece, si giocano molte delle possibilità di far sentire veramente protagonisti
di un destino comune gli stranieri residenti nel nostro Paese.
7DY,O GLULWWR GL YRWR DPPLQLVWUDWLYR SHU JOL VWUDQLHUL QRQ FRPXQLWDUL QHL 3DHVL GHOO·8QLRQH
europea
Paesi Ue che concedono il diritto di voto amministrativo agli stranieri non comunitari
I requisiti
Gli inclusivi
Finlandia
Residenza da almeno 2 anni
Irlanda
5HVLGHQ]DÀVFDOHGDDOPHQRDQQL
Danimarca
Residenza da almeno 3 anni
Slovacchia
Residenza da almeno 3 anni
Svezia
Residenza da almeno 3 anni
Paesi Bassi
Residenza da almeno 5 anni
Lussemburgo
Residenza da almeno 5 anni
Belgio
Residenza da almeno 5 anni (più ulteriori requisiti)
Estonia
Residenza da almeno 5 anni (solo elettorato attivo)
Slovenia
Residenza da almeno 5 anni (solo elettorato attivo)
Lituania
Residenza da almeno 5 anni
Ungheria
Residenza di lunga durata
I selettivi
Regno Unito
Possono votare alle elezioni di qualsiasi livello gli appartenenti al Commonwealth
e gli irlandesi
Spagna
3RVVRQRYRWDUHLFLWWDGLQLGL3DHVLSUHYDOHQWHPHQWHGHOO·$PHULFD/DWLQDFRQLTXDOL
vigono condizioni di reciprocità, e comunque dopo 3 o 5 anni di residenza
(a seconda del Paese)
Portogallo
Possono votare solo i cittadini di alcune ex colonie, previa residenza di 2, 3 o 4 anni
(a seconda del Paese) e a condizioni di reciprocità; con altri Paesi vigono accordi
bilaterali e il requisito di almeno 5 anni di residenza
Paesi Ue che non concedono il diritto di voto amministrativo agli stranieri non comunitari
Grecia, Francia, Italia, Germania, Austria, Bulgaria Cipro Lettonia, Malta, Polonia, Repubblica Ceca,
Romania
Fonte: Censis, 2014
Il sistema anti-tratta: tra imminenti trasformazioni
e cambiamenti necessari
Tra il 2000 e il 2012 il sistema di protezione italiano per le vittime di tratta è entrato
in contatto con oltre 65.000 persone, cui ha fornito informazioni, accompagnamento
ai servizi e consulenza; ha garantito assistenza strutturata a 21.795 vittime di tratta
e grave sfruttamento, oltre 1.000 delle quali minori, nell’ambito dei progetti ex art.
18 d.lgs. 286/98; cui si aggiungono 3.862 persone, di cui oltre 200 minori, entrati
nei progetti di emersione e prima assistenza ex art. 13 l. 228/2003 nel periodo 20062012 (tav. 3).
Solo nel corso dell’ultimo biennio sono stati oltre 1.500 i percorsi di assistenza attivati a favore delle vittime di tratta, dei quali 96 a favore di minori; quasi i tre quarti
dei percorsi erano rivolti a donne, e oltre la metà hanno avuto come destinatari cittadini originari della Nigeria e della Romania.
Alla luce di tutto ciò è necessario che il sistema anti-tratta italiano riesca a superare
le innegabili criticità che lo caratterizzano, sottolineate a più riprese da chi lavora
all’interno del sistema stesso, oltre che da enti sovranazionali.
95
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
7DY,QXPHULGHOVLVWHPDDQWLWUDWWDLQ,WDOLD
2OWUH
Persone che hanno ricevuto accompagnamento, consulenza, informazioni
3URJHWWLH[DUWÀQDQ]LDWL
665
Persone entrate in un programma di protezione sociale ex art.18
21.795
(di cui: 1.171 minori)
3URJHWWLH[DUWÀQDQ]LDWL
166
Persone entrate in un programma di emersione e prima assistenza ex art.13
(anni 2006-2012)
3.862
(di cui: 208 minori)
Fonte:HODERUD]LRQH&HQVLVVXGDWL3UHVLGHQ]DGHO&RQVLJOLRGHL0LQLVWUL'LSDUWLPHQWR3DUL2SSRUWXQLWj
Un segnale positivo è sicuramente il recepimento della Direttiva 2011/36/Ue relativa
alla prevenzione e alla repressione della tratta di esseri umani e alla protezione delle
vittime, cui l’Italia ha dato attuazione con il d.lgs. n. 24 del 4 marzo 2014. Tra le
novità introdotte, si segnala il rafforzamento dello strumento punitivo, attraverso gli
artt. 600 e 601 del Codice penale, e un accrescimento della tutela delle vittime di
tratta particolarmente vulnerabili attraverso l’utilizzo di maggiori cautele in ambito
processuale. Le vittime di tratta potranno anche avere accesso a un indennizzo di
1.500 euro attingendo al Fondo per le misure anti-tratta. Inoltre, viene prevista l’adozione di un Piano nazionale d’azione contro la tratta e il grave sfruttamento, atto a
definire le strategie di intervento per la prevenzione e il contrasto al fenomeno e le
azioni finalizzate alla sensibilizzazione, alla prevenzione sociale, all’emersione e
all’integrazione sociale delle vittime. Un ulteriore e importante cambiamento è rappresentato dall’introduzione del Programma unico di emersione, assistenza e integrazione sociale che va a unificare in un percorso unico i due differenti programmi
ex artt. 13 e 18.
L’illegalità frena le imprese
Una recente indagine del Censis per il Ministero dello Sviluppo Economico, condotta su 316 funzionari di Camere di commercio, organizzazioni datoriali e di categoria e sindacati, testimonia dell’elevata presenza di attività illegali ai danni delle
imprese. Quasi il 60% degli intervistati segnala la presenza di imprese parzialmente
o totalmente irregolari sul proprio territorio (e il dato sale addirittura al 78,5% nel
Sud), il 52,4% denuncia la pratica dello sfruttamento lavorativo (il 76,1% al Sud) e
il 51,3% la presenza di immigrazione irregolare (fig. 3).
Un contesto di questo tipo crea un humus favorevole alla presenza e alla diffusione
di altri mercati illegali che, a loro volta, sottraggono risorse e scoraggiano dall’investire legalmente. Tra questi quelli dell’abusivismo commerciale e della vendita di
merci contraffatte.
96
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
)LJ2SLQLRQH VXOOD SUHVHQ]D GL DOFXQL IHQRPHQL GL LOOHJDOLWj QHO WHUULWRULR GL DSSDUWHQHQ]D
PROWRDEEDVWDQ]DSUHVHQWH(val. %)
58,3
Imprese irregolari
52,4
Sfruttamento del lavoro
51,3
Immigrazione irregolare
Improvvisa apertura/chiusura
di imprese
46,9
Corruzione nella Pubblica
Amministrazione
29,0
Racket, estorsioni ai danni
di imprese
28,1
Gestione diretta di imprese da parte
della criminalità organizzata
21,0
Il totale non è uguale a 100 perché erano possibili più risposte
Fonte: indagine Censis, 2014
Per quanto riguarda il solo commercio al dettaglio, la stima condotta lo scorso anno
per Confcommercio ha portato ad individuare almeno 67.627 esercizi commerciali
parzialmente o totalmente abusivi, pari al 7,1% del totale. Di questi, 34.837 sono
situati in aree pubbliche e mercatali, per una quota che corrisponde al 19,4% del totale, e 32.790 sono in sede fissa, per una quota che rappresenta il 4,2% del totale.
Complessivamente si può stimare un fatturato di 8,8 miliardi di euro, pari al 4,7%
del totale del volume d’affari (tab. 3).
7DE6WLPDGHJOLHVHUFL]LLQVHGHÀVVDHDPEXODQWHWRWDOPHQWHRSDU]LDOPHQWHLUUHJRODULFKH
HVHUFLWDQRVHQ]DDYHUHWXWWHOHQHFHVVDULHDXWRUL]]D]LRQLHGHOORURYROXPHG·DIIDUL
(v.a. e val. %)
Esercizi
Valore delle vendite
v.a.
val. %
mld. di euro
per esercizio
(euro)
,QVHGHÀVVD
32.790
4,2
4,7
142.497
In aree pubbliche e in aree mercatali
34.837
19,4
4,1
118.421
Totale
67.627
7,1
8,8
130.095
Esercizi del commercio al dettaglio abusivi
Fonte: elaborazione Censis su dati Infocamere, Ministero dello Sviluppo Economico e Fiva
Fortemente correlato all’abusivismo è il mercato della produzione e vendita di merci
contraffate: un
interno
che,
in
stima
che il Censis ha realiz mercato
base all’ultima
zato per il Ministero dello Sviluppo Economico, ha un valore di 6,535 miliardi di
euro. Se fossero stati venduti gli stessi prodotti sul mercato legale si sarebbero avuti:
17,7 miliardi di euro di valore di produzione aggiuntiva, con conseguenti 6,4 miliardi
circa di valore aggiunto; acquisti di materie prime, semilavorati e/o servizi dall’estero per un valore delle importazioni pari a 5,6 miliardi di euro; la produzione
degli stessi beni in canali ufficiali avrebbe richiesto circa 105.000 unità di lavoro a
tempo pieno. Riportare sul
mercato
dei beni contraffatti signi
legale
la
produzione
97
48° Rapporto
annuale
sulla situazione
sociale
del Paese
ficherebbe anche avere un gettito aggiuntivo per imposte (dirette e indirette) legato
alla produzione
diretta di 1,522 miliardi di euro; se a questo si aggiunge la produzione indotta in altri settori dell’economia, pari a quasi 3,760 miliardi di euro, si arriverebbe a un gettito complessivo pari a circa 5,280 miliardi di euro ovvero a un
ammanco pari, nel complesso, al 2% del totale delle entrate prese in considerazione
(tab. 4).
7DE6WLPDGHOO·LPSDWWRJHQHUDWRGDOODFRQWUDIID]LRQHVXOO·HFRQRPLDQD]LRQDOH (v.a.)
Voci
2012
Fatturato interno (mln. di euro)
6.535
Impatto sulla produzione (mln. di euro)
17.773
Impatto sul valore aggiunto (mln. di euro)
6.370
Importazioni attivabili (mln. di euro)
5.650
,PSDWWRVXOO·RFFXSD]LRQHXQLWjGLODYRURJHQHUDELOLQHOPHUFDWROHJDOH
104.538
Unità di lavoro generabili per ogni milione di euro di fatturato
Imposte perdute (mln. di euro)
16,0
5.280
Fonte: Censis, 2014
Giovani, legalità, contraffazione
In una recente indagine del Censis sono stati intervistati 500 giovani romani di età
compresa tra i 18 e i 25 anni mentre si trovavano a fare compere nei mercati di Porta
Portese, Via Sannio e Villaggio Olimpico. Al primo posto, come comportamento ritenuto ammissibile dall’80,9% degli intervistati, si trova il download di materiale
pirata da internet, seguito dall’acquisto di merce contraffatta, ammissibile per il
67,6%. Si tratta, in entrambi i casi, di atti ritenuti normali, che i giovani compiono
abitualmente, spesso senza neanche avere la percezione di compiere un illecito. Addirittura, questi comportamenti sono ritenuti più giustificabili di viaggiare sui mezzi
pubblici senza biglietto (64,6%), una pratica che a Roma è molto diffusa, soprattutto
tra i giovani. Nella graduatoria costruita in base alle risposte dei ragazzi seguono:
superare il limite di velocità in auto o motorino (ritenuto ammissibile dal 55,5%) e
scrivere o disegnare sui muri (53,1%), comportamenti che più della metà dei giovani
giudica poco gravi. Non sono pochi nemmeno quelli che trovano giustificazioni per
l’acquisto di merce di dubbia provenienza (comportamento giudicato ammissibile
da ben il 43,7% del campione) o di sigarette di contrabbando (35,6%): fare economia, soprattutto in tempi di crisi, può valer bene quella che giudicano come una piccola trasgressione, e che però spesso ha delle implicazioni che vanno molto al di là
dell’atto di acquisto. I comportamenti ritenuti più gravi, e per questo giudicati meno
ammissibili, sono l’evasione fiscale (il 16,8% giustifica chi dichiara al fisco meno
di quanto guadagna) e, da ultimo, compiere un abuso edilizio (ritenuto ammissibile
da un esiguo 8,6%) (fig. 4).
98
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
)LJ&RPSRUWDPHQWLULWHQXWLDPPLVVLELOLGDLJLRYDQLURPDQL(val. %)
80,9
Scaricare materiale pirata da internet
67,6
Acquistare merce contraffatta
Utilizzare i mezzi di trasporto senza pagare
il biglietto
64,6
55,5
Superare il limite di velocità in auto/motorino
53,1
Scrivere o disegnare su un muro con lo spray
43,7
Comprare merce di dubbia provenienza
Acquistare sigarette di contrabbando
35,6
Assentarsi dal lavoro senza essere davvero malati
35,2
Ricorrere a raccomandazione per ottenere
un posto di lavoro
33,7
25,8
Copiare a un concorso pubblico
16,8
Dichiarare al fisco meno di quanto si guadagna
Compiere un abuso edilizio
8,6
Il totale non è uguale a 100 perché erano possibili più risposte
Fonte: indagine Censis, 2014
Sull’acquisto dei falsi è stato condotto un approfondimento: dall’indagine emerge
come ben il 74,6% dei giovani acquisti spesso (15,2%) o qualche volta (59,4%)
merce falsa, con una percentuale che raggiunge l’81,3% tra i maschi (fig. 5).
I giovani comprano soprattutto articoli di abbigliamento (il 67,3%) e accessori quali
cinture, portafogli, borse (45,3%), scarpe (37,5%), occhiali (31,6%) e, in misura minore, orologi, bigiotteria e gioielli (20,1%). Tra i prodotti più indicati vi sono poi i
cd e i dvd (48,3%) (fig. 6).
Fig. 5 - Frequenza di acquisto di merce contraffatta da parte dei giovani romani, per sesso (val. %)
Spesso
Qualche volta
Mai
63,4
59,4
55,5
31,9
25,4
17,9
18,7
15,2
12,6
Maschio
Femmina
Totale
Fonte: indagine Censis, 2014
99
48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
Fig. 6 - Tipologia di merce contraffatta acquistata dai giovani romani (val. %)
67,3
Abbigliamento
48,3
Cd, dvd
45,3
Accessori
37,5
Scarpe
31,6
Occhiali
Cellulari, prodotti elettronici
20,1
Orologi/bigiotteria, gioielli
20,1
18,2
Prodotti informatici
16,1
Profumi, cosmetici
11,8
Tabacchi
8,0
Accessori-ricambi auto/moto
Medicinali, integratori o simili
Altro
4,3
1,6
Il totale non è uguale a 100 perché erano possibili più risposte
Fonte: indagine Censis, 2014
100