i cattolici perdono un papa ma la crisi della chiesa è globale

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i cattolici perdono un papa ma la crisi della chiesa è globale
biennale Il padiglione
Italia tra arte e politica
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N. 9N.|99|marzo
9 marzo
2013
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da vendersi
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obbligatoriamente
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insieme
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al numero
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di sabato
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de l’Unità.
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Nei Nei
giorni
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successivi
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prezzo
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del quotidiano
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settimanale left avvenimenti
poste italiane spa - SPED. abb.
Post. - D.L. 353/2003 (conv. in l.
27/02/2004 n. 46) ART.settimanale
1, COMMA left avvenimenti
italiane spa - SPED. abb.
1 DCB roma - ann0poste
XXv - ISSN
Post.
- D.L. 353/2003 (conv. in l.
1594-123X
27/02/2004 n. 46) ART. 1, COMMA
1 DCB roma - ann0 XXv - ISSN
1594-123X
politica Così Grillo
reportage Caccia
ha divorato la sinistra all'ultimo squatter
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religione
I cattolici
perdono
un papa
ma la crisi
della Chiesa
è globale
di Cecilia Tosi,
Federico Tulli,
Andrea Ventura
la settimanaccia
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left.it
9 marzo 2013
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LA TESTATA FRUISCE DEI CONTRIBUTI
DI CUI LA LEGGE AGOSTO 1990, N. 250
left 9 marzo 2013
la nota di
Manuele Bonaccorsi
Il big bang. Quello vero
I
n questi giorni si discute, giustamente, di assetti istituzionali, di maggioranze da costruire o da disfare, di programmi di governo, di liste di potenziali presidenti del Consiglio e ministri. È
normale che ciò accada: l’Italia vive un
frangente delicatissimo sul piano economico e sociale. Si ripete: non c’è tempo da perdere, o la crisi diventerà irreversibile e ancora più drammatica. Ma
l’esperienza recente ci insegna che il
rapporto tra economia e politica dev’essere invertito. Viene prima la politica,
solo dopo l’economia. Alla fine del 2011,
dinanzi ai diktat dei mercati, l’Italia scelse un governo tecnico con l’unica missione di placare la fame della finanza.
Missione riuscita, sul momento: spread
in discesa, ricucitura dei rapporti in Europa, conti pubblici sotto controllo. Ma
quella scelta politica e istituzionale, tutta ricalcata sull’andamento delle Borse, è stata solo una soluzione parziale,
perché più profondi e complessi erano i
problemi del Paese, come queste elezioni hanno dimostrato senza appello. Sarebbe il caso di non rifare oggi lo stesso errore. Di non anteporre le decisioni
prese in Parlamento, l’ipotesi di un nuovo governo di salvezza nazionale, alla ricostruzione di una visione complessiva.
Mi spiego. Il risultato delle elezioni politiche mette sul piatto una drammatica crisi di consenso. L’analisi dei flussi
elettorali lo dimostra chiaramente: milioni di voti si sono spostati, abbandonando i vecchi schieramenti. Consensi
un tempo sicuri, oggi contendibili, aperti, liberi. Di più: interi territori e blocchi
sociali non hanno più punti di riferimento stabili, hanno perso ogni rapporto coi
corpi intermedi che prima ne mediavano la partecipazione politica e sociale.
Non è solo una crisi dei vecchi partiti.
È una crisi più complessiva, di rappresentanza. Riguarda i partiti come i sindacati, le associazioni di interesse, le categorie, i mestieri. È come se la società,
con le sue strutture forti, fosse esplosa
in un big bang originario (non quello da
laboratorio, della Leopolda), lasciando
60 milioni di individui soli, separati. Individui senza appigli, senza società. È la
conseguenza della crisi, la cui gravità è
stata sottovalutata anche dalla sinistra.
Le conseguenze di questa catastrofe - se
essa sarà distruttiva o se presto si troverà un nuovo, più avanzato, ordine - sono
per ora imprevedibili.
Dunque, discutiamo pure di programmi di governo, assetti istituzionali, esecutivi del presidente. Ma senza dimenticare che la prima missione, oggi, non
può che essere rimboccarsi le maniche
(davvero, non nei manifesti). Ritornare nel campo aperto della società, ricostruire le basi del consenso nel rapporto diretto con la società e il lavoro. Riedificare un immaginario collettivo, un
“campo di forze”, una parte. Una parte
contro un’altra, anche per la sinistra,
che il proprio popolo e la propria identità l’ha persa da vent’anni, inseguendo la presunta modernità del neoliberismo. Non bastano le primarie; i giovani, il ricambio della classe dirigente,
sono una precondizione, non una soluzione. Serve piuttosto una grande mobilitazione, che ci permetta di riscoprire il nostro mondo. Dialogando e
ascoltando. Anche con il Movimento 5
stelle e i suoi elettori. Noi di left stiamo
provando a farlo. Chi invece non l’ha
capito è vittima dello stesso autismo
politico che ci ha portato dritti dentro
questa situazione.
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[email protected]
Movimento
5 stelle al bivio
Buongiorno left, le elezioni 2013 ce le ricorderemo,
sicuramente e principalmente per l’affermazione
del Movimento 5 stelle, al
di là di tutte le altre considerazioni politiche. È evidente che questo movimento ha raccolto un’insoddisfazione ampiamente radicata. Di diverso c’è
che ha fatto sentire le persone finalmente libere di potersi esprimere, non delegando più la propria rappresentanza ad un apparato che ha perso completamente la sua credibilità. “Trasparenza, onestà e
competenza” sono principi
fondamentali per un buon
governo. Molti dei presupposti su cui si fonda il movimento, sono indiscutibili; se applicati, renderebbero la politica un organo
reale di rappresentanza e
non “l’odiata casta”, fatta
di privilegi insopportabili. Mi riferisco alle proposte riguardanti gli stipendi dei parlamentari, il loro numero, i benefici di cui
usufruiscono, il tempo indefinito al suo interno. Se
pur apprezzabili sono state troppo timide le modifiche fatte dal Pd in tal proposito. Certamente c’è da
tenere in considerazione
tutto quel che riguarda le
proposte che vanno al di
là dell’etica. Quali sono le
idee con le quali si intende procedere in questo periodo di profonda crisi. Se
sono realizzabili e se c’è
una maggioranza che porti
avanti proposte sociali che
idealmente appartengono
alla cultura di sinistra (fra
le quali il reddito di cittadinanza). Il movimento ora
si trova ad un bivio, deve
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left.it
scegliere se continuare a
essere “duro e puro”, oppure fare un pezzo di strada
assieme al fianco del “corrotto” centrosinistra (unica possibile alleanza), richiedendo in cambio quei
passaggi che sarebbero un
cambiamento epocale per
la nostra politica.
Flavio Chimenton
E ora riforme
ma sul serio
Ho letto gli articoli presenti nel n. 8 del 2 marzo e, pur
apprezzando alcune riflessioni e analisi, non condivido l’impostazione complessiva, e cioè di presentare
il fenomeno “Grillo” come
l’avvento del “Sol dell’Avvenir”. Purtroppo tutta questa attenzione e l’immagine
di questo risultato elettorale che riempie l’orizzonte a
360 gradi mi conferma la assoluta incapacità di vedere oltre e di portare alla luce (cioè davanti agli elettori) dei problemi ben più gravi e grandi di fronte ai quali i temi di vittoria del Movimento 5 stelle sono poco
più che una barzelletta. In
questi anni stiamo vivendo
una crisi tragica (ha già prodotto centinaia di suicidi e
di morti in genere), una crisi di sistema, anzi di sistemi,
da cui non si riesce a intra-
avvenimenti
vedere una via di uscita perché non si riesce ad avviare una profonda riflessione
oserei dire “filosofica” (cioè
di pensiero) su come modificare alla radice i suddetti
sistemi per renderli adeguati ai “Segni dei tempi”. Ricordo che “riformare” vuol
dire “dare una nuova forma” totalmente diversa da
quella fino a ora adottata.
Alberto Spalla
Basta morti
sul lavoro
Luciana Littizzetto ha fatto davvero una bella cosa, quando a chiusura della puntata di Che tempo che
fa, ha dedicato il suo intervento al dramma delle morti sul lavoro. Un tema, di cui
si parla raramente sui media
e di cui gli schieramenti politici non hanno detto una sola parola in campagna elettorale. Tanto che molte volte
viene da chiedersi, se gliene
frega qualcosa se i lavoratori muoiono o si infortunano
sul lavoro. Non so se questo
governo Bersani nascerà, io
spero ovviamente di sì, perché al di là di tutto, ho a cuore il bene del Paese. Vorrei
però che al primo posto ci
fosse inserita “la salute e sicurezza sul lavoro”. O è chiedere troppo? Beppe Grillo,
il 2 gennaio 2013, pubblican-
do sul suo blog il post “Basta
morti sul lavoro”, aveva detto: «Il MoVimento 5 Stelle
porterà in Parlamento il tema della sicurezza sul luogo
di lavoro come prioritario.
Nessuno deve trarre profitto
dalla morte di un lavoratore». Io attendo fiducioso, anche se non posso fare a meno di notare, che da allora
anche lui ha smesso di parlarne. Il mondo politico ne
vuole fare un priorità in Parlamento o vuole continuare
a prenderci in giro?
Marco Bazzoni
Cambiamo
le nostre lenti o
sarà troppo tardi
Ho netta la sensazione che
proprio si fatichi a capire ciò
che si muove, si agita, si manifesta... nella società. Ciò
che comunque ha espresso il
voto al M5s. In troppi offrono letture consolatorie ed in
altrettanti tentano semplificazioni tutte ripiegate su dispute interne e rese dei conti. Attenzione! La portata del
mutamento in atto è epocale. Nulla sarà più come è stato. Non basterà “il colpo di
genio” per far approvare una
nuova legge elettorale e poi
“tutto si calmerà”. Cambiamo le nostre “lenti”, o sarà
troppo tardi!
Giacomo Sanavio
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9 marzo 2013
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left.it
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sommario
ianno XXV, nuova serie n. 9 / 9 marzo 2013
copertina
politica
ARTE
Dopo le dimissioni del papa, non
è solo il clero cattolico a scoprirsi diviso. Le Chiese cristiane
si frantumano inseguendo le
richieste dei fedeli. E le questioni etiche
spaccano protestanti e ortodossi in mille
rivoli. La comunione resta una chimera.
I troll, gli influencer, le regole dei
forum, la forza del consenso in
rete. Ecco come il M5s, dove uno
vale uno, organizza il suo «parlamento elettronico». E Grillo vince dove la
sinistra rinuncia alla lotta. Dai lavoratori di
San Precario alla Val di Susa.
Il direttore del Macro Bartolomeo Pietromarchi racconta il
suo Padiglione Italia che debutterà il primo giugno alla Biennale
d’arte di Venezia. Quattordici artisti in mostra con opere site specific che riflettono
sulla storia del Paese e sul presente.
poveri cristi
16
la settimana
02
03
04
06
la settimanaccia
La nota
Lettere
fotonotizia
l’incontro
12 Emilio Solfrizzi: Ci metto la faccia
di Tiziana Barillà
copertina
16 Poveri Cristi di Cecilia Tosi
22 Due miliardi di scandali
di Federico Tulli
24 L’intesa impossibile
di Andrea Ventura
il parlamento elettronico
26
Così i grillini cambiano la democrazia di Filippo Barone
Il Grillo di battaglia di Rocco Vazzana
Sicilia, un modello di cartapesta
di Salvo Toscano
Corleone. Una bara per due
di Claudio Reale
mondo
36 Occupazione a tempo determinato
di Alberto Mucci e Luigi Serenelli
left 9 marzo 2013
48
IDEE
RUBRICHE
di Adriano Prosperi
di Emanuele Santi
a cura della redazione Interni
a cura della redazione Esteri
08 Il taccuino
09 altrapolitica
di Andrea Ranieri
10 La locomotiva
di Sergio Cofferati
11 ti riconosco
di Francesca Merloni
54TRASFORMAZIONE
di Massimo Fagioli
31 calcio mancino
34 Cose dell’altritalia
44 newsglobal
58 puntocritico
cinema di Morando Morandini
arte di Simona Maggiorelli
libri di Filippo La Porta
60 bazar
Junior, buonvivere,
Commedia, personaggi
61 in fondo di Bebo Storti
62 appuntamenti
a cura della redazione Cultura
società
26
28
30
32
Anteprima Biennale
42 Intifada a tratti di Paola Mirenda
cultura e scienza
48 Biennale di Venezia: arte, società e viceversa di Simona Maggiorelli
52 Politeisti della lettura
di Filippo La Porta
56 Opg, la fine della barbarie
di Adriana Pannitteri
Chiuso in tipografia il 6 marzo 2013
5
fotonotizia
6
left.it
9 marzo 2013
left
left.it
fotonotizia
Morte di
un bolivariano
Dopo un lungo periodo di
malattia, il presidente venezuelano Hugo Chavez si
è arreso al cancro. Cresciuto dalla nonna in una capanna di paglia e fango, Chavez
ha preso una laurea in Arti
militari prima di cominciare la sua carriera politica. Ha
elaborato un’ideologia nazionalista “di sinistra” e l’ha
chiamata bolivariana, per
celebrare il più grande rivoluzionario del Sudamerica.
Col suo Movimento V repubblica ha vinto le elezioni nel
1998 e poi non se n’è più andato. Criticato dalla borghesia per la conduzione autoritaria e populista del potere,
i poveri lo venerano soprattutto per la lotta all’analfabetismo e all’indigenza. Fondatore di un’alleanza sudamericana che propugna l’indipendenza dagli Usa (Alba),
Chavez è stato uno dei leader politici più carismatici
degli ultimi vent’anni e difficilmente il “suo” continente
potrà trovare una figura con
cui sostituirlo.
(Rodrigo Abd/Ap/Lapresse)
left 9 marzo 2013
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il taccuino
di Adriano Prosperi
il taccuino
Adesso i grillini sono arrivati
Cosa pensano di fare per risollevare le famiglie che non ce la fanno? O per rilanciare la ricerca
e i beni culturali? Per ora si sono trincerati dietro una sorridente modestia di principianti
L
i aspettavamo, i grillini. Erano i nostri barbari (qualcuno ha citato la poesia di Costantino Kavafis sull’attesa dei barbari). Poi sono arrivati. Sono stati accolti in
trionfo: chi li aveva votati è uscito allo scoperto vantandosene. Erano giovani, sconosciuti, sorridenti. Avevano facce nuove, fresche, mai viste prima. E in un Paese sempre
sedotto da tutto ciò che è nuovo (e sempre pronto a rifiutare le proposte della sinistra)
è scattata una apertura di credito. Presto, prestissimo vedremo se la meritano. è vero
che molte cose che dicono di voler fare assomigliano a proteste e proposte che hanno
preso tante volte espressione in movimenti collettivi di piazza e di strada e in referendum popolari. La sordità di una classe politica chiusa a corporazione che ha fatto spesso della politica la carriera esclusiva di burocrazie di partito ha le sue colpe, che ora paghiamo tutti. E non parliamo di quello che il pubblico ministero Sangermano ha definito il “sistema prostitutivo” di Berlusconi: definizione che vale non solo per le notti di Arcore, che sono pur sempre affare privato dei vizi di un vecchio signore, ma anche e soprattutto per quel che è accaduto sui banchi del Parlamento. E la cosa ci riguarda tutti,
come cittadini defraudati del diritto ad avere rappresentanti onesti e governi costituzionali. Bene ha fatto Bersani ad alzare una diga nei confronti di ogni tentazione di “larghe
intese” che riporti ancora Berlusconi nelle case degli italiani: ma con chi
lo farà? Adesso che i “barbari” sono arrivati c’è una domanda che ci poniamo: possiamo davvero sperare nell’abolizione di una legge elettorale oscena, nell’approvazione di una legge sul conflitto di interessi, di una
reale abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, di una cancellazione delle province, di una riduzione dei membri del Parlamento, di misure di tutela del lavoro e di aiuto ai disoccupati e altre cose del genere?
E cosa pensano di fare per risollevare la condizione di un 60 per cento di
famiglie che non ce la fanno ad arrivare a fine mese, o per rinnovare e rilanciare la ricerca e i beni culturali in un Paese dove si brucia in una notte la Città della Scienza a Napoli?
A questo non ci sono finora risposte dagli eletti del movimento di Grillo riuniti a Roma. Si
sono trincerati dietro una seducente e sorridente modestia di principianti. Ma per loro ha
risposto Grillo: con un no secco e senza alternative. Non appoggerà un governo dei partiti - la peste, il cancro del Paese come li chiama. Ora, questa strategia del puntare sul disastro istituzionale e politico e sulla crisi economica come leva per distruggere ordinamenti democratici la conosciamo già. è stata quella che ha affossato l’Italia liberale e la Germania di Weimar. Il giudizio benevolo sul regime di Mussolini di una “grillina” forse non
è stato solo un infortunio. Se è così non resta che sperare nella saggezza di Napolitano,
l’unica figura autorevole e illuminata capace di rappresentare ancora il punto di riferimento per tutto il Paese, almeno finché resterà al suo posto. Chi lo sostituirà? è stato fatto un nome, quello di Stefano Rodotà. C’è da augurarsi che tutti i cittadini sinceramente
preoccupati per il gorgo in cui si sta inabissando il Paese facciano quello che è in loro potere perché questa candidatura non sia fatta naufragare nelle retrovie fangose dei mercanteggiamenti. Non capiterà mai più di avere un candidato di così alta qualità intellettuale e morale, di così ininterrotta presenza nella vita civile. Chi sa quale sia il suo valore
e la sua probità di studioso esita ad augurargli un simile impegno. Ma la sua presenza sul
Colle più alto di Roma garantirebbe a tutti i cittadini quel “diritto di avere dei diritti” così
ben definito nel più recente dei suoi moltissimi libri.
Rodotà al Quirinale
garantirebbe a tutti
i cittadini quel «diritto
di avere dei diritti»
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9 marzo 2013
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altrapolitica
di Andrea Ranieri
il taccuino
Coda lunga alle urne
Gli esclusi dalla crescita e dalla crisi sono entrati in politica. Spazzando via
l’influenza della classe media, che nel frattempo si è svuotata
L
a coda lunga per gli economisti segnala i consumi di cose e di idee che fino a
poco tempo fa il mercato considerava irrilevanti. I prodotti la cui vendita non
compensa il costo dello spazio che occupano nel supermercato, i film che non trovano una sala, la musica che non c’è più e quella che non c’è ancora, le idee che
non vanno sui giornali e alla televisione. Ci ha scritto non tanto tempo fa un libro
Chris Andersen, quand’era direttore di Wired, spiegandoci che la coda con l’avvento di internet si fa più lunga e più spessa, e mette a disposizione di tutti cose, pensieri, emozioni e canzoni che prima restavano sommersi. E che la coda lunga, se la
mettiamo in verticale, è più alta dei picchi dei beni di consumo su cui ancora si attesta la media dei consumatori. I ragazzi di oggi sempre meno comprano cd. Le loro personali compilation aggregano cose vicine e lontane nel tempo, musiche dimenticate e il più tosto dei rapper di periferia. E per ogni scelta è possibile trovare
qualcun altro che quella scelta l’ha fatta, e che la può condividere in rete, contenti
di essere in tanti, contenti di essere in pochi. La cultura di massa, ci spiega Andersen, è la risultante di un mercato un po’ rozzo, che non sa fare i conti con la diversità e la ricchezza dei gusti e dei desideri. Tende ostinatamente alla media, ma quella
media pian piano, talvolta con accelerazioni improvvise, tende inesorabilmente a
svuotarsi. Mi è tornato in mente Chris Andersen il giorno dopo delle elezioni,
che hanno segnato l’accelerazione del declino già in atto dei grandi schieramenti politici, quelli che parlano all’opinione pubblica attraverso i media tradizionali, la tv generalista soprattutto, che per loro natura parlano alla “media”, o quella supposta tale. Berlusconi ha perso 9 milioni di voti, il Pd più di
3. La sinistra non ha vinto quando la destra crollava. Forse una delle ragioni
è non aver capito per tempo che la coda si allungava anche nella società. Che
la classe media, quella moderata e ragionevole, il target a cui siamo attrezzati a rivolgerci, perdeva peso e influenza non solo per colpa della crisi, ma
già dentro gli anni ruggenti della crescita trainata dalla finanza, che ha esasperato
le disuguaglianze, frantumato i blocchi sociali consolidati. E gli esclusi dalla crescita e dalla crisi, quelli che hanno capito che nella media non ci sarebbero mai entrati, hanno cominciato a mettersi in proprio, trovando in Internet un modo di raccontarsi e di collegarsi al di fuori dei modi e dei contenuti con cui partiti e sindacati
raccontavano e rappresentavano la realtà. E nascevano nuovi racconti sul lavoro e
non solo. Sull’ambiente, sulla difesa del territorio, sul chilometro zero e le piste ciclabili, addensando persone che collegavano l’idea di un mondo diverso a nuove
pratiche di vita. E proprio da questo intreccio fra idee e stili di vita nasceva il rifiuto
della delega a narrazioni che proiettavano su un futuro indeterminato la realizzazione delle cose che già oggi si ritiene possibile praticare. Il successo elettorale del
M5s, nella sua componente meno rancorosa, è la coda lunga che si è messa in politica. Non solo questo certamente, e con tanti vizi e tante semplificazioni che nel
rifiuto di ogni ideologismo rischiano di costruirne di nuovi. Ma se la sinistra vuole
davvero fare i conti con la sua crisi, conviene fare i conti con queste ragioni del loro successo. E riflettere sulla sua incapacità di dare spazio e rilievo a quella coda
lunga culturale e sociale che sempre di più caratterizzerà il nostro futuro.
La sinistra
ha continuato
a parlare
a un target
che perde peso
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la locomotiva
di Sergio Cofferati
il taccuino
Mani libere, ma vuote
La scelta è affidata al M5s. Se deciderà di affossare il dialogo col Pd rinuncerà
anche a riforme che stanno nel suo stesso programma
L
a vittoria che auspicavamo non c’è stata. Il centrosinistra, pur essendo la prima
coalizione, non ha sufficiente forza per formare un governo e deve allo stesso
tempo prendere atto dei propri errori e farsi carico della ricerca di una soluzione. Il risultato elettorale ci segnala in maniera chiara una forte sofferenza prodotta dalla crisi economica e sociale, unita a una sfiducia complessiva per una politica incapace di
mettere in campo soluzioni efficaci e di autoriformarsi. Emerge nitida una enorme richiesta di cambiamento che evidentemente non siamo riusciti a soddisfare durante la
campagna elettorale. Abbiamo dato l’idea, con le nostre proposte, di essere l’unica coalizione in grado di dare al Paese un governo stabile, caratterizzato da maggior equità
e giustizia rispetto ai precedenti, ma non siamo stati in grado di trasmettere quella prospettiva radicalmente diversa di società e di politica di cui c’è bisogno. Su molte persone ha fortemente pesato il sostegno dato al governo dei tecnici e a misure fortemente impopolari e spesso decisamente inique. Non credo sia necessario adesso insistere
su analisi quasi tutte interne e molto caratterizzate dal senno di poi. Credo invece che
questa situazione di difficoltà politica e istituzionale possa paradossalmente rivelarsi
utile sia alla sinistra che al Paese. Soltanto però se riusciremo a lavorare con forti dosi di umiltà e di pragmatismo. Affinché questo possa realizzarsi, la via che abbiamo davanti è sicuramente molto stretta; forse non percorribile, ma non per questo deve venir meno il coraggio di compiere tutti i tentativi possibili. La richiesta di cambiamento
proveniente dalle urne credo renda assolutamente improponibile l’ipotesi di “governissimo” con chi del cambiamento stesso è stato in questi anni il peggiore avversario.
La proposta di Bersani al M5s risulta quindi l’unica via praticabile per un governo, anche di breve durata, che abbia il compito di realizzare i cambiamenti necessari e urgenti. Nessun tavolo segreto, nessuna contrattazione di poltrone, soltanto la reciproca assunzione di responsabilità rispetto alla realizzazione, concreta e immediata, di alcuni punti che possono essere condivisi e che sono fondamentali per il futuro del Paese. Le proposte che il Pd avanzerà,
come noto, riguarderanno da un lato una riforma delle istituzioni e della politica: una riforma del finanziamento dei partiti, una riduzione netta dei costi della politica, una legge
sui conflitti di interesse e contro la corruzione; dall’altro interventi urgenti per l’occupazione e per le politiche in Europa che facciano segnare un rovesciamento di linea rispetto alle politiche di austerità fin qui praticate. Con quella stessa trasparenza che li
ha resi forti in questa campagna elettorale i deputati del M5s dovranno chiarire se sono d’accordo sulla realizzazione di questi punti o se invece preferiscono rimanere con
le mani libere, ma vuote rinunciando alla concretizzazione di alcuni punti centrali del
loro stesso programma. Nel primo caso si potrà aprire una (seppur breve) stagione
per un governo che realizzi alcuni cambiamenti importanti, nel secondo caso resterà
solo la strada di un esecutivo di scopo che nel tempo del semestre bianco provi a varare una nuova legge elettorale per tornare alle urne. Ciascuno però col suo carico di responsabilità per le occasioni di cambiamento mancate.
È stretta e in salita la strada per uscire da
questa crisi. Ma sia la sinistra che il Paese
potrebbero ricavarne qualcosa di buono
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9 marzo 2013
left
ti riconosco
di Francesca Merloni
il taccuino
C’è ancora tempo
Marco, diciotto anni a febbraio: «L’Italia è il mio Paese e voglio fare cose giuste». Al seggio
in quel momento c’ero anch’io. Il suo sguardo mi inchioda: non lo vedi? È così semplice
«S
ono Marco e ho compiuto 18 anni a febbraio. Così ho potuto votare e ho potuto dire la mia per la prima volta. Non nego che sentivo il peso e non me
l’aspettavo di sentirlo. M’hanno aiutato gli scrutatori perché avevo paura di fare un
casino e non sarebbe stato giusto sbagliarmi. Dopo tutto l’Italia è il mio Paese e voglio fare le cose giuste. Quando ascolto l’inno io mi emoziono sempre e non mi vergogno a dirlo. Ho votato Grillo perché era l’unico votabile. Si capisce bene ciò che vuole
e che dice. Ora la fiducia va meritata. Io voglio fare le cose giuste. Per tutti, oltre che
per me. Vorrei che fosse lo stesso per gli altri. Io voglio vivere in questo Paese, non voglio andarmene. Voglio contare qualcosa, voglio dire la mia. Si, è vero, siamo giovani
ma studiamo e possiamo prepararci bene. Ce la possiamo e ce la vogliamo fare».
Marco, 18 anni a febbraio. Vorrà pur dire qualcosa. Strano allineamento di date e fatti.
A diciotto anni l’emozione si tocca nel passo, nell’incedere di slancio ma con malcelata esitazione, nel tornare indietro poco, nel guardare se lo segui, comunque. Si traduce nelle domande alle quali ha dato una sua risposta, ma chiede, comunque. Al seggio
in quel momento c’ero anch’io. A diciotto anni si contempla l’emozione, la si riconosce come qualcosa di stabile, nostra per sempre. A diciotto anni la passione diventa
categoria che edifica. Assolutamente si crede, si vive di slancio. Di sogni possibili. Il
mondo è ancora bello a causa nostra. Si percorre la vita per linee di forza essenziali. E
necessarie. Prendi e vai. È tuo il mondo, con tutto ciò che contiene.
A diciotto anni per vivere hai bisogno di poco. Ma quel poco deve essere vero e molto chiaro, senza possibilità di confusione, di doppia lettura. E così il linguaggio. Corrispondente, raffinato. Cioè affinato e ridotto all’essenziale. Al suo punto esatto di verità. Senza fronzoli. Nulla si concede. Non c’è più tempo per credere, se no, non c’è più
voglia. Il tempo spazza via impalcature di storia che
La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
hanno fatto storia. E se i riferimenti costituiti si fancome fa lo scoiattolo, ad esempio,
no argini per il fiume in piena, se incanalano in modo
senza aspettarti nulla
costruttivo l’energia che arriva, allora le generaziodal di fuori o nell’aldilà.
ni di ieri e di oggi vincono insieme la scommessa. C’è
Non avrai altro da fare che vivere.
La vita non è uno scherzo.
ancora voglia allora, c’è ancora tempo. Ecco cosa mi
Prendila sul serio
ha detto Marco, nel suo linguaggio scarno e duro, da
ma sul serio a tal punto
adolescente, in cui tutto torna. E non posso far finta di che messo contro un muro, ad esempio, le mani legate
non aver capito, il suo sguardo mi inchioda e mi intero dentro un laboratorio
col camice bianco e i grandi occhiali,
roga: ma come, non lo vedi? È così semplice! Ma non
tu muoia affinché vivano gli uomini
ti sembra ovvio? E io non posso non rispondere che
gli uomini di cui non conoscerai la faccia
sì, mi sembra ovvio. E che vorrei avere diciotto anni
e morrai sapendo
che nulla è più bello più vero della vita.
anch’io e provare a ricostruire insieme a lui. Perché
Prendila sul serio
lo stesso fuoco mi incendia. Provare a riprendermi il
ma sul serio a tal punto
Paese che è mio. E tenerlo con amore. Nelle mani, nel
che a settant’anni ad esempio pianterai degli ulivi
cuore soprattutto. Perché non voglio essere altrove,
non perché restino ai tuoi figli
ma perché non crederai alla morte
in nessun altro posto nel mondo. Voglio poter dire la
pur temendola,
mia senza possibilità di non venire compresa. Perché
e la vita peserà di più sulla bilancia.
le parole edificano. Perché la vita, a diciott’anni, è una
Nazim Hikmet, La vita non è uno scherzo
cosa seria.
[email protected]
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l’incontro
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9 marzo 2013
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l’incontro
left.it
Ci metto
la faccia
di Tiziana Barillà
emilio solfrizzi. In tempi di comici, left incontra uno dei volti più amati della commedia.
Una conversazione che diventa, inevitabilmente, uno spettacolo. “In scena” per noi:
la vita, il lavoro e la politica che «è meravigliosa nella sua accezione più alta»
F
orse per capire cosa sta succedendo intorno ci serve un comico. Un attore, uno
che sa cos’è il pubblico, il palcoscenico,
la notorietà. Emilio Solfrizzi quel mondo lo conosce bene. È uno dei volti più noti e amati dagli
italiani. Cinquant’anni tondi tondi e una lunga
carriera: dalle televisioni locali pugliesi, alle fiction di Raiuno, fino ai teatri di tutta Italia. E proprio a teatro è impegnato in questi giorni con
la tournée Due di noi, la pièce scritta nel 1970
da Michael Frayn - al Quirino di Roma dal 13 al
24 marzo -, al fianco di Lunetta Savino. Ci è venuto a trovare nella nostra redazione, nel quartiere di Trastevere, a Roma. L’incontro con lui è
uno spettacolo pirotecnico di sguardi, mimica,
gestualità, non detti e allusioni. È lo stile di Solfrizzi. Commedie, duetti comici, serie tv: spettacoli “leggeri”, direbbero i più. Leggeri, senz’altro, ma non per questo poco seri. «Perché la comicità, come diceva Pirandello, nasce dal sentimento del contrario, dalla tragicità», ci spiega.
Il fenomeno Grillo è tutt’altro che uno
scherzo. Da cosa nasce secondo lei?
Dalla paura. E la paura radicalizza le scelte.
L’elettorato non è vigliacco o cattivo, ha semplicemente paura. Di Grillo ho visto tutti i comizi e ho capito che quello era uno show. Io
faccio il comico, ho fatto centinaia di spettacoli in piazza e so come imbonire la gente. Anche se, sicuramente, meno bene di lui. Certo,
ho paura anch’io del fatto che una pletora di
persone che non hanno mai avuto nulla a che
fare con la gestione della res pubblica, abbia
tanto peso. Ma a questa critica lui potrebbe rispondere: “Hai ragione, ma sarà sempre meglio de sta monnezza”. Su questo, lo seguo.
Perché la vecchia politica non ha saputo rispondere alle nostre domande. left 9 marzo 2013
Nemmeno la sinistra ha saputo farlo. Lei
in passato ha sostenuto con forza il governatore della sua Regione, Vendola. Come si
spiega questa débâcle?
Il punto è la logica del compromesso. Se ti proponi come il rinnovamento e poi il rinnovamento non lo fai, la gente non ti capisce più. Anche
se sei sano, resti sempre portatore di quelle logiche. Sono di questa parte politica e sono certo che ogni cosa sia stata fatta con le migliori
intenzioni e al servizio della cosa pubblica. Ma
sempre con quella logica. La sinistra si propone come alternativa... ma ’ndo stà l’alternativa? Del resto, tutte le forze di rinnovamento e
di cambiamento radicale finiscono sempre lì. È
successo addirittura per la Lega. Erano pieni di
Fiorito pure loro... Poi arriva uno e dice che con
queste logiche non ci sta. Lo ha votato, Grillo?
Non lo avrei mai votato, ma per senso di appartenenza a un altro mondo. Io sono di sinistra.
Anche se è un po’ come far parte di un club, una
gang di ragazzini, insomma... ci si sente più al sicuro...
Anche lei ha paura?
Sì, ho paura per i miei figli. Non per la crisi economica. Siamo in Europa, qualcuno ci salverà! La cosa che mi sgomenta è la crisi di valori. Da trent’anni, dal boom economico in poi,
l’Italia è sempre in declino. Vittima della logica
del minimo impegno per il massimo risultato.
Sempre alla ricerca di scorciatoie. Mio padre
mi diceva sempre: “Prendi la laurea”. Lui era
un ottimista nonostante venisse dalla guerra. È l’idea dell’impegno e della fatica per raggiungere un risultato: lui ce l’aveva tutta e me
l’ha trasmessa. E invece ha fatto l’attore. Forse suo padre
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l’incontro
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La sinistra? Se ti proponi come
il rinnovamento e poi il rinnovamento
non lo fai, la gente non ti capisce più
l’avrebbe preferita avvocato. Specialmente al Sud, a Bari. Ma quando ha visto
la quantità di impegno fisico, le ore e la fatica, era
tranquillo. Ha capito che questa enormità avrebbe prodotto risultati. Ha capito che era un lavoro?
Esatto. E ha avuto sempre rispetto per questo
mestiere. Oggi fare l’attore è un mestiere sempre più
difficile. Precarietà, insicurezza, concorrenza sleale. Perché i giovani dovrebbero intraprendere questo mestiere?
Per fare l’attore devi volerlo fare, non hai bisogno
che di un testo e quattro stracci... ma devi sentire una motivazione forte, “il fuoco sacro sul palcoscenico”. Oggi, le nuove generazioni di attori
sono impegnate nel tentativo di fare della qualità
uno stile. Una condizione della propria vita, oltre
che del proprio lavoro. Giovani attori impegnati, sì. Ma oggi il
successo arriva soprattutto passando dai
reality.
È vero, spesso la scorciatoia garantisce quel minimo impegno per il massimo risultato. I reality non li contesto in quanto tali, ma per l’effetto
che producono. Un ragazzo a quel punto si chiede: ma allora perché devo fare tanti anni di formazione? Fare l’attore non significa solo diventare famosi. Sennò buttati da un grattacielo e lo diventi comunque... La verità è che il mondo è fatto
di uomini. Quando ho conosciuto Pietro Taricone mi sono sentito un idiota perché avevo una serie di pregiudizi che lui mi ha smontato tutti, uno
a uno. Anche Luca Argentero adesso è uno degli
attori più richiesti. Alcuni utilizzano lo strumen14
to dei reality: ben venga a patto che poi ci mettano del loro e che non si lascino travolgere dal
meccanismo e mostrino autonomia di pensiero.
Intelligenza, saper fare, questo ci vuole. Poi ci sono altri che rimangono “quelli del Grande fratello” o aprono una pizzeria. È duro il mestiere di attore? È un lavoro e mi piacerebbe che anche i critici lo
capissero. Quando Sordi e Gassman facevano i
film l’Italia era un Paese che produceva 300-350
pellicole l’anno, la critica sapeva che c’era il film
per la Storia e poi c’erano i film “alimentari”... coi
quali ti compravi la casa. Adesso se un attore fa
un film che non incassa manca solo che lo menano. Sarebbe meraviglioso se si capisse che il cinema e la tv sono in assoluto i mestieri più democratici. A voglia a essere De Niro, se non c’hai Scorsese... ’ndo vai?
Lei chi ha avuto?
Io? Beh, Scorsese (si atteggia ironico) e poi me
stesso, per molti anni. Già, dai tempi del duo Toti e Tata, quando insieme ad Antonio Stornaiolo faceva ridere
tutto il Sud. Erano gli anni Ottanta, l’epoca
d’oro delle tv locali. A partire da Telenorba
avete sdoganato la comicità pugliese.
Erano tempi in cui l’Italia sembrava molto più
lunga... arrivava fino a Napoli... Anche la Puglia è
stata scoperta “dopo”, quando è entrata la storia,
quando sono arrivati gli albanesi. Ero presente al
primo sbarco, lo ricordo benissimo. Il resto del
Paese, invece, è stato solo vedendo quei servizi
in tv che si è accorto delle nostre splendide coste. L’Italia era lontana, e l’Albania molto vicina.
È vero che eravate molto famosi lì?
Certo. Essendo così vicina alla Puglia lì si trasmetteva Telenorba, ed era molto seguita. Per noi
è stato anche un modo di raccontare loro l’Italia
con ironia. Ricordo un episodio, in particolare.
Era andato a fuoco il Petruzzelli di Bari, perciò
decidemmo di ambientare la trasmissione insce9 marzo 2013
left
l’incontro
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nando i resti del teatro. C’erano pure i musicisti
anneriti, si chiamavano: I resti dell’orchestra del
teatro Petruzzelli (annuncia con enfasi). Trasmettemmo “Teledurazzo”, e in studio come scenografia c’erano due cassonetti con sopra le bandiere italiana e albanese. I vicini non la presero
tanto bene... Ci chiamò il direttore della tv locale
per dirci che a Roma era arrivata una lettera dalle
autorità albanesi. E chi pensava di arrivare fino a
Roma?! A Tirana avevano ritenuto offensive quelle immagini e ci chiedeva delle scuse ufficiali. Le avete fatte?
Ehm... Ok, cambiamo discorso. Il successo è arrivato con Tutti pazzi per amore. Una delle più
amate fiction della Rai. La qualità è cresciuta da quando la Rai ha cominciato a fare le fiction. Certo, i soldi sono sempre
meno e si fa una grande fatica. Io ho avuto la fortuna di fare Tutti pazzi per amore che ha una qualità di scrittura straordinaria e ha tentato di coniugare l’innovazione nella messa in scena con l’innovazione del linguaggio. Ha cambiato il linguaggio
di Raiuno. E, di fatto, ha tramortito lo zoccolo duro della prima rete, la fascia over sixty. Ha tirato
dentro i giovani, tra i 25 e i 45 anni. Se lo aspettava?
La reazione del pubblico è sempre più difficile da
prevedere. E poi gli anziani stanno diventando
sempre più anziani e i giovani si fanno la loro tv.
Mio figlio, che ha quasi 16 anni, se ne fa una sua rivedendo attraverso la Rete le cose che gli vengono consigliate dagli amici. È troppo vecchia la Rai, ormai.
Non voglio dire questo. Però qualsiasi cosa che
abbia un palinsesto rigido è inevitabilmente meno competitiva di una programmazione modulata in base alle esigenze individuali. Raiuno è ancora l’ammiraglia della Rai, ma ha dovuto aprire
altri canali per essere concorrenziale. Con Tutti pazzi per amore esplora i rap-
left 9 marzo 2013
porti uomo-donna nelle più disparate circostanze. Oggi, a teatro con Due di noi, torna
sull’argomento. In che modo Michael Frayn
legge la vita di coppia?
È una denuncia feroce, una critica della società e
della condizione della donna. Non sono stati fatti
molti passi in avanti, per questo il tema è ancora
attualissimo. Frayn è un autore di grande livello,
coglie l’attimo della vita di coppia. E lo fa in modo
molto divertente. Lo spettacolo ha un inizio molto frizzante, poi una fase un po’ cupa ma sempre
ironica. E il finale col botto. Insomma, un Frayn
che innova il vaudeville, la farsa. Al cinema la rivedremo presto in Mi rifaccio
vivo. Dove sarà ancora diretto dal suo conterraneo Sergio Rubini. Insieme a lei Neri
Marcorè e Lillo (senza Greg). Per Sergio è un esordio, perché da regista finora
non si era mai avventurato in un territorio come
la commedia. Il film parla delle persone che individuano in qualcuno un nemico e gli attribuiscono il negativo della propria vita. Ma poi si ricredono quando conoscono meglio l’altro. È davvero un film ben riuscito, molto divertente ma anche molto poetico. Da sinistra: Emilio
Solfrizzi nei panni
del suo personaggio
Piero Cicala; insieme
a Sergio Rubini per
la campagna di Save
the children contro la
mortalità infantile nel
mondo; con Lunetta
Savino in Due di noi;
con Antonia Liskova in
Tutti pazzi per amore
Per fare l’attore devi volerlo. Devi sentire
“il fuoco sacro sul palcoscenico”
Solfrizzi, un attore è un artista con la “faccia”. E spesso gli viene chiesto di “metterla”, la faccia, per rendere pubblico il suo
pensiero. Anche qui in redazione, oggi, è andata così. Credo che questo sia più che mai il momento di
metterci la faccia. Non mi piace chi non si espone. Prima ancora che un attore sono un uomo,
questo mestiere mi da una visibilità che mi permette di dire delle cose. Questo fatto lo considero un privilegio. E ne sento la responsabilità.
(ha collaborato Ilaria Bonaccorsi Gardini)
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poveri
cristi
di Cecilia Tosi
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Divise al loro interno, incapaci
di inseguire le esigenze dei fedeli,
costrette ad affidarsi a figure
carismatiche. Sono tutte le Chiese
cristiane, non solo quella cattolica,
che si frantumano sui temi
etici. Dilemmi che i loro sistemi
decisionali non sono in grado
di dirimere. E la comunione
ormai è una chimera
left 9 marzo 2013
copertina
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A
ricchiscono di dilemmi che Gesù non aveva neanche preso in considerazione. I matrimoni gay, nel
30 dC, non andavano ancora di moda. Negli Stati
Uniti, dove lo shopping di fedi religiose è la norma,
hanno pure stilato uno schema sulle diverse posizioni etiche delle principali denominazioni cristiane: non vuoi la pena di morte ma in alcuni casi ammetti l’aborto? Scegli i presbiteriani. Sei d’accordo con la contraccezione e con lo staccare la spina
ai malati terminali? Gli ortodossi possono venirti
incontro. Se poi non sopporti più che tuo marito
non sbrighi le faccende domestiche, vai dai metodisti, che non ammettono standard diversi per uomini e donne uniti dal matrimonio.
I cristiani vogliono ritagliarsi da soli la fede che
più si confà al loro stile di vita. Lo fanno analizzando direttamente le virtù di una Chiesa, non affidandosi più ai parroci a quelle strutture che hanno sempre fatto da intermediazione tra i fedeli e i
vertici decisionali. Preferiscono semmai affidarsi
a un leader carismatico, che sa risvegliare le loro
speranze, alimentare il loro immaginario. Può essere un predicatore pentecostale ma anche il papa. L’importante è che la religione vada incontro
alle loro esigenze, e non il contrario.
© lane/ ap/lapresse
pologia del leader, crisi delle strutture
di intermediazione, regole ritagliate sulle esigenze individuali. Altro che Grillo, il laboratorio della politica contemporanea è la
Chiesa cristiana, che lotta contro le sue spaccature interne da molto prima che papa Ratzinger decidesse di denunciare, con le sue spettacolari dimissioni, quelle della Curia. Oggi le organizzazioni religiose che si riconoscono sotto il segno della Croce sono 43mila e si calcola che entro il 2025 saranno 55mila. Ognuna di queste denominazioni ha
un suo capo carismatico, sfumature diverse con
cui interpretare i dogmi, riti celebrati con diverse
scenografie. La Chiesa che ne partorisce di più è
quella protestante, tradizionalmente incline a dare libertà di scelta ai suoi fedeli. Ma anche quella
ortodossa non scherza, visto che prevede l’autocefalia e ogni territorio che diventa autonomo ambisce a ottenere la sua. Mentre i cattolici, quelli più
gerarchizzati, perdono praticanti e guadagnano al
loro posto simpatizzanti, ognuno con la propria
idea di Cristo e di come vada venerato. La distanza tra i fedeli cristiani si allarga. Ad approfondire
il varco sono quei temi etici su cui la comunità cristiana si è sempre divisa, e che ogni giorno si ar-
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Impegnate a inseguire i propri fedeli, le organizzazioni religiose non hanno più tempo per dialogare tra loro e trovare una linea comune per unire il proprio popolo. E falliscono nella loro missione, che dai tempi di Cristo viaggia sotto il nome di comunione.
«È un problema di tutti i cristiani», ci spiega Guido
Dotti, della Comunità di Bose, uno dei pochi luoghi dove ancora si pratica il dialogo ecumenico.
«Perché le strutture di comunione interna, necessarie per analizzare le differenze tra le varie correnti e capire se i contrasti si possono comporre
o meno, sono ormai inadeguate. Gli ortodossi da
secoli non riescono a convocare un concilio, i protestanti vivono una frammentazione progressiva.
Le questioni più spinose sono quelle etiche. Spesso cattolici e ortodossi si trovano uniti sul fronte
conservatore mentre i protestanti rappresentano
i liberal, ma anche questo posizionamento crea divisioni: gli ortodossi più liberali, così come i protestanti più conservatori, non si riconoscono in queste definizioni». Non che agli scontenti e ai disorientati manchino opzioni diverse: il mondo è ormai pieno di offerte religiose, in primis quelle dei
predicatori evangelici, protestanti che predicano
il ritorno alle scritture promettendo la conquista
del successo personale. Ma ci sono anche le denominazioni “di sinistra” come l’unitarianesimo, che
spopola tra gli intellettuali americani riunendo fedeli delle più svariate confessioni, dai quaccheri ai
panteisti, dagli ebrei ai buddisti, senza lasciar fuori nemmeno gli atei. E se proprio vuoi essere alternativo, una Corte americana ha appena accettato
di qualificare come religione anche il rispetto della dieta vegan.
Alla corte dei cattolici
Le dimissioni del papa hanno ricordato al mondo
le immense difficoltà dei cattolici a rinnovarsi. Ingessata come pochi, la Chiesa di Roma preferisce
coprire invece che rimuovere i motivi della sua
crisi, rifiutandosi di sanare ferite che le hanno alienato milioni di fedeli. Nel XX secolo il diktat più
impopolare è stata la proibizione della pillola anticoncezionale (1968), in questo potrebbe essere la
messa al bando dei diritti omosessuali. Eppure attivisti Lgbt come Peter Tatchell sostengono che il
40 per cento dei preti cattolici siano gay. E la stessa dottrina cattolica recita che tutti dovrebbero riconoscere e accettare la propria identità sessua-
© Schalit/ ap/lapresse
Nella pagina accanto,
Jessica Lee, 19 anni,
e Ashley Cavner, 21,
si sposano alla First
Congregational Church
di Vancouver, nello
Stato di Washington
(Usa). Qui a fianco, un
monastero di Mar Elias,
in Palestina. Alcuni
monaci aspettano
l’arrivo del Patriarca
greco-ortodosso
di Gerusalemme
Theofilos III
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do Dotti - ha portato con sé i rischi di ogni corte,
dove si combatte tra chi organizza sotterfugi e chi
diventa più papista del papa».
© anand/ ap/lapresse
Riformati e divisi
I protestanti seguono un’agenda liberal, ma
le congregazioni conservatrici si staccano
Jammu, India.
Una suora partecipa
alla processione
del Venerdì santo
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le. Ma le gerarchie ecclesiastiche vanno per la loro strada, lasciando soli i fedeli. «È quello che alcuni chiamano scisma sommerso», spiega Dotti.
«Molti cattolici si richiamano al papa ma poi ne
disattendono gli insegnamenti, seguendo un proprio sistema di valori. È un fenomeno che si è accentuato con Giovanni Paolo II, quando c’è stata
una sovraesposizione del papa, diventato una figura mediatica “da vedere” più che da ascoltare».
Con Wojtyła superstar sono sparite le figure intermedie ed è iniziata una personalizzazione culminata oggi con i tweet di @pontifex. E mentre la tecnologia avanza, la Chiesa non si muove, anchilosata da un meccanismo decisionale che prevede
di stabilire tutto in un Concilio, salvo poi non fornire strumenti a chi negli anni ha bisogno di interpretare quelle decisioni e di adattarsi a una società
complessa. «La struttura monarchica assunta dalla Chiesa cattolica durante i secoli - conclude Gui-
Non hanno di questi problemi i protestanti, che in
molti casi hanno un clero più liberale dei propri fedeli. Tra gli anglicani varie diocesi canadesi benedicono le unioni gay. Negli Usa i vescovi episcopali sono liberi di fare altrettanto. La Chiesa luterana di Svezia celebra matrimoni tra persone dello stesso sesso dal 2009, ha cominciato a farlo in
Danimarca e presto sarà possibile anche in Islanda. Ma se ci si allontana dal Polo nord anche i protestanti diventano conservatori e su questo tema si
spaccano. Tra i sostenitori dello strappo c’è la più
vitale delle denominazioni evangeliche (6 milioni
di membri, di cui 3 conquistati negli ultimi 15 anni): la Chiesa etiope Makane jesus. Dopo 150 anni, ha appena rotto la sua comunione con la Chiesa
svedese perché è contraria all’ordinamento di preti gay e alla benedizioni di matrimoni omosessuali.
La frammentazione in questo caso deriva da un
modello organizzativo opposto a quello cattolico.
I protestanti si affidano al sinodo, l’assemblea di
pastori e laici, e prendono decisioni a maggioranza. Ma sui temi etici le votazioni rischiano di allontanare le minoranze, mentre in alcuni casi la
maggioranza richiesta è così alta che impedisce
di prendere posizione. Nella Chiesa d’Inghilterra, ad esempio, ci vogliono i 2/3 di favorevoli in
tre Camere e in certi casi il risultato delle votazioni è un controsenso. L’ammissione delle donne all’episcopato, ad esempio ha ottenuto una
maggioranza superiore ai 2/3 nella camera dei
vescovi e in quella del clero, ma l’ha mancata per
un pugno di voti in quella dei laici, così la proposta non è passata.
Le capitali dell’ortodossia
Gli ortodossi cercano di risolvere il problema
decisionale col nazionalismo: ogni Paese ha
la sua Chiesa e la sua gerarchia ecclesiastica.
Il problema è che le Chiese nazionali risentono delle divisioni politiche interne. Per anni la
Chiesa bulgara è stata spaccata in due perché il
patriarca Maxim era accusato di avere lavorato come spia ai tempi del comunismo. Così nel
1989 un gruppo di prelati di Sofia ha indetto un
suo sinodo indipendente. Due mesi fa Maxim è
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morto e solo la sua scomparsa apre prospettive
per la riunificazione tra le due Chiese.
«Nella Chiesa ortodossa esiste un problema di nazionalismo», conferma Marcel Pirard, ricercatore di teologia all’università di Louvain. «Perché i
fedeli si ritengono ortodossi in quanto bulgari, romeni, russi. Mosca ha la forza dei numeri e cerca
di imporsi sulle altre Chiese, mentre la sua rivale
di sempre, Costantinopoli, cerca di avvicinarsi ai
cattolici per recuperare importanza. Questo fa il
gioco della Russia, che si erge a rappresentante
degli ortodossi duri e puri».
A Mosca la strumentalizzazione tra Chiesa e Stato
è biunivoca, c’è chi lo chiama cesaropapismo e chi
papacesarismo. Ma il problema della dimensione
etnica crea tensioni soprattutto col fenomeno migratorio: di chi è la giurisdizione degli ortodossi
dove sono minoranza, come in Italia o negli Usa?
C’è tensione tra i rappresentanti delle varie Chiese
nazionali. Contano molto i numeri e i russi stanno
prendendo il sopravvento, seguiti di rumeni.
La confusione tra politica e religione a Mosca è talmente grande che a febbraio 134 gruppi - tra musulmani, ebrei e cristiani - si sono riuniti per creare un forza politica, il Partito dei 10 comandamenti - benedetto dall’arcivescovo Vsevolod Chaplin.
Nuove tendenze
Anche in Russia, però, si allarga l’influenza delle Chiese evangeliche. Se in America hanno già
Macinano successi i predicatori evangelici,
pronti alla conquista dell’Europa orientale
conquistato il 26 per cento dei fedeli e in Brasile stanno provocando un’emorragia tra i cattolici, nell’est Europa trovano tanta terra vergine:
dopo decenni di ateismo di Stato c’è ancora chi
non ha scelto a quale santo votarsi. È qui che
il fenomeno di evangelizzazione procede spedito, ma resta difficile da “intercettare”, da convogliare nella comunità cristiana. Ogni parrocchia è una Chiesa, manca un referente per gli
altri cristiani che vogliano coinvolgerli nel dialogo. Eppure stiamo parlando di 350 milioni di
fedeli e solo con 40 milioni di questi gli altri cristiani hanno qualche forma, seppur labile, di
contatto. Impossibili da mettere in comunione,
i pastori evangelici preferiscono seguire la via
individuale, a costo di finire in qualche scandalo, come quello del coreano David Yonggi Cho,
fondatore della più grande congregazione pentecostale e ora sotto processo per essersi appropriato di 9 milioni di dollari col marketing
piramidale. L’ignominia non ricadrà sugli altri
protestanti, che possono tranquillamente sentirsi estranei agli scandali altrui. Nel cristianesimo che avanza, è meglio che ognuno pensi alla
propria parrocchia.
© infografica martina fiore
Ogni Chiesa ha una
procedura per nominare
il suo capo. In quella
d’Inghilterra l’arcivescovo
di Canterbury è una carica
a termine, stabilita da una
commissione composta da
clero e laici: il nome deve
essere accettato dalla
Regina. Il Patriarca copto
d’Egitto e quello d’Etiopia
vengono scelti a sorteggio
tra candidati eletti da
un’assemblea. Il Patriarca
d’Antiochia, che guida la
Chiesa ortodossa siriaca,
viene scelto da un sinodo
di clero e laici. Mentre
l’elezione di quello bulgaro
prevede una riunione di
vescovi che propone tre
nomi. Poi il sinodo
ne sceglierà uno
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© Borgia/ap/lapresse
I
nscenare una pulizia radicale e attuare invece interventi mirati a salvare la reputazione e
le casse della Chiesa, evitando ogni coinvolgimento del Vaticano e della Santa Sede. Di fronte
agli scandali finanziari e alla mala gestione degli
scandali di pedofilia, è stata questa la strategia che
ha viaggiato sotto traccia per tutto il pontificato di
Benedetto XVI, sotto la sua “benedizione”. In sintesi, cambiare tutto perché nulla cambi, per preservare il potere del Vaticano e la propria influenza all’interno della Santa Sede. Formulando in latino l’intenzione di abdicare da pontefice, la “storica” mattina dell’11 febbraio, Joseph Ratzinger, ha
rinnovato quest’antica prassi riuscendo in pochi
secondi a cancellare dalla memoria collettiva otto anni di governo. Anni vissuti sotto l’insegna della restaurazione, che hanno visto l’arroccamento
della Chiesa cattolica su posizioni intransigenti e
conseguenti attriti con le altre dottrine monoteiste. Gli ultimi anatemi in difesa del celibato dei
preti e contro il sacerdozio femminile risalgono
ad appena due mesi fa, quando Benedetto XVI
ha anche affermato che aborto ed eutanasia, in
quanto forme di «omicidio», sono contro la pace
nel mondo. Ratzinger, da cardinale prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, aveva lasciato dissolvere nel nulla diversi crimini di
pedofilia clericale pur di preservare l’immagine
pubblica della Chiesa universale. E poi, all’improvviso, sono arrivate le sue dimissioni. Definite dai media italiani un gesto rivoluzionario, lo
hanno tramutato agli occhi dell’opinione pubbli-
Due miliardi
di scandali
Papa Ratzinger si dimette e riveste di modernità un papato
all’insegna della restaurazione. È l’ennesima operazione
di immagine per una Chiesa costretta a investire
tutte le sue energie per riconquistare credibilità
22
di Federico Tulli
9 marzo 2013
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copertina
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ca in un eroe dell’epoca moderna. E insieme agli
otto anni di pontificato sono scomparsi gli oltre
quattro lustri dello zelante capo della Congregazione, che si erano conclusi nel momento in cui è
diventato papa. Trent’anni vissuti da braccio armato della controriforma evaporati con un gesto
che potrebbe cambiare il corso della storia della
Chiesa, modificando l’immagine di Ratzinger in
quella di un riformatore, e restituendo ai cattolici la fiducia nell’istituzione intaccata da una serie impressionante di scandali. Forse.
Perché con il Conclave alle porte aumentano le
richieste di fare chiarezza da parte dei cardinali
chiamati a eleggere il nuovo papa, mentre anche la
stampa internazionale si concentra sui cosiddetti
Vatileaks. La “Relatio” riservata sulla fuga di documenti e i veleni interni alla Curia romana, redatta
dalla commissione dei cardinali incaricati da Benedetto XVI e solo a lui presentata, potrebbe deflagrare da un momento all’altro. L’“operazione pulizia” realizzata da Joseph Ratzinger e dai suoi collaboratori rischia di risultare vana. Dando anche
tutto un altro significato alla sua abdicazione.
«Già oggi le dimissioni di Benedetto XVI dimostrano il fallimento della sua politica», osserva Tommaso Dell’Era docente di Teorie e tecniche
della propaganda politica all’università della Tuscia. «Su scandali finanziari e abusi pedofili la sua
azione è stata finalizzata più a un’operazione d’immagine che a una pulizia interna della Chiesa».
Vale la pena ricordare il caso della legge 127 antiriciclaggio emanata dal papa il 30 dicembre 2010
per attuare la Convenzione monetaria tra il Vaticano e l’Unione europea. Dopo la pubblicazione nel 2012 di Sua Santità, il libro-inchiesta firmato da Gianluigi Nuzzi per Chiarelettere basato
in gran parte sugli stessi documenti vagliati dalla commissione cardinalizia, questa norma «concernente la prevenzione e il contrasto del riciclaggio dei proventi di attività criminose e del finanziamento del terrorismo», presentata e accolta come
una vera e propria “rivoluzione”, si è rivelata inadeguata a rompere col passato. Quel passato che,
nei settant’anni di vita dell’Istituto opere religiose,
ha consegnato alla cronaca le scorribande “finanziarie” di personaggi come il cardinal Marcinkus,
Sindona o Calvi. I soldi sono sempre fonte di preoccupazione per la Chiesa, che tra il 2011 e il 2012
ha perso 2 miliardi di dollari per il danno d’imma-
left 9 marzo 2013
gine provocato dagli abusi clericali sui minori. La cifra è stata calcolata dal National
catholic risk retention group e presentati
a un simposio mondiale all’università Gregoriana di Roma. A incidere di più sono
stati i costi non strettamente finanziari, vale a dire: investimenti mancati in opere di
bene e danno alla missione evangelizzatrice. In poche parole: perdita di potere politico, fuga di fedeli e soprattutto di offerte. «Ratzinger - prosegue Dell’Era - da prefetto della Congregazione è stato personalmente
coinvolto nella copertura di alcuni casi di abusi,
su tutti quello del fondatore dei Legionari di Cristo, Maciel Degollado. Pertanto se anche da pontefice ha avuto intenzione di fare pulizia, non è potuto andare oltre un certo limite. Nel corso del suo
pontificato invece di “tolleranza zero” contro la
pedofilia ha favorito una condotta adattata ai singoli casi via via emergenti, per evitare al massimo
le perdite economiche e di immagine, con il minimo possibile impegno, soprattutto pubblico. Basti ricordare le polemiche per la scarsa attenzione
alle “vittime” nei suoi viaggi pastorali in Usa o Australia». Per non dire dei numerosi insabbiamenti,
oscurità e resistenze specie in Italia. Le maggiori
resistenze sarebbero tra complici dello stesso livello che difendono interessi diversi (diocesi locali, episcopati nazionali versus curia romana, cordate cardinalizie varie).
Invece della
tolleranza zero,
il Vaticano
ha preferito
affrontare
le grane
caso per caso
In apertura, Joseph
Aloysius Ratzinger
di fronte a una suora
La gestione dello scandalo pedofilia e degli abusi in questo momento è la cartina tornasole delle contraddizioni del neo papa emerito. Secondo
Dell’Era lo dimostra il fatto che il cardinal Mahony,
accusato negli Stati Uniti di aver “mal gestito” i casi
di 122 sacerdoti pedofili evitando di segnalarli alla
magistratura, è stato chiamato dal Vaticano a partecipare al Conclave, mentre l’ex primate di Scozia, Keith O’Brien, accusato (e poi reo confesso)
di abusi su quattro seminaristi, è stato escluso. «In
pratica, quando le violenze diventano pubbliche e
non si può più impedire la fuga di notizie, la Santa Sede interviene facendo passare questa azione
come se fosse una sua iniziativa. Contro chi invece ha coperto gli abusi non si agisce perché Ratzinger è il primo ad averli insabbiati. Le dimissioni gli
permettono di rimanere dentro il Vaticano da papa
emerito, mantenendo un’influenza ed esercitando
una forma di controllo». Senza il peso della tiara.
23
l’intervento
copertina
left.it
l’intesa
impossibile
di Andrea Ventura*
Li chiamano marxisti ratzingeriani. Propongono l’alleanza tra pensiero
laico e cattolico contro liberismo e individualismo. Ma questa tesi
non funziona. E non ha fatto un buon servizio alla sinistra
O
ltre l’economia, le nostre società appaiono investite da una crisi che, per i diversi aspetti in cui si presenta, è indubbiamente una crisi di civiltà; e se l’ideologia liberista e il dominio delle relazioni di mercato appaiono come componenti essenziali della crisi, la sfida
per la sinistra è quella di individuare le basi, anzitutto culturali, per proporre un’idea di uomo e di
società che ad essa possa efficacemente contrapporsi. In relazione a queste problematiche, anche
a seguito della pubblicazione di un volume dal titolo Emergenza antropologica (a cura di P. Barcellona, P. Sobri, M. Tronti e G. Vacca, Guerini e
associati editori) i curatori dello stesso, alcuni dei
quali noti studiosi di formazione marxista, sono intervenuti più volte sulla stampa facendosi portatori - a partire dai
temi dell’economia - della necessità di una
convergenza
più vasta tra laici e credenti sulla base delle posizioni del pontefice. Certo, le frequenti prese di posizione provenienti
dalle più alte gerarchie ecclesiastiche
sull’egoismo, la diseguaglianza, la devastazione dell’ambiente
e gli effetti catastrofici
della crisi possono essere apprezzate da qualsiasi
persona di buon senso; non
si vede dunque perché su questi problemi la sinistra non pos-
24
sa convergere con la dottrina cattolica. Più problematica, come riconoscono anche gli autori del
volume, sarebbe invece la possibilità di un’intesa
sui temi dell’inizio e del fine vita, della sessualità e
dei diritti civili in genere. Contro una siffatta convergenza, in effetti, potrebbe essere sufficiente ricordare l’oggettivo sostegno al berlusconismo offerto dalle gerarchie vaticane, berlusconismo che
della crisi stessa è un’evidente manifestazione. In
queste settimane poi, più crudamente, le vicende
connesse alle dimissioni del papa hanno mostrato
che quella prospettiva, che avrebbe dovuto essere
di lungo periodo, si è già infranta contro il dato evidente che questa crisi di civiltà investe le strutture
portanti della Chiesa stessa. Così, quella che sulla stampa era una presenza quasi quotidiana, è diventata un imbarazzato silenzio.
Oltre la contingenza, appare comunque utile
prendere spunto dalle problematiche sollevate
dai curatori del volume per rivolgere l’attenzione
su alcune questioni fondamentali. In particolare
va individuata la struttura di pensiero che sostiene
le proposizioni della Chiesa cattolica, per chiedersi, in sostanza, se sia accettabile che, a partire da
alcune preoccupazioni comuni di tipo economico, la sinistra laica possa convergere con un’idea
di «verità» (che fonda quelli che, dal punto di vista
cattolico, sarebbero i «valori non negoziabili») dove questa è cercata non nel rapporto con la realtà,
o con la scienza, ma sulla base di una «legge di natura» - di origine divina - della quale la Chiesa sarebbe l’autentica interprete. A tal fine può essere
chiarificatore un richiamo all’esperienza storica,
troppo spesso oscurata; non va infatti dimenticato che, almeno fino al Concilio Vaticano II, ma anche oltre, la Chiesa non ha mai accettato la moderna dizione «diritti dell’uomo» preferendo i «diritti
della persona». È stata questa la forma della contrapposizione che ha visto, per oltre duecento anni, da un lato la Chiesa e dall’altro lo sviluppo dei
9 marzo 2013
left
cultura
left.it
diritti e della democrazia in senso moderno.
Dietro la diversa denominazione dei diritti vi è un
pensiero sulla loro origine: a partire dalla Rivoluzione francese i diritti dell’uomo si definiscono
su base dell’idea per la quale essi trovano un limite solo se intaccano la libertà altrui; la società democratica dà perciò legge a se stessa. I diritti della persona, per la Chiesa, avrebbero invece la loro
origine nell’ordine divino come voluto da dio e come da essa interpretato. È da Dio che proviene la
sovranità, non dal popolo. Peraltro, ancora secondo il Codice canonico del 1917, l’uomo si costituisce come persona con il battesimo, per cui questi
diritti della persona sarebbero esclusivo appannaggio dei cattolici... e non a caso, dunque, non
comprendevano l’uguaglianza, la libertà religiosa,
di stampa e di pensiero, la sovranità popolare: non
è un diritto della persona vivere nell’errore, contro i fondamentali «diritti di Dio» dei quali la Chiesa di Roma sarebbe appunto l’unica interprete.
Questo fondamento dei diritti, se da un lato,
dalla Rerum Novarum di Leone XIII (1891), non
ha impedito alla Chiesa di far rientrare nei diritti
della persona alcuni diritti «naturali» di tipo economico - come la proprietà, un salario dignitoso,
la protezione del lavoratore con un contratto, la
difesa delle condizioni di lavoro delle donne e dei
bambini - dall’altro non ha consentito che essa ne
riconoscesse la base politica, cioè le gambe su cui
sostenersi. Ed è per il sostanziale disinteresse ma,
meglio, per l’opposizione alla democrazia e allo
sviluppo dei diritti politici, che la Chiesa ha potuto
convergere con il corporativismo fascista - visto
come la possibilità della ricostruzione di rapporti sociali armoniosi oltre la contrapposizione capitale/lavoro - così come con le leggi razziali del regime, il franchismo e le dittature dell’America latina. Peraltro la costituzione di Franco, che negava la libertà religiosa, fino alla vigilia della caduta
del regime fu considerata dalla Chiesa un modello ideale di costituzione, anche in contrapposizione alla carta delle Nazioni unite del 1948 che invece si richiamava alla dichiarazione dei diritti della
Rivoluzione francese (si veda su questo il bel libro
di D. Menozzi, Chiesa e diritti umani, Il Mulino).
La compromissione della Chiesa di Roma con le
dittature fasciste e le leggi razziali del 1938 è nota e numerose sono le ricerche storiche che ne ricostruiscono i dettagli. Il contrasto con il fasci-
left 9 marzo 2013
smo sulle leggi razziali, nello specifico, non era
sulla discriminazione in quanto tale, ma sul fatto
che questa andasse effettuata dallo Stato su base “razziale”, oppure, come rivendicava la Chiesa, sul piano della credenza religiosa. Infatti, alla
caduta del fascismo, il Vaticano chiese al governo Badoglio l’abolizione di quella parte della legislazione sulla razza che impediva il pieno riconoscimento della famiglia mista, mentre per gli altri aspetti se ne chiedeva il mantenimento poiché
conformi alla dottrina cattolica.
La Chiesa non può riconoscere i propri errori ed
è perciò costretta a costruirsi un passato di comodo: questo perché la sua missione si definisce, appunto, nell’interpretazione dei voleri di Dio, dunque un’analisi critica della propria storia di per sé
la delegittima in quanto intacca alla
radice l’idea che essa possa assolvere la sua funzione. Per il pensiero laico l’analisi storica è invece essenziale: non certo per schiacciare il mondo
cattolico nel suo insieme alle responsabilità di chi ne dovrebbe costituire
la guida, ma per sottolineare che non
basta estrapolare dal contesto quelle
posizioni delle gerarchie ecclesiastiche sui temi dell’economia che appaiono condivisibili per affermare l’oggettiva convergenza tra esse e la sinistra. Essendo stata posta una questione antropologica, si tratta piuttosto di valutare se il
discorso complessivo sull’identità umana portato
avanti dalla Chiesa può essere accettato e dunque
se, oltre ai temi dell’economia, anche su libertà, democrazia, inizio e fine vita, sessualità, posizione
della donna nella società, è possibile una convergenza come quella proposta dagli autori sopra citati. Lo stesso mondo cattolico appare diviso e incapace di trovare una sua sintesi da tradurre in azione politica. Individuando in Benedetto XVI l’interlocutore privilegiato per un dibattito sulla possibilità di superare quella crisi dei fondamenti che investe la società contemporanea, i marxisti ratzingeriani hanno fatto un pessimo servizio alla sinistra e a tutti quei cattolici che, sui temi dei diritti civili, del fine vita, della contraccezione e dell’aborto quelle posizioni non hanno condiviso e si sono
mossi cercando una propria autonomia.
*docente di Politica economica
università di Firenze
Da una parte
la Chiesa, che
difende i diritti
della persona,
di origine divina.
Dall’altra i diritti
dell’uomo, sanciti
dalla Rivoluzione
francese
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società
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Così i grillini
cambiano la
democrazia
di Filippo Barone
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9 marzo 2013
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© Leonardi / LaPresse
L’influencer,
il troll e il
parlamento
elettronico.
società
left.it
«Il bello di facebook è che con
un click puoi dire: mi piace...
E il bello di un revolver è che
con un click puoi dire: non mi
piace». Lo sketch di Maurizio
Crozza, il confronto tra il Padrino e i suoi sgherri invaghiti
di Grillo, rappresenta bene il
tenore del dialogo che in questi giorni si sta consumando
tra Movimento 5 stelle e Pd.
L’imbarazzo del confronto con la prima forza politica cresciuta a pane e blog è palpabile, dentro
e fuori il Palazzo. Ma per capire il partito di Grillo bisogna volgere lo sguardo verso il common
law di tradizione anglosassone. Qui “onorabilità” e
“consuetudine” non sono semplici parole, pesano
quanto nel nostro sistema giuridico “legge” e “rappresentanza”. Bene, i blog e i forum vengono dalla
cultura anglosassone, i meetup sono blog, il Movimento 5 stelle nasce e cresce con i meetup.
© Leonardi / LaPresse
Nel girone dei “bannati”
Sui blog del Movimento ognuno può iscriversi e dire la sua alla pari, promuovere azioni da compiere,
sondare l’opinione altrui o mettere al voto una proposta. Tutti possono entrare, belli e brutti, e parlare
con lo stesso peso degli altri. La prima idea che viene è che un sistema del genere porti all’anarchia,
confusione e inconcludenza. Eppure non succede su internet come non succede nel Movimento
5 stelle, dove il modello è consolidato da anni. Non
serve alcuna adesione ideologica: destra come sinistra, gay e omofobi, filoatlantici o maoisti, non fa
alcuna differenza: ognuno apre la sua discussione
e chi vuole aderire aderisce. Il segreto è nelle due
parole del common law: consuetudine e onorabilità. Le regole sui blog si fanno col tempo, con continui aggiustamenti, tra successi e fallimenti, con
prassi che si consolidano fino a diventare inossidabili e irreversibili. Spesso non sono scritte, ma
le conoscono tutti. Una di queste è quella che nessuno si può mettere a consultare il Paese senza
essere passato prima dal proprio gruppo territoriale. L’altra è che non si parla di temi diversi da
quelli stabiliti dalla conversazione: niente “off topic”. Per il resto valgono le regole del consenso:
chi si è conquistato il rispetto altrui, quando indica che qualcuno o qualcosa non va, riceve l’ascol-
left 9 marzo 2013
to di tutti. Il “troll”, il disturbatore, è bandito, o meglio “bannato”. Stessa sorte al giornalista scorretto o all’infiltrato, il doppiogiochista. Se il verdetto
proviene dall’opinion leader, l’“influencer”, allora
vale doppio. Dal girone dei bannati non c’è redenzione. Salvo che un altro influencer non rimetta
tutto in discussione. È la democrazia elettronica,
bellezza. L’onorabilità non si compra, si conquista sul campo, frase dopo frase, incontro dopo incontro. Basta dire cose interessanti, affascinare,
essere affidabili nel tempo. Forse Max Weber la
chiamerebbe leadership. E non farebbe fatica il filosofo a dire che non è dissimile da quella che nel
Pd mette D’Alema in cima e il militante del circolo in basso. Con l’unica differenza che la partita, in
rete, è sempre aperta.
In Inghilterra un mestiere non si ottiene con l’abilitazione da parte di un ordine: tutti possono fare gli
avvocati e i giornalisti senza diplomi o permessi,
semplicemente facendolo, conquistando sul campo meriti e fiducia di colleghi e clienti. Se faranno
bene avranno la direzione del giornale o il caso giudiziario del secolo. Se tradiranno le regole e perderanno l’onorabilità saranno fuori dai giochi. Nulla
di scritto, eppure non è anarchia, sono regole indiscutibili. Con questo sistema Grillo ci ha vinto le
elezioni. E ora si appresta a conquistare la Capitale, dove si voterà a maggio.
Macchina in moto. Direzione: Campidoglio
Ogni gruppo di Roma e provincia è allertato. Qualcuno ha i candidati in tasca, altri devono ancora inventarsi le procedure. Ma la regola è uguale per tutti: prima si discute come proporre i propri candidati, poi si scelgono e si votano insieme. I meccanismi possono fregiarsi dei migliori istituti della politologia classica: Cuis regio eius religio e pacta
sunt servanda. Ognuno si da le regole che vuole,
ma poi diventano legge per tutto il gruppo e vanno rispettate. Scelti quanti e quali candidati, partirà
l’email allo Staff nazionale che ha il compito di stilare la lista di papabili da proporre al voto di tutti i
cittadini. Chiunque potrà votare con pari diritti. Il
vincitore sarà il candidato del Movimento. I gruppi
sul territorio sono una ventina. I più forti, l’ottavo e
il tredicesimo municipio, contano quanto i piccoli
gruppi di Genziano e di Fiumicino. Così come il voto di chi si iscriverà domani, conterà quanto quello
di chi è iscritto da anni. La garanzia è sempre quella: difficilmente il gruppo candiderà uno sconosciuto o si farà influenzare da un neofita.
In apertura,
Beppe Grillo
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società
left.it
Poche regole, ma indiscutibili. Si parte
dal meetup locale, niente “off topic”.
Poi valgono le regole del consenso
Il parlamento elettronico
L’obiettivo è portare forza e disciplina dei forum fin
dentro le Commissioni parlamentari. Perché la trasparenza, per i Cinquestelle, non si ferma alla fatidica webcam, ma si basa un complesso sistema di
controllo remoto. E il progetto per «aprire il parlamento come una scatoletta di tonno» è già scritto
nero su bianco, sul web, ovviamente. Il modello in-
formatico pilota è già attivo: lqfb.bergamo5stelle.
it. Si tratta di costruire un sistema dove le opinioni e le proposte non si confondono, non vengono
strumentalizzate e producono risultati. Rousseau
ci aveva rinunciato, ma quelli del Movimento sono più testardi. Cosa che finora sembra aver pagato. Per seguirne gli sviluppi su twitter l’hashtag è
#demLiquida. Ma il cantiere è la pagina facebook
“Parlamento elettronico del M5S”: un gruppo chiuso a nove attivisti che macinano protocolli reputazionali, sistemi di certificazione Token (le chiavette usate da alcune banche), procedure di gestione
di emendamenti o controlli dei vincoli di bilancio.
A fornire le coordinate per comprendere il proget-
Grillo di battaglia
Ex vendoliani, NoTav e precari. Nel vuoto della rappresentanza,
il Movimento 5 stelle si radica nelle lotte abbandonate dalla sinistra
Q
uando la sinistra non c’è i grilli saltano. Perché
il Movimento di Beppe Grillo, al momento, ha
saputo sporcarsi le mani sui campi di battaglia da tempo abbandonati dai partiti tradizionali. Dal NoTav alle
lotte dei precari, gli attivisti 5 stelle rispondono sempre
presente all’appello. Così a sinistra un mondo ha trovato in Grillo un appiglio a cui agganciarsi.
Un cero a San Precario
Se i partiti guardano ancora con sospetto a Beppe
Grillo, i movimenti sociali hanno già avuto modo di conoscere i 5 stelle sui territori. E su alcuni temi il M5s
riscuote molti più consensi della sinistra tradizionale.
Il reddito di cittadinanza, ad esempio, ha fatto breccia nel cuore di San Precario, il santo patrono dei lavoratori a intermittenza che da anni si batte per il salario garantito. «Crediamo che il Movimento 5 stelle
porti avanti delle battaglie giuste anche se al suo interno ci sono molte contraddizioni», dice Alessandro,
militante della rete San Precario. «Ma non pensiamo
che siano fascistoidi come hanno scritto in tanti. Certo, dovranno risolvere alcuni problemi al loro interno,
ma hanno avuto la forza di imporre il tema del reddito
in campagna elettorale». Una forza che evidentemente è mancata al Partito democratico nonostante l’alleanza con Vendola, sostenitore del salario sociale. «Il
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di Rocco Vazzana
Pd è stato l’unico partito di sinistra che non ha parlato
di reddito di cittadinanza», continua Alessandro. L’errore democrat, per San Precario, sta nell’analisi: ferma
agli schemi del Novecento e troppo legata alla visione della Cgil, impegnata esclusivamente nella difesa
dei privilegi già acquisiti. E in questo, il santo protettore
dei sottopagati ha una visione molto simile a quella del
Movimento 5 stelle. «Susanna Camusso si è mostrata abbastanza perplessa sull’introduzione del reddito
di cittadinanza», dice Alessandro. «Ma la Cgil non ha
capito che il mondo del lavoro è cambiato. Quel sindacato è contrario anche al salario minimo, cioè una
paga minima oraria sotto la quale un lavoratore non
può scendere. Per Camusso tutti dovrebbero rientrare nel contratto nazionale a tempo indeterminato. Ma
si dimentica che negli ultimi vent’anni il sindacato non
ha fatto nulla per impedire la precarizzazione del lavoro». Almeno le critiche dal fuoco “amico” non dovrebbero essere liquidate col semplice appellativo di populismo. Grillo ringrazia e porta a casa.
Le fabbriche di Beppe
Ma l’erosione di consensi non si limita ai temi del lavoro e non riguarda solo il Pd. A sinistra, fino a poco tempo fa, erano in tanti a sperare nelle “nuove narrazioni”
di Nichi Vendola. Migliaia di ragazzi, spinti dal vento di
9 marzo 2013
left
società
left.it
cambiamento che soffiava in Puglia, avevano costituito in tutta Italia 601 “fabbriche di Nichi”. Un’esperienza
unica che aveva avvicinato alla politica una generazione fatta di ragazzi che non avevano mai messo piede
in una sezione di partito, prima che Grillo straripasse.
Vendola aveva intercettato un bisogno di partecipazione del tutto simile a quello che oggi anima gli attivisti
a 5 stelle. «Prima di entrare nelle Fabbriche di Nichi, nel
2009, ho partecipato per caso a due meetup del Movimento 5 stelle a Bologna», dice Massimiliano Perrone, ex “operaio” della fabbrica romana di Vendola. «Il
clima che si respirava nelle assemblee grilline era molto simile a quello delle fabbriche». Trasparenza, solidarietà, cambiamento. Erano queste le parole d’ordine
che animavano le discussioni dei comitati vendoliani.
Ma con lo spontaneismo si rischia l’anarchia. E invece
di coccolarsi i suoi giovani, Vendola impose lo scioglimento delle fabbriche che sarebbero dovute confluire dentro Sel. Prendere o lasciare, alla faccia di chi oggi si oppone alla gestione autoritaria della politica. Un
affronto imperdonabile per chi aveva creduto in lui. Risultato: poche decine di militanti entrarono nel partito del presidente pugliese, gli altri cominciarono a vagare nel “mercato” della partecipazione. Il grosso di
quel patrimonio di freschezza ha aderito al Movimento 5 stelle. Alcuni, invece, hanno dirottato le speranza di rinnovamento su Matteo Renzi. Come l’ex “operaio” Massimiliano, che ha animato i comitati a sostegno del sindaco di Firenze in occasione delle primarie
del centrosinistra. «Renzi non ha mai trattato con sufficienza Grillo - dice - ha sempre sostenuto la necessità
di dare delle risposte al popolo che si riconosce nei 5
stelle. Non è un caso che gli attacchi che oggi subisce
left 9 marzo 2013
tisti, ma il livello di ingegneria che emerge dal documento dimostra che il lavoro dei supertecnici
del M5s ha già superato molti ostacoli. Quella che
sembra essere liquidata troppo in fretta è la questione della sovranità. Il sistema immaginato è bicefalo, un’assemblea per il Movimento e una per la
“Cosa pubblica”, dove ciascun cittadino può partecipare da casa votando leggi e regolamenti online.
Qui il discorso si fa complesso: Montesquieu, Spinosa e Locke ci hanno sbattuto la testa, ora è il turno di Davide Barillari (sviluppatore del gruppo, più
noto come candidato alla presidenza della Regione Lazio). D’altro canto, google ieri non c’era e mai
un Blog aveva conquistato un Parlamento.
Torino, 3 maggio 2012,
proteste davanti al
palazzo di Giustizia
durante il processo a
Beppe Grillo e NoTav
per la rottura dei sigilli
al cantiere Valsusa
© Bottallo / LaPresse
to, un video appello di Federico Pistono, attivista
di 28 anni, voce autorevole nella rete: due libri alle spalle sul futuro della rete e la decrescita e 21mila seguaci su twitter. «Il progetto dev’essere gestito da tutta la comunità», dice il cyber attivista su
youtube. Per ora, il parlamento elettronico è un file di dieci pagine in pdf aperto: proposte e critiche
si possono aggiungere liberamente sullo stesso documento usando l’applicazione Pdfzen. Ogni variazione sarà una copia nuova che potrà essere segnalata al gruppo. Utopico, irrealizzabile, fallace? Le
ipotesi sono sul campo, intanto governa la regola
propositiva: chi vede un problema aiuti a risolverlo. Che ogni sistema sia violabile è noto ai proget-
il comico genovese li abbiamo subiti anche noi, quando facevamo campagna per Renzi».
Un treno per la Val di Susa
E mentre tutti si interrogano sulla futura compagine di governo, sono altri i dibattiti che animano le
pagine virtuali del Movimento 5 stelle. La preoccupazione maggiore è come arrivare in Val di Susa il
23 marzo, giorno della manifestazione contro l’alta velocità. Il partito di Grillo da queste parti ha ottenuto consensi plebiscitari. In alcuni piccoli paesi della Valle, il Movimento ha sfiorato quota 60 per
cento. Proprio come era accaduto in passato a Rifondazione comunista. I valligiani sono abituati alle
promesse non mantenute dai partiti che negli anni hanno pescato a piene mani nel bacino elettorale NoTav. Ma stavolta, nonostante le remore, la
speranza è forte. Tutti gli eletti grillini manifesteranno in Val di Susa per ringraziare i cittadini che hanno
scommesso su di loro. Agli altri il compito di districare le matasse di palazzo.
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società
© Imbesi /ap/lapresse
left.it
Sicilia,
un modello
di cartapesta
di Salvo Toscano
L’asse Crocetta-M5s non può essere esportato al Senato. A Palermo il presidente della Regione
governa soprattutto grazie al sostegno dei transfughi del centrodestra e senza necessità del voto
di fiducia. Ma i grillini ottengono un “pacchetto tsunami” di riforme
S
Manifesto elettorale
di Giancarlo Cancelleri,
candidato alle
elezioni regionali
siciliane del 2012
30
i fa presto a dire modello Sicilia. Il rapporto tra la giunta regionale guidata da
Rosario Crocetta e la cospicua pattuglia del Movimento 5 stelle all’Assemblea regionale siciliana è stato più volte scomodato in questi giorni come paradigma di una possibile collaborazione tra centrosinistra e grillini nel Senato
senza maggioranza. Ma al di là delle semplificazioni, tra Palermo e Roma corre più di una differenza. A partire dalla più decisiva, che si chiama fiducia. Un passaggio che non esiste a livello
di Regione, dove il presidente viene votato direttamente dagli elettori, e che invece è necessario
per la nascita del governo nazionale.
Il “modello Crocetta”, «meraviglioso» a detta di
Beppe Grillo, ha preso corpo all’indomani delle
elezioni regionali che non hanno attribuito alla coalizione Pd-Udc che sosteneva l’ex sindaco di Gela una maggioranza in Consiglio regionale. I 15 deputati (così si chiamano i consiglieri regionali siciliani) del 5 stelle hanno aperto da subito un’interlocuzione con il governatore, riuscendo, alle prime
battute della frammentata Assemblea, a eleggere
il vicepresidente vicario del Parlamento regionale
(l’ex mimo Antonio Venturino), e ottenendo posti
strategici nelle commissioni. Il confronto con Crocetta fin qui si è giocato su singole questioni: emblematica quella del Muos, il mega radar militare
che gli americani intendono realizzare a Niscemi,
contro il quale i grillini si sono battuti, riuscendo
a strappare al governatore posizioni intransigenti. Proprio in quei giorni, l’Assemblea regionale discuteva il Documento di programmazione economico finanziaria della giunta, la cui approvazione
è slittata più volte per la scelta dei grillini di lascia-
re l’Aula al momento della votazione. Lo “sblocco”
della vicenda Muos ha portato contestualmente
all’uscita dall’impasse e all’approvazione del Dpef.
Anche sulla riforma delle Province, Crocetta, dopo
qualche tentennamento, complice la “spinta” del 5
stelle ha tirato fuori dal cilindro un disegno di legge
che produrrebbe cospicui risparmi di cassa e che
porrebbe la Sicilia all’avanguardia nel panorama
nazionale: un pacchetto di misure, che contempla
anche qualcosa di simile al reddito di cittadinanza
cavallo di battaglia dei grillini, che non a caso il governatore ha battezzato davanti ai giornalisti “pacchetto tsunami”.
Ma il canovaccio siciliano, a Roma si scontrerebbe, come detto, con l’imprescindibile scoglio del
voto di fiducia. Ed è lì che le cose si complicano.
La “lezione siciliana” non finisce qui. Perché se
è vero che su alcune questioni di merito centrosinistra e 5 stelle hanno trovato convergenze in
questi primi mesi, è anche vero che contestualmente Crocetta ha lavorato per puntellare la sua
maggioranza a prescindere dall’appoggio pentastellato. Partito da 39 deputati su 90, il governatore è arrivato oggi a contarne 46, dopo avere aperto le porte a una cospicua pattuglia di transfughi
traghettati dal centrodestra al centrosinistra, dei
quali una fetta consistente è arrivata dalla disgregazione di Grande Sud, il movimento di Gianfranco Miccichè. Le opposizioni di centrodestra hanno parlato di “mercato delle vacche”, ma Crocetta ha fatto spallucce. Perché il modello Sicilia sarà pur “meraviglioso”, ma una maggioranza autosufficiente a prescindere dallo sporadico sostegno grillino fa senz’altro dormire sonni più tranquilli a chi governa.
9 marzo 2013
left
calcio mancino
società
left.it
Le Politiche del ’92, le prime senza Pci, nella decima giornata di ritorno
Election day
di Emanuele Santi
Il Milan di Fabio Capello
trionfa e vola verso
la conquista dello scudetto
left 9 marzo 2013
e la Juve è attesa nel derby contro il Toro su un campo allentato dalla pioggia. La Roma, invece, va in scena al San Paolo di
Napoli dove, secondo il luogo
comune (meteorologico e non
solo) di un’Italia divisa in due,
il sole splende e i giocatori sudano più del solito. Al Delle Alpi il primo tempo si chiude senza reti mentre, a San Siro, Frank
Rijkaard trascina il Milan avanti di due gol e la Roma, sfruttando il contropiede, va al riposo
in vantaggio per 0-2. I rossoneri dilagano e chiudono sul 5-1.
La Roma si fa rimontare e superare da Careca e da Zola per il
3-2 finale. A Torino, sotto gli occhi vigili di Henry Kissinger in
tribuna accanto all’Avvocato, il
brasiliano granata Walter Casagrande infila due volte Peruzzi
nel giro di pochi minuti. Il Milan
vola a più sei sulla Juve e ipoteca lo scudetto. Primo partito si conferma la Democrazia cristiana che sfiora il 30 per cento, secondo è il Pds fermo al 16; terzi i socialisti al 13 e mezzo. Quarto partito è la Lega nord, poi
c’è Rifondazione con 35 seggi appaiata al Movimento sociale con 34. Ma
è un Parlamento che durerà solo due
anni. Dopo tre scudetti di fila, infatti,
sarà proprio il presidente del Milan a
vincere le Politiche del ’94 incassando
i voti dei democristiani in Sicilia, degli
orfani di Craxi a Milano e dei fascisti
romani ripuliti dal congresso di Fiuggi. E i leghisti? Impararono a cantare
Forza Italia meglio di tutti.
[email protected]
© Ravezzani/LaPresse
D
omenica 5 aprile ’92:
si vota per il rinnovo del Parlamento,
sciolto anzitempo dal Presidente Cossiga svelto a eludere la guardia del medico curante e ad anticipare l’inizio del semestre bianco. Per un’opinione pubblica che non poteva
prevedere gli sviluppi dell’inchiesta chiamata Tangentopoli, l’unica certezza rimaneva la
svolta della Bolognina. Per la
prima volta nella storia della
Repubblica, infatti, non c’era il
Pci. Al suo posto il Pds e Rifondazione comunista che aveva
Frank Rijkaard
accolto i resti di Democrazia
con la maglia rossonera
proletaria. Dall’altra parte dello schieramento c’era il quintetto base del pentapartito: Dc,
Psi, Pri, Psdi e Pli. Si vota di domenica e, come ogni domenica, si gioca anche il campionato. Il sistema proporzionale
prevede un’unica scheda, così come fo e da Martin Vazquez. La Sampdoria
la serie A prevede tutte le partite in campione in carica è troppo distratcontemporanea nell’immediato do- ta dalla Coppa dei campioni mentre
po pranzo e due soli punti in caso di la Roma del taciturno Ottavio Bianvittoria. In testa c’è l’imbattibile Mi- chi tenta una disperata rimonta verso
lan di Fabio Capello, erede di Arrigo l’ultimo posto utile in coppa Uefa con
Sacchi chiamato da Matarrese a gui- la fascia di capitano passata dal bracdare la Nazionale. All’inseguimento: cio di Peppe Giannini alla zampa della
la Juve di Trapattoni, tornato in ca- volpe argentata Rudi Voeller. Dall’alsa Agnelli come minestrina riscalda- tra parte del Tevere c’è la Lazio di Dino
ta dopo le zuppe di Gigi Maifredi. Ter- Zoff e dei tedeschi Riedle e Doll menza forza: il Napoli di Claudio Ranieri tre l’esigente Milano nerazzurra ha
con il piccolo Zola numero 10 al posto dovuto digerire Corrado Orrico fino
di Maradona e con il grande Careca al all’ultima di andata quando è stato socentro dell’attacco. Più indietro: il To- stituito dal traghettatore Luisito Suarino di Mondonico, solido in difesa e rez. Il Milan ospita la Sampdoria sotcon un centrocampo sorretto da Sci- to un’acqua tutt’altro che primaverile
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società
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di Claudio Reale
© arianna catania
corleone.
una bara
per due
Volevano commemorare
Bernardino Verro, eroe locale
assassinato dalla mafia nel
1915. Ma nella sua tomba
c’erano due scheletri.
E la vittima di Cosa nostra è
in un altro cimitero. Un mistero
tutto siciliano. Su cui indaga
la procura di Termini Imerese
L
a beffa era contenuta già nel numero della
tomba: 47. Che, smorfia alla mano, avrebbe dovuto suggerire un “morto che parla”.
Ma il morto, questa volta, è stato in silenzio per
qualche mese. E così, il 3 novembre, a Corleone,
sindaco e associazioni locali hanno celebrato in
pompa magna un corteo antimafia per traslare il
cadavere che ritenevano essere quello di un eroe
locale, il sindaco socialista Bernardino Verro, ucciso nel 1915 dai boss, senza sapere che, con tutta probabilità, le ossa che stavano trasportando in
una cappella aperta per l’occasione erano in realtà quelle di un mafioso. Con un cognome di peso:
Bagarella. Già, perché il corpo di Verro, che tutti a
Corleone credevano essere stato sepolto in quella tomba 47, era stato spostato a Palermo alcuni
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decenni fa. E sulle ossa trovate nel loculo, adesso,
la procura di Termini Imerese ha aperto un’inchiesta: il sospetto del procuratore Alfredo Morvillo è
che quei resti appartengano a Calogero Bagarella,
fratello di Leoluca e cognato di Totò Riina, ucciso
nella strage di viale Lazio e mai più ritrovato. Almeno fino a qualche giorno fa.
Per spiegare questa storia, però, è necessario
tornare indietro di tre mesi e appunto ripartire da
quel 3 novembre. L’occasione è solenne: si celebra il 98esimo anniversario della morte di Verro.
Le associazioni antimafia, guidate dal combattivo
sindacalista Dino Paternostro, chiedono al sindaco di spostare i resti dell’eroe socialista, conservate appunto in un anonimo loculo, in una cappella
9 marzo 2013
left
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realizzata appositamente accanto a quella di Placido Rizzotto. Così avviene: quando però il sindaco Lea Savona fa aprire la tomba, all’interno trova i resti due persone. Ma non si insospettisce.
Tutto normale, dice lei. Uno dei teschi, in effetti,
aveva il foro di un proiettile sul cranio. «Mi hanno fatto notare che era giusto: Bernardino Verro
fu ucciso con due colpi di arma da fuoco, uno dei
quali lo raggiunse proprio dietro la testa». Tanto più, spiega Paternostro, che una vecchia tradizione locale vuole che due parenti possano essere sepolti nella stessa tomba. Nessuna anomalia, nessun allarme: il corteo si tiene come da programma. La cappella viene inaugurata e il Comune celebra la vittoria dell’antimafia sulla mafia.
L’allarme, però, arriva all’inizio di gennaio. Un ex
consigliere comunale con la memoria più lunga
degli altri, Ettore Piccione, scrive al sindaco. Dice che no, quello trovato nella tomba non può essere il cadavere di Verro. E per argomentare allega un vecchio articolo del 2007. «Nel ritaglio di
giornale - spiega adesso il sindaco Lea Savona c’era scritto che i resti di Bernardino Verro, molti anni fa, erano stati spostati al cimitero dei Rotoli di Palermo. Giustamente Piccione chiedeva
che fosse ripristinata la verità».
A quel punto, ovviamente, il sospetto diventa grande. Il sindaco si rivolge alla polizia, che a
sua volta trasmette l’incartamento alla procura di Termini. Il capo della procura, Alfredo Morvillo, sa bene di cosa sono capaci i boss corleonesi: sua sorella, Francesca, era la moglie di Giovanni Falcone, e con lui è stata uccisa nella strage del
23 maggio 1992. Morvillo avvia gli accertamenti, e dai registri del cimitero palermitano scopre
che effettivamente Verro si trova nel capoluogo.
C’è, però, un giallo nel giallo. Se Verro è stato portato a Palermo il 23 marzo del 1959 e nel capoluogo la
documentazione parla chiaro, a Corleone non tutte le carte sono in regola. Negli archivi del cimitero
il fascicolo su Verro è molto grosso, ma manca un
solo atto: quello del 23 marzo 1959. La traccia della
traslazione nel capoluogo. L’ipotesi, a questo punto, è chiara: qualcuno avrebbe fatto sparire i documenti per tenere “in caldo” una tomba da utilizzare
nell’eventualità di una lupara bianca.Resta da scoprire per chi sia stato utilizzato quel loculo. Di certo si sa che i resti di Calogero Bagarella, morto nel
1969 nell’agguato che segnò l’esordio criminale di
left 9 marzo 2013
Totò Riina e Bernardo Provenzano, furono portati via da Riina. A raccontare i dettagli, ipotizzando
che il corpo sia stato cremato, è stato il pentito Gaetano Grado, uno dei killer che facevano parte del
commando: «Recuperammo il corpo - ha detto ai
pm nel 2009 - e lo nascondemmo nel baule della
macchina. Dissi che siccome era caduto con onore doveva essere seppellito con la sua famiglia. Ma
Riina disse che era meglio bruciarlo. Ci pensò lui».
Altrettanto certo è che il cadavere trovato a Corleone è compatibile con la dinamica della morte di
Bagarella. È il 10 dicembre 1969, i Corleonesi stanno iniziando la propria ascesa e Totò Riina decide di sbarazzarsi del boss rivale Michele Cavataio: un commando composto da Riina, Provenzano,
Bagarella, Grado, Damiano Caruso ed Emanuele D’Agostino fa irruzione negli uffici del costruttore Girolamo Moncada, dove Cavataio lavora. I
killer, secondo la ricostruzione del pentito Francesco Di Carlo, sono vestiti da poliziotti e devono
sparare al grido di “fermi polizia”. Provenzano, però, non controlla i nervi e spara troppo presto. «Il
clan di Cavataio - racconta Di Carlo, che conosce
la storia dai resoconti di Damiano Caruso - aveva
subito intuito il pericolo. Caruso attribuisce il fallimento dell’agguato a Provenzano. “Per colpa sua ci stavano ammazzando tutti”, ripete». A morire non è uno qualsiasi: è il cognato del capo. Raggiunto, appunto,
da un colpo alla testa. Come quel
teschio trovato a Corleone.
A questo punto, a risolvere il mistero, ci penserà l’esame del Dna disposto dalla procura. Non una novità, per Corleone: appena un paio di anni fa, infatti, l’allora procuratore
aggiunto Antonio Ingroia aveva deciso di riesumare i resti del bandito Salvatore Giuliano, ucciso in circostanze misteriose nel 1950 dopo aver
compiuto il più atroce dei delitti politico-mafiosi del dopoguerra, la strage di contadini e lavoratori avvenuta a Portella della Ginestra il Primo maggio 1947. Obiettivo, capire se il cadavere sepolto nella tomba di Giuliano fosse davvero quello del bandito. Folla, giornalisti da tutto il
mondo, clamore mediatico per una scoperta ben
al di sotto delle attese: il corpo era davvero quello del bandito. Del resto, in barba alla smorfia,
a Corleone i morti che parlano non abbondano.
Ma i misteri non mancano mai.
Le ossa ritrovate
forse appartengono
a Calogero Bagarella,
cognato di Riina
Bernardino Verro.
In apertura, un incrocio
presso le Madonie,
in provincia di Palermo
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cose dell’altritalia
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1 BARI
Riciclaggio, anche la Sacra corona
unita punta sul videopoker
Scommesse online e videopoker per riciclare il denaro
sporco della Sacra corona unita. Nel brindisino, la Guardia
di finanza nei giorni scorsi ha eseguito 19 ordinanze di custodia cautelare, di
cui 9 in carcere e 10 ai domiciliari. La Direzione distrettuale antimafia di Lecce ha setacciato l’attività di società
delle scommesse online e di vari commercialisti e avvocati della zona. Nel mirino degli inquirenti, l’attività della
società scommettendo.it, che conta oltre mille centri affiliati in tutta Italia e un volume d’affari superiore a 300
milioni di euro. La Dda salentina la considera «in posizione di contiguità con la Sacra Corona Unita avendone
agevolato le attività imprenditoriali». Ma le indagini riguardano anche aziende più piccole. Ad esempio la Fast
service line srl, fallita da tempo, che avrebbe ottenuto dal commercialista brindisino Gian Paolo Zeni l’accesso al
concordato preventivo che consentì di scongiurare il dissesto finanziario. Tuttavia, secondo la Dda, i dati certificati
da Zeni sarebbero stati falsi. Il professionista è finito nei guai: ai domiciliari con l’accusa di concorso in bancarotta
fraudolenta. Stessa sorte per l’avvocato Italo Sgura. I reati contestati agli arrestati sono trasferimento fraudolento
di valori, riciclaggio, impiego di denaro di provenienza illecita per agevolare l’attività della Sacra corona unita,
bancarotta fraudolenta ed emissione di fatture per operazioni inesistenti. Gli altri arrestati sarebbero legati al clan
che fa capo ad Albino Prudentino, arrestato nel 2010 e attualmente in carcere per droga e mafia. Il boss si sarebbe
avvalso di prestanome e società compiacenti per reinvestire i proventi derivanti dall’attività illecita. Niente di
nuovo, per la Puglia. Secondo la Banca d’Italia il fenomeno del riciclaggio
di denaro sporco è in forte aumento in questa regione: le operazioni
finanziarie sospette sono passate dalle 575 del 2008 alle 1.948 del 2011. Ma
se gli istituti di credito segnalano ogni operazione dubbia, i professionisti
non fanno altrettanto. Come dimostra anche il blitz della Dda.
2 REGGIO CALABRIA
La Sa-Rc entro fine anno
Parola di Scopelliti
Completare la Salerno-Reggio
Calabria? Entro fine anno, secondo il governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti. Parole confermate dall’amministratore
unico dell’Anas Pietro Ciucci e dal ministro dei
Trasporti e delle Infrastrutture Corrado Passera. «Manterremo l’impegno di fine anno», ribadisce Ciucci. Presente all’apertura di 9 chilometri di carreggiata della nuova A3 Salerno-Reggio
Calabria, Scopelliti si è detto soddisfatto per il
rispetto del calendario per il completamento dei
lavori. «A questo punto mancano solo 50 chilometri aggiuntivi - ha commentato il governatore
- e su questo c’è l’impegno di tutto il gruppo dirigente parlamentare del Pdl che deve sostenere
questa battaglia. La riapertura definitiva di tutto il tratto entro il 31 dicembre 2013 sarà sicuramente un obiettivo che libererà questa terra da
una situazione di grande emarginazione».
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3 PALERMO
Assunzioni clientelari?
Paga la giunta Cuffaro
«Logiche clientelari e pressioni lobbistiche». Questi i motivi delle assunzioni di 512 autisti-soccorritori
delle ambulanze del 118 in Sicilia. Diciassette politici, tra ex componenti della giunta Cuffaro ed ex membri della commissione Sanità,
sono stati condannati dalla Corte dei Conti e dovranno risarcire più
di 12 milioni di euro all’erario. Secondo la contestazione iniziale il
danno avrebbe superato i 37 milioni. Poi era arrivata l’assoluzione in
primo grado. Ma l’appello ha cambiato le carte in tavola. I magistrati
contabili hanno dichiarato legittima la scelta degli amministratori di
ampliare il numero delle ambulanze, ma non le 512 nuove assunzioni. Una scelta «inutile e irragionevole». Senza, cioè, fatti o dati oggettivi che ne comprovassero la necessità. E gliel’hanno fatta pagare.
9 marzo 2013
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cose dell’altritalia
left.it
società
4 cagliari
Il senatore “sale” in banca. È rivolta nella base
Antonello Cabras sta per arrivare al timone della Fondazione Banco di Sardegna. La notizia che
il senatore uscente del Pd starebbe per sostituire l’attuale presidente Antonello Arru circolava
da mesi, ma la conferma è arrivata il 4 marzo, destando sconcerto soprattutto tra iscritti e simpatizzanti del partito, reduci dalla sconfitta elettorale per l’incetta di voti grillini “contro la casta”. Eppure sull’onda dello scandalo
Mps Pier Luigi Bersani era stato netto: «Basta politici di lungo corso alla presidenza delle fondazioni bancarie». A
capeggiare la rivolta sono due professori di area Pd. Il primo a prendere posizione è stato Guido Melis, deputato
uscente, che su facebook si è dichiarato “esterrefatto”: «Dopo il caso Monte dei Paschi? Quanti voti ancora vogliamo regalare a Grillo?». Un’ora dopo è stata la volta dell’economista Francesco Pigliaru, assessore al Bilancio
nella giunta Soru, che accompagna le sue riflessioni con una scheda sui nodi da sciogliere al Banco di Sardegna, richiamando ben altre competenze e terzietà. «Dal partito alla Fondazione, dalla Fondazione alla banca: non vi ricorda qualcosa?». Tantissimi i commenti a entrambi i post, con parole durissime nei
confronti del senatore e del partito. Ma non è solo la base del Pd a indignarsi. Simone Campus, consigliere comunale del Pd a Sassari, minaccia di stracciare la tessera del partito. Ad aggiungere benzina
sul fuoco il fatto che il 29 agosto 2011 la Fondazione aveva affidato la ristrutturazione della sede di
Cagliari, tra gli altri, proprio all’ingegner Cabras.
5 L’AQUILA
5
Un sindaco part time tra le macerie
Il sindaco de L’Aquila Massimo Cialente torna alla sua prima
professione: il medico. Senza rinunciare alla carica, sarà impegnato 24 ore a settimana all’Ospedale San Salvatore. Una città interamente
da ricostruire avrà dunque un sindaco part time. «Sono da anni in aspettativa
e ho necessità di un riequilibrio ai fini pensionistici», spiega il sindaco-dottore. «Nulla cambierà in termini degli impegni da primo cittadino». Sarca1
stico Vincenzo Vittorini, consigliere comunale che sotto le macerie ha perso moglie e figlia: «Il sindaco si mette part-time e abbandona la nave. Due legislature da deputato e il vitalizio
evidentemente non bastano per una pensione accettabile». Non si fa attendere la piccata replica di Cialente, che parla di «attacco sguaiato» e aggiunge:
«Anche da medico credo che Vittorini non stia
molto bene». Reazioni ancor più dure arrivano dalle associazioni dei familiari delle vittime.
Mentre a dover ancora guarire è la città.
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Minacce mafiose ai grillini
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Alcuni militanti del M5s sarebbero stati minacciati dalla criminalità organizzata a Fondi, in provincia di Latina. Lo ha
denunciato il candidato alla presidenza della Regione Lazio, Davide Barillari: «Durante la campagna elettorale sono venuti alcuni esponenti della famiglia camorristica locale e hanno fotografato gli attivisti che preparavano la
nostra manifestazione». Risultato? «In piazza ci sono state molte meno persone che altrove - continua Barillari - dimostrando che a Fondi la mafia controlla il territorio. Torneremo presto a parlare con la gente, così come altrove, non la abbandoneremo dopo le elezioni come fanno gli altri». Fondi è
stata per anni sotto osservazione per le infiltrazioni criminali nell’Amministrazione comunale, fino alle 23 condanne (110 anni di carcere) del 2011.
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mondo
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mondo
Occupazione
a tempo
determinato
di Alberto Mucci e Luigi Serenelli foto di Tom Hunter
L’Europa degli squat cambia volto. Da Londra a Berlino, passando
per Amsterdam, i governi locali varano leggi contro il recupero abusivo
degli immobili. Chiudendo esperienze decennali di arte e cultura
L
ondra. Brixton, prima periferia sud della
capitale britannica. Defilato, in una stradina laterale, c’è lo squat di Giacomo. Venticinque anni, italiano, studente, ciclista, Giacomo
vive in quella casa a due piani da più di un anno.
Sorride a chi vuole entrare, indica la cucina dove
bolle l’acqua per un tè. Ma appena entrati chiude
con forza la porta. Non può permettersi rischi, la
nuova legge antisquat entrata in vigore a settembre ha cambiato molte cose: per chi occupa una
casa sfitta è prevista una multa di 5mila sterline
(7mila euro circa) e fino a sei mesi di galera. Lungo il corridoio ci sono arnesi da lavoro sparpagliati, le scale sono scoperchiate, pronte per essere
rifatte. Dentro fa freddo, il riscaldamento funziona a malapena. «Quando siamo arrivati - racconta entusiasta a left - in casa era tutto rotto. Pian piano abbiamo risistemato e adesso ognuno ha la sua
stanza con bagno e cucina. Un lusso no?». Seduto
su una poltrona recuperata per strada, Giacomo
racconta di come due anni fa sia arrivato a Londra disilluso dalla situazione italiana e di come si
left 9 marzo 2013
sia subito scontrato con il problema casa: prezzi alti, qualità bassa, padroni predatori. «Quando
arrivi a Londra fa tutto paura. Ma basta cercare spiega orgoglioso - e trovi decine di reti di attivisti che tengono d’occhio e segnalano case vuote».
Che secondo uno studio della Empty homes agency ammontano a 100mila nella sola Londra. Un vero e proprio spreco, che contribuisce all’aumento
dei prezzi degli affitti. L’occupazione, per alcuni, è
l’unica soluzione. Squattare è una tradizione britannica dagli anni Sessanta. Dai Sex Pistols ai Pogues, centinaia di musicisti, artisti, scrittori o persone che semplicemente credono in una vita comunitaria hanno vissuto un periodo della loro vita
in uno dei 7mila squat sparsi per il Regno. «Come
fare altrimenti?», chiede retorica Theresa, tedesca, 24 anni, barista e pittrice. Seduta al tavolo della cucina del suo squat ad Hackney, periferia nordest della capitale, spiega che in una città dove gli
affitti sono tra i più alti del mondo la vita di un’artista esordiente è di fronte a un bivio: «O rinuncio ai
miei sogni e pago l’affitto o squatto e vado avanti».
Le foto di questo
servizio fanno parte
della serie Person
unknown realizzata
da Tom Hunter nelle
case occupate
di Hackney, Londra.
In apertura, Woman
Reading Possession
Order (Donna che
legge una ordinanza
di sfratto) è una
rievocazione
del quadro di Vermeer
Donna che legge una
lettera davanti alla
finestra.
Qui Hunter ritrae
una scena quotidiana
che conferisce nobiltà
a un’outsider,
cioè a una giovane
squatter londinese
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mondo
Una necessità talmente riconosciuta che - fino a
settembre - se una casa era vuota la permanenza degli squatter era garantita fino a quando il padrone non contattava le autorità e mostrava il suo
titolo di proprietà. A quel punto il tribunale civile poteva al massimo sfrattarli. «Quella legge permetteva di ribellarsi alle ingiuste regole del mercato», continua Liz, 27 anni, inglese, mentre prepara un caffè su un cucinino da campeggio. «E dava
una possibilità anche a chi non è figlio della classe
media e vuole provare la strada dell’arte».
La scure dei conservatori londinesi
The Glass of Wine
(Il bicchiere di vino).
Una giovane coppia
di artisti nella loro
casa occupata
Il primo sostenitore della nuova filosofia antisquat
è Mike Weatherley, parlamentare conservatore
eletto nella regione meridionale di Portslade. Senza remore, Weatherley ha cavalcato l’onda di panico e sfiducia calata su tutto il Regno Unito dopo la crisi finanziaria. Costretti a tirare la cinghia,
gli elettori hanno cominciato a guardarsi intorno
e a cercare chi non faceva “la sua parte”. L’occhio
è caduto subito su quello che il parlamentare ha
definito «un gruppo di privilegiati che vivono sulle spalle degli altri». A Weatherley hanno fatto eco
i giornali conservatori come il Daily mail, il Telegraph e il Sun, che si sono lanciati in facili invettive giustizialiste. Eppure lo squat non può essere il
vero problema se su 500mila case vuote solo 20mila sono occupate e non tutte da «bohémien scansafatiche». Una parte non indifferente di squatter,
come racconta al Guardian Duncan Shrubsole,
direttore della onlus Crisis dedicata ai senza tetto,
«sono persone che altrimenti vivrebbero per strada e che non hanno altra possibilità per ripararsi
dai freddi inverni inglesi». Eppure, dopo mesi di
polemiche, il premier David Cameron ha deciso
di firmare la nuova legge. «È una manovra del tutto populista», spiega Henry, 30 anni, attivista della campagna Squash per i diritti delle occupazioni.
«E non lo dico solo io: anche la polizia di Londra, si
è espressa a favore del rapporto che abbiamo presentato alla Camera dei Lord. La nostra posizione
è semplice: questa legge va abrogata perché la perdita è doppia. Da una parte danneggia i senzatetto, dall’altra colpisce la scena artistica britannica
che da decenni conta su queste realtà per trovare un suo spazio». E se prima un concerto si organizzava in quattro e quattr’otto, ora quasi nessuno
si assume il rischio di essere fermato dalla polizia.
Basta che un vicino si arrabbi per essere scoperti,
multati e buttati fuori in pochi minuti. «Nessuno
vuole andare in galera per uno spettacolo, di conseguenza sono mesi che nessuno organizza qualcosa di ambizioso», racconta triste Touko, 22 anni, finlandese, fotografo e membro di un collettivo
che ha occupato a Limehouse, nel profondo eastside della capitale. Non tutto però è perduto. La
nuova legge mantiene il diritto di squat sulle proprietà commerciali che superano una determinata
dimensione e tutta l’arte, la musica, e la vita comunitaria potrebbe spostarsi li. Per il momento, però, è tutto fermo, anche perché si teme che anche
questo diritto venga abrogato: Weatherley e i suoi
alleati hanno già promesso battaglia.
Berlino in movimento
Gli spazi si restringono ovunque, e anche la Germania non è più quella dei primi anni Novanta,
quando la caduta del Muro “regalò” infiniti palazzi dell’Est da occupare. Eppure a Berlino resistono vecchie e nuove esperienze: l’elenco inizia con la A di Anarchistischer-Laden e termina
con la Z di Zwille, 190 tra squat, luoghi d’incontro e d’informazione, archivi multimediali, biblioteche e bar. Costas è membro del collettivo
Morgenrot, che gestisce l’omonimo bar a Prenzlauer Berg, parte orientale della città. «Siamo
11 persone ed è un modo autonomo di organizzare un ambiente di lavoro, senza gerarchie». Lo
spazio del collettivo è aperto ai movimenti politici che hanno bisogno di un luogo dove trovarsi. L’Anarchistische Föderation Berlin, la federazione anarchica, per esempio si riunisce e
discute i temi all’ordine del giorno. Com’è scritto sul manifesto di presentazione, all’interno
non sono tollerati «i razzisti, i sessisti e l’estrema destra». «Gruppi come il Nationaldemokratische partei Deutschlands (Npd) e il partito populista Pro-Deutschland vengono attentamente
monitorati», spiegano. Filix, invece, è volontario all’Antifaschistisches Pressarchiv: l’archivio
conta 15milalibri, 33mila tra magazine, giornali e
una quantità consistente di filmati sui gruppi neonazisti. «Ci chiedono spesso come riconoscere un neonazi», dice. Perciò collezionano anche
i vestiti. «Una delle marche usate di più oggi dagli skinheads è la Eric & Sons, si trova anche nei
negozi della Npd. A Berlino uno dei punti di ritrovo è il bar Henka, a Schöneweide, in periferia». In
un vecchio ospedale diventato un luogo d’esposi9 marzo 2013
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mondo
left 9 marzo 2013
mondo
Nei Paesi Bassi i proprietari difendono
gli appartamenti vuoti affittandoli
a custodi pro tempore
The Art of Squatting
(L’arte di occupare).
Questa foto fa parte
della collezione del
Moma (Museum
of Modern Art)
di New York
40
zione per artisti si trova il New Yorck. Sulla porta
d’uscita dello squat c’è scritto «Nessun uomo è illegale». È la sede di diverse organizzazioni politiche. L’ultima serie di incontri s’intitolava “Policing
the crisis”. Ovvero, come la polizia reagisce alla
crisi. Jason, filmmaker, racconta come un gruppo di attivisti sia venuto da Barcellona «a spiegare
che le forze dell’ordine cercano di de-umanizzare,
come in una guerra psicologica, i manifestanti».
Val è un’attivista di Netpol, network di Cardiff
che tiene sotto controllo i comportamenti degli agenti. Parla delle conseguenze per i movimenti dopo le rivolte in Inghilterra. «Allora furono pubblicate le foto delle persone ricercate
sui giornali, in tv e su facebook. La polizia usava la paura come arma di deterrenza. Pensiamo
che l’intelligence inglese abbia a disposizione un
database con 3mila-4mila fotografie e quest’anno tutte le informazioni sono passate all’unità
anti terrorismo». Così, commenta, «le proteste
sono equiparate ad atti di terrorismo». L’attivismo berlinese si scontra però con un fenomeno
che assume proporzioni sempre più ampie, quello della “gentrificazione”. «Gli investitori acquistano case o interi palazzi in una zona urbana spiega un ragazzo - e costringono i residenti ad
abbandonare le loro abitazioni».
Gli spazi indipendenti finiscono così sotto attacco. Però, dopo una battaglia legale durata 13
anni con il proprietario, il Kulturproject Schokoladen - fino al 1971 una fabbrica di cioccolato - è riuscito a restare in vita. L’edificio ospita
un teatro, due gruppi di artisti e una quarantina di persone. Un progetto culturale. «All’interno del Schokoladen - spiega Stephan - noi gestiamo il teatro indipendente Acker Stadt Palace e
diamo voce agli artisti, anche internazionali, che
altrove non trovano spazio». Ora la fondazione
svizzera Edith Maryon ha comprato la struttura, concedendo agli affittuari un contratto di 99
anni. Salvati dalla chiusura, ma costretti a fare i
conti con il mercato: «Questa sera abbiamo venduto pochi biglietti, dobbiamo fare di più». Altrimenti c’è lo sfratto, causa morosità.
L’Olanda del cambiamento
Quello del Kulturproject Schokoladen di Berlino si chiama canone sociale, ma finisce per essere un mezzo per espellere “democraticamente” gli
occupanti dai loro luoghi. Dal 2010 succede anche nei Paesi Bassi. L’Olanda, che era il modello
per i ragazzi di tutta Europa, ha cambiato pelle già
da un po’. Oggi il diritto all’abitare non è più quel
valore assoluto che ne ha fatto una meta per tanti giovani senza soldi: prima viene il mercato, poi
un letto dove dormire. Teoricamente la legge varata due anni e mezzo fa doveva servire a creare
un equilibrio tra proprietari di case e homeless.
Nella pratica, chi prende possesso di un immobile
non suo rischia fino a due anni di prigione. La legge viene contestata ad Amsterdam, dove le occupazioni continuano in barba alle severe norme volute dall’allora governo conservatore di Jan Peter
Balkenende. Fortunatamente non tutti i Comuni
hanno scelto di applicare pienamente la direttiva,
e in molte città si può contare sulla complicità degli amministratori locali.
Ma i proprietari di appartamenti sanno come controbattere e del resto non hanno aspettato la legge per mettere un freno agli inquilini
“abusivi”; il loro malcontento ha dato vita quasi vent’anni fa a società anti kraaker (dal nome
olandese per gli squatter) che si offrono di trovare finti occupanti per evitare le vere occupazioni, che fino al 2010 erano pienamente legittime.
La più nota è la Camelot, aperta nel 1993 e oggi
presente in 5 Paesi. Dell’anti-kraaker ha fatto un
business, proponendo anche soluzioni al limiti
dell’etica, come quella di affittare a basso prezzo uffici disabitati, con lo slogan “Assicurati un
guardiano guadagnandoci”. Camelot offre alloggi a 200 euro al mese a giovani studenti o lavoratori stagionali, che in cambio tengono lontani ladri e squatter con la loro presenza. Con rigide regole: controlli senza preavviso, divieti di tenere
animali o dare feste, solo 15 giorni di “vacanza”
l’anno e un preavviso di appena quattro settimane per lo sfratto. Però poche settimane fa a Zaandam, nel nord dell’Olanda, una di queste famiglie ha rifiutato di lasciare l’abitazione assegnata
da Camelot, invocando il diritto alla casa. A dargli manforte sono arrivati a decine da tutte le occupazioni olandesi, e ora la società dovrà vedersela con i giudici. Perché i mulini degli squatter
macinano lento, ma macinano fino.
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left 9 marzo 2013
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mondo
left.it
Intifada a
La morte di un giovane palestinese nelle carceri israeliane ha riacceso
gli scontri nei Territori occupati. Netanyahu, senza un governo, scarica
le responsabilità su Fatah. Ma Abu Mazen non parla più al suo popolo.
Che ora deve fare i conti con una nuova segregazione
L
a Palestina aspetta i risultati dell’autopsia sul corpo di Arafat. Non il vecchio leone Yasser, la cui salma è stata riesumata poche settimane fa. Ma il giovane Arafat Jadarat, morto il 23 febbraio in un carcere israeliano
dopo 5 giorni di detenzione e, dicono, di tortura. Perché Arafat - sostiene chi gli era vicino - «è
stato ucciso». Ma ci vorranno ancora giorni prima che arrivino i risultati ufficiali e che si possa
aprire un’inchiesta. I palestinesi però se ne infischiano di aspettare i referti medici, la loro verità la stanno urlando nelle strade da due settimane, sfidando a colpi di slogan e pietre l’esercito israeliano. Non sono soli. Dalle carceri sparse nelle zone occupate e nei territori governati da Tel Aviv arriva la solidarietà dei prigionieri, che già erano in sciopero della fame da mesi.
Degli oltre 4mila detenuti palestinesi, più di 200
stanno rifiutando il cibo per protestare contro le
condizioni di detenzione. Perché è vero che dal
1999 alcuni metodi di tortura sono stati vietati
anche in Israele, ma è vero anche che gli abusi
continuano, inventando nuove forme e nuovi sistemi. Nella denuncia presentata il 28 febbraio
dall’israeliano Pcati (Comitato pubblico contro
la tortura in Israele) si chiede di cessare «l’impiego di metodi di interrogatorio illegali, tra cui
42
gli interrogatori prolungati per ore, mentre i detenuti sono ammanettati mani e piedi, le minacce verso i familiari, la detenzione disumana utilizzata come mezzo di coercizione psicologico e
fisico». Le torture fisiche sono ben illustrate da
Amnesty international, che insieme al Pcati ha
realizzato una serie di foto per mostrare come lo
Shin Beit tratti i prigionieri palestinesi. Dal cappuccio in testa alla schiena costretta a restare
inarcata su una sedia, mani e piedi a terra, il catalogo delle violenze è ampio. Solo che Amnesty
utilizza attori, Israele no.
Arafat Jadarat aveva trent’anni, una moglie e
due bambini. Lo hanno arrestato perché accusato di aver lanciato pietre contro i soldati israeliani. Non faceva parte di nessuna organizzazione, non era conosciuto come militante. Curiosamente, come scrive il quotidiano Haaretz,
«la morte di uno sconosciuto ha finito per unire centinaia di palestinesi in suo nome». Persino la polizia di Fatah ha deciso di intervenire discretamente durante le manifestazioni di protesta: la situazione nei Territori è così tesa che una
terza Intifada non è esclusa dal presidente Abu
Mazen. Lo percepisce anche il premier israeliano Netanyahu, ma viene il dubbio che voglia ap9 marzo 2013
left
mondo
left.it
a tratti
profittare di questa tensione per forzare la mano ai suoi colleghi in Parlamento, così da arrivare velocemente a un nuovo governo da lui presieduto, superando l’impasse politica causata
dalle elezioni. Il compito di controllare che la situazione non degeneri lo affida all’Autorità palestinese, lasciando nelle mani di Fatah la patata
bollente della rivolta. Se il governo di Ramallah
sceglierà di mettere la sordina, rischia di trovarsi davanti la rabbia dei giovani ormai disillusi.
Se dà corpo alle proteste, arriverà la repressione, giustificata da Netanyahu come “diritto alla
difesa”. E intanto Israele continua ad arrestare.
Mohammad Saba’aneh di anni ne ha 25, fa il disegnatore satirico, e non sa nemmeno perché lo
hanno messo in prigione il 16 febbraio, due giorni
prima di Arafat. Si chiama detenzione amministrativa, consente a Israele di incarcerare senza accuse per periodi di 15 giorni, però prorogabili. Come
è successo a lui, che il 28 febbraio si è visto comunicare un nuovo ordine di arresto: altre due settimane da passare nel centro di Jalameh. Mohammad non è il primo a sperimentare questa particolarità del sistema giudiziario israeliano. Secondo il
Centro B’Tselem, sono 159 i detenuti che subiscono analogo trattamento. Alcuni per mesi, persino
anni. Come il calciatore della nazionale palestinese Mahmoud Sarsak, rilasciato a luglio 2012 dopo
una lunga mobilitazione internazionale e tre anni
di carcere. Per il disegnatore Saba’aneh, invece,
si sono mossi i suoi colleghi, quelli palestinesi prima, quelli arabi poi. Vignettisti che raccontano a
left 9 marzo 2013
di Paola Mirenda
matita la storia dei detenuti palestinesi, confidando che il lavoro artistico riesca là dove non arrivano le decine di petizioni e di sollecitazioni inviate
al governo di Tel Aviv. Persino l’Unione europea,
che pure ha di recente stabilito accordi commerciali con Israele, ci ha provato. Catherine Ashton,
in genere avara di commenti, ha chiesto al governo israeliano «di autorizzare immediatamente il
ristabilimento del diritto di visita dei familiari e
il pieno rispetto degli obblighi internazionali nei
confronti di tutti i detenuti». Per quanto la Ashton
conti poco, Netanyahu dovrebbe tener conto della
sua voce. Come di quella delle Nazioni Unite, che non rimproverano a Tel
Aviv solo gli standard carcerari imposti ai palestinesi. L’ultimo “sgarbo”, rivelato pochi giorni fa sempre da Haaretz, riguarda i profughi sudanesi, che
il governo ha deciso di rimpatriare in
barba alle norme internazionali. Anche loro erano detenuti, ma Israele dice che hanno scelto “volontariamente”
di tornare in patria. «Ma come può essere volontaria la parola di chi è in situazione coatta?», ha chiesto l’Alto commissario per i rifugiati.
Nessuna risposta da parte del governo, e l’ombra
del razzismo resta. Il fatto che il 4 marzo sia stata
inaugurata una linea di autobus separata per i palestinesi che vanno a lavorare in Israele non aiuta
a dissiparla. «Lo facciamo per loro, così viaggiano più comodi», ha spiegato con aria innocente il
ministro dei Trasporti. L’apartheid non ha bisogno
della pelle nera.
Il 4 marzo è stata
inaugurata
una linea
separata di bus.
Così i non ebrei non
si mescoleranno
Le immagini in queste
pagine sono state
realizzate dal vignettista palestinese Mohammad Saba’aneh,
arrestato senza accuse
il 16 febbraio al ritorno
da un viaggio in Giordania. Per lui si sono
mobilitate le associazioni dei disegnatori
arabi e Reporters sans
frontières
43
newsglobal
mondo
left.it
© Qadri/ap/lapresse
22
Le donne indiane stanno partecipando in massa alle manifestazioni contro le diseguaglianze
sociali nel subcontinente. «Il governo dice che siamo la terza economia del pianeta», ricorda il
Partito comunista-marxista. «Ma i poveri non diminuiscono». E dalla città orientale di Kolkata è
partita una marcia di protesta diretta a Delhi:10mila chilometri a piedi, arrivo il 19 marzo
svizzera
le regole di al Qaeda per
sfuggire alla sorveglianza
dei droni, secondo un documento ritrovato in una
base di Aqmi in Mali. Tra le
raccomandazioni, quella di
bruciare copertoni di automobili per nascondersi sotto
il fumo, o di organizzare finti
raduni con fantocci di pezza
per ingannare i nemici
Croati non graditi
© Brinon/ap/lapresse
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«L’Unione europea
è come l’Unione
sovietica: non si
può riformare»
Marine Le Pen, leader
del Front national,
invitando François
Hollande a
indire entro
gennaio
2014 un
referendum sull’uscita
della Francia dalla Ue
© Bandic/ap/lapresse
Dopo la sconfitta nel referendum sul tetto ai salari dei manager, Economiesuisse - la federazione “ombrello” delle imprese elvetiche - rischia
un’altra batosta. Secondo un sondaggio confidenziale, il 50 per cento degli svizzeri è contrario all’estensione della libera circolazione alla Croazia. Zagabria entrerà nell’Unione europea a giugno 2013, e la Confederazione elvetica deve discutere con Bruxelles l’allargamento degli accordi
sul libero mercato. Poi saranno i cittadini a esprimersi sul tema con un
referendum. Ma questa volta potrebbero dire “no”, mettendo in discussione i trattati con la Ue. Eppure un recentissimo studio dell’università
di Ginevra dimostra come non ci sia correlazione tra la libera circolazione delle persone e l’abbassamento dei salari.
un messaggio per obama
La Corea del Nord non vuole la guerra con
gli Usa, anzi. Il giovane presidente della
dittatura più isolata del mondo, Kim Jong
Un, ha dichiarato che riceverebbe volentieri una telefonata da Barack Obama. Per
recapitare il suo messaggio al presidente
americano, lo ha affidato all’ex campione
di basket Dennis Rodman, suo ospite insieme agli Harlem Globetrotter, una squadra di pallacanestro che gira il mondo con
i loro spettacoli in cui fondono acrobazie
e comicità. Rodman è stato il primo americano a incontrare Kim da quando ha assunto il ruolo di presidente nordcoreano.
9 marzo 2013
left
mondo
left.it
Scorecard 2013, l’Europa dei fannulloni e degli iperattivi
© infografica martina fiore
Ideato dall’European council for foreign relations (Ecfr), lo Scorecard della politica estera europea fornisce una
valutazione sistematica dei risultati dell’Europa nel trattare con il resto del mondo. L’Ecfr valuta la performance dei 27
Stati membri e delle istituzioni Ue su sei temi chiave: Cina, Russia, Stati Uniti, Europa allargata, Africa e Medioriente,
Relazioni multilaterali. Nel complesso, i Paesi meno colpiti dalla crisi sono quelli che più si spendono
nelle relazioni estere, mentre il Sud e l’Est della Ue restano impegnati
a risolvere i loro problemi finanziari
Jorge Fernández
Díaz, ministro
dell’Interno
nel governo
di Mariano Rajoy
© Mojica/ap/lapresse
curiosità
left 9 marzo 2013
messico, maestra di lusso
Finora era intoccabile, adesso solo ritoccata. La presidentessa del sindacato degli
insegnanti messicani era la potentissima
custode di una rete di corruzione e clientele. Ora, però, Elba Esther Gordillo deve
difendersi dall’accusa di aver stornato dai
conti del sindacato ben 156 milioni di dollari per finanziare il suo lussuoso stile di
vita. Con quei soldi avrebbe pagato interventi di chirurgia plastica, un jet privato, lo
shopping selvaggio. Quando era giovane
faceva l’insegnante in una scuola povera
del Chiapas - da qui il suo soprannome “La
Maestra”- ma da decenni è nota per l’abbigliamento griffatissimo e le pochette da
5mila dollari. Mentre lo stipendio medio di
un professore messicano è 650 dollari.
© ap/lapresse
«Inutile ricorrere alla
religione per manifestare
contrarietà al matrimonio
gay. Ci sono anche argomenti
razionali: per esempio, non
garantisce la sopravvivenza della specie»
Incinta per comodità
La metropolitana è
troppo piena e tutti
i posti sono occupati? Con la protesi “gravidanza”
in silicone, qualcuno si alzerà e
vi cederà il suo. La protesi spopola in Cina dove viene usata,
scrive il Global times, «per mascherare un’infertilità, per non
perdere il posto di lavoro, per
essere avvantaggiate nelle code agli uffici». E ovviamente per
trovare posto a sedere.
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© helmut newton Rue Aubriot (French Vogue, Paris)1975
Italia
digitali e
la chiusura
48Padiglione
L’arte e la storia
52Nativi
nuova letteratura
56Dopo
degli Opg
cultura
Helmut Newton ha sfidato
la storia e il mondo della
moda, superando i canoni
tradizionali e fornendo la
sua visione personale della
donna. Una vera rivoluzione
nel mondo della fotografia. Al
Palazzo delle Esposizioni, fino
al 21 luglio, una retrospettiva
di questo protagonista del
Novecento: White Women,
Sleepless Nights, Big Nudes
racconta in 200 immagini
l’eleganza dei gesti, la magnificenza dei corpi, i fili sottili
che corrono fra erotismo e
sensualità.
cultura
Arte, società
9 marzo 2013
left
Da Paolini a Ghirri,
da Mauri a Bartolini.
Tra storia e presente.
Con radicali aperture
al sociale. Il direttore
del Macro Bartolomeo
Pietromarchi racconta il suo Padiglione
Italia alla prossima
Biennale di Venezia
&
viceversa
di Simona
Maggiorelli
Quattro opere di quattro dei 14 artisti che Bartolomeo
Pietromarchi ha inviato a esporre alla Biennale di Venezia
2013, nel Padiglione Italia: in senso orario dall’alto Francesco
Arena 3,24 mq, 2004, Wood, forniture; Marco Tirelli Veduta
della mostra presso il Macro Testaccio, Roma 2012. Nella
pagina a sinistra in basso Giulio Paolini Requiem, 2003-04,
in alto Francesca Grilli Oro, 2011 16 mm film on Dvd
left 9 marzo 2013
49
cultura
left.it
L
In alto un’opera
di Vasco Bendini
(1967) al centro Giulio
Turcato, Comizio
(1950), entrambe
in mostra al Macro,
a Roma. A destra
un ritratto di
Bartolomeo
Pietromarchi
(classe 1968)
50
ontano dall’idea che l’epicentro dell’arte
sia, sempre e comunque, in capitali occidentali come New York, Londra e Parigi,
il direttore del Macro Bartolomeo Pietromarchi
è un attento e curioso esploratore anche di culture lontane, come quelle asiatiche. E l’Estremo
Oriente sarà protagonista nei prossimi mesi nel
museo di arte contemporanea della Capitale attraverso una personale dedicata al giapponese
Hidetoshi Nagasawa («Un artista molto sottovalutato, a mio avviso», dice Pietromarchi) e a un
artista cinese, Ji Dachun, che riprende la tradizione antica della pittura del suo Paese per leggere il
contemporaneo. Ma Bartolomeo Pietromarchi è
anche e soprattutto uno studioso di arte italiana
contemporanea. Agli ultimi cinquant’anni della
nostra storia il direttore del Padiglione Italia della Biennale internazionale di arte 2013 ha dedicato il suo ultimo libro L’Italia in opera, la nostra
identità attraverso le arti visive, uscito nel 2012
per Bollati Boringhieri. Un volume in cui, forte
dell’esperienza alla Fondazione Adriano Olivetti
(che ha diretto dal 2002 al 2007) traccia un’appassionata mappa delle arti visive italiane che narrano il nostro tempo presente. Raccontando come
l’Italia sia diventata «il soggetto di opere che con
impegno politico e civile scandagliano le cronache quotidiane e i nodi irrisolti della nostra storia». «Opere che - scrive il critico d’arte - s’infiltrano tra le pieghe di realtà sommerse, scuotono
le coscienze e aprono squarci di verità scomode
o ignorate».
Pietromarchi, il pensiero espresso nel suo
libro è anche alla base della collettiva intitolata Vice versa nel suo Padiglione Italia
alla Biennale che aprirà il primo giugno?
Sì, è un pensiero che giunge da lontano, che fa tesoro della lezione di Olivetti e si è sviluppato in
un percorso che ho fatto in questi anni seguendo, con studi e mostre, sia gli artisti della mia generazione, nati intorno al ’68, sia quelli della generazioni precedenti. Il Padiglione italiano rappresenta per me un passaggio ulteriore, un approfondimento ma anche un sostegno e una promozione dell’arte italiana degli ultimi anni. Ci credo
moltissimo. Ci sono molti artisti validi nel nostro
Paese ai quali però manca un sostegno quantitativo e continuativo. Molto spesso gli artisti italiani devono trovarsi le proprie occasioni andando all’estero. Qui non trovano chi li sostenga con
una strategia. Mi piacerebbe che questo mio lavoro potesse essere un segnale di come si può e si
deve fare a livello istituzionale. Con un po’ di creatività, che è la cosa fondamentale
Tra il caos della collettiva organizzata due
anni fa da Vittorio Sgarbi e l’aristocratica
mostra di Ida Gianelli che scelse due soli autori, lei come si collocherà?
Ho scelto 14 artisti. Il progetto Vice versa prevede 7 ambienti: di cui 6 sono all’interno del Padiglione e uno è nel Giardino delle Vergini. Ogni
ambiente ospiterà due artisti per volta, accostati
in un dialogo ideale sulla base di affinità sia tematiche che processuali. È pensato come una riflessione sulla loro opera. Ma il curatore ha anche il
compito di aiutare gli artisti, di metterli nelle condizioni perché possano esprimersi al meglio.
Un esempio di “connessione”?
Quella fra Fabio Mauri e Francesco Arena sul tema del corpo e della storia, per esempio. Entrambi hanno interpretato passaggi importanti della nostra storia: Mauri, il fascismo, Arena, il terrorismo. Ma filtrati attraverso il proprio corpo.
In Mauri la performance. Con Arena ritroviamo
quei suoi lavori che fanno riferimento al suo corpo come misurazione delle cose.
L’attenzione al sociale ha sempre connotato
fortemente il suo lavoro di curatore. Anche
in questo caso?
Sì, per me l’arte è inscindibile da una prospettiva sociale. E i veri artisti interpretano il loro tempo. Questo nel Padiglione sarà estremamente
evidente. Da curatore penso sia importante arricchire il lavoro degli artisti con la sociologia, con
la storia, con la politica, in senso alto. Anche con
la geografia. A Venezia ci sarà, per esempio, Luigi
Ghirri che ha lavorato tantissimo sull’idea di paesaggio. Così come Luca Vitone. Saranno insieme
nella stessa stanza. In tutto il mio percorso è sempre stato vitale questo tipo di approccio.
Già questo è un elemento di novità rispet9 marzo 2013
left
cultura
© adolfo franzo
left.it
to al main stream che va per la maggiore nei
musei occidentali.
Forse sono meno visibili di altri ma ci sono artisti
che affrontano questioni a livello globale, non solo a livello locale. Parlo di un’arte che ha riflettuto
sulle tematiche del territorio, del sociale, a livello politico. Un tipo di arte con cui molti della mia
generazione sono cresciuti. Il tipo di arte di cui lei
parla è ascrivibile a una dimensione di mercato.
E in effetti in questi anni a prevalere sono state altre logiche, legate a derive di quel sistema. Il mercato in sé non sarebbe un male ma negative sono
le derive del mercato, quando il mercato diventa
speculazione, quando diventa pura finanza e alcuni musei, gallerie e molti collezionisti hanno rivolto l’attenzione a quell’aspetto. Con la crisi, oggi, questo sistema si è molto ritratto. Un tipo di arte di “successo” fa già parte di un panorama passato. E un altro modo di fare arte penso abbia ora
la possibilità di essere più visibile.
La crisi, paradossalmente, ha avuto effetti
positivi?
Positivi fra virgolette. Virtualmente positivi. Anche questo sarà evidente a Venezia. Gli interventi saranno molto secchi, le opere non voglio dire
che siano dure, ma avranno un aspetto di grande impegno. Anche rispetto allo spazio, che sarà
molto forte, molto caratterizzato. Gli artisti stanno sviluppando dei progetti che reagiscono al
contesto. Visivamente sarà un percorso teso. Di
certo non farà leva sulla decorazione.
Nelle ultime tre edizioni della Biennale d’arte, nella mostra internazionale, ha prevalso
l’arte concettuale, quella più autoriflessiva,
razionale, disseccata. Al confronto le ultime
edizioni delle Biennali architettura sono apparse più ricche di fantasia, “calde”, coinvolgenti. Forse perché l’architettura deve
tener conto dell’abitare umano.
C’è una distinzione da fare: mentre i padiglioni
nazionali presentano delle monografiche o co-
left 9 marzo 2013
Il direttore Pietromarchi:
«Gli interventi artistici nel Padiglione
Italia saranno tesi e impegnati»
munque contano su un numero limitato di artisti e lì si può fare un discorso curatoriale, la mostra principale, quella internazionale, ha a che fare con più di cento artisti; ha a che fare con tutto
e con tutti, l’obiettivo è far vedere, documentare
ciò che sa accadendo. Con titoli molto ampi. Per
usare un eufemismo. Titoli del tipo “Fare mondo”, “Illuminazioni”...
Ma non è responsabilità anche di quelli che
Bonito Oliva chiama «curatori camerieri»?
Certo, c’è chi tenta di dare una propria visione e
chi fa un lavoro più di servizio. Non è il caso di
Massimiliano Gioni (il direttore della Biennale 2013, ndr) a mio avviso, che invece ha individuato un tema molto interessante e guarda anche
fuori dal mondo dell’arte recuperando aspetti antropologici, sociologici, intorno al tema dell’archivio e della classificazione.
Con uno sguardo al mondo della moda?
No, decisamente.
Lei ha sempre detto che le piace collaborare. Con Gioni avete avuto modo di confrontarvi in questi mesi?
Collaborare è una parola grossa in questo caso. Il
tempo è pochissimo. Però ho trovato molti punti di contatto nella scelta dei temi, c’è un contesto che ci unisce. La collaborazione invece si è
sviluppata nel grande team che sta lavorando al
padiglione e per la realizzazione del catalogo: ho
invitato più autori - fra loro Marco Belpoliti, Elena Volpato e Stefano Chiodi - ad affrontare le tematiche sviluppate dagli artisti nelle varie stanze.
Questa riflessione sfocerà in un convegno ad ottobre dove riprenderemo i fili di quanto succederà in Biennale.
51
© flickr
cultura
left.it
I nativi digitali, forse, non conoscono Volponi, ma sanno
tutto di Tarantino. E hanno bisogno di personaggi come
Saviano. Ma questo non significa la morte della letteratura
Politeisti
della lettura
di Filippo La Porta
V
edere il mondo dal punto di vista di un genitore significa oggi mettersi nella prospettiva più difficile (così Christopher Lasch,
nel suo profetico La cultura del narcisismo,
1979). Nella nostra epoca infatti sembra interrompersi in modo drammatico la tradizione culturale,
si indebolisce il senso del passato e dunque rischia
di vanificarsi lo sforzo stesso dell’educazione. Per
la prima volta nella storia i nonni hanno pochissimo da insegnare ai nipoti, nativi digitali e abitatori
di un mondo mutato troppo in fretta, appiattito sul
proprio accecante presente. In che modo riuscirò a trasmettere ai miei due figli l’amore per la tradizione umanistica? E poi: ha ancora qualcosa da
dirci quella tradizione, ovunque ridotta a mero intrattenimento, a consumo tra gli altri? E se avesse
fallito, come sottolinea George Steiner, dato che
non è riuscita nemmeno a difenderci dall’orrore e
52
dall’inumano (il nazismo nasce nel cuore dell’Europa e non nel Sahara)?
1968 (anno della rottura): il critico Sergio Solmi
passeggiando per Torino è incantato dalle ragazze
in minigonna e dai ragazzi capelloni, che gli evocano tanti Ariel e Puck. Però quel mondo-festa gli
appare come «un mondo da cui sarebbero assenti la noia e il dolore; in cui, di conseguenza, il pensiero, l’arte, la poesia, come tutto ciò che nasce da
una carenza, da una ferita, non avrebbe più ragion
d’essere... in esso rimarrà soltanto il gioco, comune a tante specie animali». È a rischio la possibilità di un dialogo con l’arte e il pensiero del passato,
anche se a Solmi potremmo ribattere che qualsiasi
mutazione riprodurrà sempre, su altri piani, nuove carenze e nuove ferite. Altre volte nella storia
la tradizione si è interrotta, e sempre ogni volta si
9 marzo 2013
left
cultura
left.it
è riattivata, per la ragione che la condizione umana - verosimilmente - presenta alcuni caratteri di
fondo destinati a restare. È vero che nella cultura attuale si tende a esorcizzare il dolore, ci si illude di espellerlo dalla realtà, ma si tratta appunto
di un’illusione (che rende tutti più fragili). La vita
umana non è apparsa mai così protetta, almeno in
Occidente: i nostri corpi sono curati, non abbiamo più guerre o epidemie. Daniele Giglioli ha osservato che il trauma è scomparso, benché il nostro linguaggio attinga all’immaginario traumatico (la più piccola frustrazione è “devastante”...).
Eppure la vita stessa resta comunque un trauma
(per il solo fatto che non la controlliamo in alcun
modo). E ce lo ricorda continuamente la migliore
letteratura (Roth, Oz, Munro, Forrest, Kincaid),
impegnata a rappresentare il tragico - mentre la
cultura di massa, anche quella più trasgressiva,
tende a rimuoverlo -. Esiste una bibliografia sterminata sulla modernità liquida, sui giovani come
nuovi barbari, sulle caratteristiche involutive del
nostro tempo: gusto della superficialità, disimpegno affettivo, omologazione, venir meno di ogni
pensiero critico, iperconsumismo, trasformazione della cultura in spettacolo e status symbol
(per la prima volta chiunque, attraverso il blob
della Rete, può fingere una conversazione colta
senza essere colto). Ma come ipotizza il già citato Steiner la tradizione culturale non è esente da
colpe e ambiguità. Il ’900 ha dimostrato tra l’altro
che non sempre gli studi umanistici umanizzano.
È ragionevole dunque diffidarne, o almeno ripensarne certe premesse. Né l’istruzione garantisce
stabilità sociale e comportamenti virtuosi. E anche quando le nuove generazioni mettono in discussione un dogma millenario, il nesso tra fatica
e risultato, non tentano di liberarsi dalla condanna biblica? Benché qualsiasi apprendimento implichi disciplina e sacrificio, ci ricordano che in
una attività creativa il piacere può migliorare il risultato (Debussy indicava come regola del comporre il proprio piacere...).
In che modo oggi la tradizione riesce ancora a dialogare con le nuove generazioni? Quasi soltanto
se riesce a incarnarsi in persone concrete, in figure esemplari. Come abbiamo visto quella tradizione, prima ancora di interrompersi, si era già screditata da sé, depotenziandosi in ornamento, finendo nel museo e nell’accademia. Perciò i giovani hanno disperatamente bisogno di esempi (più
left 9 marzo 2013
che in altri momenti storici), di persone che
mostrino una normale coerenza tra quello che dicono e quello che fanno, insomma
di quella che Steiner definisce una “cultura
vissuta”. A vent’anni mi innamoravo per lo
più delle idee, anche di idee molto astratte, come ad esempio quella di rivoluzione
(che è stata un’utopia bellissima ma anche
il narcotico di una intera generazione), mentre mio figlio si innamora anzitutto di persone - integre, oneste - nelle quali le idee vengono continuamente collaudate (di qui, ad esempio,
l’ammirazione per Saviano, al di là del suo specifico valore letterario). La sinistra dovrebbe non tanto organizzare pensosi convegni per commentare
le parole-chiave della politica o suggerire elenchi
di nobili valori quanto indicare esempi di esistenze in cui quei valori diventano finalmente credibili. Proprio nel mondo smaterializzato torna ovunque un bisogno di concretezza. Le idee, queste
scostumate, vanno con tutti (Diderot), ancor più
nello spazio sconfinato del Web: perciò ci interessa soprattutto chi vive coerentemente le proprie
idee, chi ha davvero ragioni personali per esibirle.
I libri,
diceva Kafka,
sono l’ascia
anti ghiaccio.
Qualunque sia
il loro formato
Torniamo alla letteratura, dove pure questa nostalgia per l’esempio e la trasparenza si traduce
nella moda dell’autofiction (da Walter Siti a Chiara Gamberale). La cosa che più mi colpisce è che
uno scrittore trentenne di oggi sembra nato da se
stesso: può conoscere Tarantino e non Brancati, la serie tv Homeland e non Volponi, etc... Dobbiamo disperarne? Forse questo significa solo che
la tradizione si è aperta a nuovi generi: alla morte
di Dio segue non l’ateismo ma il politeismo. Il canone si è moltiplicato, si è disperso nel pulviscolo
dei linguaggi, e già negli anni 80 Tondelli, che pure
aveva una cultura letteraria solida, diceva di provenire dal rock e dal cinema di Wenders. L’umanità contemporanea, allenata a simulare ogni esperienza, continua nonostante tutto a innamorarsi,
ad ammalarsi, ad appassionarsi a un ideale, a invecchiare, a morire, etc... Dunque quella tradizione, momentaneamente in ombra, resta un deposito inesauribile di interpretazioni intorno al nostro
destino. Non ci sarà virtuale o nuova tecnologia
in grado di impedire che un libro ridiventi per un
lettore del terzo millennio, a qualsiasi latitudine,
quell’ascia che secondo Kafka dovrebbe spezzare
il mare ghiacciato dentro di lui.
Roberto Saviano
nel 2010 in piazza
a Pietrasanta (Lu)
53
trasformazione
Massimo Fagioli, psichiatra
L’articolo, alla fine,
fa leggere una realtà nuova
SENTO
quindi, senza parola, sono
S
draiato in poltrona, rilassato, lasciavo che la
naturale pigrizia, che aveva invaso il mio corpo,
restasse. Non so che scrivere... devi scrivere. Le
parole fatue, che non erano pensieri, sembrava
avessero invaso la mente. E passava il tempo.
Poi un’improvvisa contrazione muscolare, non so per
quale stimolo, mi fece trovare nella stazione eretta. I piedi si
mossero andando uno davanti all’altro come fosse una gara
di corsa breve.
Seduto alla scrivania guardo il foglio bianco senza
pensieri. E la coda dell’occhio intravede, al lato destro, le
sei penne stilografiche allineate e l’una tocca l’altra.
Come se fossi ancora sdraiato in poltrona, tra sonno e
veglia, vedo che la mano, che si era mossa per prenderne una,
scompare ed un termine verbale come se si scomponesse in
cinque dita, si insinua tra l’una e l’altra, nello spazio che non c’è.
Lo sconcerto, legato al pensiero di stare sognando, mi
fa inclinare la testa all’indietro ed alzare lo sguardo. Vedo
il gabbiano che immobile al freddo, non muove neppure la
testa.
Perché non sente freddo? Per le penne che lo coprono...
per le piume! E rivedo la parola delle cinque dita che si
disegna come: penna. Cinque lettere.
Non ho mai scritto con la piuma. Un tempo lontano
scrivevano con una piuma che intingeva la sua punta
nel calamaio. Asciugavano ciò che avevano scritto con
la sabbia, poi hanno inventato la carta assorbente, ora
l’inchiostro delle penne stilografiche si asciuga all’aria.
E la piuma che si era trasformata in penna è tornata ad
essere soltanto piuma. I termini verbali cambiano a seconda
del rapporto che l’essere umano fa con il suo esterno. Ed io
direi: anche con la sua realtà interna.
Poche parole sul fatto che realtà interna significa realtà
non materiale. E ripeto che la sua esistenza è un fatto non
discutibile, nonostante le idee di Platone, Spinoza e Freud
che hanno detto che ciò che non è linguaggio verbale
cosciente, non è pensiero. E “non è pensiero” significa: non
è esistenza del pensiero.
E la memoria di una osservazione antica mi dice che
si parla ad un altro essere umano e si scrive nella solitudine
del silenzio.
E cerco di guardare la composizione dei suoni del
linguaggio parlato, la composizione dei segni del linguaggio
scritto. Riuscire a vedere come un pensiero verbale conduca
l’apparato vocale a muoversi in un certo modo, la mano a
fare i segni in un certo modo. E penso alle varie lingue degli
esseri umani.
Ma, in verità, guardo e vedo, senza occhi che fanno la
percezione della coscienza, il mio modo di scrivere che usa
termini verbali che sono propri della mente cosciente.
Esso però indica e parla di realtà umane che non sono
percepibili, nella veglia, con i sensi della coscienza. E dissi di
annullamento, dissi di sparizione. Non sono termini verbali
che ho inventato. E mi sono sempre chiesto se, legando il
termine verbale a realtà umane esistenti e mai pensate, ho
dato ad esso una identità nuova. Ed ho detto, pensando ad
un altro termine verbale, diventano parola.
E la mente torna a pensare al linguaggio che i poeti realizzano
togliendo ai termini verbali il significato che indica gli oggetti
della realtà materiale. Riescono a scrivere evidenziando “altro”
al di là del linguaggio articolato imparato e ripetuto.
Come? Difficile pensarlo. Un’idea è che lo esprimono
componendo tra loro in modo originale e personale, le
parole. È come se le ricreassero e facessero una scrittura
nuova usando i termini che indicano gli organi del corpo
come i primitivi per dire della realtà non materiale dei
sentimenti? Cuore per amore, fegato per coraggio?
In verità, facendo tanti anni di psicoterapia di quattro
grandi gruppi, sono giunto alla certezza di vedere, nella
separazione dal mondo che il poeta fa quando scrive, la
parola ricreazione che non è regressione.
Ricreazione della separazione dal ventre materno che fa
l’identità della propria nascita. Il pensiero, che è fantasia, dà
allo scrivere un senso che è suono non udito dalle orecchie
ma dagli occhi di coloro che leggono.
Ma poi sento che i termini verbali, diventati parole,
Fantasia di sparizione compare, nello spazio, dopo tre parole
54
9 marzo 2013
left
left.it
hanno un suono che prima non c’era. Sono: movimento,
tempo, pulsione, una triade di approfondimento della
verbalizzazione della nascita che, cinquanta anni fa, non
c’era.
E così l’idea che il poeta ricrea la nascita si è rivelata
povera e parziale di fronte alla domanda: quale realtà o
momento della triade il poeta ricrea? Movimento? Tempo?
Pulsione?
Il poeta non fa immagini come il pittore e lo scrittore:
questo fatto porta a pensare che, nella ricreazione della
nascita, fa diventare scrittura la linea che è capacità,
esclusivamente umana, di crearla e porla nella natura in cui
non esiste.
Il poeta non parla, scrive. Il movimento della mano ricrea il
silenzio del primo momento della vita quando non c’è il respiro
quando non c’è il suono della voce umana. La penna versa in
silenzio il liquido scuro che contrasta con il bianco del foglio.
Allora penso che il poeta non ha soltanto il movimento
della mano, ma la pulsione che va da se stesso all’esterno,
nel tempo infinito. Allora penso che la scrittura del poeta ha
la genialità di parlare di nascita umana usando la linea: le
due caratteristiche esclusivamente umane.
Ma pittori e scultori ricreano la nascita facendo immagini.
Il poeta conduce il linguaggio imparato alla nascita ma non
usa colori e forme. Allora penso che, forse, è il momento di
un prima senza tempo che ricrea il volto umano universale
senza soggetto individuale.
È la linea che è l’universale dell’essere umano, ben
oltre le parole del linguaggio imparato. E può essere, oltre
lo scrittore, anche nelle figure del pittore e dello scultore.
Ed il pensiero fa la fantasia senza immagine, ovvero che la
scrittura del poeta sia più vicino alla musica che non alle
forme dello scultore o alle figure del pittore.
Poi penso che la musica può essere ripetuta da tanti interpreti
ma, ogni volta, è uguale e diversa. E le due parole che scuotono
l’identità razionale, sono le stesse del volto umano e, per sette,
otto miliardi di volte, fanno pensare alla parola: infinito. Poi,
ogni volto scompare e la scrittura rimane nel tempo.
Non scompare l’“insieme” che si rinnova con gli individui
che, soli, sono come ogni pianta che si è disseccata. Lo scritto
di Mozart e Beethoven rimane inalterato perché ricrea se
stesso in ogni realizzazione uguale e diversa. Come se il suono,
o il ritmo, melodia, armonia si incarnassero nell’interprete
che sarebbe il grande attore che interpreta il personaggio, che
è una realtà materiale di segni neri su carta bianca.
Si realizza così il paradosso che è la realtà materiale che
è espressione del pensiero umano che tende a legarsi ad un
tempo infinito, come la materia inorganica delle rocce che
non ha movimento.
Tanti anni fa
ho partorito una donna
che aveva in se stessa
tre termini verbali
che, scritti,
sono diventati parole
che hanno detto la verità
della nascita umana.
È un pensiero nuovo
che è nato dal rapporto
con un se stesso uguale all’altro
Come se fosse il grande amore dell’adolescenza
le parole cambiano l’essere nello spazio e ripetono:
movimento, tempo, pulsione, fantasia di sparizione. Così
sono diventate parole, così hanno dato un nome alla vita di
ogni essere umano.
Adolescente solitario non sapevo pensare alla realtà non
materiale e non mi rendevo conto che il rapporto invisibile
con un essere umano diverso da me, il sentire sempre
detto inconoscibile, poteva diventare linguaggio verbale.
Un linguaggio verbale strano che, dicendo fantasia
di sparizione, univa due termini verbali dal significato
opposto l’uno all’altro.
Evidentemente sapevo che l’umanità stava nel rapporto
dialettico tra uomo e donna perché avevo realizzato
l’unione tra i termini: uguale e diverso.
Dopo il silenzio dei venti minuti solitari, le persone che
dalle tre grandi porte entrano fanno, ovvero creano una
realtà umana diversa da me che sono un singolo individuo.
Ma non ci sono più le parole: uomo-donna. Il
termine “diverso” sta tra singolo e moltitudine, diversa
dall’individuo.
La parola diversità è, dalla dialettica tra due adolescenti,
universale. Individuo in rapporto con la realtà umana.
È stata sempre sconosciuta perché detta inconscio. Ora
c’è una luce che, con la parola nuova, fa “vedere” il non
visibile.
...“conosci te stesso” è l’intelligenza del rapporto interumano...
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cultura
left.it
Grazie alla Riforma Marino
il 31 marzo chiuderanno
i manicomi giudiziari.
Ma dopo, che fine faranno
i malati gravi che vi sono reclusi?
La giornalista Rai Adriana
Pannitteri ha scritto un’inchiesta
sul campo. Con il titolo
La pazzia dimentica esce per
la casa editrice L’Asino d’oro.
Ne anticipiamo un estratto
La fine
della
barbarie
M
artino Riggio è medico psichiatra e ha
lavorato dal 1990 al 1998 nel Centro di
salute mentale di Pomezia, vicino Roma, poi nel reparto psichiatrico dell’ospedale di
Monterotondo e a Tivoli fino al giugno del 2012.
Mi accoglie nel suo studio privato dove si svolgono anche le terapie di gruppo.
«Nella mia esperienza di tanti anni di lavoro, i centri di salute mentale sono stati sempre sotto pressione per la mancanza di organico. Quando gli
ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) chiuderanno, se non verranno risolti i problemi strutturali,
la situazione potrebbe diventare critica. E non per
il numero dei pazienti dimessi, che è abbastanza
contenuto, ma per la tipologia. Stiamo parlando
di malati a cui è stata riconosciuta una pericolo-
56
© Ponomarev/ap/lapresse
di Adriana Pannitteri
sità sociale e che spesso non hanno coscienza di
malattia o non hanno nessuna rete sociale, famiglia o amici, o sostegno, nei loro luoghi di origine. Questo rende abbastanza aleatorio o quantomeno improbabile un nuovo inserimento sociale,
che per di più sono spesso gli stessi malati a rifiutare. A questo reinserimento sociale dovrebbero provvedere i Centri di salute mentale che per
carenze di organico, di strutture, di fondi, fanno
un’enorme fatica ad affrontare la “routine” quotidiana. Ma a monte c’è un nodo ben più grave. Gli
Opg dovrebbero essere degli ospedali innanzitutto, luoghi di cura per specifiche malattie. Gli individui ricoverati starebbero li perché sono malati,
non perché devono espiare una pena. Non si può
pensare che gli Opg siano delle carceri, perché si9 marzo 2013
left
cultura
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gnifica non capire che lì ci sono persone che stanno male e che hanno bisogno di cure continuative. Né si può pensare di debellare una malattia,
per decreto-legge, chiudendo i luoghi nei quali la
malattia andrebbe curata. E a ben vedere questo
problema non nasce con la chiusura degli Opg,
ma risale al 1978 quando per legge si decretò la
chiusura dei manicomi civili».
Riggio mi racconta la sua esperienza all’indomani della legge Basaglia. «Nei mesi e anni successivi all’approvazione della legge si è assistito
al fenomeno delle dimissioni forzate. Bastava andare vicino a Santa Maria della Pietà, o a qualsiasi altro ospedale psichiatrico in chiusura per rendersi conto di quel dramma. Sono stati messi fuori pazienti che non uscivano da anni, che non avevano famiglia, che spesso rifiutavano di tornare
nei loro luoghi di origine perché la loro casa, dopo anni di ricovero era proprio quella, l’ospedale.
La stragrande maggioranza delle persone ricoverate erano cerebropatici, epilettici, ritardati mentali in cui la malattia mentale si riacutizzava sporadicamente. Dimessi forzatamente, molti giravano attorno a quelle strutture nelle quali, inspiegabilmente per loro, non potevano rientrare. Chi
tornava in famiglia veniva, come si dice comunemente, preso in carico dai servizi psichiatrici territoriali. Ma erano malati gravi, per lo più cronici,
ai quali veniva richiesta una partecipazione attiva
cui non erano abituati, necessitavano di assistenza continua, molte volte si scompensavano o si riacutizzavano richiedendo una nuova ospedalizzazione. La soluzione che si è trovata almeno qui
nel Lazio fu il proliferare di cliniche psichiatriche
private ma convenzionate con la Regione. Alcune
hanno lavorato bene, ma si tratta per lo più di mosche bianche, altre sono diventate solo dei piccoli
manicomi. Dobbiamo dirci con onestà che ci sono livelli di malattia molto profondi che rendono
alcuni di questi malati estremamente vulnerabili e bisognosi di cura e di assistenza continuative.
Mandarli a casa, pensando che possano essere affidati ai servizi territoriali, potrebbe significare
abbandonarli a loro stessi come è accaduto con
l’approvazione della legge 180».
Gli chiedo se dunque la riforma Marino è destinata a trasformarsi in un flop. «Ci sono dei provvedimenti che hanno un valore culturale innega-
left 9 marzo 2013
bile. È stato così per la chiusura dei manicomi civili. Anche in quel caso, che la normativa fosse da
rivedere e che non si potessero privare dei loro diritti civili le persone che vi erano ricoverate, che
queste avevano diritto a essere curate e non a essere escluse dalla società, era scontato.... Chiudere quei manicomi è stato un atto di civiltà. Purtroppo però chiudere quei luoghi di barbarie, di
violenza, di sopraffazione, è diventato anche abolire l’idea stessa di malattia mentale, così, per decreto», dice Riggio. E aggiunge: «Quello che non
posso condividere è il completo esautoramento
del ruolo del medico e il fatto che si possa pensare, con l’attuale legge, che una malattia o semplicemente la fase acuta di una grave malattia mentale possa essere superata con 7 giorni di ricovero,
tanto dura il trattamento sanitario obbligatorio, o
al più, rinnovandolo, con 14 giorni. È come se, per
legge, a un cardiologo si dicesse che un infartuato dopo sette giorni deve essere dimesso. Credo
che l’intero ordine dei medici si ribellerebbe. Bene, questo si ritiene invece possibile per la psichiatria. Con la legge 180 ci si è abituati a pensare che
l’obiettivo importante è semplicemente la riduzione dei tempi di degenza, considerati di per sé un
indice di qualità del funzionamento di una struttura. Tutto questo perché si è continuato a credere che la malattia mentale abbia natura organica
e che dunque basti riattivare i neurotrasmettitori
che si sono inceppati per far ripartire la macchina,
come si fa per un malato di diabete con la somministrazione di insulina».
Negli ospedali psichiatrici giudiziari
Il 31 marzo chiuderanno gli Opg e gli internati dovranno abbandonare
quelle strutture definite dal Presidente della Repubblica Napolitano
«l’estremo orrore inconcepibile in un Paese civile». Tra gli oltre mille
internati ci sono persone accusate di reati lievi e sostanzialmente
abbandonate in quello che viene chiamato l’ergastolo bianco. Ma anche malati che hanno commesso
crimini efferati. La giornalista Adriana Pannitteri nel
libro La pazzia dimenticata (L’Asino d’oro) racconta
un viaggio in queste strutture. Ignazio Marino, Maria
R. Bianchi, Irene Calesini e Francesco Dall’Olio presentano il volume, insieme all’autrice, a Roma, nella
Libreria Assaggi, il 9 marzo alle 17:30.
57
puntocritico
cultura
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arte di Simona Maggiorelli
Inquieto
Lotto
Alcune immagini del film Educazione siberiana
cinema di Morando Morandini
Il miglior Salvatores
N
on ho ancora letto il romanzo
omonimo (2009-2010) scritto in
italiano dal russo Nicolai Lilin (1980)
che è all’origine del film Educazione
siberiana, ma sospetto che gli debba
molto la sceneggiatura scritta da Sandro Petraglia e Stefano Rulli col regista.
E non soltanto per gli immaginosi dialoghi («è folle volere troppo. Un uomo
non può possedere più di quello che il
suo cuore può amare») è in assoluto il
miglior film di Salvatores, il più emozionante a livello narrativo, il più creativo
e originale sul piano figurativo-estetico.
Prodotto da Cattleya di Riccardo Tozzi.
L’azione si svolge in una zona a sud della
Russia e in un arco di tempo che va dal
1985 al 1995 all’interno di un’anomala
comunità criminale che odia a tal punto il denaro da non farlo entrare in casa
per non contaminarla. Lo si vede in una
sequenza dominata da nonno Kuzja,
cioè John Malkovich, l’attore più noto
di un cast che comprende solo 7 personaggi principali. Non sono pochi i meriti di Salvatores e dei suoi sceneggiatori.
Anzitutto il film è costruito benissimo,
con un’efficacia che non esclude la sottigliezza nell’alternare le scene d’azione intense e febbrili, ma non convulse,
con le sequenze più piane ed esplicative senza diventare quasi mai didattiche.
Il film è scomponibile in tre parti. Nella
prima figurano in rilievo quattro ragazzini che in un certo senso, senza saperlo, sono i discendenti dei guerrieri Urca,
originari abitanti delle grandi foreste siberiane e soprattutto da parte di nonno
Kuzja (J. Malkovich) ricevono un’educazione speciale: furto, rapina, uso delle armi in una città a sud della Russia,
una specie di ghetto per criminali di di58
verse etnie. È un clan però che ha regole precise qualcosa che assomiglia a un
codice d’onore che non può essere tradito per nessun motivo. Uno dei quattro - il più debole - annega, un altro risulta un po’ marginale. Sono in primo piano Kolima (Arnas Fedaravicius) e Jurij detto Gagarin (Vilius Tumalavicius).
C’è anche Xenja (Eleanor Tomlinson),
rimasta innocente bambina dentro
di sé. Nella seconda parte i ragazzi sono ventenni e si accentuano i contrasti
tra il serio Kolima e lo spericolato Gagarin che, siccome il mondo è cambiato, ha voglia di profittarne senza rispettarne le regole. In un grande spazio, lasciato dai palazzoni grigi di un quartiere periferico di architettura sovietica,
tutti salgono su una giostra che accende
le sue luci colorate e diffonde dagli altoparlanti il famoso Absolute beginners di
David Bowie. La parte più interessante
è forse la terza, soprattutto a livello stilistico. Le tonalità del colore - frammischiato senza apparenti motivi al bianconero - della fotografia di Italo Petriccione s’incupiscono e si impreziosiscono. Persino le musiche, curate da Mario
pagani, diventano più astratte e meno
realistiche. In un’intervista Salvatores
dichiara: «La filosofia, l’etica di questo
gruppo criminale i cui membri si definiscono “criminali onesti”, e sono profondamente legati alla natura e alle sue regole a volte anche crudeli», mi ha ricordato un film di Kurosawa, Dersu Uzala,
che aveva al centro un cacciatore siberiano che viveva lontano dal mondo...
Il film non ha alcun intento sociologico, politico o documentario». Girato in
Lituania tra grandi difficoltà, quasi due
anni tra preparazione e realizzazione.
«D
ifficile discriminare se più
nuoccia alla fama di un artista essere dimenticato che mal conosciuto: e vien voglia di decidere
che se un grande spirito potesse scegliere, preferirebbe il silenzio alle
mezze parole», così scriveva la scrittrice Anna Banti ad incipit del suo libro dedicato a Lorenzo Lotto (14801556): un agile volume opportunamente recuperato e pubblicato nella
collana Sms dell’editore Skira, un paio di anni fa. Il prezioso ritratto a parole firmato della romanziera e studiosa d’arte, sulla strada aperta da
Roberto Longhi, finalmente restituiva la giusta statura a questo inquieto
pittore, dalla vena sensibile e popolare, lontano anni luce dallo splendore e dal trionfo dei colori della pittura veneta a lui contemporanea. Benché fosse veneziano e ventenne alla svolta del 1500, la sua cultura visiva sembrava alquanto provinciale al confronto con il raffinato e poetico tonalismo di Giorgione o se paragonata al vigoroso realismo, laico
ed espressivo di Tiziano. Ma i suoi
santi scavati dal tormento interiore,
le sue timide Madonne, i suoi aguzzi e veritieri ritratti sono, se possibile, ancor più lontani dal classicismo
idealizzante di Giovanni Bellini, che
secondo la tradizione sarebbe stato
suo maestro nei primi anni veneziani. Brusco e immediato, poco pro-
Lorenzo Lotto,
La Sacra Famiglia con S. Caterina
9 marzo 2013
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cultura
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penso alla ricerca formale e alla trasfigurazione aulica dei soggetti rappresentati (anche nelle pale sacre)
Lorenzo Lotto è stato forse il maggiore interprete in Italia di quello spirito
nordico e riformista che si era andato diffondendo in modo più o meno
sotterraneo nella piccola “borghesia” delle regioni del Nord della penisola. Ma non solo. Lorenzo Lotto fu
anche il cantore delle terre marchigiane e dei suoi rustici personaggi,
come racconta la mostra “Un maestro del Rinascimento. Lorenzo Lotto nelle Marche”, aperta dal 9 marzo
al 7 luglio nella piemontese Reggia
di Venaria e incentrata dal curatore
Gabriele Barucca su una ventina di
opere realizzate da Lotto a Jesi, a Recanati e dintorni. Dedicata al periodo più fertile della produzione lottesca, l’esposizione, che ha fatto tappa
anche al Museo Puškin di Mosca, in
realtà è una piccola grande summa
dell’arte di questo schivo e appartato artista: un viaggio sfaccettato nella sua poetica antieroica e borghese, dove trionfano penetranti primi
piani di sarti e altri artigiani al lavoro, di ricche e addobbate signore di
provincia, di giovani di belle speranze, di persone anonime che conquistano per la prima volta la ribalta della storia dell’arte. In questo percorso
espositivo sono tante anche le opere
che raccontano episodi mutuati dai
testi sacri e che appaiono sempre calati nella concretezza della vita di tutti i giorni, in modeste abitazioni e in
brulli tratti di paesaggio, scavati da
calanchi, come i volti dei solitari santi che Lotto metteva al centro della
sua pittura drammatica e fortemente narrativa. Calati nella quotidianità, nella storia, fuori da ogni distanza
metafisica, così appaiono i suoi San
Gerolamo e il suo San Vincenzo Ferrer proveniente dalla chiesa di San
Domenico di Recanati e appena restaurato. Ma folgoranti sono anche
i pannelli dell’annunciazione, dipinti a Jesi intorno al 1526 in cui le figure
sacre si sporcano le mani con la faticosa quotidianità contadina, mentre
lo sgomento che si legge sul volto di
Maria arriva a sfiorare l’eterodossia.
left 9 marzo 2013
libri di Filippo La Porta
Presta a scuola da Flaiano
C
ominciamo con una citazione da meditare nel dopoelezioni: «Le rivoluzioni più grandi sono quelle inconsapevoli, che non hanno la pretesa programmatica di cambiare il mondo ma rispondono a esigenze primarie... prendiamo Caravaggio oppure i Beatles»; così gli stessi Padri Costituenti che volevano solo «costruire un Paese civile, dove
crescere i propri figli» e l’Uomo Nuovo. L’ho estratta non da
un pamphlet politico ma dal romanzo Il piantagrane di Marco Presta (Einaudi) una favola civile sul nostro triste presente. Vi si narra di Giovanni, mite ed eccentrico vivaista (dialoga con le piante) che viene sequestrato da un misterioso personaggio, il Granchio, per sottrarlo ai servizi segreti. Cosa spaventa di Giovanni? Dovunque va tende a alimentare comportamenti virtuosi e gentili. E anzi c’è un’idea altissima che attraversa (e ispira) il romanzo: la rinuncia a esercitare il potere è l’unica
cosa che spezza quella inesorabile legge della forza che governa il mondo (l’incipit è
un apologo su un leopardo che si lascia morire di fame per improvvisa pietà verso le
gazzelle). La musa dell’autore è quella satirica. In una pagina impietosa sulle foto degli scrittori in quarta di copertina leggiamo: «Chi ostenta uno sguardo intenso, chi si
tocca con una mano la montatura degli occhiali, chi si fa immortalare mentre lavora
alla scrivania, fingendo di essere stato sorpreso dall’obiettivo». Presta è uno di due
conduttori radio de Il ruggito del coniglio, dove commenta la vita quotidiana con intelligente umorismo e leggerezza. Anche nel romanzo precedente, Un calcio in bocca fa miracoli, riusciva a contemperare satira di costume, gusto della descrizione sociale, comicità lieve. Mica è Adorno, né pretende di ridefinire il canone letterario della contemporaneità. La scrittura è veloce, quasi da noir, con una inclinazione
all’iperbole: «sentì il sangue addensarsi come marmellata di mele cotogne». L’insofferenza verso i vizi endemici dei nostri connazionali, esibizionismo, volgarità, prepotenza, sceglie il tono della commedia dolceamara. Il Piantagrane fa pensare a un film
come Viva la libertà di Andò: prodotti onesti, accurati che contengono un inizio di
ragionamento morale e che ci fanno ridere senza incarognirci.
Poesie
di Emily Dickinson,
lette da Giovanna
Mezzogiorno,
Audiolibro Emons
35 euro
MAX PERKINS,
l’editor
dei geni
di A. Scott Berg,
traduz. M.Capuani,
Elliot, cd
11 euro
Mare chiuso
di Stefano Liberti
e Andrea Segre,
Minimum Fax,
dvd e libro
13 euro
scaffale
è stata una delle voci femminili più intense della poesia.
Nata 1830 in Massachusetts, Emily Dickinson scrisse
1775 poesie ma ne pubblicò solo 7. Solo dopo la sua
morte nel 1886, cominciò a essere apprezzata. Una
scelta delle sue liriche più belle sono lette da Giovanna
Mezzogiorno in questo imperdibile audiolibro Emons.
Dietro le quinte della grande letteratura Usa. Il vero deus
ex machina del successo de Il Grande Gatsby di Fitzgerald di altri classici, fu Max Perkins una figura poco nota
al grande pubblico ma che gli addetti ai lavori conoscono come l’editor di autori come Heminguay e Tom Wolfe.
Un’avvincente biografia ne ripercorre la vita.
Dall’autore di Land grabbing e di altri importanti libri
inchiesta, Stefano Liberti, un libro e un puluripremiato
documentario, realizzato in collaborazione con Andrea
Segre, sugli abusi perpetrati durante i respingimenti di
migranti, tra il 2009 e il 2010, grazie agli accordi del
governo italiano con la Libia di Gheddafi.
59
bazar
cultura
left.it
buonvivere
di Giulia Ricci
Rosso
di passione
Junior di Martina Fotia
Un’estate con il maghetto C
I
segreti della magia o il tuffo nella
natura, e poi la barca a vela oppure la più comoda bicicletta. «Mamma, dove si va in vacanza quest’anno?». A questa “classica” domanda
cerca di rispondere dal 15 al 17 marzo il Children’s tour, il Salone delle
vacanze 0-14, presso il quartiere fieristico di Modena. Questo è in effetti l’unico luogo dove i piccoli viaggiatori possono sperimentare dal
vivo le varie proposte e decidere in
prima persona. Qui i genitori possono venire a conoscenza direttamente con località turistiche, villaggi, alberghi e strutture ricettive, parchi
tematici, campi sportivi e centri per
le vacanze studio, fattorie didattiche e percorsi naturalistici che hanno dato vita a servizi ad hoc per il
target 0-14. Per i piccoli protagonisti il salone ha predisposto numerose attività di intrattenimento per
far sperimentare un “assaggio” delle vacanze pensate appositamente per loro attraverso laboratori
creativi e spettacoli. Oppure scoprendo l’avventura e nuovi sport
con percorsi a tema e simulazioni.
Ce n’è davvero per tutti i gusti, dai
soggiorni più divertenti a quelli più
istruttivi. Perché non approfittare
delle vacanze per apprendere ad
esempio...le arti magiche? La scuola estiva di stregoneria, all’interno
dell’Oasi Lipu di Crava Morozzo in
Valle Maira, località alpina in provincia di Cuneo, si dice sia proprio
la stessa dove ha studiato... Harry
Potter! Qui, tra pozioni e incantesimi, si impara a conoscere gli animali, a prendersene cura nel rispetto delle loro caratteristiche e nel loro ambiente. Ma si può apprendere
anche come far parte di un equipaggio e imparare a guidare un’imbarcazione. Così come affrontare un
viaggio in bicicletta, per recuperare la dimensione lenta e antica degli
spostamenti, in una avvincente sfida con se stessi. Più “slow”, invece,
ma sempre attuale, la vacanza nelle
fattorie didattiche, dove i bambini
toccano con mano tante cose nuove prima viste solo sui libri. Qui ci si
può sbizzarrire: dai giochi e le tradizioni di una volta al contatto con la
natura. E possono imparare a fare il
pane oppure a raccogliere la frutta.
Divertimento e non solo.
on la primavera alle porte, il freddo
ormai passato e una situazione politica caotica, cosa c’è di meglio di un tuffo...
nel vino? Il nettare degli dei, la bevanda sacra a Dioniso, ha accompagnato l’umanità
sin dalle origini. E non è solo consolazione,
è anche cultura. Se volete saperne di più,
fino al 5 maggio la fondazione Musei Senesi (a Siena e in altri centri) ha allestito la
mostra Vino fra mito e storia (www.museisenesi.org). Ma il vino è anche legato alla passione, all’eros. Per questo, c’è Enotica, il festival del vino e della sensualità al
Forte Prenestino a Roma (www.enotica.
net). Una full immersion dal 15 al 17 marzo
tra le antiche mura con degustazioni di vini prodotti da 60 vignaioli e veri contadini,
mostre, film e cene a tema. A promuovere Enotica è l’Enoteca di Forte Prenestino
che dal 2004 prosegue l’esperienza di Terra
e libertà/Critical Wine,
ideata da Luigi Veronelli, il grande anarco-enologo che ha sempre lottato per il vino di qualità. Sempre a Roma (11
marzo, St.Regis grand
hotel) anche un pomeriggio di... un’Apologia
golosa con il Nobile di
Montepulciano.
commedia di c.b.
Premier
per caso
U
Claudio Bisio nel film Benvenuto presidente!
60
n uomo qualunque si ritrova d’un
tratto Presidente della Repubblica.
Lo tsunami Grillo certo insegna che tutto può succedere. Ma, almeno nel nuovo
film di Riccardo Milani Benvenuto presidente! la buona volontà e l’inguaribile ottimismo di un montanaro, con il nome ingombrante di Giuseppe Garibaldi
(Claudio Bisio) e per errore eletto Capo
dello Stato, non bastano per rimanere al-
9 marzo 2013
left
cultura
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di
Bebo Storti
il taccuino
IL PERSONAGGIO di Camilla Bernacchioni
Angela fra teatro e cinema
L
a ragazza degli stracci dello stralunato Ratataplan (1979) di Nichetti, è cresciuta. Eppure Angela Finocchiaro, 57 anni,
ammette che per rimanere in equilibrio tra piccoli problemi quotidiani e bilanci esistenziali, aggirando i pregiudizi della società, per le donne Ci vuole un
gran fisico. E questo è il titolo del film d’esordio di Sophie Chiarello, dove l’attrice milanese - che cofirma
anche soggetto e sceneggiatura - interpreta Eva: un
ex marito, una figlia ribelle, autostima in calo e davanti a sé quei 50 anni che
non riesce ad accettare. Angela quella soglia l’ha superata («il cinema mi fa bene, mi ha tolto 7 anni!» ironizza) con una buona dose
di humor e scelte ponderate tra teatro, grande e piccolo schermo, fin dagli anni 70 con Quelli di Grock.
Bizzarra e un po’ folle, ama
Angela Finocchiaro
la comicità che nasce dalla
vita vera e nei suoi mille ritratti femminili porta ogni
volta qualcosa di sé. Quanto c’è di lei in Eva? «Anche
tutto», risponde. «L’idea era
di fare un film al femminile
sui problemi delle donne di
mezza età di cui si parla poco nel nostro cinema. Eva
sente che a 50 anni sta diventando invisibile. Se siamo riusciti nell’intento ogni
donna ritroverà in lei qualcosa di sé». Lei si sente invisibile? «La nostra generazione è cresciuta con il
la guida di un Paese. La bizzarra idea del
film, in uscita il 21 marzo, è venuta a Nicola Giuliano che ha poi passato il testimone allo sceneggiatore Fabio Bonifacci. Nel cast con Bisio-Garibaldi, anche
Kasia Smutniak, Stefania Sandrelli, Beppe Fiorello e Remo Girone. «Quando mi
hanno presentato il progetto - racconta
il regista - ero perplesso sul fatto di portare avanti l’onda lunga dell’anti politica,
un sentimento che va avanti da troppi anni». Con qualche ritocco, la storia prende i toni di una favola senza comicità fine
a se stessa. «Il Parlamento è una conquista - continua Milani - e credo che molte
generazioni non lo sappiano». Giuseppe,
Peppino per gli amici, si trova a ricopri-
left 9 marzo 2013
femminismo, discutendo e
mettendo in dubbio, cosa
che da una parte ti dà forza
ma dall’altra dolore perché
senti di essere stata parte di
un cambiamento e poi vai a
finire nell’ombra. Ma oggi le
donne non ci stanno a essere relegate ai ruoli di mamme o nonne». E il teatro
cos’è per lei oggi? «Una zona piccola di libertà senza
la “l” maiuscola, un terreno
mio personale che porterò
avanti finché ci sarà qualcuno che decide di rovinarsi
una sera per vedermi».
re un ruolo per il quale sa di essere inadeguato, ma contro ogni previsione raggiunge risultati inaspettati: non si farà
corrompere, scuote le istituzioni in crisi.
Qualche riferimento alla realtà? «Sono
un italiano che vuol bene all’Italia e non
credo che i politici siano tutti uguali - dice Milani - e penso che ci sia una parte
della politica che ha più senso del potere invece che senso dello Stato». Da qui
nasce il film «popolare ma non populista
- precisa - l’Italia è divisa in due dal punto
di vista etico, morale più che politico». In
fondo Benvenuto presidente! «è la storia
di un uomo qualsiasi che si rende conto
che fare il politico è un mestiere e che bisogna saperlo fare».
In fondo.
L’otto m’arzo
er nove me risiedo
-Ma chi? Quella che sta al
9 di via Verdi? E ma doveva
succedere!
-Garantito! Certe minigonne
si mette, da zoccola, che vai
in giro a provocare!
-La madre devi vedere che
si trucca e si veste come una
ragazzina, la pera non cade
lontano dal pero!
-E di pere ce ne hanno tutte
e due!
-Cazzo che bocciofila che
hanno aperto madre e figlia!
-Certo con una così in casa
poi non è che non diventi
puttana! Il marito dov’è?
-È separata. E l’altra figlia più
piccola che c’ha 14 anni ma
c’ha due pere pure lei!
-Ah! Ho capito, va alla scuola
di mio nipote! Dice che nei
cessi succede la qualsiasi,
che è già sulla buona strada. Comunque la grande è
puttana!
-Ma l’hai vista che passa con
la puzza sotto il naso e non ti
guarda!
-Secondo me è lesbica, non
caga nessuno nel quartiere!
Ha detto Pino, l’elettrauto,
che lui l’ha vista una volta...
-Ma se sei così non è che
non ti deve succedere
-Esci la sera? Te li devi prendere i tuoi rischi! Non è che
puoi fare come vuoi!
-Ma se c’era un marito! Fosse mia moglie sai le sberle
che si prendeva!
-Ma se la tua ti dice anche se
devi cacare o no!
-Sì, bravo lo spiritoso che la
tua c’ha sempre i lividi!
-Mi rompe il cazzo!
-Ma i lividi non si devono vedere! Fatti furbo!
-Comunque adesso è in
ospedale! Ma sono stati ragazzi del quartiere?
-Pare di sì, ma sono giovani
c’hanno sempre il cazzo in
tiro. Gli devi fare una colpa?
-Allora devono essere tutti
ricchioni?
-Se era mia figlia le prendeva
anche da me quando tornava a casa!
61
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REGGIO EMILIA
L’Oreste di Herzog
Bellocchio e Muti
La stella d’Oriente
L’Oreste di Euripide
rinasce al teatro
Vascello dal 21 al 24
marzo. Lo spettacolo
è scaturito da un’idea
di Marco Bellocchio.
Attraverso la regia di
Filippo Gili la tragedia
greca si intreccia con
la storia de I pugni in
tasca (film d’esordio
di Bellocchio). Protagonista l’attore Pier
Giorgio Bellocchio
nel doppio ruolo di
Oreste/Ale.
Verdi torna al Teatro
dell’Opera dopo 10
anni di assenza. Due
nomi d’eccezione per
la tragedia lirica I due
Foscari. Il maestro
Riccardo Muti, sul
podio e il visionario
regista tedesco Werner Herzog alla regia.
In scena martedì 12
e giovedì 14 marzo
sempre alle 20. Domenica 10 in scena
alle 16:30 e sabato
16 alle 18.
roma
udine
napoli
Grazie
alla Tav...
Visionario
Gondry
Il pittore
Compleanno n. 20 per
dello schermo
il FilmForumFestival.
Von Arx torna a casa
Dal 15 marzo al 21
aprile al Maxxi la
mostra fotografica
Tav Bologna-Milano.
Oltre 100 fotografie
raccontano le opere
pubbliche e l’impatto
sul paesaggio e sugli
stessi fotografi.
La mostra si apre
il 14 marzo con un
incontro pubblico.
62
Nove giorni di proiezioni, incontri, convegni
ed eventi saranno
legati dal tema della
proprietà intellettuale.
Il festival dal 12 al 21
marzo, si apre con la
proiezione del docufilm
The we and the I di
Michel Gondry.
Dal 21 al 24 marzo Torino ospiterà la kermesse
Stella d’Oriente. Il festival, giunto alla XII edizione, è il più importante a livello europeo di danza
musica e cultura orientale. Promotrice del progetto è Aziza Abdul Ridha, danzatrice accreditata
in tutto il mondo e fondatrice del Centro Aziza
a Torino. Il programma si divide tra workshop e
serate di spettacoli e competizioni tra danzatrici
e ballerini mediorientali e non solo.
ferrara
Definito così da Wenders, Antonioni sarà
il soggetto di una grande retrospettiva in
mostra a Palazzo dei Diamanti, dal 10 marzo
al 9 giugno. Lo sguardo di Michelangelo
Antonioni e le arti è il titolo della mostra
firmata Dominique Paini. Si celebra il regista
confrontando il suo percorso con le opere
di artisti come Pollock, Burri, Morandi, De
Chirico, Rothko e Vedova. In mostra anche
Film, libri, dischi, foto, lettere e documenti.
A tu per tu
con Picasso
Dall’8 marzo al 1 aprile Palazzo Magnani a Ferrara
aprirà le porte a una delle migliori opere della maturità di Picasso. Femme sur un fauteuil. Buste è un ritratto del ‘62 di Jacqueline, moglie del pittore. Sarà il
soggetto di questo appuntamento di Arte in Agenda.
A tu per tu con... la serie di eventi che la Fondazione Palazzo Magnani ha in programma per celebrare opere e personalità della storia dell’arte. Il dipinto
appartiene alla Collezione Barilla di Arte Moderna.
Il 16 e 17 marzo il Teatro San Carlo di Napoli
potrà riabbracciare un grande violinista
partenopeo. Fabrizio Von Arx presenterà per
la prima volta in Italia il suo nuovo disco. Al
lavoro ha partecipato anche il direttore della
Prague Sinfonia Orchestra, il maestro Christian
Benda che sarà chiamato alla direzione del
concerto. Max Bruch, Pablo de Sarasate e
Ernst Bloch interpretati da Von Arx nell’ultimo
disco saranno il programma del concerto.
9 marzo 2013
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