Alla ricerca del tempo perduto - UniFI

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Alla ricerca del tempo perduto - UniFI
Alla ricerca del tempo perduto:
gestione del tempo e scelte riproduttive
Letizia Mencarini e Maria Letizia Tanturri
Dipartimento di Statistica, Università di Firenze
[email protected]; [email protected]
Introduzione
Con l’entrata nella vita di coppia, i tempi individuali si modulano secondo le esigenze e le strategie
non solo personali, ma anche familiari. I compiti che normalmente una coppia di tipo coniugale
deve svolgere nel corso della vita comune, riguardano il lavoro retribuito, il lavoro di cura e di
riproduzione e i lavori domestici. La ripartizione del tempo individuale e l’organizzazione familiare
sono quindi strettamente legati. Il sistema di genere interno alla famiglia determina la divisione del
lavoro fra uomini e donne. Tali ruoli di genere, che permeano l’organizzazione familiare, sono un
importante aspetto dell’identità socio-culturale e solo di recente sono stati posti al centro
dell’analisi delle possibili determinanti della bassissima fecondità dei paesi del Sud Europa.
Con questo lavoro vogliamo da una parte descrivere l’organizzazione familiare e i tempi di vita di
un campione di madri prima e dopo la nascita dei figli, dall’altra verificare, con i dati di indagine a
disposizione, se esiste un legame tra l’organizzazione familiare e il comportamento fecondo, in
particolare nelle coppie a doppio reddito. L’ipotesi da verificare è che in un contesto, come quello
italiano, di scarsità di servizi esterni di cura dei figli e di asimmetria di genere nella divisione dei
compiti familiari, le donne più sottoposte al peso della doppia presenza in famiglia e nel mercato
del lavoro abbiano una fecondità più bassa di coloro che invece ne sono “alleviate” da un maggior
ricorso ai servizi e aiuti esterni o, più semplicemente, dalla condivisione dei compiti domestici e di
cura con il partner. Questo pone interrogativi sugli effetti che avrebbero sul comportamento
riproduttivo politiche di pari opportunità volte a favorire la conciliazione tra lavoro e famiglia in
chiave di equità di genere.
I dati qui analizzati provengono da un’indagine svolta, alla fine del 2002, nell’ambito del progetto di
ricerca “La bassa fecondità italiana tra costrizioni economiche e cambio di valori” in cinque città
capoluogo di provincia (Firenze, Messina, Padova, Pesaro e Udine), su un campione di oltre 3300
madri (di età variabile, ma tutte con almeno un figlio in terza media), intervistate attraverso un
questionario autocompilato, consegnato ai loro figli a scuola.
I dati raccolti, pur non consentendo un’analisi dettagliata dei tempi di vita1, e cogliendo solo in
parte la dinamicità dell’organizzazione personale e familiare associata ai cambiamenti del corso di
1
Sarebbero necessari dati provenienti dalla registrazione quotidiana di appositi diari del tempo (Rego 2002).
vita2, offrono comunque la possibilità di tracciare un quadro, sebbene solo “attraverso gli occhi
delle donne”, della divisione del lavoro nelle coppie e dei principali mutamenti successivi alla
nascita dei figli. Le donne intervistate, infatti, hanno fornito informazioni sul proprio tempo libero e
su quello del partner e sulla partecipazione alla vita domestica e alla cura dei figli del proprio
partner. Per ciascun aspetto, le informazioni riguardano il periodo precedente all’arrivo di ciascun
figlio e la variazione successiva.
Il nostro studio ha escluso dall’analisi donne con situazioni particolari, come madri sole o “stepfamilies”, selezionando solo le donne in costanza di coppia stabile, vale a dire dove il padre era lo
stesso per tutti i figli e, per facilitare i confronti sui mutamenti nel corso del tempo, solo quelle che
vivevano insieme al partner anche prima della nascita dei figli. Le donne considerate sono quindi
circa il 98% del campione totale.
1. Chi ha perduto il proprio tempo?
1.1 Una premessa: uso del tempo e sistema di genere
L’uso del tempo per donne e uomini dipende dalle fasi del corso di vita, dalla partecipazione o
meno al mercato del lavoro e dalla tipologia dell’attività svolta, ma presenta di solito anche forti
differenziazioni per genere, soprattutto nell’ambito familiare. Sono le norme sociali secondo il
sistema di genere prevalente, infatti, che prescrivono una certa divisione del lavoro e delle
responsabilità tra donne e uomini, garantendo differenti diritti e obblighi per essi (Mason 2001). In
ogni società, quindi, si attribuisce un certo valore a ciò che in quel particolare contesto si ritiene
appropriato per il genere femminile e maschile (Presser e Das 2002).
Il tempo, risorsa limitata, può essere suddiviso per comodità di analisi in tre tipologie principali
(Gershuny, 2000): il tempo per il lavoro remunerato, il tempo per il lavoro non remunerato (il
“tempo obbligatorio” in famiglia relativo alle attività domestiche o di cura) e il tempo per sé
(divisibile in tempo “necessario” di attività di cura personale e tempo libero, anche se questa
distinzione non è sempre netta). La suddivisione dei tempi di vita quotidiana si differenzia secondo
il genere, le fasi del corso di vita (giovane, centrale o anziana), l’appartenenza ad un contesto
sociale e lo status sociale individuale. Dagli anni ‘60 ad oggi, ad esempio, è stata evidenziata nel
mondo sviluppato una tendenza verso una minore quantità di tempo libero, una maggiore
proporzione di tempo remunerato e una convergenza dell’uso del tempo tra diverse nazioni, tra
gruppi sociali (con un rovesciamento del gradiente status-tempo libero a sfavore, recentemente,
2
I dati a disposizione contengono alcuni aspetti retrospettivi ma non la ricostruzione completa delle biografie
familiari e lavorative
1
delle classi elevate3) e tra uomini e donne (Gershuny 2000). La convergenza tra tempi maschili e
femminili però è ancora incompleta per la permanenza -pur con enormi differenziazioni- del
fenomeno della maggiore specializzazione femminile nel lavoro non pagato. Le donne in generale,
lavorano per il mercato più che in passato e hanno ridotto il tempo per il lavoro non remunerato,
ma lo hanno fatto meno che proporzionalmente, comprimendo di conseguenza il loro tempo libero;
gli uomini, invece, hanno aumentato di poco il loro coinvolgimento nei compiti familiari.
Teoricamente le modalità di suddivisione dei tempi familiari e dei ruoli nella coppia possono essere
collocate secondo un ipotetico continuum tra due modelli antitetici: quello tradizionale, dove la
specializzazione dei ruoli familiari è netta secondo il genere, e quello dell’equità di genere, cioè
dell’assoluta simmetria dei ruoli in coppie a doppio reddito. Il primo modello (“male breadwinner
model” o “family wage model” o “Becker’s specialization model”), è caratterizzato da “famiglie a
ruoli segregati, con un’organizzazione complementare e indipendente dei ruoli” (Micheli 2002),
dove il padre lavora mentre la madre sta a casa per occuparsi dei figli. Il principio alla base di
questo modello è che sia più efficiente la specializzazione dei ruoli, esistendo in ogni caso una
naturale differenziazione tra uomini e donne, che richiede che l’uomo sia il “produttore” e la donna
sia colei che svolge le funzioni riproduttive e di cura (Becker 1981, McDonald 2000a). Nell’altro
modello, detto anche della “contrattazione cooperativa”, le famiglie sono a ruoli congiunti o
simmetrici, con un’organizzazione condivisa (Micheli 2002). Questo modello non implica
un’eguaglianza tra i due soggetti di una coppia, ma soltanto che specifici ruoli non siano
determinati in base al genere (cioè che si completi la scala delle possibilità dal modello
“breadwinner” maschile a quello “breadwinner” femminile”). Dal punto di vista della razionalità e
dell’efficienza economica ci si può immaginare che all’interno della famiglia ci possa essere una
scelta razionale dei componenti tra mix alternativi di lavoro domestico e lavoro pagato (Gershuny
1995 e 2000). Si può sostenere, dunque, che ciascuno dei membri della coppia “adatti” la propria
offerta di lavoro, fuori e dentro la famiglia alle decisioni dell’altro. Si possono quindi ipotizzare
diverse strategie di “mutuo adattamento” (“scaling-back”): dalle famiglie con un solo percettore di
reddito alle coppie in cui entrambi lavorano, ma solo uno fa carriera, fino alla “contrattazione
continua” dei ruoli tra i partner nelle diverse fasi del ciclo di vita. Le maggiori opportunità per le
donne sul mercato del lavoro, e la instabilità delle unioni stesse, hanno reso “meno conveniente” la
specializzazione domestica (Anxo e Carlin 2002; De Santis e Livi Bacci 2001). L’aumento della
partecipazione lavorativa femminile non ha però portato ad una conseguente redistribuzione dei
compiti domestici e di cura, facendo sì che la cosiddetta “doppia presenza“ delle donne (Bimbi
1991 e 1995), sia diventata un vero e proprio “doppio peso”. Nel campo familiare e nella vita
riproduttiva le regole del gioco sembrano quindi determinate da cause più complesse del semplice
principio di razionalità economica.
3
Ma va tenuto conto che per alcune professioni puramente intellettuali è implicito nel tempo di lavoro una
sorta di connotazione di “divertimento”, per altre lavori relegata al tempo libero (Gershuny 2000).
2
Le istituzioni legate alla famiglia e alla genitorialità cambiano molto lentamente e l’adattamento, da
parte degli uomini, alla partecipazione lavorativa femminile è probabilmente possibile solo dopo un
certo periodo di tempo di transizione (“lag adaptation model”; Gershuny 1995). Le cause della
difficoltà, proprie degli uomini, ma spesso anche delle donne stesse, a cambiare le proprie visioni
sui “corretti” ruoli di genere (Bernhardt 1993), scaturiscono da motivi che vanno dalle abitudini
radicate degli individui (routine di donne e uomini), a meccanismi psicologici e di socializzazione
che inibiscono l’azione maschile (bilanciamento dei poteri nella coppia, identità di genere,
aspettative del gruppo dei pari, autostima), a difficoltà ad acquisire velocemente, da parte degli
uomini, le capacità di produzione domestica. Ovunque, quindi, la divisione dei lavori domestici e di
cura tra uomini e donne è influenzata dalla partecipazione al lavoro retribuito di entrambi i
componenti della coppia (Gershuny 1995 e 2000), ma in tutti i paesi del mondo c’è una persistenza
della specializzazione femminile nei lavori domestici. Solo nei paesi scandinavi è ormai consolidata
l’abitudine maschile di svolgere in modo paritario le attività domestico-familiari (Gershuny 2000).
1.2 Organizzazione familiare e relazioni di genere asimmetriche
La divisione dei compiti all’interno della famiglia, in particolare la conduzione di quelli che
genericamente si possono definire “lavori domestici” e l’allevamento e la cura dei figli, sono gli
elementi che distinguono l’organizzazione familiare. Ovviamente per le coppie dove la donna non
ha un lavoro retribuito la divisione del lavoro è fortemente asimmetrica e i compiti domestici e di
cura sono svolti prevalentemente o totalmente dalle donne.
Dai dati della nostra indagine, le donne sono state classificate secondo la divisione nella coppia di
lavoro domestico e lavoro fuori casa. Abbiamo messo a confronto il totale del campione di madri
con il sottogruppo di madri “sempre” lavoratrici, cioè quelle madri che lavoravano prima della
nascita dei figli e che hanno continuato a farlo costantemente anche dopo. In caso di mancata
condivisione dei compiti domestici e di cura dei figli con i loro partner, sono proprio queste donne,
infatti, che non avendo interrotto l’attività lavorativa sperimentano maggiormente il peso della
doppia presenza se i partner non condividono le responsabilità familiari. Esse sono circa il 54% del
campione intervistato4, sono più frequenti (oltre il 72%) tra le donne con un solo figlio e meno
frequenti (33%) tra le donne con 3 o più figli.
Le coppie “tradizionali” (si veda il grafico 1) sono quelle in cui la donna non lavora (un quarto del
totale delle madri); le coppie del “doppio peso” quelle dove la donna lavora fuori casa e l’uomo non
fa nulla (un quinto del totale delle madri e un quarto delle madri “sempre” lavoratrici); le coppie
“collaborative” (pari alla metà del campione totale e al 67% del sottogruppo delle madri “sempre”
lavoratrici) quelle dove la donna lavora e il partner “aiuta” in qualche occasione; le coppie
“paritarie” quelle in cui anche gli uomini si occupano sempre o molto spesso dei compiti domestici
4
Oltre il 35% delle madri presenta una storia lavorativa discontinua e quasi 11% non ha mai lavorato.
3
(solo il 6% del campione totale e l’8% delle donne “sempre” lavoratrici). Tale classificazione è
quella usualmente utilizzata anche da altre indagini: INF-2 (Bimbi e La Mendola 1999) e Quinto
Rapporto IARD (Sartori 2002). I nostri risultati sono in linea con quelli già conosciuti5. Entrando più
nel dettaglio, si può evidenziare come nel periodo precedente alla nascita dei figli neanche il 7%
dei partner svolgeva “molto spesso” i lavori domestici e il 20% “abbastanza spesso”). La somma di
tali percentuali (cioè partner che svolgeva “spesso o molto spesso” i compiti domestici) scende al
15% nel caso in cui la donna rispondente non abbia mai lavorato e salgono a poco più del 34% nel
caso invece delle donne che hanno sempre lavorato.
Dopo la nascita dei figli, secondo quello che rispondono le madri, nella maggior parte dei casi la
partecipazione dei padri ai lavori di casa rimane invariata. Sono gli uomini con una partner
“sempre” lavoratrice (si veda tabella 1), che già prima della nascita dei figli svolgevano
frequentemente i compiti domestici, ad incrementare ulteriormente di circa un 30% il loro
coinvolgimento. L’aumento di solito avviene dopo il primo figlio, mentre c’è per tutti un minore
margine per incrementare la frequenza dei lavori domestici dopo il secondo e il terzo figlio6.
Forti asimmetrie secondo il genere caratterizzano anche la cura dei figli. Nei primi tre anni di vita,
in circa la metà dei casi, sono le madri che si occupano prevalentemente del figlio durante il
giorno, con proporzioni crescenti secondo l’ordine di nascita del figlio. Per l’altra metà delle madri,
la cura quotidiana diurna è affidata in proporzione quasi equivalente o ai nonni o altri familiari o
invece a baby-sitter o asili7).
5
Confronti dettagliati con le altre indagini non sono possibili perché qui non si hanno misure oggettive sui
tempi e la qualità dei compiti svolti, ma solo una valutazione generica della partecipazione maschile tratta da
giudizi generali delle donne in termini di scala di valore. Le informazioni raccolte sono di tre tipi: valutazioni a
posteriori espresse in termini di scale di valore (ad esempio: il tempo libero della donna intervistata nel
periodo della vita di coppia senza figli può essere valutato come “molto”, “abbastanza”, “poco” o
“pochissimo”); valutazioni comparative tra le caratteristiche della rispondente e quelle del proprio partner (ad
esempio: il tempo libero del partner nel periodo di coppia senza figli può essere valutato come “molto di più”,
“un po’ di più”, “uguale” o “molto di meno” di quello della rispondente); valutazioni delle variazioni dopo
l’arrivo di ciascun figlio riguardo al tempo libero dei genitori e alla partecipazione del padre ai compiti
domestici e a quelli di cura dei figli (ad esempio: il tempo libero delle donne può essere valutato come “più di
prima”, “come prima”, “meno di prima” o “molto meno di prima”).
6
Questo è dovuto ovviamente a quote marginali decrescenti di tempo ancora a disposizione, ma è probabile
che dipenda anche dalle tendenza di alcuni padri a lavorare di più all’aumentare della dimensione familiare,
forse le necessità economiche conseguenti alla maggiore dimensione familiare o forse semplicemente per
motivi legati alla carriera lavorativa (si veda il successivo paragrafo per la quantificazione del fenomeno nel
campione esaminato).
7
Non c’è modo, con le informazioni rilevate, di capire in che proporzione siano attuati diversi sistemi di cura
dei figli. Ciò sarebbe stato importante soprattutto per capire l’organizzazione delle donne che hanno
dichiarato di aver continuato a lavorare e allo stesso tempo di essersi occupate prevalentemente in prima
persona del figlio, nei primi tre anni di vita.
4
Le donne hanno anche dichiarato, indipendentemente dall’attore prevalente della cura diurna,
quanto il padre si è occupato di ciascun figlio8 (si veda tabella 2). Ciò è avvenuto “spesso” o “molto
spesso” all’incirca nel 40% dei casi (per tutti gli ordini di nascita). Tale percentuale cresce di
qualche punto per i padri con partner “sempre” lavoratrice (sebbene oltre il 10% degli uomini non si
sia mai occupato dei figli, sebbene la moglie lavoratrice) e scende ben al di sotto del 30% per padri
con partner non lavoratrice. Nella cura dei figli da parte dei padri non c’è una differenza rilevante
secondo la parità. Nelle coppie a doppio reddito, invece, la partecipazione alla cura dei figli
aumenta un poco con gli ordini di nascita, ma soprattutto tende nettamente ad aumentare con il
titolo di istruzione dei padri9.
Tra le donne “sempre” lavoratrici abbiamo poi contrapposto – in un modello di regressione
logistica- quelle con un partner che svolgeva i compiti domestici con una certa frequenza (coppie
simmetriche, o per lo meno tendenti alla simmetria), rispetto a quelle non paritarie (con partner che
non svolgevano mai lavori di casa o solo in qualche occasione). I fattori significativi sulla simmetria
dell’organizzazione della coppia rispetto ai compiti domestici sono pressappoco gli stessi sia prima
che dopo la nascita dei figli (si veda la tabella 3). L’organizzazione simmetrica (o per lo meno la
tendenza verso tale situazione) è una prerogativa delle donne più istruite (soprattutto la laurea è
molto significativa), con un partner più frequentemente di titolo di studio intermedio, con
un’occupazione di tipo impiegatizio10. Uomini con occupazioni di tipo elevato, e laureati, sono
meno coinvolti nei lavori domestici. Essi potrebbero corrispondere bene alla tipologia di padri
“coinvolti in teoria” di Giovannini (1998), cioè con ideali paritari ma con pochissimo tempo, ma è
comunque difficile dire quanto queste coppie siano relativamente più o meno simmetriche rispetto
alle altre, perché non ci sono informazioni sugli aiuti esterni a pagamento, probabilmente frequenti
nelle famiglie che hanno alti livelli di reddito. La religione, fattore significativo, sembra una proxy di
una sorta di effetto “altruistico”: a parità di tutti gli altri fattori considerati, le coppie dove gli uomini
sono più praticanti sono le più simmetriche, mentre se sono le donne ad essere praticanti, i ruoli di
genere sono più tradizionali e asimmetrici. Sono più frequentemente paritarie le coppie che
coabitano o hanno coabitato prima del matrimonio, probabilmente perché questo comportamento è
già di per sé segnale di una minore adesione ai valori tradizionali nella concezione della famiglia.
Le condizioni economiche non sembrano di per sé influenzare molto la ripartizione per genere del
lavoro non remunerato, anche se comunque buone condizioni economiche, o condizioni migliorate
dopo la nascita del primo figlio, hanno un effetto positivo sulla simmetria.
8
Qui nella domanda era proprio specificato il senso “pratico” della cura: “cambiarlo, dargli da mangiare,
metterlo a dormire, alzarsi di notte”.
9
Da recenti studi negli Stati Uniti è emerso lo stesso risultato: il livello di coinvolgimento dei padri con figli (in
termini di cura, educazione, tempo speso con loro) dipende più che altro dal loro livello di istruzione (e
aumenta all’aumentare di questo) e con il livello di reddito individuale delle madri (si veda Yeung and
Stafford, 2003 e Sayer et al., 2003).
10
Questo conferma, almeno in parte, i risultati di Grillo e Pinnelli 1999 e Micheli 2002.
5
Del resto la simmetria dei ruoli sembra in parte un adattamento, compiuto da parte degli uomini
solo perché necessario, probabilmente di fronte al poco tempo a disposizione delle loro partner
lavoratrici o per il notevole aumento dei compiti domestici conseguente alla nascita di un figlio:
prima della nascita dei figli, infatti, se la donna ha un lavoro per il quale “può scegliere liberamente
quando lavorare”, questo risulta un elemento associato ad una minore simmetria dei compiti
domestici. Messina, tra le realtà urbane dove sono stati raccolti i dati, è il contesto con una
divisione dei compiti domestici più tradizionale e asimmetrica, confermando una già nota
differenziazione del Meridione d’Italia (Cfr. ad esempio Sartori 2002).
Grafico 1: Tipologia di organizzazione familiare, in relazione al lavoro in casa e fuori,
nel periodo di vita di coppia in assenza di figli (valori percentuali).
8
paritaria
6
67
collaborativa
49
Madri "sempre" lavoratrici
Tutte le madri
25
20
"doppio-peso"
0
tradizionale
25
0
20
40
60
6
80
Tabella 1. Partecipazione dei padri ai lavori domestici (partner di donne “sempre” lavoratrici):
mutamenti all’arrivo dei figli
Prima dei figli
Dopo l’arrivo del figlio
Mai o solo in
qualche
occasione
(65.9%,
N=1037)
Abbastanza
spesso
o
molto spesso
(34.1%,
N=537)
+ di prima
= a prima
- di prima
Tot
N
+ di prima
= a prima
- di prima
Tot
N
Donne con
1 figlio
Dopo il 1°
21.3
60.0
9.7
100
289
31.9
61.0
7.1
134
100
Donne con 2 figli
Dopo il 1°
26.4
66.2
7.4
100
578
32.5
60.1
7.4
337
100
Dopo il 2°
18.9
65.9
15.2
100
594
21.4
59.0
19.6
332
100
Donne con 3 figli
Dopo il 1°
21.7
73.6
4.7
100
148
29.0
63.0
8.0
66
100
Dopo il 2°
19.6
71.1
9.3
100
153
22.7
71.0
6.3
65
100
Dopo il 3°
22.1
66.1
11.8
100
154
17.4
67.0
15.6
64
100
Tabella 2. Partecipazione dei padri alla cura dei figli (partner di donne “sempre” lavoratrici):
confronto per ordine di nascita e parità
Si prendeva cura Donne con 1
Donne con 2 figli
del figlio
figlio
Primogenito
Primogenito
Secondogenito
Mai
18.2
11.5
11.7
A volte
39.4
40.2
41.1
Spesso o molto
42.4
48.3
47.1
spesso
Tot
100
100
100
N
457
951
955
7
Donne con 3 figli
Primogenito
13.3
42.7
44.0
Secondogenito
11.2
49.1
39.7
100
224
100
223
Terzogenito
9.6
42.0
48.4
100
223
Tabella 3. Tendenza alla simmetria nei lavori di casa per le madri “sempre” lavoratrici,
prima e dopo la nascita dei figli (risultati dell’analisi di regressione)
Prima della nascita dei figli
Il partner faceva lavori di casa
Abbastanza o molto spesso
(Y=1) 601
Mai o solo in qualche occasione
(Y=0) 1342
Coefficienti
Odds ratio
-2,01
Var. dipendente
Variabili espl.
Intercetta
Città di residenza
Modalità
(Rif : ME)
FI
PD
PS
UD
Titolo di studio
(rif. <= terza media)
donna
diploma
laurea
Titolo di studio
(rif. <=terza media)
partner
diploma
laurea
Religiosità
(rif. praticante)
donna
mai
qualche volta
Religiosità partner (rif. praticante)
mai
qualche volta
Se coabita o ha
coabitato in
passato
Ottime o buone
condizioni ec.
Condizioni ec
(rif. immutate)
famiglia dopo 1°
Migliorate
figlio
Peggiorate
Se la madre della
donna lavorava
dopo nascita figli
Tipo occupazione (rif. alta)
partner
impiegato o insegn inf.
Altro
Tipo orario lavoro (rif. rigido)
donna
flessibile
poteva scegliere
Numero dei casi
*** p <= .001
**
.001< p <= .005
0,83
0,69
0,44
0,92
Dopo la nascita del 1° figlio
Il partner faceva lavori di casa
Già prima o incrementato
(Y=1) 5811
Né prima né incrementato
(Y=0) 1191
Coefficienti
Odds Ratio
-2,25
***
***
**
***
2,31
1,99
1,56
2,52
0,94
0,74
0,60
0,87
***
***
**
***
2,56
2,08
1,81
2,38
0,31 **
0,72 ***
1,36
2,06
0,52 ***
0,78 ***
1,69
2,19
1,36
0,98
0,18 *
0,07
1,20
1,08
1,70
1,09
0,61 **
0,07
1,85
1,07
0,57
0,62
1,19
-0,05 **
-0,19
0,04
0,63
0,82
1,05
0,15
-0,12 *
1,21
0,92
0,26 **
-0,01
0,52 ***
0,08
-0,57 **
-0,47 **
0,18 *
0,04
1,07
0,08 *
1,2
0,24 *
0,26 *
1,27
1,31
0,04
-0,21 *
1943
1,00
0,68
* .005 < p <= .1
8
0,57 ***
0,30 **
0,13
-0,15
1772
1,77
1,36
1,13
0,84
1.3 La rivoluzione dei tempi alla nascita dei figli
La divisione prevalentemente asimmetrica per genere, anche per le coppie a doppio reddito, dei
compiti domestici e di cura dei figli, si riflette inevitabilmente nell’organizzazione del tempo
individuale delle donne intervistate e dei loro partner. Da varie fonti (Indagini Multiscopo, Seconda
Indagine sulla Fecondità in Italia 1996, Indagine Sociale Lombarda 2000, Rapporti IARD), pur in
presenza di cambiamenti non trascurabili, emerge la persistenza in Italia di una netta
polarizzazione tra ruolo riproduttivo per le donne e produttivo per gli uomini. L’Italia è una delle
nazioni sviluppate dove i livelli di fecondità sono tra i più bassi del mondo, ma dove le donne
hanno una media di ore di lavoro, sommando il lavoro retribuito e non, del 27% in più degli uomini
(dati relativi al 1995, UNDP 1995 e 1999). Esiste una netta diversità tra donne e uomini rispetto
alla proporzione di lavoro retribuito (34% femminile e 66% maschile) e lavoro non retribuito (le
proporzioni per genere si invertono esattamente). In uno studio comparativo sui paesi della
Comunità Europea, dai dati relativi al 1997, l’Italia si trova, insieme a Grecia e Paesi Bassi11, in
fondo alla classifica sull’eguale distribuzione per genere di lavoro pagato e non pagato (Plantega e
Hansen 1999). Inoltre, mentre l’organizzazione dei tempi femminili è notevolmente influenzata
dall’entrata in unione, dalla presenza nella famiglia di bambini e dello stesso partner12, quella degli
uomini rimane pressoché identica nelle diverse situazione familiari. Per le donne lavoratrici con un
figlio piccolo questo si traduce quotidianamente in 3 ore e 20 minuti in media di lavoro in più
dedicato alle attività domestiche e familiari (Palomba e Sabbadini 1997).
I dati della nostra indagine evidenziano come quasi tre quarti delle madri, nell’anno precedente
l’arrivo del primo figlio, hanno avuto “molto o abbastanza” tempo libero. Questa proporzione
rimane quasi inalterata anche confrontando il gruppo di donne che non ha mai lavorato con quelle
che hanno sempre lavorato (solo due punti percentuali di differenza). La percezione della quantità
di tempo libero (perché in assenza di misurazioni quantitative di questo si tratta) è maggiore per le
donne più istruite, di buone o ottime condizioni economiche, che fanno lavori più impegnativi
(addirittura di più di quelle che non lavorano). Oltre che da una possibile diversa
concettualizzazione di che cosa sia il tempo libero, ad esempio secondo gli stili di vita, questo
risultato potrebbe essere frutto del maggior ricorso ad aiuti esterni, che “liberano” tempo altrimenti
necessario per le normali attività domestiche. Riferendosi all’anno precedente alla prima nascita,
11
La classifica dei 15 paesi appartenenti alla Comunità Europea nel 1997 è stilata attraverso un indice
composito di sei indicatori che riguardano il tasso di occupazione femminile rispetto a quello maschile, il
tasso di occupazione dei madri con figli al di sotto dei 7 anni rispetto a quello dei padri; il tasso di
concentrazione delle donne in posizioni lavorative elevate; i differenziali salariali per genere; la proporzione
di donne, rispetto a quella degli uomini, che guadagnano meno della media del salario nazionale medio; le
differenze per genere di tempo speso nella cura dei figli o di altri familiari.
12
Per le donne, il divorzio, ad esempio, porterebbe in media ad una riduzione del carico domestico
(Palomba 1997).
9
circa la metà delle donne intervistate giudica il tempo dei loro partner maggiore del proprio, il 35%
uguale e il 15% minore13.
L’impatto della nascita dei figli sul tempo libero delle madri è ovviamente rilevante: in generale per
circa 56% delle donne il tempo per se stesse è ”meno di prima” e per il 31% “molto meno” di prima
dopo il primo figlio. Il tempo di cura dei figli entra in concorrenza con il tempo libero e con il tempo
anche per il lavoro. Ovviamente sono le donne lavoratrici a contrarre di più la porzione di tempo
libero, (oltre il 90% dei casi). La contrazione del tempo è, relativamente alla situazione pregressa,
comunque più rilevante per il primo figlio (si veda tabella 4 per un’analisi per parità). A tale
situazione le donne lavoratrici reagiscono, almeno in un quarto dei casi, diminuendo il tempo per il
lavoro (si veda tabella 6), tanto di più se c’è flessibilità di orario o la donna ha libertà di scegliere
quando lavorare. Anche in questo caso i margini di aggiustamento sono probabilmente limitati,
tanto che la variazione negativa è più elevata per il primo figlio.
Secondo le donne intervistate, anche per i padri (nel 46% dei casi) il tempo libero tende a contrarsi
con la nascita dei figli. La compressione dei tempi maschili è maggiore se la donna lavora, per i
padri di titolo d’istruzione più elevato e per gli uomini che, già prima dei figli, avevano poco tempo
(o che comunque non avevano più tempo delle partner; si veda nel dettaglio la tabella 5). Per gli
uomini, nel corso della vita familiare, la paternità sembra influenzare non tanto il tempo dedicato ai
compiti familiari quanto quello per il lavoro retribuito. La nascita di un figlio (o di un figlio in più) per
gli uomini, più spesso che per le donne, coincide infatti con un aumento delle ore di lavoro. Questa
tendenza cresce per i figli di ordine successivo per i padri con parità finale più elevata, e con un
lavoro con orario rigido. I padri con orari di lavoro flessibile sperimentano invece un incremento più
forte dopo il primo figlio e incrementi invece decrescenti, sia secondo l’ordine di nascita dei figli che
secondo la parità finale raggiunta (si veda tabella 7).
L’impegno delle donne nel mercato del lavoro in una certa misura favorisce una maggiore
condivisione dei partner nei ruoli domestici e di cura dei figli. Anche per le coppie a doppio reddito,
il sistema di genere appare prevalentemente di tipo tradizionale costringendo le donne che, per
vari motivi non sono propense ad abbandonare il mercato del lavoro, a contrarre in maniera
sostanziale il tempo per sé e il tempo per il lavoro retribuito (ovviamente quando l’orario di lavoro
non è rigido)14.
13
Inserendo in un modello di regressione la consonanza dei tempi di vita tra partner, il tempo libero maschile
è giudicato uguale al tempo femminile con più frequenza al crescere del titolo d’istruzione dell’uomo.
14
Qui si confermano pienamente, dal punto di vista descrittivo, tutti i risultati di altre indagini relative al
contesto italiano (Palomba e Sabbadini, 1995 e 1997; Grillo e Pinnelli, 1999).
10
Tabella 4. Il tempo libero delle madri “sempre” lavoratrici: mutamenti dopo la nascita dei figli
Prima dei figli
Molto
abbastanza
(74.5%
N=1283)
Poco
pochissimo
(25.5%,
N=439)
Dopo l’arrivo dei figli
o + di prima
= a prima
- di prima
, Molto – prima
Tot
N
o + di prima
= a prima
- di prima
Molto – prima
Tot
N
1 figlio
Dopo il 1°
Dopo il 1°
0.6
0.1
7.0
4.7
54.7
60.7
37.7
34.5
100
100
363
741
4.2
1.0
8.6
14.4
53.9
53.7
33.3
30.9
100
100
111
259
2 figli
Dopo il 2°
Dopo il 1°
0.3
0.4
7.6
8.7
47.9
62.7
14.2
28.2
100
100
740
179
0.9
4.7
14.1
21.6
48.8
48.7
36.2
24.9
100
100
257
69
3 figli
Dopo il 2°
Dopo il 3°
0
1.0
10.0
10.9
56.3
30.1
33.7
58.0
100
100
179
179
4.7
3.12
20.5
16.1
39.1
29.9
35.7
50.8
100
100
68
68
Tabella 5. Il tempo libero dei padri (partner di donne “sempre” lavoratrici): mutamenti dopo la nascita
dei figli
Partner di donne che hanno
sempre lavorato (n=1597)
Prima dei figli Dopo l’arrivo del figlio
Molto o un + di prima
po’ + di lei
= a prima
- di prima
(51%,
To
N=814)
N
= a lei
+ di prima
= a prima
(37.2%,
- di prima
N=594)
Tot
N
Molto o un + di prima
po’ - di lei
= a prima
- di prima
(11.8%,
Tot
N=189)
N
1 figlio
Dopo il 1°
5.7
60.5
33.8
100
240
0.0
48.1
51.9
100
152
0.0
28.1
71.9
100
49
2 figli
Dopo il 1°
1.4
56.9
41.7
100
460
0.4
37.3
62.4
100
367
1.6
31.8
66.6
100
105
Dopo il 2°
2.9
49.6
47.5
100
458
1.4
35.6
63.1
100
364
0.6
34.9
64.5
100
109
3 figli
Dopo il 1°
3.1
60.7
36.22
100
112
1.4
45.0
53.6
100
75
4.9
39.2
55.9
100
31
Dopo il 2°
1.6
55.6
42.8
100
111
0.0
43.9
56.1
100
75
0.0
37.6
62.4
100
30
Dopo il 3°
3.3
47.2
49.5
100
114
x
30.0
70.0
100
72
2.2
34.9
62.9
100
31
Tabella 6. Orario di lavoro retribuito delle madri “sempre” lavoratrici (secondo la tipologia di orario
rigido o flessibile): mutamenti dopo la nascita dei figli
Orario di lavoro Dopo all’arrivo dei 1 figlio
prima dei figli
figli
Dopo il 1°
Rigido
+ di prima
7.1
= a prima
63.6
(65.6%,
- di prima
29.3
N=1026)
Tot
100
N
283
Flessibile o poteva + di prima
9.3
scegliere
= a prima
51.1
- di prima
39.6
(34.4%,
Tot
100
N=539)
N
161
Dopo il 1°
4.3
71.6
24.1
100
588
8.3
63.6
28.1
100
308
11
2 figli
Dopo il 2°
7.6
68.4
24.0
100
602
13.1
64.1
22.8
100
304
Dopo il 1°
10.3
73.6
16.1
100
139
6.5
65.9
27.6
100
69
3 figli
Dopo il 2°
9.0
74.5
16.5
100
141
4.3
83.2
12.5
100
70
Dopo il 3°
8.5
68.0
23.4
100
140
12.5
63.2
24.2
100
69
Tabella 7. Orario di lavoro retribuito dei padri (partner di donne “sempre” lavoratrici), secondo la
tipologia di orario rigido o flessibile: mutamenti dopo la nascita dei figli
Orario di lavoro Dopo all’arrivo
prima dei figli
dei figli
Rigido
+ di prima
= a prima
(55.1%,
- di prima
N=164)
Tot
N
Flessibile o poteva + di prima
scegliere
= a prima
- di prima
(44.9%,
Tot
N=697)
N
1 figlio
Dopo il 1°
12.1
85.6
2.3
100
217
22.7
67.4
9.9
100
203
Dopo il 1°
12.8
86.2
1.0
100
513
28.4
64.8
6.7
100
394
2 figli
Dopo il 2°
23.6
74.5
1.8
100
514
18.1
64.8
17.1
100
404
Dopo il 1°
20.6
78.0
1.4
100
124
20.4
73.0
6.6
100
86
3 figli
Dopo il 2°
23.8
75.1
1.1
100
122
14.4
79.5
6.1
100
90
Dopo il 3°
26.0
71.2
2.8
100
126
16.2
75.0
8.8
100
87
2. La bassa fecondità: adattamento e ricerca del tempo perduto?
2.1 La bassa fecondità e l’equità di genere all’interno della famiglia
La ripartizione per genere dei tempi e dei compiti familiari può avere effetti sulla fecondità e in
particolare implicare la ricerca volontaria di una bassa o bassissima fecondità? Il modello classico
della transizione non analizza come la bassa fecondità sia legata ai cambiamenti nelle relazioni tra
i generi (Presser e Das 2002). Taluni hanno sostenuto che il complesso processo di
emancipazione femminile conduce di per sé alla bassa fecondità anche in contesti posttransizionali, e che quindi non sia possibile conciliare l’eguaglianza tra i generi e una fecondità non
bassa (Keyfitz 1987). È ovvio che una più alta partecipazione al lavoro delle donne è legata in
generale a più bassi livelli di fecondità, ma tale conclusione appare incompleta senza considerare
il rapporto tra i partner, il grado di egualitarismo esistente, i ruoli dentro e fuori casa e la
motivazione prevalente per il lavoro femminile (ad esempio se le donne lavorano solo per problemi
economici o no; Mathews 1999). Non è difficile osservare, infatti, che, tra i paesi sviluppati sono
proprio quelli con una bassissima fecondità ad avere un sistema di genere meno equo rispetto ai
paesi a fecondità relativamente più alta (contrapponendo quindi i paesi del Sud con quelli del Nord
Europa; McDonald 2000; si veda grafico 2). McDonald (2000a, b) ritiene che la bassissima fecondità
possa essere frutto soprattutto di uno iato che si è creato in alcuni paesi sviluppati tra “alti livelli di
equità di genere nelle istituzioni che hanno a che fare con gli individui”, cioè in particolare nel
sistema di istruzione e nel mercato del lavoro, e “bassi livelli nelle istituzioni che hanno a che fare
con le persone come membri delle famiglie”, cioè in particolare nella divisione dei compiti
domestici e di cura15.
15
Tutto ciò è coerente anche con una lettura in termini di razionalità economica dell’evoluzione della
fecondità: l’era del “baby-boom” può essere interpretata come una conseguenza della prevalenza del
modello “bread-winner”, accettato sia da parte della famiglia che di tutte le istituzioni sociali ed economiche.
12
Da una parte, infatti, anche nei paesi del Sud Europa, c’è stato un aumento straordinario dei livelli
d’istruzione femminile, tanto che le coorti più giovani di donne hanno livelli medi più alti di quelli dei
coetanei maschi (ad esempio in Italia già a fine anni ’90 circa il 55% dei laureati era di sesso
femminile, dati Istat). Le donne sono istruite secondo gli stessi standard degli uomini e per il
mercato del lavoro (pagato) esattamente come gli uomini. Di conseguenza è ovvio che una
proporzione sempre più alta di giovani donne, istruite, non costruisca più la propria “identità”
sociale solo attraverso il matrimonio e la famiglia, ma voglia anche lavorare, conquistare
l’autonomia economica, ricoprire anche altri ruoli rispetto a quello di moglie e madre (Piazza 2000
e 2003). Dall’altra parte, a questa crescente eguaglianza fuori della famiglia non ha corrisposto la
stessa tendenza all’interno delle relazioni di coppia e delle famiglie. Nei paesi dove gli
atteggiamenti delle famiglie sono rimasti più vicini al modello “male bread-winner”, dove il lavoro
femminile trova limitazioni dalla mancanza di servizi di supporto alla famiglia, e dove
l’organizzazione sociale rende difficile combinare lavoro e famiglia, i tassi di fecondità sono colati a
picco (McDonald 2000b). Le opportunità per le donne in campo lavorativo possono infatti essere
severamente compromesse proprio dall’avere figli (Scisci e Vinci 2002), e questa situazione, di per
sé, può spingere alcune donne a ridurre il numero di figli o addirittura a rinunciare alla maternità16.
Grafico 2: Associazione tra Tasso di Fecondità Totale (di periodo) e indice composito di
17
“empowerment” femminile (UNDP, 2000).
16
In uno studio qualitativo sulle donne canadesi una parte delle donne più attente all’egualitarismo ha scelto
la strada di rinunciare volontariamente alla maternità per mantenere un’organizzazione familiare simmetrica
e per evitare la netta divisione di ruoli maschili e femminile, considerata peraltro da queste stesse donne
inevitabile dopo la nascita dei figli per via di costrizioni esterne (Mathews 1999). L’effetto reciproco tra ruoli di
genere e formazione della famiglia è dimostrata anche in Moors 2003.
17
L’indice “GEM”-gender empowerment measure- è costruito sulla base di indicatori della partecipazione
delle donne alla vita politica ed economica di ciascun paese.
13
2.2. La gestione del tempo e le scelte riproduttive nelle coppie a doppio
reddito: padri attivi e un figlio in più
Se esiste una relazione, nei paesi sviluppati, tra asimmetria di genere all’interno delle famiglie e
bassa fecondità, la principale ipotesi da verificare è se le donne che lavorano e
contemporaneamente sperimentano in famiglia l’assenza di ruoli simmetrici e di un’organizzazione
condivisa dei compiti domestici e di cura, hanno una più bassa fecondità rispetto alle donne
lavoratrici con una minore compressione dei tempi e una maggiore partecipazione dei partner
all’organizzazione familiare18.
Abbiamo preso in considerazione tutti gli elementi relativi all’organizzazione familiare e dei tempi di
vita fin qui analizzati (la quantità di tempo libero della donna e del suo partner prima della nascita
dei figli e le variazioni successive; la partecipazione del partner ai lavori domestici prima della
nascita del figlio e le variazioni; la partecipazione del partner alla cura dei figli; le variazioni
dell’orario di lavoro di entrambi i genitori successive alla nascita dei figli), nonché le condizioni
economiche della famiglia e le sue variazioni e alcune variabili di background di entrambi i partner.
Con modelli di regressione logistica è stata calcolata la probabilità per le madri “sempre lavoratrici”
che hanno avuto un figlio di passare al secondo e poi al terzo.
I risultati sembrano verificare l’ipotesi iniziale18 (si veda tabella 8): nel gruppo delle donne “sempre”
lavoratrici ci sono molte variabili relative al comportamento paterno che hanno, ceteris paribus,
effetti significativi sulla probabilità di avere un secondo figlio. Esse sono l’incremento della
partecipazione ai lavori domestici dopo la nascita del figlio (e risulta più importante la variazione
positiva dell’impegno, piuttosto che la quantità di tale impegno prima della nascita dei figli); la
frequente partecipazione del padre alla cura quotidiana del figlio neonato; l’aggiustamento del
tempo nel senso di una contrazione del proprio tempo libero19. Il giudizio sulla quantità del tempo
per sé da parte delle donne, e le sue variazioni alla nascita del primo figlio, non risultano invece
18
Ovviamente l’offerta lavorativa delle donne potrebbe essere vista anche come una variabile esogena
rispetto al modello considerato, in quanto alcune donne potrebbero lavorare di più proprio perché vogliono
pochi figli.
18
Nell’analizzare la probabilità di passaggio al secondo e al terzo figlio delle madri intervistate si sono
considerati vari modelli, ad esempio donne che hanno sempre lavorato e casalinghe e tre modelli separati
per tutte le donne, le sole donne di Messina, le rimanenti (nelle tabelle 8 e 9 sono riportati solo i risultati del
modello con tutte le donne lavoratrici). I migliori adattamenti di entrambi i modelli si ottengono escludendo
dall’analisi le donne messinesi: la città di Messina sembra differenziarsi per più alti livelli di fecondità, bassa
partecipazione lavorativa delle donne ed estrema adesione alle norme tradizionali del sistema di genere,
rispetto alle altri cinque città considerate, localizzate tutte nelle regioni del centro-nord Italia.
19
Dai dati della Seconda Indagine sulla Fecondità (INF-2) solo tra le casalinghe e le attive ultraquarantenni
(ma non tra le più giovani) alcune dimensioni legate a partner più collaborativi aumentavano la probabilità di
fare almeno due figli.
14
statisticamente significativi (del resto diminuisce moltissimo per tutte), mentre è più probabile che
abbiano un secondo figlio le donne che non hanno diminuito, in conseguenza della nascita del
primogenito, l’orario di lavoro.
Significativo sulla probabilità di avere il secondo figlio anche il ricorso ai nonni o anche a servizi per
l’infanzia o baby-sitter, come metodo prevalente di cura dei figli durante i primi 3 anni.
La probabilità di passare al secondo figlio è anche positivamente associata a caratteristiche
esplicative ormai “classiche” nel contesto italiano, quali la religiosità di entrambi i genitori, la
residenza nella città di Messina piuttosto che nelle città considerate del centro-nord, l’istruzione più
elevata del padre (tipica proxy del reddito) e il miglioramento delle condizioni economiche della
famiglia nel periodo successivo al primo figlio (mentre non sono significative le condizioni
economiche di partenza della coppia).
Gli effetti sulla probabilità di passare dal secondo al terzo figlio (si veda tabella 9), per le donne
“sempre” lavoratrici, sono simili a quelli evidenziati per la parità precedente per quando riguarda
l’effetto positivo della partecipazione attiva da parte dei padri alla cura del figlio, in questo caso il
secondo, alla contrazione del tempo libero paterno e alla sua partecipazione ai lavori domestici
(per lo meno alla non diminuzione). Le madri che hanno dovuto diminuire il proprio orario di lavoro
in conseguenza della seconda nascita hanno avuto meno frequentemente il terzo figlio. Di nuovo
significativamente positivi, ceteris paribus, sono gli effetti della religiosità di entrambi i genitori e
dell’istruzione del padre (in questo caso, per avere il terzo figlio, di quella bassa).
15
Tabella 8. Probabilità di passaggio al secondo figlio per le donne che hanno sempre lavorato
Variabile dipendente
Donne che hanno avuto 2 figli
(Y=1)
Donne che si sono fermate a 1 figlio
(Y=0)
Modalità
Coefficienti
0,22
(Rif.ME)
FI
-1,12 ***
PD
-0,86 ***
PS
-0,58 **
UD
-1,02 ***
Variabili esplicative
Intercetta
Città di residenza
Età
Titolo di studio del partner
Religiosità della donna
946
343
Odds Ratio
0,32
0,42
0,56
0,36
0,02 *
(rif. <= 3° media)
diploma
laurea
0,02
0,46 **
1,03
1,57
(rif. praticante)
mai
qualche volta
-0,41 *
-0,22
0,66
0,80
(rif. praticante)
mai
qualche volta
-0,38 *
-0,18
0,68
0,83
Variazione orario di lav della donna
dopo il 1°f.
(rif.: immutato)
aumentato
diminuito
-0,29
-0,43 **
0,75
0,65
Variazione orario del partner
dopo il 1° f.
(rif.: immutato)
aumentato
diminuito
-0.13
-0,06
0,87
0,94
Chi si occupava prevalentemente del
1°f. nei primi 3 anni
(rif.: la madre)
asilo o babysitter
nonni o altri fam.
padre
0,28 *
0,30 *
-0,35
1,32
1,36
0,69
Il padre si prendeva cura del 1° f.
(rif.: mai)
a volte
spesso o molto spesso
0,35 **
0,43 **
1,42
1,53
(rif.: immutati)
+ di prima
- di prima
0,16
0,04
1,17
1,03
Variazione tempo libero del partner dopo il (rif.: immutato)
1° f.
+ di prima
- di prima
-0,27
0,20
0,71
1,15
0,16
-0,21
1,17
0,81
Religiosità del partner
Lavori di casa del partner dopo 1° figlio
Variazione condiz. ec. famiglia dopo 1° f.
(rif.: immutate)
migliorate
peggiorate
Numero dei casi
*** p <= .001
1289
**
.001< p <= .005
* .005 < p <= .1
16
Tabella 9. Probabilità di passaggio al terzo figlio per le donne che hanno sempre lavorato
Variabile dipendente
Variabili esplicative
Intercetta
Città di residenza
Età
Titolo del partner
Religiosità della donna
Religiosità del partner
Variazione orario di lavoro della donna dopo
il 2°f.
Chi si occupava prevalentemente del 2°f.
nei primi 3 anni
Padre si prendeva cura del 2° f
Variazione nei lavori di casa del partner
dopo 2° f.
Variazione nel tempo libero del partner
dopo il 2° f.
Variazione condiz. ec. famiglia dopo 2° f.
Numero dei casi
*** p <= .001
Donne che hanno avuto 3 figli
(Y=1)
Donne che si sono fermate a 2 figli (Y=0)
Modalità
Coefficienti
-3,5
(Rif.: ME)
FI
-0,77
PD
-0,34
PS
-0,38
UD
-0,51
0,08
(rif.: <=3° media)
diploma
-0,19
laurea
-0,19
(rif.: praticante)
mai
-0,42
qualche volta
-0,26
(rif.: praticante)
mai
-0,58
qualche volta
-0,42
(ref.: immutato)
aumentato
-0,29
diminuito
-0,85
(ref.: la madre)
asilo o babysitter
-0,07
nonni o altri fam.
-0,17
Padre
-0,22
(ref.: mai)
a volte
-0,19
spesso o molto spesso
-0,33
(ref.: immutato)
+ di prima
0,12
- di prima
-0,63
(ref. immutato)
+ di prima
-0,26
- di prima
-0,01
(Ref. immutate)
migliorate
0,07
peggiorate
0,03
980
**
.001< p <= .005
* .005 < p <= .1
17
190
790
Odds Ratio
**
*
*
**
***
0,46
0,71
0,68
0,60
1,03
0,83
0,83
0,65
0,77
**
**
0,55
0,66
**
0,74
0,43
0,92
0,85
0,79
0,82
0,72
*
1,12
0,53
0,58
0,76
1,08
1,04
3. Il tempo perduto si può ritrovare? Possibilità e paradossi delle
politiche
L’analisi dei dati individuali dell’indagine sulle madri ha confermato, anche nei contesti urbani
considerati, che l’organizzazione familiare prevalente è quella di tipo tradizionale asimmetrica per
genere. Prima della nascita dei figli solo una minima parte (il 6% nel nostro campione) delle coppie
ha, secondo le informazioni raccolte dalle donne intervistate, un’organizzazione tendente alla
simmetria. Le implicazioni della nascita di un figlio sono in media negative in termini di uguaglianza
di genere nella coppia: i padri, dopo la nascita dei figli tendono piuttosto ad aumentare il tempo per
il lavoro remunerato, che quello speso nei compiti domestici o di cura dei figli. I risultati hanno
comunque permesso di evidenziare un progressivo adattamento verso un modello di
organizzazione familiare più egualitaria per genere di una parte delle coppie a doppio-reddito, più
frequentemente in quelle di elevato livello socioeconomico, con la donna d’istruzione universitaria
e l’uomo con un’occupazione di tipo impiegatizio. In queste coppie, la nascita di un figlio comporta
“una rivoluzione” dei tempi e delle attività individuali molto simile per entrambi i neogenitori.
Il risultato più importante delle nostre analisi, mai emerso con questa chiarezza per il contesto
italiano, riguarda però le conseguenze della mancata simmetria di genere sulla fecondità delle
coppie a doppio reddito. Fra le coppie con le donne in “costanza” di lavoro durante la vita
riproduttiva, una situazione di asimmetria dei ruoli di cura e dei compiti domestici sfavorevole ai
tempi femminili è associata, a parità di altri fattori quali istruzione, religiosità e partecipazione
lavorativa, ad una minore fecondità. Nelle coppie a doppio reddito, quindi, un sistema di
ripartizione dei compiti familiari più equilibrato per genere sembra favorire la fecondità, tanto che
sono le coppie con padri più attivi nella cura dei figli e compiti domestici, ad avere più
frequentemente un figlio in più. L’elemento più importante sembra la flessibilità, la capacità di
adattamento e la disponibilità da parte degli uomini ad una, seppure parziale, redistribuzione dei
compiti familiari di cura dei figli, di fronte alle nuove “emergenze”, in termini di tempi e compiti
familiari, conseguenti alla nascita di un figlio, con una “doppia presenza” anche maschile.
Ovviamente la fecondità delle coppie di tipo tradizionale, dove la madre non lavora, per lo meno
nei primi anni di vita dei figli, è più elevata anche di quella delle coppie a doppio reddito con
un’organizzazione familiare di tipo simmetrico. Il nostro risultato, fondato comunque su oltre la
metà delle coppie analizzate, avvalora l’ipotesi che per l’Italia, come per altri paesi a bassissima
fecondità dell’Europa mediterranea, una chiave di lettura della prevalente strategia in atto di
riduzione del numero dei figli sia l’impossibilità di conciliare lavoro e genitorialità in modo
egualitario per genere. La crescente partecipazione lavorativa delle donne, lo scarso adattamento
degli uomini a questi cambiamenti e la conseguente “doppia-presenza” solo femminile, in un
contesto sociale che continua a favorire la rete informale dei servizi di cura (sia per l’infanzia che
per gli anziani) e in un mondo del lavoro rimasto sordo ai nuovi bisogni delle famiglie, hanno
condotto a quella che è stata definita la “rivoluzione bloccata” della bassissima fecondità
18
(Hochschild 1989). Un sistema di genere più equilibrato potrebbe allora favorire una ripresa della
fecondità consentendo alle coppie di realizzare i propri desideri. Un deciso avanzamento nel
sistema di equità di genere è ostacolato, in Italia, come negli altro paesi mediterranei, da
impedimenti di natura strutturale, organizzativa e culturale (Zanatta 2002): da una parte da
abitudini e norme sociali che favoriscono il lavoro remunerato maschile rispetto a quello femminile,
dall’altra dalla carenza di offerta di servizi di cura e da un regime del mercato del lavoro non
sufficientemente flessibile.
In Italia il sistema di politiche sociali e familiari che riguardano la conciliazione tra famiglia e lavoro,
nel rispetto delle pari opportunità per genere, è altamente contraddittorio e frammentario
(Saraceno 2002), e ha continuato a promuovere norme che indirettamente influenzano in modo
negativo proprio la posizione lavorativa femminile (Trifiletti 1999). L’Italia risulta all’ultimo posto per
posizione delle donne nel mercato del lavoro (Plantega e Hansen 1999). Una situazione lontana
da quella dei paesi scandinavi, dove da anni le politiche sociali e familiari perseguono apertamente
il fine dell’uguaglianza fra i sessi, dando priorità alla crescita del lavoro familiare dei padri21, ormai
socialmente accettato, e incoraggiando le donne a partecipare al mercato del lavoro. Le politiche
sono state efficaci, tanto che il peso dei figli è più egualmente distribuito tra padri e madri, e tra
famiglia e comunità, rispetto a tutte le altre società occidentali.
Misure per favorire la realizzazione dei desideri di fecondità da parte dei genitori (che in l’Italia
sono molto più alti della fecondità realizzata) non possono allora trascurare politiche che
favoriscano esplicitamente le pari opportunità di uomini e donne in famiglia e nel lavoro che
promuovano l’equità di genere22. Va rimarcato del resto che anche politiche che non prendono
esplicitamente in considerazione il tema dell’uguaglianza di genere ma che influenzano i benefici
sociali e i tempi lavorativi non sono mai neutre rispetto alle relazioni sociali tra uomini e donna nel
lavoro e in famiglia. È ovvio pensare da una parte a politiche per il lavoro, in termini di
organizzazione dei tempi e dei congedi parentali, non legate al genere e, dall’altra, a misure di
potenziamento dell’offerta di servizi di cura per l’infanzia e gli anziani (McDonald 2000, Gershuny
2000, Piazza 1991; Plantega e Hansen 1999, Saraceno 2002, Zanatta 2002, Gauthier 2002)
Sono soprattutto le misure del secondo tipo che sembrano realizzare contemporaneamente
l’obiettivo dell’equità di genere, della conciliazione tra famiglia e lavoro e della realizzazione di
21
Tanto che, ad esempio, i giovani uomini norvegesi risultano accollarsi il 42% dei compiti familiari (Casey
2002).
22
Sono proprio questi i principi delle raccomandazioni della Comunità Europea: “l’obiettivo di perseguire la
parità tra uomini e donne è necessario per compensare lo svantaggio delle donne nelle condizioni di
accesso e partecipazione al mercato del lavoro e lo svantaggio degli uomini per le condizioni di
partecipazione alla vita familiare” (nel Trattato di Amsterdam del 1999, come riportato da Zanatta 2002).
L’unione europea parla di responsabilità parentali (e non materne), promuove la conciliazione tra lavoro e
famiglia per uomini e donne, vede la partecipazione degli uomini alla vita familiare come un vantaggio e un
diritto anche per gli uomini, un arricchimento personale, una risorsa in più per la propria identità
19
fecondità: da studi recenti è emerso che la fruizione dei servizi di infanzia, più che il ricorso ad
esempio al part-time da parte dei genitori, sembra aver un impatto diretto sulla probabilità di avere
un figlio in più23 (Baizan 2003).
Le misure di flessibilità o riduzione degli orari di lavoro, e le regole relative ai periodi di astensione
facoltativa24 e ai permessi per cura di familiari, sono altamente auspicabili e possono consentire
alle famiglie di adattare il proprio tempo rispetto alle esigenza del ciclo di vita, ma se rivolte
prevalentemente alle donne, esse hanno un impatto diretto sulle relazioni di genere, favorendo
differenziali di responsabilità nel lavoro domestico e inibendo, di fatto, la formazione del capitale
umano per le donne e, di conseguenza, le possibilità di equità di genere nel mercato del lavoro. Un
orario lavorativo più breve delle donne che ricorrono al part-time risulta in un loro maggiore
impegno nella gestione domestica, rendendo quindi la divisione del lavoro familiare ancora più
asimmetrica (Gershuny 1995, Estes et al. 200325).
Inoltre, in mercati del lavoro come quello italiano, dove c’è una sostanziale incomunicabilità tra
mercato del lavoro flessibile e mercato del lavoro stabile, il part-time favorisce secondo alcuni
(Perrons 1999, Saraceno 2002 e dati del Censis) un’ulteriore segregazione del mercato del lavoro
per genere, comportando un’elevata precarietà e scarse opportunità di promozione, non
consentendo né una redistribuzione del lavoro di cura né un cambiamento dei ruoli genitoriali.
L’uguaglianza di genere nel lavoro può essere raggiunta solo se c’è una politica complementare
sul lavoro (non pagato) di cura. Fino a che le responsabilità di cura continueranno ad essere viste
come un ambito privato, l’ineguale divisione del lavoro non pagato si tradurrà in un’inevitabile
ineguale posizione delle donne sul mercato del lavoro (Plantega e Hansen 1999)
Un esempio a questo proposito è quello dei Paesi Bassi (Veenis 1998), dove la mancanza di
politiche esplicite di cura è compensata da un regime di grande flessibilità dei tempi di lavoro
(senza grosse penalizzazioni salariali né in termini di carriera), che ha finito per favorire però una
forte disuguaglianza di genere nel lavoro non retribuito.
23
Proprio riguardo ai paesi del Sud Europa, un recentissimo studio (Baizan 2003) ha messo in chiara
evidenza, in generale, il lavoro part-time non ha un effetto positivo sulla probabilità di avere un secondo
figlio, mentre lo ha significativamente l’utilizzo si servizi per l’infanzia (in particolare l’uso di servizi a
pagamento, perché di migliore qualità e soprattutto più flessibili rispetto all’orario).
24
L’efficacia sui ruoli genitoriali dei congedi parentali anche per gli uomini resta, invece, per ora, data la
scarsa utilizzazione, meramente simbolica (Lanucara 2002).
25
Da dati di panel statunitensi emerge che se ad utilizzare le misure di flessibilità lavorativa o riduzioni di
orario sono gli uomini, non c’è nessun effetto sul loro coinvolgimento nei compiti domestici e, quindi, nessun
effetto redistributivo in termini di genere; se ad utilizzare le misure di flessibilità sono le donne l’effetto è che
esse stanno più a casa, aumentando la quantità di lavori domestici e di cura svolti, con una sproporzione
crescente di compiti familiari tra uomini e donne. Nel caso invece che i servizi di “childcare” siano presso il
datore di lavoro della madre sia del padre, l’effetto è quello di uno sgravio netto di lavoro di cura, con l’effetto
anche di una maggiore partecipazione lavorativa delle madri in termini di ore e con un conseguente effetto
perequativo sulla distribuzione dei compiti domestici per genere.
20
Il potenziamento dei servizi di cura legati a fasi e situazioni specifiche della vita, cioè in presenza di
bambini, anziani e disabili, è quindi a nostro avviso un importante elemento per la conciliazione tra
famiglia e lavoro in chiave di eguaglianza di genere e un tema di politica pubblica (l’esempio della
Gran Bretagna sembra dimostrare che il mercato da solo non sia capace di provvedere in maniera
efficiente, Gershuny 2000). In una società ad “alto valore aggiunto” di coppie con elevata
istruzione, poche donne sono preparate a rimanere a casa per fornire tali servizi su base informale
e non retribuita, e si può immaginare che pochi uomini vogliano prendere il loro posto. Nel nostro
paese la scarsità di servizi all’infanzia è nota e problemi di budget pubblico non contribuiscono a
creare un ambiente politico favorevole allo sviluppo di tali servizi sociali, ma anzi la soluzione
proposta a livello locale e governativo di fronte all’incremento della spesa sociale è proprio quella
di “ri-dare” alle famiglie questi compiti di cura (Saraceno 2002). Ovviamente non si può sostenere
contemporaneamente l’obiettivo di una maggiore uguaglianza tra i sessi e quello di cercare di
rafforzare la rete informale del lavoro di cura (Piazza 1991). Inoltre, spesso la fruizione e il costo di
asili o servizi vari per l’infanzia sono legati a criteri di selezione e graduatorie stilate in base al
reddito congiunto dei genitori, introducendo quindi indirettamente elementi a sfavore del lavoro
delle madri, con effetti di sostituzione tra reddito e lavoro femminile.
Un decisivo passo in avanti verso un sistema di genere più equo può essere compiuto solo con
l’aiuto di misure legislative che promuovano in modo attivo e diretto il coinvolgimento degli uomini
nelle attività domestiche e di cura – ad esempio periodi di congedi parentali riservati ai soli padri-.
Tali misure, se in un primo momento hanno essenzialmente una valenza simbolica, contribuiscono
in maniera rilevante a determinare quei cambiamenti di mentalità che a loro volta possono
condurre ad un effettivo mutamento dei comportamenti.
21
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