una introdu - Università degli Studi della Repubblica di San Marino

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una introdu - Università degli Studi della Repubblica di San Marino
Chiara Berti
--------------------------------------------------------------------------------------1. Adolescenza: una introduzione
1.1 Le rappresentazioni dell’adolescenza
Al centro della nostra vita sta il problema dei nostri
rapporti umani (…). Nell’infanzia, abbiamo soprattutto gli
occhi fissi sul mondo degli adulti, buio e misterioso per noi.
Le parole che si scambiano gli adulti fra loro non le
capiamo e non ci interessano, anzi ci annoiano
infinitamente. Ci interessano invece le loro decisioni che
possono spostare il corso delle nostre, i malumori che
offuscano i pranzi e le cene, lo sbattere improvviso di porte
e lo scoppio di voci nella notte. (…) Noi vigiliamo inquieti
ogni minima incrinatura violenta nelle voci che parlano.
(…) Siamo entrati nell’adolescenza quando le parole che si
scambiano gli adulti ci diventano intelligibili; intelligibili
ma senza importanza, perché ci è diventato indifferente che
in casa nostra regni o no la pace. Ora possiamo seguire la
trama delle liti domestiche, prevederne il corso e la durata,
e non ne siamo più spaventati, le porte sbattono e non
sussultiamo; la casa non è più per noi quello che era
prima: non è più il punto da cui guardiamo tutto il resto
dell’universo, è un luogo dove per caso mangiamo e
abitiamo: mangiamo in fretta prestando un orecchio alle
parole degli adulti (…) e possiamo essere molto felici anche
se gli adulti intorno a noi litigano e si tengono il muso per
giorni e giorni. Tutto quello che ci importa non succede più
tra le pareti di casa nostra, ma fuori, per la strada e a
scuola.
Così Natalia Ginzburg descrive l’adolescenza, come un tempo
nel quale le porte sbattute dagli adulti non fanno più sussultare così
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come accadeva durante l’infanzia, perché quello che importa non
accade più tra le pareti di casa. Ma se all’adolescente del quale ci
parla la scrittrice basta chiudersi nella propria stanza per non
sentire più quelle inutili liti, ai dodici anni di Cosimo Piovasco di
Rondò questo non sembra sia stato sufficiente dal momento che,
come ci racconta Italo Calvino,
visse sugli alberi, amò sempre la terra, salì in cielo, come è
scritto sulla tomba di famiglia che non racchiude il suo
corpo, poiché dal momento in cui si ribellò al padre non
discese più sulla terra.
Il mistero che circonda la decisione di Cosimo Piovasco di
Rondò è della natura di quel mistero che accompagna quel periodo
di vita che dall’infanzia porta alla vita adulta. La letteratura
scientifica sull’adolescenza ha offerto numerosi contributi alla
definizione di questa fase della vita, utilizzando molteplici punti di
vista; comune alle diverse ottiche è l’accento sul carattere di
passaggio dall’infanzia alla vita adulta, sul processo di
acquisizione delle caratteristiche fisiche e bio-fisiologiche e delle
competenze cognitive e sociali proprie di un individuo adulto.
L’adolescenza è dunque un tempo di trasformazioni – del
corpo, delle relazioni sociali, degli affetti, delle capacità cognitive,
della percezione di sé – che riassume quei processi di cambiamento
che si protrarranno per tutto il corso della vita, seppure in forma
meno drammatica e conflittuale.
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L’adolescenza è anche il tempo della separazione: anche se per
molti anni continuerà a vivere con i propri genitori, l’adolescente
“esce di casa” e cerca forme di sostegno sociale e di sicurezza
affettiva al di fuori della famiglia d’origine, nel rapporto con
coetanei e adulti.
Nella metafora di Siddharta, Hermann Hesse descrive l’età
adolescenziale come fosse una traversata di un grande fiume
impetuoso. L’adolescenza è dunque anche un’occasione per
provare l’abilità al passaggio, la capacità di affrontare i mutamenti,
di strutturare la propria identità personale, governando la tensione
tra i poli della rottura e delle continuità. Lo sguardo adulto che si
rivolge agli adolescenti ha rivelato spesso sconcerto, ansietà, a
volte delusione. I narratori e i poeti hanno espresso, meglio degli
psicologi, dei sociologi e degli antropologi culturali, i sentimenti
preoccupati che colorano i pensieri degli adulti di fronte agli
adolescenti, pur senza giungere ad augurarsi la scomparsa di questa
fase della vita, come invece scriveva Shakespeare ne “Il racconto
d’inverno”:
Vorrei che non ci fosse età di mezzo
fra i dieci e i ventitré anni
o che la gioventù dorma tutto questo
intervallo;
poiché non c’è nulla in cotesto tempo
se non ingravidare ragazze
vilipendere gli anziani, rubare e darsi
legnate.
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Il punto di vista “classico” – sia della prospettiva
psicoanalitica sia di quella sociologica – caratterizza l’adolescenza
come un periodo di crisi.
All’inizio del ‘900, Stanley Hall per primo usò l’espressione
“storm and stress” per descrivere l’epoca adolescenziale.
Anche se l’adolescenza ha cominciato a essere definita e
studiata come fase a sé della vita umana solo quando, con la
rivoluzione industriale, si è posta l’esigenza di un periodo
prolungato di preparazione alla vita adulta, i versi di Shalespeare
appena citati dimostrano che le preoccupazioni verso quella fase
della vita hanno una storia più antica della nozione stessa.
Questa concezione di adolescenza come periodo della vita
funestato da “tempesta e tensione” ha costituito il punto di vista
dominante negli studi sull’adolescenza almeno fino agli anni ’70.
Ad esempio, per Anna Freud l’adolescenza era “uno stato
disturbato, un periodo di squilibrio psicologico”: Erikson considerò
l’adolescenza un periodo di “crisi normativa” nel quale i giovani
dovevano attraversare una fase di disorientamento per acquisire
una
identità
adulta;
Lewin
parla
di
“stato
marginale”
dell’adolescente. L’enfasi posta sugli aspetti problematici è bene
espressa dai titoli di alcune pubblicazioni dedicate all’adolescenza:
“Identità, gioventù e crisi (Erikson 1968), “Adolescenza come
disordine di sviluppo” (Anna Freud 1969), “Il dilemma
psichiatrico dell’adolescenza” (Masterson 1967), “Adolescenza: la
crisi di aggiustamento” (Meyerson 1975).
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Tali “miti” sull’adolescenza si sono formati soprattutto grazie
a casi studiati in ambito clinico, casi di adolescenti con
caratteristiche diverse o almeno non totalmente sovrapponibili a
quelle della popolazione adolescenziale.
I risultati ottenuti dalle ricerche di ispirazione psicologica “non
clinica”, condotte a partire dalla seconda metà degli anni ’60,
misero in discussione la concezione “classica” che caratterizzava
l’adolescenza come periodo di crisi, conflitti e tensioni e la
generalità dell’inquietudine e del disagio come caratteristica dello
sviluppo adolescenziale.
Contrariamente a quanto previsto dall’impostazione “classica”,
gli studi longitudinali di Offer (1969) fornirono una immagine di
adolescenza priva di inquietudini e conflitti. Anche a Rutter e
colleghi (1976), gli adolescenti apparivano liberi da stress,
consapevoli dei problemi che stavano incontrando in quella fase
della loro vita ma fiduciosi circa la possibilità di poterli affrontare.
Inoltre, le ricerche epidemiologiche hanno fornito risultati che
smentiscono l’idea secondo la quale tutti gli adolescenti
sperimentano una situazione di tumulto e di alienazione dalla
propria famiglia (Coleman e Hendry 1990).
Coleman osserva che si è evidenziata una divergenza di
opinioni tra i sostenitori della concezione “classica” e quelli della
concezione
“empirica”:
mentre
questi
ultimi
sostengono
l’impossibilità di estendere a tutti gli adolescenti le caratteristiche
osservate nel corso delle consultazioni cliniche, i primi segnalano i
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limiti di quelle indagini esplorative che per il loro metodo non
possono toccare la profondità dei vissuti adolescenziali.
I
miti
tuttavia
non
sono
infondati:
l’adolescenza
è
effettivamente un periodo di grandi cambiamenti che richiedono
molteplici adattamenti e che comportano scelte impegnative e, a
volte, dolorose. Tuttavia, secondo Coleman (1974), l’adolescente
non deve generalmente affrontare le difficoltà tipiche di questa
fase tutte allo stesso momento (modello focale dell’adolescenza).
Gli adolescenti non riuscirebbero, sostiene l’autore, ad accettare i
propri cambiamenti fisici, a “separarsi” dai genitori, a imparare a
stare con i coetanei, a intraprendere relazioni affettive, a orientarsi
tra i diversi sistemi di valori, a prefigurarsi quale sarà il proprio
posto nel mondo degli adulti se tutti questi compiti si proponessero
simultaneamente e richiedessero di essere affrontati e risolti nello
stesso momento. Nel corso dei diversi anni dello sviluppo
adolescenziale, sono messi a fuoco particolari problemi: questo
consente agli adolescenti di affrontare senza drammi e in modo
efficace cambiamenti, adattamenti, scelte e distacchi.
In questa concezione, l’adolescenza non è definita come un
periodo di crisi ma come un percorso prolungato, scandito dal
confronto con una serie di richieste, di passaggi, di conflitti.
La nozione di compiti di sviluppo viene utilizzata dagli
studiosi dell’adolescenza per indicare l’insieme dei problemi che
incontra l’adolescente.
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Ecco la lista dei compiti di sviluppo, secondo la formulazione
di Havigurst (1953):
- instaurare relazioni nuove e più mature con coetanei di
entrambi i sessi
- acquisire un ruolo sociale femminile o maschile
- accettare il proprio corpo e usarlo in modo efficace
- conseguire l’indipendenza emotiva dai genitori e da altri adulti
- raggiungere la sicurezza di indipendenza economica
- orientarsi verso e prepararsi per una occupazione o professione
- prepararsi al matrimonio e alla vita familiare
- sviluppare competenze intellettuali e conoscenze necessarie
per la competenza civica
- desiderare e acquisire un comportamento socialmente
responsabile
- acquisire un sistema di valori ed una coscienza etica come
guida al proprio comportamento.
Secondo Palmonari (1997) l’elemento costante e specifico di
questi compiti è la ricerca dell’indipendenza; si tratta di compiti
tipici di un adolescente maschio bianco americano di classe media
degli anni ’50. I compiti di sviluppo, afferma Palmonari, non
hanno uncarattere immutabile e universale. Secondo l’autore, “i
compiti di sviluppo non sono, in una società complessa e pluralista
come la nostra, difficoltà che esistono per ogni adolescente,
sempre uguali e inevitabili. Si definiscono nel rapporto fra
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l’individuo, la sua appartenenza sociale e l’ambiente in cui è
inserito: in certe condizioni sono numerosi ma possono essere
affrontati senza drammi, in altre appaiono particolarmente difficili,
creando frustrazioni, angoscia, senso di impotenza che portano
irrequietezza, aggressività e, al limite, apatia. Tutti gli adolescenti
comunque devono affrontarne per divenire adulti e le energie che
tale impegno richiede sono assai elevate” (p.73).
Anche se troppo limitata per descrivere la vita quotidiana di
uno o più adolescenti reali, è possibile, secondo Palmonari,
definire una classificazione dei compiti di sviluppo, riferendosi ad
alcuni fenomeni universali dell’adolescenza:
- compiti di sviluppo in rapporto con l’esperienza della pubertà
e il risveglio delle pulsioni sessuali;
- compiti di sviluppo in rapporto con l’allargamento degli
interessi personali e sociali e con l’acquisizione del pensiero
ipotetico-deduttivo;
- compiti di sviluppo in rapporto con la problematica
dell’identità (o della riorganizzazione del concetto di sé).
1.2 Compiti di sviluppo e concetto di sé
La nozione di compiti di sviluppo rimanda a quella di coping;
riprendendo la nozione di “far fronte” (coping) utilizzata da
Lazarus nei suoi studi sullo stress, alcuni studiosi mettono in
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relazione le modalità di far fronte ai compiti di sviluppo
dell’adolescenza con la costruzione dell’identità personale.
Newman (1979), sulla base dei risultati di alcuni studi
longitudinali sulle strategie di coping, propone alcune ipotesi:
- l’adolescenza può essere un periodo nel quale si consolida uno
stile personale di coping;
- lo stile di vita nella fase post-adolescenziale sembra
fortemente in rapporto con le competenze, le aspirazioni e le
scelte di vita sviluppate nell’adolescenza;
- il fatto che la maturazione di un individuo continui o no nel
periodo adulto della sua vita può essere in rapporto con la sua
capacità
di
sperimentare
e
di
far
fronte
ai
conflitti
nell’adolescenza. Secondo questa ipotesi, in altre parole, lo stile
personale di far fronte ai
compiti di sviluppo si consolida
nell’adolescenza e resta stabile nell’età adulta.
Bosma e Jackson (1990) hanno curato una rassegna di studi e
ricerche sperimentali su strategie di coping e concetto di sé
nell’adolescenza. Uno degli studi esaminati è quello di Inge
Seiffge-Krenke (1984) la quale nei primi anni ’80 ha analizzato, in
un migliaio di adolescenti tra i 12 e i 19 anni, in modi con i quali
questi affrontano i problemi della vita quotidiana nei rapporti con i
genitori, con gli insegnanti e con i coetanei. L’autrice parte
dell’osservazione che nel ventennio precedente la sua indagine
soltanto il 7% degli studi sul coping si era occupato di adolescenti;
di questi studi, inoltre, solo il 12% riguardava adolescenti alle
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prese con le ordinarie difficoltà della vita quotidiana. La
maggioranza degli studi, infatti, aveva interessato adolescenti
coinvolti in avvenimenti drammatici e comunque straordinari.
Seiffge-Krenke ha identificato tre stili con i quali gli
adolescenti affrontano le difficoltà:
- il primo è quello di un individuo, definito active coper, che
ricorre ad attività positive quali la ricerca di informazioni e la
richiesta di consigli;
- il secondo, tipico dell’internal coper, si fonda sullo sforzo
messo in atto per trovare una soluzione personale ai problemi;
- il terzo è quello del problem avoider: si tratta di uno stile
disfunzionale di coping che si esprime attraverso la negazione e
l’evitamento delle difficoltà. La tendenza ad eludere le crisi
piuttosto che attraversarle non permette all’adolescente di
trovare una soluzione adeguata ai suoi problemi.
L’autrice osserva che il 15-20% degli adolescenti presi in
esame attraverso il suo studio ricorrono a modalità disfunzionali di
far fronte alle difficoltà quotidiane: la maggior parte degli
adolescenti, invece, utilizza strategie adeguate, chiedendo consigli,
cercando il sostegno di coetanei e adulti o mostrando di credere
nelle proprie risorse personali.
Sono soprattutto le adolescenti a ricorrere alle risorse sociali
quando pensano di avere un problema; rispetto agli adolescenti,
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queste mostrano minore fiducia circa la possibilità di affrontare da
sole le difficoltà.
Anche se si osserva una relativa stabilità nello stile personale
di coping, Seiffge-Krenke ritiene che la ricerca abbia trascurato il
ruolo svolto da fattori di natura situazionale sullo sviluppo e
consolidamento degli stili di coping. E’ da chiarire, sostiene
l’autrice, in che misura le relazioni interpersonali, i modelli e le
norme culturali siano in grado di influenzare l’adozione delle
diverse strategie per far fronte alle difficoltà della vita quotidiana.
Il fatto, ad esempio, che gli adolescenti esprimano una
maggiore fiducia nelle proprie capacità e risorse personali e una
minore tendenza a ricorrere a fonti esterne di sostegno rispetto alle
ragazze può costituire un indicatore di come i ruoli di genere
influenzino l’adozione di un particolare stile di coping.
I ruoli di genere sono costituiti da un insieme di aspettative
consensuali che funzionano come una norma la quale influenza il
comportamento dell’individuo e quello degli altri nei suoi
confronti. Secondo alcuni autori, le ragazze disporrebbero di più
scelte identitarie rispetto ai maschi, sia per la rigidità dello
stereotipo
sessuale
comportamenti
maschile
maschili
che
accettati
restringe
socialmente,
la
sia
rosa
per
dei
le
trasformazioni in atto del ruolo femminile.
Conger (1977), ad esempio, ritiene che a un rigido stereotipo
maschile imperniato sul successo corrispondano molteplici
aspettative sociali nei confronti delle adolescenti: una ragazza ha,
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in altre parole, possibilità di scelta che non sono consentite a un
ragazzo.
Come già detto, uno dei problemi che l’adolescente affronta è
quello di definire la propria identità personale di fronte ai
cambiamenti fisici, affettivi e cognitivi che sperimenta su di sé.
La rielaborazione dell’identità personale che si realizza
nell’adolescenza deriva dall’interazione di tutti i cambiamenti che
si verificano in questa fase della vita: lo sviluppo sessuale, la
comparsa delle pulsioni sessuali, le trasformazioni somatiche,
l’acquisizione del pensiero ipotetico-deduttivo, i cambiamenti
degli altri nei propri confronti.
L’adolescente definisce la propria identità attraverso un
progressivo inserimento nel contesto sociale. Vede se stesso
rispecchiato negli altri: nelle richieste, nelle opinioni, negli sguardi
che esprimono consenso o disapprovazione; sguardi che non
sempre si sanno correttamente interpretare e che pure sono così
importanti per l’adolescente.
Secondo Palmonari (1991), l’inserimento nella società avviene
paradossalmente mediante un processo di differenziazione.
Sostiene l’autore che “attraverso il proprio rapporto con i
gruppi di riferimento l’adolescente chiarisce oltre a quello che è e
che vuole essere, anche quello che non è e non vuole diventare,
nonché i motivi dell’accettazione di certi modelli e del rifiuto di
altri.
La costruzione dell’identità, cioè, passa anche attraverso un
processo attivo di differenziazione da modelli di sé che si
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percepiscono realizzabili ma non si accettano, e di ricerca di una
posizione appropriata del sé rispetto agli oggetti sociali
significativi (persone, gruppi, istituzioni, elementi naturali e
moduli cognitivi) che compongono il proprio campo cognitivo. E’
importante aver chiaro che alla base di questi processi cognitivi ci
sono esperienze sociali precise, rese possibili da complessi giochi
di appartenenza e di adesione a vari gruppi” (Palmonari 1991,
p.68).
L’adolescente
precisa
la
propria
identità
in
rapporto
all’appartenenza ad un gruppo e alla differenziazione rispetto ad un
altro; il fatto di appartenere ad un gruppo esclude ai suoi occhi la
possibilità di altre appartenenze. Il tentativo dell’adolescente di
ordinare in categorie la realtà si scontra tuttavia con la realtà
sociale; le sue ancora immature capacità di costruzione di un
quadro semplice e chiaro della realtà sono sfidate dalla comparsa
di nuovi e non previsti gruppi di riferimento che lo costringono a
rimettere in discussione visioni e scelte considerate ormai
definitive.
Susan Harter (1990) in una rassegna di studi sullo sviluppo
dell’identità nell’adolescenza, indica alcuni cambiamenti critici
nella fase adolescenziale. Così come nella scrittura cinese la parola
“crisi” è composta da due ideogrammi che significano “pericolo” e
“occasione”, i guadagni evolutivi dell’adolescenza comportano sia
minacce sia possibilità per la costruzione dell’identità personale.
Harter osserva che, oltre al passaggio da una concezione di sé
in termini fisici a una concezione in termini psicologici,
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l’adolescente mostra una progressiva capacità di riflettere sul
proprio pensiero e sui propri stati d’animo. Nella descrizione di sé
l’adolescente utilizza più categorie rispetto a quelle utilizzate negli
anni precedenti. Questa capacità, che può essere vista come un
guadagno evolutivo, porta con sé la necessità di integrare la
molteplicità degli aspetti in una teoria coerente del sé.
Gli adolescenti che riescono ad affrontare questo compito
potranno raggiungere una rappresentazione chiara e realistica del
concetto di sé che costituirà una base per l’identità futura. Una
navigazione difficile in queste acque produrrà invece un concetto
di sé distorto e irrealistico e una incapacità di integrare aspetti del
sé apparentemente contraddittori e i diversi aspetti del sé connessi
ai molteplici ruoli che l’adolescente si trova ad assumere in questa
fase della vita.
Gli studi documentano che il periodo che va dai 14 ai 15 anni è
quello più critico, in relazione a questo compito, in quanto gli
adolescenti sono ora in grado di cogliere le contraddizioni tra i
diversi aspetti del sé che emergono nei rapporti con i genitori, con
gli amici, col partner, senza riuscire ancora a risolverle.
Secondo Harter, il compito di integrare i diversi aspetti del sé
risulta più arduo per le adolescenti; queste infatti, contrariamente ai
loro
coetanei,
sembrano
sperimentare
maggiori
difficoltà
nell’assumere contemporaneamente ruoli diversi e contraddittori.
Le adolescenti infatti esprimono un bisogno di coerenza e di
integrazione più forte rispetto agli adolescenti; per le adolescenti le
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contraddizioni risultano più salienti e più conflittuali di quanto non
lo siano per i maschi.
Durante l’adolescenza, la descrizione di sé contiene elementi
reali e aspetti ideali. La discrepanza tra i due piani – tra ciò che si è
e ciò che si vorrebbe o si pensa di dover essere – resa possibile
grazie all’acquisizione del pensiero ipotetico-deduttivo, può
produrre, nel caso sia percepita come troppo ampia, scontentezza,
depressione, ansietà. Anche in relazione a questo aspetto, gli studi
rivelano che il periodo più critico è quello compreso tra i 14 e i 15
anni, quando cioè lo scarto tra sé ideale e sé reale è avvertito come
più grande.
Il periodo dell’adolescenza è anche segnato da un improvviso
aumento
della
tendenza
all’introspezione.
L’adolescente
è
particolarmente preoccupato dell’esistenza e del funzionamento di
un sé mentale, sia dei processi consci sia di quelli inconsci.
L’adolescente ha però difficoltà a differenziare le proprie
preoccupazioni, i propri pensieri su di sé, da quelli degli altri.
Erroneamente, attribuisce a una sorta di “uditorio immaginario” la
propria attenzione e i propri giudizi sul suo aspetto e sulla sua
condotta.
Rosenberg (1974) parla di un “concetto di sé barometrico” per
descrivere la “volatilità” del concetto di sé e delle reazioni emotive
ai feed-back che l’adolescente riceve o crede di ricevere dagli altri
significativi.
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La contraddittorietà dei ruoli, le fluttuazioni del sé, le difficoltà
a valutare realisticamente le impressioni suscitate negli altri – rese,
quest’ultime, più cariche di conseguenze proprio per l’importanza
che queste impressioni assumono per l’individuo – sfida le ancora
imperfette capacità dell’adolescente e concorrono a produrre una
particolare vulnerabilità dal punto di vista psicologico.
Nel corso della propria esistenza, gli individui elaborano e
rielaborano continuamente il concetto che hanno di se stessi; fa
parte di tale elaborazione la valutazione che si dà di se stessi, in
altre parole la stima di sé.
Dal punto di vista teorico, la ricerca sulla stima di sé si ispira
ai lavori di William James e di George Herbert Mead. Per James,
la stima di sé è connessa alla percezione del proprio funzionamento
in ambiti importanti; per Mead, svolgono un ruolo decisivo i
giudizi espressi da altri significativi. La Harter (1990), rifacendosi
ai contributi di James e Mead, sostiene che la competenza e il
successo negli ambiti rilevanti per l’individuo e gli atteggiamenti
degli altri significativi sono fattori importanti in qualsiasi età, ma
che lo sono in modo particolare nell’adolescenza .
La psicologa americana ha condotto le sue ricerche sul
concetto di sé, focalizzandosi in modo particolare sull’adolescenza.
L’aspetto fisico contribuisce a definire la stima di sé, in particolare
per le ragazze; la stima di sé si fonda anche sull’accettazione
sociale da parte dei coetanei, sulla competenza scolastica, quella
atletica e la condotta.
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Nell’infanzia e nella fanciullezza sono soprattutto i genitori e
gli insegnanti a influenzare la stima di sé. Con il progredire
dell’età, la stima di sé è influenzata maggiormente dai rapporti con
amici e coetanei.
1.3 L’adolescenza come passaggio
Nelle società tradizionali, il passaggio dalla fanciullezza alla
vita adulta era sancito dalla celebrazione di un rito durante il quale
l’iniziato lasciava la sua famiglia e il villaggio per apprendere i
segreti che avrebbero fatto di lui una persona adulta. Nel rito di
passaggio, l’adolescente doveva affrontare una serie di prove per
poter essere accolto nella società degli adulti; i riti d’iniziazione
all’età adulta avevano la funzione di sottrarre i giovani dalla tutela
dei genitori e di renderli membri a pieno titolo della tribù.
L’iniziando veniva separato dal suo gruppo di appartenenza per
essere introdotto nella società in una condizione diversa. Il rito
modificava radicalmente lo status sociale del soggetto da iniziare e,
segnalando il cambiamento di appartenenza, esprimeva il
mutamento di identità.
Nelle società tradizionali, l’adulto si proponeva come
iniziatore, come colui che, recependo un’istanza che è nel ragazzo
stesso, metteva a disposizione occasioni che provocavano,
facilitavano e segnavano il passaggio alla vita adulta; si proponeva
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come colui che consentiva all’adolescente di leggere e di verificare
la sua esperienza di crescita.
Una delle caratteristiche del mondo moderno è costituita dalla
scomparsa dell’iniziazione: nella nostra società non esiste nessuna
forma esplicita di rito di passaggio (Eliade 1976).
Nella nostra società non ci sono più riti istituzionali di
passaggio che aiutino l’adolescente a definire la propria identità e
il proprio ruolo sociale.
Sebbene sia scomparsa l’iniziazione ritualizzata, l’esigenza di
una definizione della propria identità e la verifica di questa in
rapporto alla realtà sociale costituiscono compiti distintivi
dell’adolescenza, sia in quelle società nelle quali essa è risolta in
un passaggio subitaneo, sia in altre, come la nostra, nelle quali
l’acquisizione dello status di adulto avviene molti anni dopo il
raggiungimento della maturità biologica.
Il legame con i coetanei e la vita di gruppo assumono un ruolo
centrale nel processo di ridefinizione dell’identità personale che si
attua durante l’adolescenza. Oltre alla vita di gruppo, che è un
tratto distintivo della condizione di vita della maggior parte degli
adolescenti, ci si può chiedere quali altre occasioni e spazi
permettano all’adolescente di affrontare in maniera efficace i
compiti di sviluppo e quali caratteristiche assuma la mediazione
adulta, sostanza dell’iniziazione. Nel corso dei riti di passaggio, si
richiedeva il superamento di una prova di coraggio: l’iniziando
doveva superare una serie di esercizi di destrezza, prontezza di
riflessi, sprezzo del pericolo. Oggi, il bisogno di misurarsi e di
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valutare le proprie capacità trova meno possibilità di risposta,
soprattutto per chi vive nelle aree urbane. La manipolazione della
realtà attraverso modelli di riferimento (ad esempio, i videogames)
fa sì che la forza muscolare, la prontezza di riflessi e l’abilità
manuale
siano
sempre
meno
importanti
rispetto
alla
concettualizzazione e alla elaborazione di segnali. La possibilità di
utilizzare nella propria casa una quantità sempre più grande di
tecnologie che consentono la ricezione di informazioni dall’esterno
permette di avvicinare virtualmente realtà lontane, facendole
entrare nel territorio privato di ciascuno; a queste esperienze,
vissute quasi sempre da soli, può capitare di partecipare molto
intensamente. La prospettiva incerta del futuro può ostacolare
l’elaborazione di un progetto di vita e favorire una contrazione
della percezione del futuro, rendendo l’adolescente meno capace di
gestire la propria vita secondo le categorie del possibile (Berti
1991).
Il rito di passaggio, in quelle società dove ancora sopravvive,
comprende anche una serie di cerimoniali che simboleggiano la
separazione del giovane dalla famiglia. Crescere significa prendere
il posto dei genitori e nella fantasia inconscia il crescere è
implicitamente aggressivo. L’esito di questo processo dipende
dalle risposte che famiglia e contesto sociale sapranno dare. Quello
che va evitato è il sottrarsi allo “scontro delle armi”. In un’epoca
nella quale il processo di crescita sembra avvenire senza che si
manifestino aperte ribellioni e conflitti tra genitori e figli, è più che
mai attuale la considerazione di Winnicott: la ribellione appartiene
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alla libertà che voi avete concesso al vostro bambino, allevandolo
in maniera tale da permettergli di esistere di per sé.
L’ambivalenza adulta tra emancipazione e controllo – della
quale l’iperprotettività familiare e la minore conflittualità tra
genitori e figli sono alcune manifestazioni – non permette un
adeguato
sviluppo
dell’autonomia
e
rischia
di
portare
all’incremento di legami disfunzionali per la crescita personale.
Questi aspetti, brevemente delineati, ricordano l’importanza
della presenza adulta e il ruolo del contesto sociale nel processo di
crescita adolescenziale. In questa fase della vita le risposte che il
contesto sociale offre in risposta ai bisogni di crescita sono di
grande importanza. Il mondo degli adulti può sostenere questi
bisogni, indirizzarli, dotarli di significato e valorizzarli oppure
impadronirsene, banalizzarli, ignorarli.
La possibilità di affrontare in modo positivo i compiti di
sviluppo, da quello più impegnativo a quello meno complesso è
legata al sostegno sociale sul quale l’adolescente può contare.
Ricorrendo alla metafora di Siddharta, Palmonari (1997)
immagina diverse vicende adolescenziali. C’è chi, già abile nella
navigazione, si trova ad attraversare il fiume in un giorno di quiete,
guidato da un barcaiolo saggio che lo fa partecipare attivamente
alla traversata e utilizza il passaggio del fiume come un’occasione
per aiutarlo a scoprire aspetti della vita minuti ma carichi di
significato.
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C’è anche chi, privo di qualsiasi esperienza a riguardo, si trova
su un battello guidato da un barcaiolo incapace, disorientato, in un
giorno di burrasca.
Pur con i limiti comuni a qualsiasi metafora, che mettendo a
fuoco un aspetto ne trascura altri non meno significativi, quella di
Siddharta permette di sottolineare due aspetti in particolare del
passaggio adolescenziale:
“a) in tutte le adolescenze il protagonista deve affrontare una
gran mole di problemi: capita ad alcuni che essi siano distribuiti
lungo un percorso e possano essere affrontati uno dopo l’altro sì
che l’impresa possa avere una buona riuscita; capita a molti altri
invece che essi si presentino complessi, più o meno aggrovigliati in
modo assurdo, tali da rendere difficile, a volte quasi impossibile, la
risoluzione di essi. Non c’è adolescenza senza problemi anche se
nella maggior parte dei casi tali problemi possono essere, con un
costo più o meno rilevante, risolti. I problemi, d’altronde, non sono
entità fatali e incomprensibili che capitano a caso. Sono in rapporto
con il contesto culturale e sociale in cui l’adolescente vive, con le
relazioni che egli ha con il suo ambiente più prossimo, con la sua
storia personale (Palmonari, Carugati, Ricci Bitti e Sarchielli
1979).
b) Nel percorso adolescenziale il protagonista non è mai del
tutto solo: egli è sempre in compagnia di altri (genitori, insegnanti,
coetanei, altre persone significative) che possono offrirgli una
guida sicura e comprensiva, oppure richieste incomprensibili tali
da svalorizzare il senso del suo impegno, o al limite dargli
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indicazioni frammentarie e contraddittorie che aggiungono
confusione alla mancanza di esperienza. Questo non vuol dire che
in molte occasioni l’adolescente non si senta veramente solo e
distante da tutti: in quei momenti egli avverte di non potersi fidare
di nessuno, di dover dirigere da solo il proprio cammino. Tutti
fanno, in momenti più o meno lunghi, questa esperienza: è
augurabile che essa non sia quella più importante o, all’estremo,
quella che contrassegna tutta l’adolescenza “(Palmonari 1997,
p.48).
22
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