I pochi figli della famiglia forte - UniFI

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I pochi figli della famiglia forte - UniFI
I pochi figli della famiglia forte. Valori individuali e collettivi per
interpretare la bassissima fecondità italiana
GIANPIERO DALLA ZUANNA
DIPARTIMENTO DI SCIENZE STATISTICHE – UNIVERSITÀ DI PADOVA
1. Introduzione
Dal punto di vista strettamente economico, avere figli nel mondo ricco non
sembra avere molto senso. Caldwell ha mostrato come la modernizzazione
coincida quasi ovunque con l’inversione dei flussi generazionali di ricchezza: se
nell’antico regime prevalevano quelli dai figli verso i genitori, ora dominano
quelli dai genitori verso i figli1. I figli costano molto, sia se si guarda ai costi diretti che ai costi opportunità (vedi l’intervento di GUSTAVO DE SANTIS in questo
convegno) e la resa economica per i loro genitori, ammesso che ci sia, è remota e molto dilazionata nel tempo: essa si realizzerà se e quando i genitori non
saranno più in grado di provvedere a se stessi, ossia decine e decine d’anni
dopo l’investimento iniziale. Impiegando in una buona assicurazione privata gli
stessi quattrini spesi per allevare i figli, il risultato di garantirsi economicamente
dai rischi del declino fisico sarebbe molto più certo, non condizionato al buon
cuore e alle possibilità dei figli stessi.
Quindi, se le coppie guardassero solo alla mera convenienza economica, fra
cento anni nel ricco occidente non vivrebbe più nessuno2. Per capire come mai
nelle società a sviluppo avanzato continuano a nascere figli, è perciò necessario percorrere diverse strade interpretative. Dobbiamo comprendere come mai,
a un certo punto della vita, la stragrande maggioranza delle persone “sente il
bisogno” di avere un bambino, ossia di investire parte delle sue risorse (desideri, emozioni, tempo, denaro) nella procreazione: come mai fra le ragioni per cui
le persone dei paesi ricchi ritengono valga la pena di vivere, la procreazione
occupa ancora un posto molto importante? Già posto in questi termini il problema è abbastanza complicato. Le cose sono però ancora più complesse: infatti,
bisogna capire come e perché per alcune persone matura il desiderio di non volere figli, altri ne vogliono uno, altri ancora due, tre o (pochissimi oggi in Italia)
più di tre. Poi, si deve andare a vedere come mai per alcuni il numero di figli re1
Caldwell (1982).
Naturalmente, questa affermazione è vera se le migrazioni non sono in grado di riempire i
“vuoti” determinati dalla bassa fecondità. Alla fine del lavoro faremo cenno a un’interpretazione
dell’evoluzione demografica dell’Italia del Novecento, dove bassa fecondità ed immigrazioni interagiscono con la mobilità sociale, concorrendo a determinare i percorsi dello sviluppo socioeconomico (Dalla Zuanna e Michielin, 2003).
2
ale supera quello desiderato, per altri questo desiderio si realizza, totalmente o
parzialmente, mentre per altri ancora la genitorialità resta solo un sogno3.
È possibile meglio circostanziare queste domande per l’Italia di oggi. Ogni
anno migliaia di coppie con problemi di sterilità cercano di avere un figlio ricorrendo a tecniche – spesso penose e costose – di fecondazione assistita, e altre
migliaia fanno domanda di adozione, sottoponendosi anche loro a tour de force
spesso dispendiosi e logoranti. Nello stesso tempo, le donne italiane nate
all’inizio degli anni Sessanta hanno avuto in media meno di 1,6 figli a testa (appena 1,4 se restringiamo la nostra osservazione alle sole regioni del CentroNord), ossia il valore più basso del mondo. Prché quasi tutte le coppie italiane,
dopo aver cercato “a tutti i costi” di avere un figlio, si accontentano poi di averne
solo uno o, al massimo, due? Diciamo subito che ponendo questo tipo di problemi in un’ampia prospettiva non vogliamo affatto negare il ruolo rilevante delle
questioni economiche nel condizionare livelli e tempi della fecondità nei paesi
ricchi. Anzi, anticipando quanto illustreremo più avanti, a nostro avviso la persistente bassa fecondità italiana può essere interpretata guardando anche all’alto
costo dei figli per le coppie italiane, in gran parte giustificato dal desiderio di avere figli di altissima qualità.
Divideremo la trattazione in due parti. Nel secondo paragrafo ci occuperemo
dei fattori non economici di ordine individuale che possono portare a differenze
nella fecondità desiderata e realizzata. Nel terzo paragrafo tratteremo invece
dei fattori di ordine collettivo, dando particolare enfasi alla prospettiva interpretativa che dà il titolo a questo lavoro: i pochi figli della famiglia forte.
2. Determinanti individuali “non economiche” delle differenze di fecondità
2.1 Le ricerche sulla transizione di fecondità 1850-1970
Durante l’antico regime, le differenze nel numero di figli erano in larga misura
determinate dalle vicende nuziali e dalla pregressa storia riproduttiva: dall’età
alle nozze, socialmente definita e solo in parte legata a scelte individuali; dalle
vicende di vedovanza, dovute al livello assoluto e differenziale di mortalità maschile e alle diverse età alle nozze dei due coniugi; dai tempi di allattamento,
spesso dettati da norme collettive non scritte, da motivi di salute della donna o
dal livello della mortalità infantile; dalla sterilità secondaria, fortemente connessa a problemi di salute: nelle popolazioni passate e presenti a fecondità naturale, poiché l’età media delle donne all’ultimo nato raramente superva i 40 anni, a
quell’età metà delle donne era già sterile.
Con l’avvento della contraccezione parity specific, ossia variabile con il numero dei figli già nati, alcuni di questi fattori passano in secondo piano. Fino agli
anni Settanta, le ricerche demografiche misero in chiara evidenza gli influssi
della modernizzazione sul declino della fecondità nei paesi occidentali (e più
tardi nei paesi in via di sviluppo): le donne e le coppie investite dal benessere
sono anche quelle che più celermente abbassano la loro fecondità. In particolare, si nota una relazione negativa fra fecondità, istruzione, lavoro della donna e
3
Non vogliamo inserirci – in quasta sede – nella diatriba sul significato e l’utilità di espressioni
come numero di figli “atteso”, “desiderato”, “ideale”.
2
reddito4. Tuttavia, anche allora alcuni studiosi misero bene in luce l’effetto “autonomo” di alcuni fattori culturali5: in molti paesi la fecondità diminuì prima e con
maggiore intensità in ambiente urbano e nelle aree più secolarizzate; alcuni
gruppi (come i borghesi e gli ebrei) non erano più benestanti di altri (come i nobili), ma iniziarono assai prima a diminuire la loro fecondità; in Francia – il primo
paese dove il declino della fecondità coniugale divenne di massa – le coppie
povere iniziarono a ridurre il numero di figli decenni prima che la rivoluzione industriale aprisse concrete possibilità di modernizzazione economica e mutameto sociale.
In generale, con riferimento alla grande transizione della fecondità in Europa
non vi sono regolarità tali da suggerire la prevalenza di letture “culturali” o –
piuttosto – “economiche” per spiegare il declino della fecondità. Anche in aree
ristrette si osserva la prevalenza ora di questi, ora di quei fattori. Ad esempio,
nel Veneto del primo Novecento la fecondità iniziò a declinare nelle aree di protoindustrializzazione (come Schio, Valdagno e Vittorio Veneto), a forte prevalenza cattolica. Nel quarantennio 1951-91 – invece – la geografia della fecondità ricalcò quella del voto alla Democrazia Cristiana e al referendum sul divorzio
del 1974. In Sicilia, i distretti che per primi abbandonarono la fecondità naturale
furono quelli meridionali, ad assoluta prevalenza di braccianti poveri, dove però
furono maggiori i voti referendari favorevoli alla Repubblica nel 1946 e al divorzio nel 1974, e dove – ai tempi delle lotte bracciantili – i partiti di sinistra misero
radici meno flebili6.
2.2 Nuovi approcci interpretativi
Negli anni Ottanta e Novanta, gli studiosi si sono resi conto con sempre
maggior chiarezza dell’insufficienza di un approccio strettamente economico
per comprendere le differenze di fecondità all’interno dei paesi ricchi. Da un lato, in molti paesi si osserva la sempre maggior insufficienza delle variabili “tradizionali” (il reddito, l’istruzione, il lavoro della donna) per spiegare le differenze
4
Vale la pena di ricordare il progetto di Princeton – per l’analisi sistematiche di modalità e cause del declino della fecondità europea (Coale e Watkins, 1986) – e la World Fertilità Survey –
per analizzare modalità e cause delle prime fasi del declino della fecondità nei paesi in via di
sviluppo (Bulatao e Lee, 1983).
5
Può essere considerato “classico” il lavoro di Lesthaeghe e Wilson (1986). Essi mostrano come la fecondità coniugale in Europa sia diminuita prima e più rapidamente nelle province con
maggiori percentuali di voto ai partiti non confessionali, a prescindere dal livello di industrializzazione. Lestaeghe (1977) mostra anche la rilevanza della connessione fra differenze linguistiche e declino di fecondità nel Belgio fiammingo (a declino tardivo) e vallone (a declino precoce),
sempre al netto delle differenze economiche. Una posizione ancora più radicale è quella di
Flandrin (1988) che suggerisce come in Francia il declino delle nascite della prima metà
dell’Ottocento sia incomprensibile se letto in chiave economica, mentre sono evidenti le connessioni con la diffusione della secolarizzazione. Anche nell’Italia del Centro Nord la geografia
del calendario di abbandono della fecondità naturale coincide con la geografia del voto al divorzio del 1974, e con quella di altri parametri della secolarizzazione (Livi Bacci, 1980). Lo stesso
non accade al Sud, dove la natura della religiosità sembra essere assai diversa e – comunque
– non connessa direttamente con parametri demografici (Dalla Zuanna e Righi, 1999). Fa eccezione la transizione della fecondità in Sicilia, cui si fa cenno nel testo.
6
Per il Veneto vedi Dalla Zuanna et al. (in stampa), per la Sicilia vedi Crisafulli e Siddi (2002).
3
di fecondità fra le coppie7. Dall’altro, lo sviluppo di nuovi approcci teorici – supportati da nuove verifiche empiriche – mostrano che tali differenze possono essere ricondotte ad altri fattori, in precedenza non trattati o considerati come poco rilevanti. Passiamo in rassegna alcune fra queste ricerche, rimandando al
punto 2.2.4 per l’esposizione di alcuni risultati sull’Italia.
2.2.1 La trasmissione della fecondità fra le generazioni
Poiché, come abbiamo già detto, la “convenienza economica” non sembra
giustificare la scelta di avere figli, molti studiosi si sono chiesti se, alla radice
delle scelte di fecondità, non possano esserci fondamenti biologici, o legati ad
altri fattori. Recentemente, gli studi orientati in questo senso hanno dato risultati
di rilievo, fra cui vale la pena di citare i seguenti.
Kohler e compagni hanno dimostrato – mediante uno studio su coorti di gemelli monozigoti e d eterozigoti – che la fecondità ha una rilevante componente
ereditaria, e che la rilevanza sulle differenze di fecondità di questa ereditarietà
diventa empre più rilevante al calare della fecondità stessa8.
Udry, dal canto suo, ha mostrato come il desiderio di figli e il livello di predisposizione all’accudimento dei figli da parte delle donne siano significativamente connessi alle dosi di alcuni ormoni naturalmente assorbiti, attraverso la placenta, dal corpo della madre, nel corso dei primi mesi di vita embrionale 9.
Infine, Murphy ha illustrato come a genitori più fecondi corrispondano anche
figli più fecondi, e che la forza di questa relazione, in numerosi paesi occidentali, sia più elevata di quella riscontrata fra alcune “tradizionali” variabili socioeconomiche e la fecondità. Altri autori hanno mostrato che – molto probabilmente –
non si tratta solo di una “trasmissione genetica”, ma che un ruolo non secondario è giocato anche dal tipo di educazione familiare: ad esempio, in più di un caso è stato osservato che l’associazione è più forte per i primogeniti (che sarebbero più vicini, in tutti i sensi, ai genitori) che per i figli di ordine inferiore. La trasmissione della fecondità fra le generazioni è stata misurata anche in Italia: in
uno studio comparativo Murphy ne mostra la particolare intensità; altri autori affermano che oggi nel nostro paese questo legame non è spurio, e che il numero
dei figli (desiderato e effettivo) è statisticamente associato sia al numero di fratelli del marito che della moglie10.
Quindi – a quanto sembra – il livello di fecondità (desiderato e, poi, effettivo)
di una donna e di una coppia sono determinati anche da fattori biologici e/o da
caratteristiche “assorbite” nelle prime fasi della socializzazione familiare.
Alla base di questi risultati potrebbero esserci fattori di tipo evoluzionistico.
Sembra infatti sensato ritenere che, come nelle altre specie animali, anche in
quella umana si siano selezionati – a poco a poco, durante i millenni in cui eravamo cacciatori e raccoglitori – gli individui più adatti e propensi alla riproduzio-
7
Gli studi sulla connessione positiva (o nulla) fra fecondità da un lato, reddito e istruzione
dall’altro sono particolarmente ricchi per i paesi scandinavi. Si veda, ad esempio, Kravdal
(2001) e i lavori ivi citati.
8
Kohler et al. (1999)
9
Udry (1994)
10
Murphy (1999), Casacchia e Dalla Zuanna (1999).
4
ne. I risultati appena accennati potrebbero essere, almeno in parte, il riflesso di
questo lungo processo di selezione e adattamento.
Gli studi su queste temetiche vanno alle radici delle forze che hanno portato
la nostra specie a diventare quella che è oggi, anche se alcuni risultati possono
non piacere se si tende sempre a far coincidere i termini “razionalità” e “modernità”. Del resto, come dice Udry al termine dell’articolo citato, non dovremmo
vergognarci di essere (anche) primati. Gli autori citati, inoltre, sono troppo sofisticati per cadere nella trappola del determinismo biologico. Essi cercano solo
di fornire la “base di natura” su cui l’uomo ha poi costruito e stratificato i suoi
comportamenti culturali, sociali ed economici.
Questo tipo di considerazioni – se ci possono aiutare a comprendere i meccanismi alla base di alcune differenze individuali di fecondità – ci sono però poco utili per comprendere, ad esempio, le differenze di fecondità fra la Francia e
l’Italia, o fra due province italiane. In altri termini, questi studi ci aiutano a comprendere la variabilità della fecondità (o della propensione alla fecondità) interna a una popolazione, ma non le differenze di fecondità fra le popolazioni.
2.2.2 I figli come capitale sociale
In un articolo dal titolo molto significativo (e un po’ temerario) “Why do Americans want children?”, Shoen e compagni sottolineano la valenza dei figli come
capitale sociale11. A loro avviso, nel mondo ricco – dove i figli non danno una
“rendita” economica – le coppie più feconde sarebbero quelle maggiorente convinte che il loro nuovo bambino porta spessore alla loro vita di relazione, sia
all’esterno che all’interno della famiglia. Esse sarebbero quindi disposte a pagare i costi dell’allevamento dei figli per costruire attorno alla loro coppia un mondo più ricco di relazioni.
Ciò sarebbe stato vero anche nel passato: il figlio è sempre stato anche uno
strumento per “certificare” la collocazione sociale di un adulto (che diventa, appunto, genitore), per garantire la continuità della famiglia, per creare alleanze
fra le famiglie, grazie anche alle opportune strategie matrimoniali. Tuttavia, secondo Shoen e compagni, con la modernizzazione il valore del figlio come generatore di ruolo sociale e di relazioni sarebbe diventato sempre più importante,
a causa della perdita di altri possibili significati (ad esempio, i figli come garanzia per una vecchaia serena). Inoltre – aggiungiamo noi – negli ultimi due secoli, grazie anche al progressivo declino della mortalità infantile, si è sempre più
consolidata l’idea dell’infanzia come periodo specifico, e del bambino come fonte di gioia, come individuo con cui vale la pena di avere relazioni significative.
Ancora pochi anni fa, c’erano padri italiani che affermavano con orgoglio di non
aver mai preso in braccio un bambino. Ora questi atteggiamenti sono sempre
più rari, mentre sono sempre più numerosi i genitori che trascorrono con piacere molto tempo con i loro figli12.
11
Shoen et al. (1997). Per la definizione di capitale sociale come “universo di relazioni”, vedi
anche Portes e Landolt (1996).
12
Per la “nascita” dell’infanzia nel mondo moderno, si veda il classico lavoro di Ariés (1981). Il
continuo incremento – nell’ultimo ventennio – del tempo trascorso dalle coppie dei paesi ricchi
con i propri figli è ben documentato nel lavoro di Ann Gauthier et al. (2001). Fra l’altro, questi
autori dimostrano che le coppie più istruite trascorrono un numero maggiore di ore assieme ai
figli. Anche l’indagine “Troppi”, commentata da alcuni lavori di questo volume, ha mostrato con
5
Per dimostrare i suoi assunti, Shoen e compagni modellano le intenzioni di
avere un (altro) figlio per gli statunitensi di fine anni Ottanta, utilizzando come
regressori di modelli logistici (distinguendo fra le persone con zero, uno e due o
più figli) molte variabili di controllo, e un indicatore di percezione dei bambini
come “risorsa sociale”. Effettivamente, tale indicatore risulta quasi sempre fortemente connesso all’intenzione di avere un figlio (in più), a prescindere dal genere, dall’etnia (bianchi e neri), dalla condizione coniugale (single, coabitante o
coniugato) e dalla parità. Al contrario, indicatori della percezione dei figli come
costo diretto, e delle aspirazioni di carriera non sono molto connessi alle intenzioni di fecondità degli statunitensi, se escludiamo la parità più elevata qui considerata (con le persone che danno più peso ai costi diretti dei figli e con maggiori aspirazioni di carriera meno propense ad avere il terzo o il quarto figlio).
Anche se i risultati di Shoen e compagni sembrano molto chiari, essi prestano il fianco a qualche critica. La classificazione delle persone secondo la loro
percezione del figlio come capitale sociale viene ottenuta mediante un indicatore che è la media fra i seguenti sei items (possibili risposte da 1=Not at all important a 7=Very important): (1) Giving my parents grandchildren, (2) Giving my
child(ren) a brother or a sister, (3) Having someone to care for me when I am
old, (4) Having someone to love, (5) Needing something to do, and (6) Having
at least one boy and one girl. L’impressione è che in questi sei items vi siano
almeno due dimensioni: l’idea del figlio come “capitale sociale” (specialmente
(3), (4), (5) e forse il (2)) – come vorrebbero gli autori citati – e una visione tradizionale della vita familiare (specialmente (1), (6) e forse il (2)). Quindi, la verifica empirica supporta anche l’idea – esposta nel paragrafo successivo – di una
maggior fecondità espressa dalle coppie con una “visione del mondo” più tradizionale. Questo problema potrebbe essere accentuato dal fatto che fra le – pur
numerose – variabili di controllo inserite nei modelli, mancano misure del grado
di secolarizzazione, di postmaterialismo e – più in generale – di adesione alla
tradizione.
Inoltre, un punteggio elevato ad alcuni fra i sei item (specialmente al (4)) potrebbe essere indicativo di una maggior propensione alla childness – che, come
visto nel paragrafo precedente, può avere anche origine genetica e nella protosocializzazione familiare – piuttosto che una maggior propensione a considerare i figli come capitale sociale. Tanto più che fra le variabili di controllo non è inserito il numero di figli dei genitori.
Infine, c’è un altro problema. Gli autori citati sottolineano che “for present
purposes, we belive it is sufficient to argue that in industrialized societes, the
social capital benefits of children can be captured by a relatively smaller investment, that is, by fewer children” (p. 338). Non si comprende bene come
venga determinato questo numero di figli “ottimale”, ossia come le coppie determinino un equilibrio fra capitale sociale e costi sostenuti. Nelle diverse società, questo punto di equilibrio potrebbe essere abbastanza diverso. A meno di
ammettere che per le coppie italiane i figli abbiano meno valore di capitale sociale rispetto alle coppie dei paesi a fecondità più elevata (come gli USA, la
Francia e la Svezia).
chiarezza che i padri italiani stanno aumentando il tempo trascorso con i propri figli, anche se
rimangono fortissime differenze di genere (vedi in questo volume il lavoro di MENCARINI e TANTURRI).
6
In conclusione, il concetto dei figli come capitale sociale ha il pregio di fornire
una ratio robusta alla mancata sparizione della procreazione nei paesi ricchi.
Tuttavia, la sua valenza nel determinare le differenze di fecondità (desiderata
ed effettiva) attende ancora di essere ben misurata. Inoltre, abbiamo
l’impressione che la quantità di figli percepita dalle coppie come necessaria e
sufficiente per soddisfare alle proprie necessità di capitale sociale possa variare
molto a seconda del contesto di riferimento. Come vedremo, è possibile che in
Italia – grazie alla forza del tutto particolare dei legami intergenerazionali – un
numero minore di figli permetta ai genitori di percepire l’accumulazione dello
stesso capitale sociale per cui, in altri contesti, è necessario mettere al mondo
una prole più numerosa. Anche per il capitale sociale la qualità potrebbe fare
aggio sulla quantità.
2.2.3 Fecondità e valori postmoderni e postmaterialisti
L’approccio più celebre e citato fra quelli che pongono l’accento sulle spiegazioni non economiche della bassa fecondità è quello della seconda transizione
demografica. Questa idea – che può essere considerata per alcuni versi lo sviluppo dei già citati lavori di Lesthaeghe nell’ambito del progetto di Princeton13 –
è stata esposta in diverse occasioni dai sociodemografi Lesthaeghe e van de
Kaa. Essi sostengono che i comportamenti coniugali e riproduttivi nei paesi ricchi degli ultimi decenni del Novecento traggono origine soprattutto da mutamenti valoriali. Mediante svariate verifiche empiriche, questi autori mostrano che:
(1) le popolazioni dei paesi ricchi sono caratterizzate dal progressivo passaggio
da valori materialisti e moderni verso valori postmaterialisti e postmoderni (da
qui in poi, post), e questo passaggio continua anche nelle generazioni più recenti14;
(2) all’interno dei diversi paesi, fra le persone post sono più diffuse le convivenze, le rotture coniugali, le nascite fuori dal matrimonio e la fecondità tardiva (ma
non ovunque la bassa fecondità). Le differenze fra paesi nella diffusione dei
nuovi comportamenti coniugali e riproduttivi sarebbero da ricondurre al diverso
ritmo diffusivo dei nuovi valori.
Recentemente, van de Kaa ha mostrato come nella gran maggioranza dei
paesi ricchi il numero “ideale” e “desiderato” di figli sia relativamente elevato
(superiore al livello di sostituzione) anche fra le persone che fondano la propria
vita su valori post. Il problema è che “most likely postmodernists and postmaterialists have important competing preferences and priorities. They begin childbearing late: at every age they have below-average numbers of children born”
(van de Kaa, 2001, p. 324). Quindi – come illustrato in figura 1 – questi nuovi riscontri empirici mostrano che:
(1) fra i valori post, il desiderio di una fecondità relativamente elevata occupa un
ruolo non secondario: anzi, nei paesi a maggior diffusione dei nuovi valori (co13
Per un percorso di lettura su queste tematiche si veda van de Kaa (1987), Lesthaeghe e Surkin (1988), van de Kaa (2001).
14
Per un’esposizione dettagliata del significato dei termini “moderno”, “postmoderno”, “materialista” e “postmaterialista”, e delle scale utilizzate per misurare la diffusione di questi valori, si vedano gli articoli citati, in particolare van de Kaa (2001).
7
me la Svezia), si riscontra una relazione positiva fra valori post e fecondità desiderata;
(2) la conciliazione fra diversi valori post è difficile ovunque. I paesi che realizzano una maggiore fecondità sono quelli in cui le coppie riescono ad avere figli
e – nello stesso tempo – a non rinunciare ad altre attività considerate essenziali
dalle persone post (in primo luogo il lavoro e il tempo libero per la donna). In
generale, per realizzare queste priorità le donne devono accumulare un capitale
umano assai maggiore rispetto alle loro madri: devono studiare, accumulare
reddito, vivere esperienze poco compatibili con la procreazione precoce15.
[Figura 1]
Da un punto di vista demografico, per una donna post, l’ideale è avere il primo figlio attorno a 30 anni. La nascita di altri figli è condizionata a una organizzazione familiare e sociale tale per cui i figli non interferiscano troppo con il lavoro e il tempo libero. Come vedremo nel paragrafo successivo, ciò può verificarsi solo se anche le relazioni di coppia e l’intera società sono orientate in
questa direzione.
Questi risultati trovano supporto anche dai già citati studi di Ann Gauthier e di
altri demografi ed economisti della famiglia sull’evoluzione di medio perido del
tempo trascorso con i figli. Contrariamente a quanto si potrebbe supporre, studi
basati sulla rilevazione mediante diario dell’impiego del tempo da parte delle
madri e dei padri mostrano che il tempo mediamente trascorso con i figli cresce,
negli ultimi decenni, in tutti i paesi industrializzati, e che tale tempo è maggiore
per le persone più ricche e più istruite (che molto spesso sono anche quelle più
orientate in senso post). Questi risultati possono essere letti “in negativo”, come
segnale di un ulteriore accrescimento del costo dei figli, che costano sempre di
più non solo in termine di soldi, ma anche di tempo. D’altro canto, però, scegliendo di trascorrere maggior tempo con loro, le persone post testimoniano
l’importanza del significato da loro dato al rapporto con i figli.
Se letti in positivo, questi risultati suggeriscono che in futuro le popolazioni
autoctone dei paesi ricchi potranno essere in grado di riprodursi: l’indebolimento
dei valori familiari tradizionali (in particolare il matrimonio come passo necessario per la riproduzione e l’indissolubilità della coppia coniugale) non si accompagna con la disaffezione verso la procreazione. Anzi, per certi versi,
all’indebolimento delle relazioni interpersonali elettive sembra far riscontro una
sempre maggior rilevanza delle relazioni di sangue16. Il problema embra essere
15
L’enfasi sulla competizione fra procreazione e accumulazione di capitale umano per la donna
accomuna la lettura “culturalista” di Lesthaeghe e van de Kaa con quella “economicista” della
scuola di Chicago e dei suoi seguaci europei. La differenza sostanziale fra i due approcci è
sull’origine di questo trade off. Per la scuola di Chicago, si tratterebbe semplicemente della reazione degli individui ai mutamenti delle condizioni economiche esterne (dall’uomo breadwinner
alla necessità di lavorare entrambi per raggiungere livelli di reddito e di consumi considerato
accettabile). Per Lesthaeghe e van de Kaa, invece, il motore dei cambiamenti demografici starebbe nel processo di lungo periodo di mutamento dei valori, iniziato nelle società occidentali
ancor prima dell’Illuminismo e sfociato, alla fine del XX secolo, nell’affermazione dei valori post.
16
In molti paesi, le unioni che seguono un fallimento coniugale sono caratterizzate da una fecondità abbastanza elevata, quasi che le coppie vogliano suggellare con un figlio la nuova unione.
8
nell’organizzare la vita sociale in modo da permettere la realizzazione delle diverse componenti della scala di valori post, permettendo la prevalenza di (a) su
(b) in figura 1. Il ruolo delle politiche familiari e di conciliazione di genere esce
fortemente rafforzato dall’analisi dei paladini della teoria della seconda transizione demografica.
La possibilità di conciliare valori post e fecondità moderatamente elevata è
stata messa in dubbio da un gruppo di ricercatori che sta studiando l’evoluzione
nel tempo del numero ideale di figli nei paesi ricchi17. Nei paesi dove il crollo
della fecondità successivo al baby-boom è stato più precoce (specialmente
l’Austria e la Germania), il numero di figli desiderato dai giovani è significativamente inferiore al livello di sostituzione (1,7-1,8 figli per donna). Secondo questi
autori, ciò accade perché in questi paesi sono ora in età di procreazione i primi
figli del baby-bust, socializzati in famiglie piccole, che hanno percepito come
“normali” le famiglie con uno o con due figli. Essi avrebbero goduto di tutti i
confort delle famiglie poco numerose, senza percepire la pressione (sociale e
familiare) a mettere al mondo due o tre figli.
Ovviamente, se questo meccanismo fosse “automatico”, nel giro di poche
generazioni la fecondità si abbasserebbe ovunque drasticamente. Sono necessarie verifiche più probanti per confermare un processo che – se effettivamente
attivo in tutti i paesi – renderebbe assai problematica qualsiasi ripresa della fecondità18.
2.2.4 Alcune verifiche empiriche per l’Italia
Alcune verifiche empiriche – tratte da svariati studi che utilizzano diverse basi
di dati – permettono di valutare, anche per l’Italia, la tenuta di alcune fra le ipotesi appena citate (tabelle 1-4). Diciamo subito che questo tipo di studi mal si
prestano a rispondere alla domanda “Come mai in Italia la fecondità è mediamente così bassa?”. Come vedremo nei prossimi paragrafi, per rispondere è
necessario considerare alcuni meccanismi sociali che – pur agendo anche a livello micro, nelle singole persone e nelle singole coppie – sono comuni a tutta
la società italiana.
Nel corso della seconda metà del Novecento, i fattori economici e non economici hanno influenzato in misura diversa le probabilità di accrescimento della
famiglia per le donne di diversa parità (tabella 1). In particolare, le coppie più religiose e quelle provenienti da famiglie più numerose sono più propense ad avere presto il primo figlio e ad avere il secondo figlio. L’effetto dell’istruzione, invece, è positivo per le parità più basse (le donne più istruite hanno più di frequente il secondo figlio), negativo per quelle più elevate, mentre il lavoro della donna
mantiene costantemente un legame negativo con la successiva propensione a
procreare. Infine, l’effetto del luogo d’origine è molto intenso, ma lo spostamento verso aree meno feconde porta a un repentino abbassamento della fecondi17
Goldstein et al. (2003).
La maggior critica all’ipotesi del “concatenamento generazionale” di Goldstain e compagni è
l’incapacità di spiegare la ripresa della fecondità, realizzatesi in molti paesi per le generazioni
che hanno avuto figli nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta. Il numero di figli desiderato,
con tutta probabilità, è influenzato da numerosi fattori. Certamente, il clima respirato nel gruppo
dei pari e in famiglia gioca un ruolo di rilievo. Vi sono però fattori che possono avere un ruolo
opposto (si veda, ad esempio, la teoria del reddito relativo di Easterlin, 1978).
18
9
tà; quest’ultimo fatto potrebbe anche essere indice di selezione: potrebbero emigrare più frequentemente persone a priori meglio disposte a modificare i propri comportamenti. Tuttavia, l’analisi di quanto accaduto fra gli italiani emigrati
negli USA19 ci fa pensare che, una volta usciti dai circoli viziosi della povertà, gli
italiani adottino rapidamente l’arma della bassa fecondità come strumento di
omologazione culturale e di promozione sociale. Ritorneremo più avanti su
questi importanti risultati.
[TABELLA 1]
[TABELLA 2]
In tabella 2 si osserva la connessione positiva fra l’adesione a valori tradizionali e una fecondità più elevata, un approccio alla sessualità più tardivo,
l’assenza di convivenza e un numero di figli ideale più elevato. Evidentemente,
in Italia l’adesione a valori post non era ancora connessa (fra le donne intervistate nel 1996-97) a una fecondità (ideale ed effettiva) più elevata – come ha
rilevato van de Kaa per la Svezia di fine Novecento. Quando questo indicatore
di tradizione viene inserito nelle equazioni di regressione, perde di significatività
il legame statistico fra comportamenti demografici e pratica religiosa. Restano
invece molto intensi i legami fra fecondità (effettiva e ideale) e numero di figli
della madre.
Infine, in tabella 3 si osserva come l’associazione fra le variabili esplicative e
la fecondità non varino poi molto nei diversi paesi. Dovunque in Europa, fra le
donne coniugate, residenti in centri più piccoli, più istruite, provenienti da famiglie più numerose e più praticanti, le aspettative di fecondità sono più elevate.
[Tabella 3]
In sintesi, nell’Italia degli anni Novanta:
(1) È ampiamente confermata l’esistenza di una certa trasmissione della fecondità fra le generazioni dei genitori e dei figli.
(2) L’adesione (ancora) relativamente elevata a valori non post frena la diffusione dei nuovi comportamenti coniugali e riproduttivi, e tende a spingere verso l’alto la fecondità.
(3) Altri aspetti di tipo non strettamente economico (come il luogo di residenza) mantengono una notevole forza esplicativa delle differenze fra le
coppie, anche se, dopo un mutamento di residenza, le coppie italiane
provenienti da aree più feconde sono molto scattanti nell’assumere comportamenti di bassa fecondità.
Inoltre, non vi sono grandi differenze fra i paesi europei nei fattori esplicativi delle differenze individuali di fecondità. Come abbiamo già accennato, per comprendere la bassa fecondità media italiana ci sembra necessaro battere altre
strade.
19
Livi Bacci (1961).
10
3. Determinanti collettive “non economiche” delle differenze di fecondità
In questa nuova prospettiva, mettiamo l’accento su fenomeni (questa volta di
carattere esclusivamente sociale) che condizionano i comportamenti delle coppie, in modo differenziale per intere collettività. Questo tipo di condizionamenti
creano il milieu all’interno del quale le singole coppie maturano le loro specifiche decisioni, e agiscono trascinando verso il basso (o verso l’alto) il livello medio della fecondità.
Negli ultimi decenni, nei paesi occidentali si è verificato un fenomeno inatteso. Come abbiamo visto in tabella 3, all’interno dei paesi i fattori determinanti le
differenze di fecondità fra le coppie non sono poi molto diversi. Nello stesso
tempo, la relazione statistica fra le medie delle stesse variabili hanno assunto
segno opposto (tabella 4). Ad esempio, all’interno di ogni paese la fecondità è
più alta fra le coppie dove la donna investe maggiormente nel lavoro e fra le
coppie coniugate. Tuttavia, nel corso degli anni Novanta la fecondità è stata più
elevata nei paesi europei con il più alto tasso di attività femminile e dove sono
maggiormente diffuse le convivenze prenuziali e alternative alle nozze20.
Questo fatto, per certi versi sconcertante, può essere la conseguenza del
seguente meccanismo sociale. A ben guardare, le chiavi di lettura che mettono
l’accento sui condizionamenti sociali alla fecondità fanno tutti riferimento allo
stesso schema. In alcuni paesi, le istituzioni collettive (intese in senso molto
ampio: stato, agenzie di socializzazione e di costruzione di senso, come la coppia, la famiglia, la parentela, i gruppi dei pari, le chiese, eccetera) sono state in
grado di adeguarsi rapidamente ai mutamenti economici e di mentalità che
hanno modificato il quadro dei costi e dei benefici in cui si concretizzano le scelte feconde. In altri paesi, invece, le stesse istituzioni collettive non hanno potuto
o voluto compiere questo processo di adattamento. In quest’ultimo gruppo di
paesi la fecondità è bassissima, mentre nel primo gruppo si avvicina al livello di
rimpiazzo (due figli per donna).
[Tabella 4]
Se l’obiettivo è di interpretare le specificità dei paesi a bassissima fecondità,
questo modo di ragionare ci sembra assai più utile rispetto ai discorsi che pongono l’accento sulle differenze individuali. Tuttavia è evidente che – assumendo
questa prospettiva – il problema interpretativo viene solo spostato. Bisogna
comprendere perché le istituzioni di alcuni paesi si sono adeguate rapidamente
in senso favorevole alla fecondità delle coppie, mentre in altri ciò non è accaduto.
Per meglio esporre questa linea interpretativa, in questo terzo paragrafo seguiamo uno schema diverso rispetto a quello precedente. In primo luogo, descriviamo i tratti essenziali dei mutamenti della fecondità, per sottolineare come
la bassa fecondità – che ha una lunga storia, nel nostro paese – si caratterizzi
da tempo come uno dei tratti essenziali del processo di sviluppo socioeconomico italiano. In secondo luogo, mostriamo come per l’Italia il processo di adattamento istituzionale in senso favorevole alla fecondità sia mancato per diverse
20
Vedi De Rose e Racioppi (2001), Dalla Zuanna (2001).
11
dimensioni del vivere collettivo; fra queste dimensioni occupano un posto del
tutto particolare le relazioni fra genitori e figli.
3.1 Un’analisi della fecondità in Italia per zona e ordine di nascita
Le ricostruzioni per coorte hanno dimostrato che la storia della bassa fecondità, in Italia, è molto più lunga di quanto possano fare intravedere analisi basatre su indicatori congiunturali21: in molte regioni del Centro e del Nord le donne
hanno meno di due figli già a partire dalle generazioni nate all’inizio del Novecento. Inoltre, il baby-boom per le generazioni nate negli anni Trenta e Quaranta si è concretizzato solo in un abbassamento dell’età al parto e in un rallentamento del declino, e non in un’effettiva ripresa della fecondità, come avvenuto
in Francia e – specialmente – in Inghilterra e nei paesi d’oltremare di tradizioni e
cultura anglosassone (figura 2).
Inoltre, distinguendo anche per luogo di nascita, si nota che la fecondità delle
generazioni di donne nate nel Nord è ancora più bassa, e che la piccola ripresa
del numero di figli per i matrimoni celebrati negli anni 1955-65 è in buona parte
dovuta all’ingresso di persone provenienti dal Sud, che – almeno in una prima
fase – sono più feconde (figura 2 e 3, e ritorna a tabella 1). Quindi, nel Centro e
nel Nord d’Italia la bassa fecondità è un fenomeno di lungo periodo: una volta
abbandonata la fecondità naturale, le coppie italiane hanno rapidamente adottato un modello di bassa fecondità, poi mantenuto e ulteriormente accentuato dalle nuove coppie formate dai loro figli e dai loro nipoti.
[FIGURA 2]
[FIGURA 3]
[FIGURA 4]
Per tutta la seconda metà del Novecento, all’interno di ogni circoscrizione le
probabilità di avere il primo e il secondo figlio sono praticamente identiche. Di
conseguenza, il declino della fecondità coniugale illustrato dalla figura 3 è tutto
dovuto alla diminuzione delle probabilità di avere il terzo e il quarto figlio.
Quindi, innanzitutto è confermato che per tutto il Novecento le coppie italiane
vogliono un figlio “a tutti i costi”22. In tutte le circoscrizioni, anche per i matrimoni
celebrati negli anni Novanta solo il 5-10% delle coppie rimane senza un bambino (corrispondenti in pratica alle coppie che non riescono ad averlo per ragioni
di sterilità primaria). Poi, una proporzione di coppie – grossomodo costante
all’interno di ogni circoscrizione per tutta la seconda metà del Novecento – decide di fermarsi al primo figlio, mentre fra le altre cresce continuamente, a partire dai matrimoni celebrati nei primi anni Sessanta la proporzione di chi si ferma
a due. Analizzando la fecondità delle coorti di matrimoni è evidente che la bassa fecondità italiana non deriva tanto dal progressivo imporsi del modello del fi-
21
Santini (1974, 1995); Istat (1997).
Recenti studi basati su interviste in profondità hanno mostrato come in Italia la scelta di non
avere figli sia difficilmente compresa e – anzi – stigmatizzata (Bernardi, 2003).
22
12
glio unico (come può apparire analizzando i dati per contemporanei), quanto
piuttosto dalla progressiva “sparizione” delle famiglie con più di due figli.
Quindi, il “modello di parità” italiana è più stabile di quanto si poteva forse
immaginare guardando solo all’evoluzione degli indicatori di periodo. La lowestlow fertility è stata raggiunta senza toccare la prima fase del comportamento riproduttivo: per tutta la seconda metà del Novecento i figli continuano a nascere
all’interno del matrimonio, e la probabilità di avere il primo e il secondo figlio resta pressoché costante. Invece, a partire dagli anni Sessanta, si modifica fortemente la propensione ad avere il terzo o il quarto figlio.
3.2 Il mancato adattamento delle istituzioni collettive alle mutate condizioni delle coppie italiane
Negli ultimi quarant’anni le famiglie hanno mutato pelle: la coppia borghese
classica – con il marito breadwinner, la moglie tutta concentrata nell’attività di
cura, con precise e predeterminate divisioni dei ruoli sociali fra marito e moglie
– è rapidamente tramontata. Ma questi mutamenti non sono certo tipici del nostro paese, anzi, sono avvenuti in modo ancora più sostenuto laddove la fecondità si è mantenuta più elevata. Come dicevamo, alcune interpretazioni della
particolarità italiana, e dei paesi della sponda nord del Mediterraneo, suggeriscono che le istituzioni siano state più restie che altrove ad adattarsi ai cambiamenti che hanno investito le coppie e che queste – per reazione – abbiano
rinunciato ad avere il terzo e il quarto figlio.
L’analisi demografica della fecondità dei matrimoni italiani della seconda metà del Novecento sembra sostenere questo tipo di lettura: infatti, non muta tanto
il “modello fecondo di riferimento”, quanto la possibilità di completare (con il terzo e il quarto figlio) la fecondità desiderata. Questa impressione è suffragata
anche dal fatto che il numero desiderato e ideale di figli – rilevato ormai da
trent’anni in numerose indagini statisticamente rappresentative – si mantiene in
Italia sempre molto al di sopra del livello della fecondità effettiva23.
Le letture a nostro avviso che più convincenti per interpretare questo gap fra
desiderio e realtà sono di tre tipi, fra loro non incompatibili. La prima mette
l’accento dei mancati adattamenti del sistema di welfare, la seconda
sull’evoluzione incompleta del sistema di genere, la terza sulla persistenza di
legami forti fra genitori e figli.
3.3 Mancato adattamento del sistema di welfare
Quando poche donne lavoravano per il mercato, le famiglie erano in grado di
provvedere in modo autonomo all’allevamento dei propri figli. Quando, invece,
per raggiungere un livello di vita recepito come accettabile, entrambi i coniugi
devono lavorare a tempo pieno, la possibilità di avere un figlio in più è fortemente condizionata dall’organizzazione della società, in particolare dal sistema di
welfare a sostegno delle famiglie con figli.
Numerose analisi mostrano che l’Italia occupa il fanalino di coda per quanto
riguarda i sostegni diretti (contributi economici e servizi di childcare) alle famiglie con figli, con la parziale eccezione dei congedi per maternità delle lavoratri23
Ongaro (1982), van de Kaa (2001), Goldstain et al. (2003).
13
ci dipendenti24. I servizi alle famiglie con figli piccoli sono largamente insufficienti, sia gli asili nido (che sono pochi) che altre forme di sostegno meno onerose
per lo stato, come le childminder inglesi o contributi per le baby sitter (che praticamente non esistono). Inoltre, i sostegni monetari, già scarsi negli anni Sessanta, sono addirittura diminuiti nel tempo, almeno fino a metà degli anni Novanta. Nel 1994 vennero raccolti 13 mila miliardi di lire sotto la voce di assegni
familiari, di cui solo 4 mila vennero effettivamente ridistribuiti alle famiglie con
figli, mentre la somma restante venne ingoiata dall’INPS, per finanziare le pensioni. A partire da metà anni Novanta qualcosa è cambiato, ma siamo ancora
ben lontani da un insieme di misure coerenti e sostanziose a favore delle famigli
con più figli, paragonabili a quelle messe da tempo in atto in molti paesi occidentali25.
Queste considerazioni potrebbero suggerire un facile automatismo: aumentiamo anche in Italia i servizi e i contributi monetari a favore delle famiglie con
figli, e aumenterà anche la fecondità, come sembra accadere in Francia, ossia
nel paese europeo forse più generoso verso le famiglie con figli. Questo meccanismo di causa ed effetto sembra suggerito anche da alcuni risultati della nostra indagine sulle madri di ragazzi quattordicenni, che in una buona percentuale affermano che avrebbero avuto un figlio in più se, negli anni passati, lo stato
avesse garantito generosi contributi economici, servizi di qualità o più lunghi e
meglio pagati congedi di maternità26
Tuttavia le cose non sono così semplici. Ann Gauthier ha mostrato – grazie a
una meta-analisi su una ventina di studi di caso in paesi a sviluppo avanzato –
che non ci sono legami ben chiari fra intensità delle politiche pro-nataliste e livelli della fecondità. Inoltre spicca il caso degli Stati Uniti, dove nell’ultimo decennio la fecondità è attorno a 2,1 figli per donna (1,8 per le donne bianche non
ispaniche), pur in assenza di politiche particolarmente favorevoli alle famiglie
con figli. Inoltre, come abbiamo visto poc’anzi, la fecondità era già molto bassa
in molte regioni del Centro e del Nord anche per le coorti nate nei primi decenni
del Novecento, dove gran parte delle coppie seguiva lo schema tradizionale
della famiglia borghese27.
Con questo non si vuol dire che politiche più generose verso le famiglie con
figli non siano opportune e doverose, sopratutto per motivi di equità28. Tuttavia
non è possibile essere certi che il mancato adeguamento del sistema di welfare
ai mutamenti del mercato del lavoro femminile e ai costi crescenti dei figli possano essere considerati la causa principale della bassissima fecondità italiana.
24
Si veda, ad esempio, De Santis (in stampa). Vanno un po’ controcorrente le analisi basate sui
conti generazionali, che mostrano come – comprendendo anche i servizi sanitari e il sistema
scolastico – le famiglie con figli ricevano molto dallo stato (vedi l’intervento di SARTOR in questo
volume). Tuttavia questi trasferimenti vengono considerati diritti di cui si gode in quanto cittadini,
piuttosto che risorse aggiuntive messe a disposizione delle famiglie con figli. Se essi venissero
a mancare, i costi aggiuntivi peserebbero come macigni sui genitori, probabilmente spingendo
ancor più verso il basso la fecondità. Tuttavia non pensiamo che la loro presenza, nella percezione comune, venga considerata come un sostegno alle famiglie con più figli.
25
Si vedano gli interventi di Dalla Zuanna (1999, 2000, 2003) e le citazioni ivi contenute. Si vedano anche gli interventi di LIVI BACCI e di BRESCHI e FORNASIN in questo volume).
26
Vedi l’intervento di CASTIGLIONI in questo volume.
27
Gauthier (1992).
28
Vedi i già citati interventi di Dalla Zuanna (1999, 2000, 2003).
14
Inoltre, resta aperto il problema di spiegare come mai in Italia, proprio nel
paese dove forse è più accentuata la retorica sull’importanza della famiglia come cardine della società, i servizi e il sistema fiscale siano stati così refrattari ad
adeguarsi ai mutamenti della famiglia stessa.
3.4 Evoluzione incompleta del sistema di genere
La formulazione più sintetica di questa lettura della bassa fecondità è stata
suggerita da Peter Mc Donald29. Egli afferma che la fecondità è diventata bassissima nelle società e nei gruppi sociali in cui il sistema di genere pubblico si è
evoluto in senso paritario, mentre quello privato (all’interno della coppia) è rimasto ancorato alle tradizionali asimmetrie. Anche in Italia, effettivamente, negli ultimi quarant’anni il sistema di genere pubblico si è modificato in senso paritario
(anche se non si può certo parlare – ad esempio – di opportunità di carriera uguali per uomini e donne): ormai le donne possono accedere a tutte le professioni pubbliche, conseguono titoli di studio maggiori rispetto agli uomini, hanno
tassi di attività vicini a quelli maschili, specialmente prima dei 30 anni di età.
Nello stesso tempo, però, nelle coppie la ripartizione dei compiti di cura è pesantemente squilibrata: non solo (in una logica tradizionale di “divisione del lavoro”) se la donna è casalinga, ma anche se la donna lavora a temo pieno per il
mercato.
La necessità e la volontà di lavorare – per non vedere drammaticamente decurtato il reddito familiare e/o per evitare un’indesiderata perdita di ruolo – continuando a dedicare molte ore al giorno al lavoro domestico, senza un aiuto
consistente da parte del marito, e in un contesto di scarsa arrenzione da parte
dello stato, porterebbe le donne all’impossibilità di reggere contemporaneamente lo stress della tripla presenza (per il mercato, per la casa e per il nuovo
figlio). L’Italia condivide la situazione appena descritta con il Giappone, la Spagna, il Portogallo e la Grecia: tutti paesi a bassissima fecondità, e con un gap
molto ampio fra fecondità osservata e desiderata.
Questa chiave di lettura della bassa fecondità è stata ripresa e condivisa da
molti autori, e ci sembra abbastanza convincente, almeno per il caso italiano.
Fra l’altro MENCARINI e TANTURRI in questo convegno hanno mostrato che – nelle coppie di attuali quarantenni dove entrambi i coniugi hanno sempre lavorato
– la probabilità di avere il secondo e il terzo figlio è stata più alta quando il marito ha condiviso con la moglie la cura della casa e del figlio precedente, e quando – nello stesso tempo – dopo la nascita del figlio precedente non vi è stato né
un incremento del tempo di lavoro di lui, né una diminuzione di quello di lei, né
una diminuzione del reddito familiare.
Anche in questo caso, resta il problema di comprendere come mai in certi
paesi piuttosto che in altri l’evoluzione del sistema di genere privato non è riuscita a tenere il passo dell’evoluzione del sistema di genere pubblico.
3.5 Persistenza di legami forti fra genitori e figli
L’ultimo processo sociale collettivo che – a nostro avviso – contribuisce a
creare e mantenere il gap fra fecondità desiderata e effettivamente realizzata in
29
McDonald (2000).
15
Italia è la persistenza di legami forti fra genitori e figli. Illustriamo innanzitutto
questa peculiarità, per spiegare poi come questi “legami forti” possano contribuire a spingere verso il basso la fecondità.
Alcuni autori hanno mostrato come nei paesi della sponda Nord del Mediterraneo i legami familiari siano da lungo tempo assai diversi rispetto a quelli dei
paesi dell’Europa centrale e settentrionale. Si tratta di una diversità antropologica, che tutti assorbono “con il latte della mamma”, ossia fin dai primi momenti
della vita30. In sintesi, nei paesi dell’Europa del Sud i legami fra genitori e figli
rimangono forti anche oltre il secondo decennio della vita, mentre nei paesi
dell’Europa del Nord essi si indeboliscono rapidamente31. Questo, fin dai secoli
passati, ha portato a organizzazioni sociali molto diverse. Nell’Europa del Nord
era molto diffusa la “circolazione dei servi”, ossia l’abitudine per le famiglie di
“scambiarsi” i figli adolescenti, che andavano in casa d’altri per imparare un
mestiere. Nell’Europa del Sud, invece, questo accadeva assai più di rado, e i
giovani andavano a servizio – risiedendo stabilmente a casa del “padrone” – solo se spinti dalle necessità economiche. Inoltre – e in parte di conseguenza –
nell’Europa del Sud l’uscita dalla casa paterna era generalmente assai più tardiva rispetto all’Europa del Nord. Inoltre, in ampie zone dell’Europa del Sud (in
Italia nelle regioni del Centro e del Nord Est) molti maschi non uscivano affatto,
poiché portavano la sposa nella casa paterna, adottando la residenza postconiugale patrilocale.
In epoca contemporanea, e con il tramonto della società contadina, molte
cose sono cambiate: in tutta Europa il “servizio” non esiste più, e anche la residenza patrilocale è stata ovunque praticamente abbandonata. Tuttavia, la distinzione fra società a legami familiari forti e deboli è più attuale che mai. Limitiamoci a osservare un importante carattere del legame fra le generazioni, ossia
la residenza al momento delle nozze (tabella 5). In Italia, tutti i parametri di
prossimità fra figli e genitori sono più accentuati: i giovani adulti escono più tardi
da casa, quando escono si stabiliscono assai di frequente più vicino ai genitori,
a parità di distanza con i genitori vanno molto più spesso a trovarli, o ricevono
più spesso la loro visita quotidiana.
[Tabella 5]
[Figura 5]
La prossimità rispetto alle famiglie degli ascendenti è straordinariamente costante nel tempo (figura 5). Anche nei matrimoni celebrati nell’ultimo trentennio
del Novecento, solo il 30% delle nuove coppie si è stabilita a più di un chilometro da almeno un’ascendente, mentre quasi una coppia su quattro si è stabilita
a meno di un chilometro da entrambi gli ascendenti. In altre parole, in un caso
su quattro ci si è sposati fra vicini di casa, e si è andati a vivere nello stesso rione (o nello stesso paese) dei genitori di entrambi i coniugi.
30
Reher (1998), Micheli (2000), Dalla Zuanna (2001), Barbagli et al. (2003).
Ciò non significa che nell’Europa del Nord i genitori vogliano “meno bene” ai figli rispetto ai
genitori dell’Europa del Sud. Si tratta solo di due modi diversi – e socialmente determinati - per
esplicitare pienamente la loro genitorialità.
31
16
Questa persistente prossimità fra genitori e figli si traduce anche in scambi
molto intensi – di ogni tipo – fra le generazioni. Per quanto qui ci interessa, è
importante sottolineare l’intensa proiezione dei genitori italiani sui propri figli,
che considerano vittorie e sconfitte dei loro “bambini” come vittorie e sconfitte
personali. Ciò si traduce in un’intensità di risorse riversate dai genitori verso i
figli assai più accentuata rispetto a quanto accade nei paesi del Centro e del
Nord Europa. I genitori dell’Europa Meridionale si sentono responsabili in toto
della costruzione del capitale umano dei loro figli, e sono disposti a fare della
mobilità sociale ascendente e della qualità della vita dei loro figli uno dei valori
portanti (spesso “il” valore portante) della propria esistenza32.
In questa prospettiva è facile comprendere perché tutte le coppie italiane vogliono il primo figlio: nessuno vuole rinunciare a un tipo di legame che – da solo
– è capace di dar senso alla vita, in termini che ci sembrano ben più intimi e
“profondi” di quelli teorizzati da Shoen e compagni evocando il concetto di capitale sociale (vedi par. 2.2.2). Nello stesso tempo, ben si comprende la esasperata prudenza malthusiana delle coppie italiane. La rinuncia al secondo o al terzo figlio sarebbe dovuta da un lato al timore di nuocere alla “qualità” del figlio
già nato (o dei figli già nati), dall’altro alla paura di non essere in grado di garantire al nuovo nato risorse sufficienti. Quindi, gli italiani avrebbeo troppi figli perché vogliono “troppo bene” ai figli, e non viceversa33.
Si comprende anche la tenuta di lungo periodo della bassa fecondità italiana:
appena abbandonati i circoli viziosi del sottosviluppo – quando le prospettive di
mobilità sociale per i figli erano basse o addirittura inesistenti – l’impegno delle
famiglie per garantire ai figli una vita migliore (o almeno non peggiore) della
propria alimenta continuamente la corsa ai figli di “alta qualità”. Questa aspirazione vince facilmente in competizione con il desiderio di una famiglia più numerosa, pur sempre presente, quasi come il fantasma di un passato ormai
sempre più lontano.
Si comprende, infine, perché le coppie italiane, quando emigrano in zone dove la fecondità è più bassa, siano così scattanti nell’adeguarsi a modelli fecondi
del paese d’arrivo34. Infatti, una volta mutato il contesto esterno di riferimento,
con il sorgere di improvvise possibilità per i figli, il desiderio di avere figli di “alta
qualità” soppianta rapidamente il desiderio di avere una prole più numerosa,
assimilato negli anni della prima socializzazione familiare.
I cambiamenti socioeconomici degli ultimi decenni hanno accentuato la responsabilità dei genitori sulla mobilità ascendente e sulla qualità della vita dei
loro figli. In primo luogo, l’avanzare continuo degli standard di consumo ha innalzato i “costi vivi” del childrearing (vestiti, alimentazione, accessori che ora
32
I dati empirici a sostegno di queste affermazioni sono molteplici, e rimandiamo per questo ad
altri lavori su questo tema (Dalla Zuanna, 2001; Barbagli et al., 2003; Micheli e Dalla Zuanna (in
stampa)).Questo modo di vedere il rapporto con i figli non deve essere considerato come puramente oblativo. Infatti, da un lato i genitori si aspettano che anche i figli abbiano verso di loro –
in tutte le fasi della vita – lo stesso tipo di affetto e di disponibilità. Dall’altro, poiché i genitori si
identificano nei successi e nelle sconfitte dei loro figli, possiamo parlare, in un certo senso, di
egoismo familiare (o di familismo).
33
Palomba (1991). Vedi anche l’intervento di CASTIGLIONI in questo volume.
34
Anzi, le coppie italiane di seconda e terza generazione possono avere una fecondità più contenuta rispetto agli autoctoni. È il caso, ad esempio, degli immigrati italiani in Australia (Barbagli
et al., 2003, cap. IV) e in Belgio (Perrin e Poulain, 2002).
17
sembrano indispensabili anche per i figli adolescenti della middle class italiana
come il telefonino – con le relative salate bollette – lo scooter, le vacanze
all’estero per imparare un lingua, eccetera). In secondo luogo, l’incremento degli standard di istruzione e di formazione ha accentuato enormemente le risorse investite in formazione dei bambini e dei ragazzi: non solo la scuola, ma anche lo sport, la musica, le altre attività espressive… Infine, è aumentato anche il
carico diretto sui genitori per accompagnare l’ingresso dei figli nella vita adulta.
Ad esempio, quasi l’80% delle nuove coppie sposate alla fine degli anni Novanta è andata a vivere in una casa in proprietà, per l’acquisto della quale, in più di
metà dei casi, è stato essenziale il contributo di almeno una delle due famiglie
d’origine; più di metà dei loro padri e nonni, invece, quando non andò a vivere
con i genitori di un coniuge, iniziò la vita a due in modesti appartamenti o in piccole case in affitto35.
La persistenza di legami forti fra le generazioni può contribuire a spiegare
anche come mai il sistema di welfare italiano sia così poco generoso con le famiglie con più figli. Come ha mostrato molto bene Paul Ginsborg, in una società
molto centrata sui legami familiari c’è poco posto per lo stato36. Da un lato le
famiglie tendono a risolvere al loro interno tutte le tensioni, e di conseguenza le
istituzioni non sono particolarmente pressate a intervenire. Non si ricorda, in
un’Italia abbastanza propensa a scendere in piazza sventolando bandiere, nessuna manifestazione di protesta e nessuno sciopero per indurre il governo a innalzare gli assegni familiari, per costruire nuovi asili nido, o per organizzare le
città in modo più amichevole verso le famiglie con figli.
In secondo luogo, quando la proiezione sui propri figli è così accentuata, è
difficile riconoscere il valore collettivo dei bambini. Ecco, quindi, che i ragionamenti dei demografi e degli economisti sull’oggettivo beneficio per tutti di una
società demograficamente equilibrata vengono percepiti come estranei da una
cultura centrata sull’enfasi dei rapporti interni alla famiglia. L’idea condivisa –
anche se inespressa e forse per molti inconfessabile – è che i figli sono una
faccenda privata, e che chi decide di averli deve sostenere in toto le conseguenze – positive e negative – di tale decisione.
La continuità di questo carattere originario37 – che può essere considerato un
“rumore di fondo” della società italiana – può aver contribuito a rallentare e a orientare altri processi di modernizzazione riguardanti i rapporti privati interni alla
famiglia. Ad esempio, Alessandro Rosina ha mostrato come la diffusione tardiva
delle convivenze in Italia sia verosimilmente associata alla preventiva necessità
dell’assenso dei genitori, che sembra maturare solo per le attuali generazioni di
giovanissimi, figli di chi fu adolescente durante la rivoluzione di costume degli
anni Sessanta e Settanta38. In un'altra sede abbiamo mostrato come la difficoltà
di diffusione in Italia della contraccezione moderna (in particolare della pillola e
della spirale) all’interno delle coppie coniugate, e della quasi mancanza della
sterilizzazione volontaria femminile (per non parlare di quella maschile) possa
essere dovuta anche alla non volontà – da parte degli uomini e delle donne – di
35
Barbagli et al. (2003), cap. IV.
Ginsborg (1989, 1998)
37
“I caratteri originari” è il titolo del primo volume di una storia delle regioni italiane pubblicata
qualche anno fa da Einaudi.
38
Rosina (2001, 2002), vedi anche Barbagli et al. (2003), cap. II.
36
18
perdere la propria potenzialità feconda, di recidere (simbolicamente e fisicamente) la possibilità di creare un nuovo legame di sangue39.
È possibile che anche l’evoluzione in senso paritario del sistema di genere
privato sia stata parzialmente frenata dalla persistenza di legami forti fra genitori
e figli, che per lunghi anni si concretizzano all’interno delle mura della casa dei
genitori. Possiamo supporre che per mantenere un’alta qualità della vita familiare (che si esplicita anche in pasti regolari ben cucinati, guardaroba ben organizzato, camicie pulite e ben stirate, casa ordinata, bagno e pavimenti a specchio)
le donne siano restie a chiedere con troppa convinzione al marito (inesperto e
pasticcione) di imparare a condividere il lavoro di cura. Preferiscono arrangiarsi,
o lavorare per pagare un’altra donna esperta che lo faccia al posto loro. Lo
stesso potrebbe valere con riferimento alla cura dei figli: se si punta a dare al
figlio le migliori cure possibili, si può ritenere più logico per una coppia accentuare una specializzazione femminile recepita come “naturale”, piuttosto che rimettere tutto in discussione.
Come si può capire dai numerosi condizionali utilizzati nel capoverso precedente, per quanto ne sappiamo questi aspetti non sono stati ancora oggetto di
studi sufficientemente approfonditi. Tuttavia, è difficile pensare che bassa fecondità, sistema di genere privato squilibrato, scarsa attenzione del welfare
verso le famiglie con più figli e legami forti fra genitori e figli si concentrino nelle
medesime società senza interagire reciprocamente. Noi riteniamo che una caratteristica originaria, come la tipologia dei legami fra le generzioni, possa agire
come forza di fondo, modellando anche altri aspetti dell’organizzazione sociale.
4. Conclusioni: migrazioni e fecondità in una prospettiva integrata di ricerca
Concludiamo con un cenno su possibili futuri percorsi di ricerca. Osservando
figura 2, possiamo chiederci come abbia fatto la società del Centro e Nord Italia
a sostenere, senza implodere demograficamente, una fecondità così bassa per
un numero così elevato di generazioni. La risposta, ovviamente, è nei movimenti migratori, che hanno sempre alimentato la parte bassa della piramide delle
età e della stratificazione sociale. È possibile che una delle mancate spinte alla
ripresa della fecondità del Centro e Nord Italia (a cominciare dalle regioni del
Nord Ovest40) sia stata la disponibilità praticamente illimitata di un “esercito di
straccioni”, disposti a trasferirsi (prima dal Veneto, dal Friuli e dalla Venezia
Giulia, poi dal Sud e oggi dal Terzo Mondo) per fare i lavori che i genitori autoctoni non avrebbero mai accettato per i loro figli di “alta qualità”. Su questi aspetti
la ricerca è attualmente in corso. Le prime verifiche empiriche confermano l’idea
che bassa fecondità, sostenuti movimenti migratori, spinta alla mobilità sociale
intergenerazionale abbiano effettivamente interagito, generando un sistema olistico coerente ed equilibrato.
39
Dalla Zuanna (2002)
Se nelle quattro regioni del Nord Ovest nel periodo 1951-2001 non ci fossero state migrazioni, la popolazione oggi sarebbe di 10 milioni di persone (invece dei 15 milioni attuali) e la proporzione di ultraessantacinquenni sarebbe del 26% (invece del 19% attuale). Sono queste cifre
che ci autorizzano a dire che le migrazioni hanno impedito l’implosione demografica della popolazione di alcune regioni italiane (Dalla Zuanna e Michielin, 2003).
40
19
È sempre difficile, in una scienza osservazionale come la demografia, parlare
di causalità. Tuttavia, è affascinante supporre che la bassa fecondità e le sostenute migrazioni siano state, e possano essere anche nei decenni futuri, una
risorsa piuttosto che una minaccia allo sviluppo socioeconomico della popolazione italiana.
20
Tabelle
TABELLA 1 – Differenze di fecondità coniugale secondo alcune caratteristiche dei due
coniugi. Coppie coniugate nella seconda metà del Novecento, in costanza di matrimonio, con entrambi i coniugi sopravviventi nel 1998 (anno dell’intervista). Rischi relativi,
con rischio della modalità di riferimento posto uguale a uno
Primo figlio
Secondo
entro tre anni
Figlio
di matrimonio
La donna lavorava prima del matrimonio o della nascita del figlio precedente
No
1,00
1,00
Sì
0,86**
0,80***
Titolo di studio del marito e della moglie
Entrambi elementari
1,00
1,00
Marito elementari, moglie medie inferiori
0,96
1,13
Marito elementari, moglie diploma o laurea
0,84
0,87
Marito medie inferiori, moglie elementari
0,96
0,91
Entrambi medie inferiori
0,91
1,03
Marito medie inferiori, moglie diploma o laurea
0,80
1,27
Marito diploma o laurea, moglie elementari
0,80
0,94
Marito diploma o laurea, moglie medie inferiori
0,77*
1,41***
Entrambi diploma o laurea
0,67*
1,24**
Luogo di nascita e mobilità della coppia
Stabili Nord Ovest
1,00
1,00
Nord Est Centro ! Nord Ovest
1,21
0,93
Un coniuge Sud ! Centro Nord
1,55***
1,13
Stabili Nord Est
1,67***
1,35***
Altro tipo di mobilità
1,47***
1,78***
Entrambi i coniugi Sud ! Centro Nord
1,67***
2,20***
Stabili a Sud
2,47***
3,85***
Numero di fratelli della moglie
Nessuno
1,00
1,00
Uno
1,24**
1,24**
Due
1,35***
1,71***
Tre o più
1,55***
1,93***
Numero di fratelli del marito
Nessuno
1,00
1,00
Uno
1,02
1,32***
Due
1,25***
1,44***
Tre o più
1,35***
1,72***
Condivisione fra i coniugi delle funzioni religiose (al momento dell’intervista)
Spesso
1.00
1,00
Qualche volta
0,86**
0,71***
Raramente
0,74***
0,66***
Mai
0,75***
0,65***
* 0,10<p<0,05 ** 0,05<p<0,01 ***p<0,01
Terzo
Figlio
Quarto
Figlio
1,00
0,80***
1,00
0,90
1,00
0,82*
0,68
1,00
0,69***
0,76*
0,88
0,71***
0,89
1,00
0,96
1,14
0,75
0,68**
0,42***
0,54
0,74
0,58***
1,00
1,21
1,19
0,94
1,29*
1,42**
2,01***
1,00
0,79
0,90
0,98
1,25
1,24
1,73***
1.00
81
97
1.16*
1,00
0,74*
0,96
1,34*
1,00
0,97
1,19*
1,41***
1,00
0,87
0,97
1,28
1,00
0,88**
0,98
0,94
1,00
0,95
0,91
1,28
Si tratta di quattro regressioni logistiche. Le altre variabili esplicative inserite nei quattro modelli
sono: età al matrimonio del marito, età al matrimonio della moglie, convivenza prenuziale, distanza fra matrimonio e primo figlio, concepimento prenuziale. Le ultime due variabili non sono
ovviamente incluse nel primo modello (distanza fra matrimonio e perimo figlio).
Fonte: Indagine Istat Multiscopo del 1998 su Famiglia e Soggetti Sociali. Vedi anche Barbagli et
al. (2003), cap. V. Ringrazio il dottor Roberto Impicciatore che ha eseguito le elaborazioni.
21
TABELLA 2 – Coefficienti beta di regressione fra variabili del comportamento riproduttivo
(dipendenti) e alcune varabili indipendenti, fra cui tre fattori socioculturali (1).
Tradizione
Consumismo e autoritarismo
Coinvolgimento
Titolo di studio
(– basso, alto +)
Lavoro attuale della intervistata (0 no, 1 sì)
Età all’intervista
Numero di figli della
madre
Lavoro della madre (0
mai, 1 altra risposta)
Residenza in età 15-19
(0 sud, 1 centro-nord)
Frequenza riti religiosi
(– mai, spesso +)
Popolazione
Numerosità
** 0,05<p<0,01 ***p<0,01
Età 1° rapporto sessuale (0 prima, 1 dopo
il 20° compleanno)
0,169***
0,011
Coabitazione
(0 sì, 1 no)
Numero di figli
effettivo
0,097***
0,097***
Numero
ideale di
figli in Italia
0,104***
-0,047**
-0,062***
0,172***
-0,013
0,070**
-0,011
-0,089***
-0,038
-0,020
-0,006
-0,057
-0,017
-0,088**
0,198***
0,007
-0,043
-0,047
-0,053**
0,127***
0,066
0,192***
0,050**
-0,007
0,002
-0,026
-0,104***
0,047
-0,205***
-0,197***
-0,007
0,088***
0,020
-0,019
Tutte le donne
Almeno una
unione
1.102
Tutte
le donne
2.102
Donne 40+
con 1 figlio o +
582
1.845
0,120***
-0,009
La diversa scala delle quattro variabili dipendenti fa sì che i quattro coefficienti di regressione
associati a ogni indicatore non siano fra loro confrontabili (nel senso delle righe), anche se le
variabili indipendenti sono standardizzate (con media 0 e varianza 1).
(1) Questi fattori sono frutto di un’analisi dei fattori applicata a una batteria di 21 item più volte
testata e applicata per rilevare le maggiori correnti socioculturali attive in Italia negli anni Novanta. Sono TRADIZIONALI le donne in accordo con le frasi: “Se la nostra società è diventata così
violenta, è perché la gente si è allontanata dalla religione”, Quando ci si sposa è per sempre”,
La cosa più importante è salvaguardare la rispettabilità della propria famiglia”, e in disaccordo
con “È bene che i giovani abbiano esperienze sessuali prima del matrimonio”. Sono CONSUMISTE E AUTORITARISTE le donne in accordo con le frasi: “Mi piace comperare delle cose
che mi facciano fare bella figura”, “Mi piace seguire la moda”, Solo grazie allo sviluppo dei consumi la gente potrà vivere meglio”, “La pena di morte dovrebbe essere ammessa per casi particolarmente gravi”, Sono favorevole all’approvazione di leggi che impediscano a certi stranieri di
lavorare in Italia” e “Per risolvere i problemi del paese sarebbe bene concentrare il potere nelle
mani di pochi”. È significativo – nell’attuale congiuntura politica italiana, dove la destra di estrazione autoritaria è da ormai un decennio alleata con forze politiche sedicenti liberali, fortemente
venate da populismo, alfieri dell’equazione fra consumismo e modernità – che le persone più
consumiste siano anche quelle più autoritariste. Infine, sono COINVOLTE le persone in accordo
con “Non mi basta essere spettatore di quanto accade intorno a me, ma sento il bisogno di intervenire e di dare il mio contributo”, “Ho dei valori e degli ideali in quali credo profondamente”,
ma anche con “Mi piace sentire e vivere il mio corpo molto intensamente”, e che rifiutano
l’espressione: “È perfettamente giusto e naturale che in certi campi le donne abbiano meno libertà degli uomini”.
Fonte: De Sandre e Dalla Zuanna (1999), su dati della Family and Fertility Survey del 1997.
22
Tabella 3 – Fattori esplicativi individuali della fecondità aggiuntiva attesa dalle donne
europee, intervistate nella seconda metà degli anni Novanta (1). Rischi relativa di una
regressione logistica le donne in età 20-39 (Germania e Svezia) e 25-44 (Italia e Francia).
Italia
Età all’intervista
40-44
1,00
35-39
0,74**
30-34
0,45**
25-29
0,25**
20-24
(---)
Stato civile
Coniugata
1,00
In unione consensuale
2,16**
Già coniugata
1,63**
Single
2,32**
Ampiezza comune di residenza
Meno di 10.000
1,00
10.000-100.000
0,79*
Più di 100.000
n.s.
Istruzione
Bassa o media
1,00
Alta
0,46**
Numero di fratelli e sorelle dell’intervistata
Nessuno o uno
1,00
Due o più
0,50**
Partecipazione alle funzioni religiose
Alta
1,00
Media o Bassa
1,30**
Nulla
2,14**
* 0,05<p<0,15 ** p<0,05
Francia
Germania
1,00
0,76**
0,47**
0,20**
(---)
(---) ( )
1,00
0,67**
0,52**
0,34**
(---)
1,00
0,56**
0,12**
0,08**
1,00
2,28**
1,58**
5,28**
1,00
1,67**
1,41**
2,43**
1,00
3,57**
2,18**
10,28**
1,00
n.s.
1,47**
1,00
n.s.
n.s.
1,00
n.s.
1,70**
1,00
0,68**
1,00
0,75**
1,00
n.s.
(---)
(---)
1,00
0,67**
1,00
n.s.
(---)
(---)
(---)
1,00
1,43*
1,76**
1,00
n.s.
n.s.
2
Svezia
1
( ) La variabile dipendente vale 1 se la donna intervistata si aspetta di non avere figli, o di averne uno solo, 0 se si aspetta di averne due o più.
2
( ) Variabile o modalità non considerata.
Fonte: De Rose e Racioppi (2001), su dati della Family and Fertilità Survey della seconda metà
degli anni Novanta.
23
Tabella 4 – Fattori esplicativi individuali e contestuali della fecondità complessivamente
attesa dalle donne europee, intervistate nella seconda metà degli anni Novanta. Regressione logistica multilevel per le donne in età 25-44 (primo livello) e i paesi (secondo livello 1).
Fattori individuali
Corte di nascita ed età approssimativa all’intervista
1950-54 (42 anni)
0
1955-59 (37 anni)
0.279**
1960-64 (32 anni)
0,602**
1965-69 (27 anni)
1,031*
Stato civile
Coniugata
0
In unione consensuale
-0,911*
Già coniugata
-0,716*
Single
-1,350**
Ampiezza comune di residenza
<10.000
0
10.000-100.000
-0,110**
100.000 +
-0,328**
2
Fattori contestuali ( )
Modernizzazione
0,080**
Equità del sistema di genere
0,123*
* 0,10<p<0,05 ** 0,05<p<0,01
1
( ) I paesi analizzati sono: Lettonia, Lituania, Ungheria e Polonia (Est); Italia e Spagna (Sud);
Austria, Germania, Francia e Belgio (Centro); Norvegia, Svezia e Finlandia (Nord).
2
( ) I due fattori sono stati ottenuti applicando un’analisi delle componenti principali al un insieme
ampio di indicatori di tipo demografico: durata media della vita (M e F), tasso di mortalità infantile, tasso grezzo di nuzialità e di divorzialità, numero medio di figli per donna; di tipo socioeconomico: reddito pro capite, tasso di disoccupazione, tasso di attività, livello medio di istruzione;
e infine concernenti la condizione della donna: tassi di disoccupazione, attività e istruzione delle
donne, proporzione di donne facenti parte del governo.
Fonte: De Rose e Racioppi (2001), su dati della Family and Fertilità Survey della seconda metà
degli anni Novanta.
Tabella 5 - Residenza dei genitori e dei figli adulti in alcune nazioni sviluppate durante
gli anni Ottanta
Regno USA AustraGerAustria UngheItalia
Unito
lia
mania
ria
Percentuale di genitori che vivono con almeno…
… un figlio maschio adulto
32
21
30
40
39
37
60
… una figlia femmina adulta
29
14
25
26
25
30
58
Figli adulti (% di colonna) che non vivono con i genitori, la cui madre vive alla distanza di…
… 15 minuti o meno
32
27
24
38
37
43
57
… tra 15 minuti e 1 ora
40
31
33
30
35
35
26
… tra 1 e 5 ore
19
19
20
22
23
19
8
… 5 ore o più
9
23
23
9
4
4
4
Percentuale di adulti che
16
7
20
17
32
32
11
vivono a meno di un’ora
dalla propria madre, che la
vedono ogni giorno
Fonte: Ginsborg (1994).
24
Figure
Figura 1 – Schema riassuntivo della relazione fra valori postmoderni e postmaterialisti
e fecondità
+
Fecondità desiderata
+ (a)
Fecondità effettiva
- (b)
Fecondità tardiva
Valori postmoderni
Valori postmaterialisti
+
FIGURA 2 – Numero medio di figli nelle generazioni di donne. Centro Nord, Sud, Italia e
Francia
3,30
3,10
2,90
2,70
2,50
2,30
2,10
1,90
1,70
1,50
1,30
Francia
1962
1959
1956
Italia
1953
25
1950
Fonte: Barbagli et al. (2003), cap. V.
1947
Sud
1944
1941
1938
1935
1932
1929
1926
1923
1920
Centro Nord
Numero di figli per matrimonio
FIGURA 3 – Numero medio di figli per matrimonio nelle tre grandi ripartizioni italiane e in
Italia. Coppie in costanza di matrimonio
3,40
3,30
3,20
3,10
3,00
2,90
2,80
2,70
2,60
2,50
2,40
2,30
2,20
2,10
2,00
1,90
1,80
1,70
1,60
1,50
1,40
Triangolo industriale
Sud
-1946
Terza Italia
Italia
1946-50 1951-55 1956-60 1961-65 1966-70 1971-75 1976-80 1981-85 1986-90
Anno di matrimonio
Fonte: Barbagli et al. (2003), cap. V.
FIGURA 4 – Probabilità di accrescimento della famiglia delle coppie italiane, per anno di
matrimonio e luogo di residenza nel 1998. Coppie coniugate, coresidenti nel 1998
a) Proporzione di matrimoni con almeno un figlio
Triangolo industriale
Terza Italia
Sud
1,000
0,950
0,900
0,850
Prima
1946
194650
195155
195660
196165
196670
197175
Anno di matrimonio
(continua)
26
197680
198185
198690
Figura 4 (continua)
b) Proporzione di matrimoni fecondi con almeno due figli
1,000
0,900
0,800
0,700
0,600
0,500
Prima
1946
194650
195155
195660
196165
196670
197175
197680
198185
198690
Anno di matrimonio
c) Probabilità dei matrimoni con due figli di averne almeno un altro
Triangolo industriale
Terza Italia
Sud
0,700
0,600
0,500
0,400
0,300
0,200
0,100
Prima
1946
194650
195155
195660
196165
196670
197175
197680
198185
198690
198185
198690
Anno di matrimonio
d) Probabilità dei matrimoni con tre figli di averne almeno un altro
0,800
0,700
0,600
0,500
0,400
0,300
0,200
0,100
0,000
Prima
1946
194650
195155
195660
196165
196670
197175
Anno di matrimonio
Fonte: Barbagli et al. (2003), cap. V.
27
197680
Figura 5 – Coppie secondo l’anno di matrimonio e la distanza dagli ascendenti alle
momento delle nozze. Proporzione residente a meno di un chilometro. Italia
80%
Genitori del marito o della moglie
A meno di un chilometro
70%
60%
Genitori del marito
50%
40%
Genitori della moglie
30%
Genitori del marito e della moglie
20%
10%
0%
fino
1947
19481952
19531957
19581962
19631967
19681972
19731977
Anno di matrimonio
Fonte: Barbagli et al. (2003), cap. IV.
28
19781982
19831987
19881992
19931997
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