SETTIMANA n. 4/03
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SETTIMANA n. 4/03
dialogo aperto SETTIMANA 40-2013 v8:Layout 1 05/11/2013 14.04 Pagina 2 Quale rapporto tra i due eventi? Il Vaticano II e il ’68 Cara Settimana, siamo nel 50° del concilio Vaticano II. È deprecabile pensare che il famigerato e ultradiscusso “Sessantotto” sia e possa essere considerato e accreditato come una germinazione e un frutto, sia pure indiretto e, in qualche caso, dall’aspetto acerbo, del “vento” del concilio? Mi pare che il ’68 abbia dato fiato, applicazione, magari anche spericolata, libertaria e autonomista, nonché sviluppo esistenziale, al senso e allo spirito del concilio, attraverso le tre “P”, o parole valoriali chiave, programmatiche e dinamiche, di quel periodo: parola: essa è stata liberata dalla bocca di tutti perché ognuno possa esprimere serenamente quello che pensa e come vede o non vede le cose; presenza: le persone sono state incoraggiate ad essere e a farsi presenti dove si elabora e si decide la direzione della civiltà, del bene comune e sociale e della storia umana ed ecclesiale; partecipazione: è stata stimolata per non vivere di rendita e farsi e lasciarsi vivere, ma per esercitare il proprio dovere, anzi il diritto, di corresponsabilità personale non delegabile più di tanto. Il ’68 è proprio da deprecare e da demonizzare oppure gli si può applicare la parola ispirata, suggerita da san Paolo: “Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie. Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono”? Il tutto, ben’inteso, nella realtà e nella logica dei due cardini del dettato conciliare: l’unità e la comunione collaborativa e convergente, solidale e non corporativa, non da protagonisti o da navigatori solitari o da battitori individualisti ma da servi e da promotori del bene di tutti e per tutti, non solo economico e materiale, ma pure culturale, spirituale, religioso ed etico. don Gleo settimana 10 novembre 2013 | n° 40 A don Gleo rispondiamo con un intervento del card. Martini ad un convegno, tenutosi nel 1998 a Milano, a trent’anni dal ’68. 2 È giusto che tra le tante voci ve ne sia una di riflessione, perché il ’68 è stato un fenomeno globale e lo si può quindi affrontare da molti punti di vista. Indubbiamente il punto di vista della memoria ci accomuna tutti e tutti ci distingue. Coloro che l’hanno vissuto conservano una serie di riflessioni personali, diverse per ciascuno, ed è quindi difficile misurarsi su parametri identici. Anch’io, in qualche maniera, l’ho vissuto. Mi trovavo in quegli anni a Roma, in una comunità internazionale di studenti, dove affluivano certe istanze, in particolare di timbro francese. Non saprei dire che cosa è stato il ’68 per noi (ero ai primi anni di insegnamento, ma in stretto contatto con gli studenti universitari), dal momento che non riuscivamo a distinguere l’evento del maggio francese e le sue conseguenze per i nostri giovani alunni dall’evento del post-concilio. Probabilmente si è verificata una fusione, in parte felice, tra istanze conciliari e post-conciliari e istanze sessantottine. Ho così vissuto elementi molto positivi. Mi tornano alla mente soprattutto tre pungoli che ci sono stati posti nella carne e che vi restano; pungoli dovuti al Vaticano II, e che però il ’68 ha esasperato obbligandoci ad affrontarli. Mondo cane Avevo bisogno di una marca da bollo. Già era un tormento la quasi certezza che l’importo sarebbe stato sbagliato e al prossimo sportello che dà sulla voragine della burocrazia mi sarei sentito dire di tornare (e rifare la fila) quando avessi l’affrancatura corretta. Speravo, almeno in tabaccheria, di non trovare coda. C’era! Entro e, aggiungendomi alla fila, saluto abitudinariamente: «Buongiorno!». La signora prima di me in fila abbozza un sorriso silenzioso. Dagli altri nessun cenno di risposta. Tanto meno dal tabaccaio, indaffarato con la ricevitoria, particolarmente affollata – dicono – nei tempi di crisi. Un saluto nel vuoto. Poco dopo, entra una “giovane pensionata”. Ha una collezione di anelli alle dita e le braccia ingombrate da un batuffolo di cane, un Dudù in formato bonsai. Senza aver nemmeno buttato lì uno spicciolo di saluti, si vede uno alla volta i clienti in attesa voltarsi verso di lei. «Buongiorno, signora. Ma che bel cagnolino!... Che sguardo simpatico che ha... Quanti mesi ha?... Dove l’ha preso?». E la fila si rovescia per accarezzare il cane. Io non mi accodo ai complimenti, per il vezzo laico di una certa distanza critica dalle effusioni. E così la signora degli anelli mi passa davanti. Me ne guardo bene dal protestare, perché la mossa sarebbe del tutto impopolare: “Maccome, non cede il passo a una signora con un così bel cane?”. L’altro a mantenere posizioni moderate è il tabaccaio, coperto dall’alibi della ricevitoria. Arrivato il mio turno, ricupero la marca da bollo e mi scosto dal banco per riporre il resto nel portafogli. La signora e il suo cane sono usciti. Mi scappa il commento: «Che vita da cani!». «È la vita da uomini quella più dura oggi», mi risponde – complice – il tabaccaio. (M. Matté) 1. Il pungolo della povertà: della povertà della Chiesa, della povertà personale; il confrontarsi con le esigenze di povertà del Vangelo, col bisogno delle istituzioni, libertà da vincoli eccessivi. È un pungolo che ha toccato tutte le comunità cristiane suscitando l’interrogativo: Siamo veramente obbedienti all’istanza di povertà evangelica o ce ne siamo allontanati, ci siamo imborghesiti, rannicchiati nei nostri privilegi dimenticando i poveri? E questo punto, espresso in molti modi, è stato certamente salutare ed è ineliminabile dalla Chiesa, pur se non sarà mai all’altezza di darvi una risposta adeguata. Perciò è chiamata continuamente a esaminarsi, a verificarsi. In quegli anni la tensione alla povertà fu fortissima e diede luogo a nuove esperienze, a nuove comunità, a nuovi modi di vita; alcuni sono falliti, ma il pungolo era reale e sano. 2. Il pungolo della politica. Ricordo ancora quanto fosse sentita la percezione che, anche estraniandosi da ogni interesse politico, si operava una scelta politica. Un pungolo drammatico, che costringeva tutti a una scelta. Ovviamente questa istanza veniva esasperata, faceva della politica l’unica cifra interpretativa. Però faceva uscire da una forma di cristianesimo privato, preoccupato soltanto di sé o di piccoli gruppi, suscitava il bisogno di aprirsi a orizzonti sociali, di lasciarsi coinvolgere. È un altro pungolo che rimane, con dei moti pendolari un po’ da una parte e un po’ dall’altra, un po’ troppo e un po’ poco. Rimane sempre, perché noi dobbiamo interrogarci su quali sono le conseguenze politiche, a livello di organizzazione della società, di difesa dei poveri, di aiuto ai popoli sofferenti. In quegli anni ci rendevamo conto che ogni nostro gesto poteva avere delle conseguenze per i poveri del mondo, per l’organizzazione sociale, per l’economia mondiale, per un nuovo ordine di cose. E questo ci penetrò nella carne allargando a dismisura le nostre responsabilità. Fino ad allora ci sembrava di compiere il nostro dovere adempiendo agli impegni quotidiani; ma ci accorgemmo appunto che in quegli impegni c’erano delle responsabilità planetarie, forse talora eccessive. Gradualmente imparammo a ridimensionarle, a ridistribuirle. 3. Il pungolo della coerenza col Vangelo, che andava al cuore della vita ecclesiale. Nei movimenti del ’68 si cercava molto la coerenza, la trasparenza, l’autenticità. Ci domandavamo: Siamo coerenti con il Vangelo? Lo rappresentiamo in maniera trasparente, autentica? E avvertiamo la nostra distanza e insieme il bisogno di capire che cosa significa interpretare il Vangelo nell’oggi. Come ho accennato all’inizio, queste istanze emergevano in parte per influsso del concilio, in parte perché il ’68 ha giustamente messo in rilievo il bisogno di autenticità, di verità, di libertà, di spontaneità, che trova tanta rispondenza nelle pagine evangeliche. Anche questo pungolo è rimasto. Dobbiamo infatti confrontarci sempre con esso per non impigrirci, ma evitando quell’ansietà che poi distrugge oppure porta a forme esasperate del vivere. Credo dunque di aver ricevuto tanto dal ’68, pur nelle fatiche, nelle sofferenze, nelle difficoltà di moderare le richieste dei miei studenti; nel nostro ambito universitario le idealità erompenti ci hanno procurato molto più vantaggio che svantaggio. Le questioni allora dibattute sono ancora sul banco, ma con meno virulenza e forse con un po’ di pigrizia. Auguro al vostro convegno di imparare dal passato a impostare le questioni vere, senza paura e con obiettività, senza esasperazioni e senza fretta di fare tutto subito. L’esasperazione e la fretta, che caratterizzavano il movimento del ’68, hanno certamente causato anche degli errori. Movimenti storici come quello possono o puntare alto e tradursi così in pazienza costruttiva e generare grandi valori, oppure degradare per superficialità – ci si lascia attrarre soltanto da qualche slogan o ideologia facile – e per fretta, degenerando verso l’intolleranza e poi verso la violenza. Tuttavia ciò non significa che nel ’68 non ci fossero istanze di verità, le quali riportavano il meglio del concilio traducendolo a livello planetario, sociale, socio-politico, culturale. Per chi l’ha vissuto e lo ricorda è stato un momento importante che ha prolungato l’eccitazione, l’ansia e le scoperte del Vaticano II, e quindi rimane come istanza per la Chiesa; anche se forse abbiamo imparato dalla nostra povertà, dalla nostra incapacità ad affrontare i problemi in maniera più obiettiva, uno per volta, con maggiore pazienza storica. Ciò non dovrebbe naturalmente giustificare una pigrizia e un ritrarsi nel privato, nell’individualismo, nel piccolo gruppo; dovrebbe invece spingere ad accettare le sfide di allora che ancora percorrono, ogni tanto, la nostra società, analizzandole attentamente nel desiderio di scoprire il buono che contengono e di evitare le deviazioni verso l’intolleranza e la violenza. Carlo Maria Martini