una introdu - Università degli Studi della Repubblica di San Marino
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Chiara Berti --------------------------------------------------------------------------------------1. Adolescenza: una introduzione 1.1 Le rappresentazioni dell’adolescenza Al centro della nostra vita sta il problema dei nostri rapporti umani (…). Nell’infanzia, abbiamo soprattutto gli occhi fissi sul mondo degli adulti, buio e misterioso per noi. Le parole che si scambiano gli adulti fra loro non le capiamo e non ci interessano, anzi ci annoiano infinitamente. Ci interessano invece le loro decisioni che possono spostare il corso delle nostre, i malumori che offuscano i pranzi e le cene, lo sbattere improvviso di porte e lo scoppio di voci nella notte. (…) Noi vigiliamo inquieti ogni minima incrinatura violenta nelle voci che parlano. (…) Siamo entrati nell’adolescenza quando le parole che si scambiano gli adulti ci diventano intelligibili; intelligibili ma senza importanza, perché ci è diventato indifferente che in casa nostra regni o no la pace. Ora possiamo seguire la trama delle liti domestiche, prevederne il corso e la durata, e non ne siamo più spaventati, le porte sbattono e non sussultiamo; la casa non è più per noi quello che era prima: non è più il punto da cui guardiamo tutto il resto dell’universo, è un luogo dove per caso mangiamo e abitiamo: mangiamo in fretta prestando un orecchio alle parole degli adulti (…) e possiamo essere molto felici anche se gli adulti intorno a noi litigano e si tengono il muso per giorni e giorni. Tutto quello che ci importa non succede più tra le pareti di casa nostra, ma fuori, per la strada e a scuola. Così Natalia Ginzburg descrive l’adolescenza, come un tempo nel quale le porte sbattute dagli adulti non fanno più sussultare così 1 come accadeva durante l’infanzia, perché quello che importa non accade più tra le pareti di casa. Ma se all’adolescente del quale ci parla la scrittrice basta chiudersi nella propria stanza per non sentire più quelle inutili liti, ai dodici anni di Cosimo Piovasco di Rondò questo non sembra sia stato sufficiente dal momento che, come ci racconta Italo Calvino, visse sugli alberi, amò sempre la terra, salì in cielo, come è scritto sulla tomba di famiglia che non racchiude il suo corpo, poiché dal momento in cui si ribellò al padre non discese più sulla terra. Il mistero che circonda la decisione di Cosimo Piovasco di Rondò è della natura di quel mistero che accompagna quel periodo di vita che dall’infanzia porta alla vita adulta. La letteratura scientifica sull’adolescenza ha offerto numerosi contributi alla definizione di questa fase della vita, utilizzando molteplici punti di vista; comune alle diverse ottiche è l’accento sul carattere di passaggio dall’infanzia alla vita adulta, sul processo di acquisizione delle caratteristiche fisiche e bio-fisiologiche e delle competenze cognitive e sociali proprie di un individuo adulto. L’adolescenza è dunque un tempo di trasformazioni – del corpo, delle relazioni sociali, degli affetti, delle capacità cognitive, della percezione di sé – che riassume quei processi di cambiamento che si protrarranno per tutto il corso della vita, seppure in forma meno drammatica e conflittuale. 2 L’adolescenza è anche il tempo della separazione: anche se per molti anni continuerà a vivere con i propri genitori, l’adolescente “esce di casa” e cerca forme di sostegno sociale e di sicurezza affettiva al di fuori della famiglia d’origine, nel rapporto con coetanei e adulti. Nella metafora di Siddharta, Hermann Hesse descrive l’età adolescenziale come fosse una traversata di un grande fiume impetuoso. L’adolescenza è dunque anche un’occasione per provare l’abilità al passaggio, la capacità di affrontare i mutamenti, di strutturare la propria identità personale, governando la tensione tra i poli della rottura e delle continuità. Lo sguardo adulto che si rivolge agli adolescenti ha rivelato spesso sconcerto, ansietà, a volte delusione. I narratori e i poeti hanno espresso, meglio degli psicologi, dei sociologi e degli antropologi culturali, i sentimenti preoccupati che colorano i pensieri degli adulti di fronte agli adolescenti, pur senza giungere ad augurarsi la scomparsa di questa fase della vita, come invece scriveva Shakespeare ne “Il racconto d’inverno”: Vorrei che non ci fosse età di mezzo fra i dieci e i ventitré anni o che la gioventù dorma tutto questo intervallo; poiché non c’è nulla in cotesto tempo se non ingravidare ragazze vilipendere gli anziani, rubare e darsi legnate. 3 Il punto di vista “classico” – sia della prospettiva psicoanalitica sia di quella sociologica – caratterizza l’adolescenza come un periodo di crisi. All’inizio del ‘900, Stanley Hall per primo usò l’espressione “storm and stress” per descrivere l’epoca adolescenziale. Anche se l’adolescenza ha cominciato a essere definita e studiata come fase a sé della vita umana solo quando, con la rivoluzione industriale, si è posta l’esigenza di un periodo prolungato di preparazione alla vita adulta, i versi di Shalespeare appena citati dimostrano che le preoccupazioni verso quella fase della vita hanno una storia più antica della nozione stessa. Questa concezione di adolescenza come periodo della vita funestato da “tempesta e tensione” ha costituito il punto di vista dominante negli studi sull’adolescenza almeno fino agli anni ’70. Ad esempio, per Anna Freud l’adolescenza era “uno stato disturbato, un periodo di squilibrio psicologico”: Erikson considerò l’adolescenza un periodo di “crisi normativa” nel quale i giovani dovevano attraversare una fase di disorientamento per acquisire una identità adulta; Lewin parla di “stato marginale” dell’adolescente. L’enfasi posta sugli aspetti problematici è bene espressa dai titoli di alcune pubblicazioni dedicate all’adolescenza: “Identità, gioventù e crisi (Erikson 1968), “Adolescenza come disordine di sviluppo” (Anna Freud 1969), “Il dilemma psichiatrico dell’adolescenza” (Masterson 1967), “Adolescenza: la crisi di aggiustamento” (Meyerson 1975). 4 Tali “miti” sull’adolescenza si sono formati soprattutto grazie a casi studiati in ambito clinico, casi di adolescenti con caratteristiche diverse o almeno non totalmente sovrapponibili a quelle della popolazione adolescenziale. I risultati ottenuti dalle ricerche di ispirazione psicologica “non clinica”, condotte a partire dalla seconda metà degli anni ’60, misero in discussione la concezione “classica” che caratterizzava l’adolescenza come periodo di crisi, conflitti e tensioni e la generalità dell’inquietudine e del disagio come caratteristica dello sviluppo adolescenziale. Contrariamente a quanto previsto dall’impostazione “classica”, gli studi longitudinali di Offer (1969) fornirono una immagine di adolescenza priva di inquietudini e conflitti. Anche a Rutter e colleghi (1976), gli adolescenti apparivano liberi da stress, consapevoli dei problemi che stavano incontrando in quella fase della loro vita ma fiduciosi circa la possibilità di poterli affrontare. Inoltre, le ricerche epidemiologiche hanno fornito risultati che smentiscono l’idea secondo la quale tutti gli adolescenti sperimentano una situazione di tumulto e di alienazione dalla propria famiglia (Coleman e Hendry 1990). Coleman osserva che si è evidenziata una divergenza di opinioni tra i sostenitori della concezione “classica” e quelli della concezione “empirica”: mentre questi ultimi sostengono l’impossibilità di estendere a tutti gli adolescenti le caratteristiche osservate nel corso delle consultazioni cliniche, i primi segnalano i 5 limiti di quelle indagini esplorative che per il loro metodo non possono toccare la profondità dei vissuti adolescenziali. I miti tuttavia non sono infondati: l’adolescenza è effettivamente un periodo di grandi cambiamenti che richiedono molteplici adattamenti e che comportano scelte impegnative e, a volte, dolorose. Tuttavia, secondo Coleman (1974), l’adolescente non deve generalmente affrontare le difficoltà tipiche di questa fase tutte allo stesso momento (modello focale dell’adolescenza). Gli adolescenti non riuscirebbero, sostiene l’autore, ad accettare i propri cambiamenti fisici, a “separarsi” dai genitori, a imparare a stare con i coetanei, a intraprendere relazioni affettive, a orientarsi tra i diversi sistemi di valori, a prefigurarsi quale sarà il proprio posto nel mondo degli adulti se tutti questi compiti si proponessero simultaneamente e richiedessero di essere affrontati e risolti nello stesso momento. Nel corso dei diversi anni dello sviluppo adolescenziale, sono messi a fuoco particolari problemi: questo consente agli adolescenti di affrontare senza drammi e in modo efficace cambiamenti, adattamenti, scelte e distacchi. In questa concezione, l’adolescenza non è definita come un periodo di crisi ma come un percorso prolungato, scandito dal confronto con una serie di richieste, di passaggi, di conflitti. La nozione di compiti di sviluppo viene utilizzata dagli studiosi dell’adolescenza per indicare l’insieme dei problemi che incontra l’adolescente. 6 Ecco la lista dei compiti di sviluppo, secondo la formulazione di Havigurst (1953): - instaurare relazioni nuove e più mature con coetanei di entrambi i sessi - acquisire un ruolo sociale femminile o maschile - accettare il proprio corpo e usarlo in modo efficace - conseguire l’indipendenza emotiva dai genitori e da altri adulti - raggiungere la sicurezza di indipendenza economica - orientarsi verso e prepararsi per una occupazione o professione - prepararsi al matrimonio e alla vita familiare - sviluppare competenze intellettuali e conoscenze necessarie per la competenza civica - desiderare e acquisire un comportamento socialmente responsabile - acquisire un sistema di valori ed una coscienza etica come guida al proprio comportamento. Secondo Palmonari (1997) l’elemento costante e specifico di questi compiti è la ricerca dell’indipendenza; si tratta di compiti tipici di un adolescente maschio bianco americano di classe media degli anni ’50. I compiti di sviluppo, afferma Palmonari, non hanno uncarattere immutabile e universale. Secondo l’autore, “i compiti di sviluppo non sono, in una società complessa e pluralista come la nostra, difficoltà che esistono per ogni adolescente, sempre uguali e inevitabili. Si definiscono nel rapporto fra 7 l’individuo, la sua appartenenza sociale e l’ambiente in cui è inserito: in certe condizioni sono numerosi ma possono essere affrontati senza drammi, in altre appaiono particolarmente difficili, creando frustrazioni, angoscia, senso di impotenza che portano irrequietezza, aggressività e, al limite, apatia. Tutti gli adolescenti comunque devono affrontarne per divenire adulti e le energie che tale impegno richiede sono assai elevate” (p.73). Anche se troppo limitata per descrivere la vita quotidiana di uno o più adolescenti reali, è possibile, secondo Palmonari, definire una classificazione dei compiti di sviluppo, riferendosi ad alcuni fenomeni universali dell’adolescenza: - compiti di sviluppo in rapporto con l’esperienza della pubertà e il risveglio delle pulsioni sessuali; - compiti di sviluppo in rapporto con l’allargamento degli interessi personali e sociali e con l’acquisizione del pensiero ipotetico-deduttivo; - compiti di sviluppo in rapporto con la problematica dell’identità (o della riorganizzazione del concetto di sé). 1.2 Compiti di sviluppo e concetto di sé La nozione di compiti di sviluppo rimanda a quella di coping; riprendendo la nozione di “far fronte” (coping) utilizzata da Lazarus nei suoi studi sullo stress, alcuni studiosi mettono in 8 relazione le modalità di far fronte ai compiti di sviluppo dell’adolescenza con la costruzione dell’identità personale. Newman (1979), sulla base dei risultati di alcuni studi longitudinali sulle strategie di coping, propone alcune ipotesi: - l’adolescenza può essere un periodo nel quale si consolida uno stile personale di coping; - lo stile di vita nella fase post-adolescenziale sembra fortemente in rapporto con le competenze, le aspirazioni e le scelte di vita sviluppate nell’adolescenza; - il fatto che la maturazione di un individuo continui o no nel periodo adulto della sua vita può essere in rapporto con la sua capacità di sperimentare e di far fronte ai conflitti nell’adolescenza. Secondo questa ipotesi, in altre parole, lo stile personale di far fronte ai compiti di sviluppo si consolida nell’adolescenza e resta stabile nell’età adulta. Bosma e Jackson (1990) hanno curato una rassegna di studi e ricerche sperimentali su strategie di coping e concetto di sé nell’adolescenza. Uno degli studi esaminati è quello di Inge Seiffge-Krenke (1984) la quale nei primi anni ’80 ha analizzato, in un migliaio di adolescenti tra i 12 e i 19 anni, in modi con i quali questi affrontano i problemi della vita quotidiana nei rapporti con i genitori, con gli insegnanti e con i coetanei. L’autrice parte dell’osservazione che nel ventennio precedente la sua indagine soltanto il 7% degli studi sul coping si era occupato di adolescenti; di questi studi, inoltre, solo il 12% riguardava adolescenti alle 9 prese con le ordinarie difficoltà della vita quotidiana. La maggioranza degli studi, infatti, aveva interessato adolescenti coinvolti in avvenimenti drammatici e comunque straordinari. Seiffge-Krenke ha identificato tre stili con i quali gli adolescenti affrontano le difficoltà: - il primo è quello di un individuo, definito active coper, che ricorre ad attività positive quali la ricerca di informazioni e la richiesta di consigli; - il secondo, tipico dell’internal coper, si fonda sullo sforzo messo in atto per trovare una soluzione personale ai problemi; - il terzo è quello del problem avoider: si tratta di uno stile disfunzionale di coping che si esprime attraverso la negazione e l’evitamento delle difficoltà. La tendenza ad eludere le crisi piuttosto che attraversarle non permette all’adolescente di trovare una soluzione adeguata ai suoi problemi. L’autrice osserva che il 15-20% degli adolescenti presi in esame attraverso il suo studio ricorrono a modalità disfunzionali di far fronte alle difficoltà quotidiane: la maggior parte degli adolescenti, invece, utilizza strategie adeguate, chiedendo consigli, cercando il sostegno di coetanei e adulti o mostrando di credere nelle proprie risorse personali. Sono soprattutto le adolescenti a ricorrere alle risorse sociali quando pensano di avere un problema; rispetto agli adolescenti, 10 queste mostrano minore fiducia circa la possibilità di affrontare da sole le difficoltà. Anche se si osserva una relativa stabilità nello stile personale di coping, Seiffge-Krenke ritiene che la ricerca abbia trascurato il ruolo svolto da fattori di natura situazionale sullo sviluppo e consolidamento degli stili di coping. E’ da chiarire, sostiene l’autrice, in che misura le relazioni interpersonali, i modelli e le norme culturali siano in grado di influenzare l’adozione delle diverse strategie per far fronte alle difficoltà della vita quotidiana. Il fatto, ad esempio, che gli adolescenti esprimano una maggiore fiducia nelle proprie capacità e risorse personali e una minore tendenza a ricorrere a fonti esterne di sostegno rispetto alle ragazze può costituire un indicatore di come i ruoli di genere influenzino l’adozione di un particolare stile di coping. I ruoli di genere sono costituiti da un insieme di aspettative consensuali che funzionano come una norma la quale influenza il comportamento dell’individuo e quello degli altri nei suoi confronti. Secondo alcuni autori, le ragazze disporrebbero di più scelte identitarie rispetto ai maschi, sia per la rigidità dello stereotipo sessuale comportamenti maschile maschili che accettati restringe socialmente, la sia rosa per dei le trasformazioni in atto del ruolo femminile. Conger (1977), ad esempio, ritiene che a un rigido stereotipo maschile imperniato sul successo corrispondano molteplici aspettative sociali nei confronti delle adolescenti: una ragazza ha, 11 in altre parole, possibilità di scelta che non sono consentite a un ragazzo. Come già detto, uno dei problemi che l’adolescente affronta è quello di definire la propria identità personale di fronte ai cambiamenti fisici, affettivi e cognitivi che sperimenta su di sé. La rielaborazione dell’identità personale che si realizza nell’adolescenza deriva dall’interazione di tutti i cambiamenti che si verificano in questa fase della vita: lo sviluppo sessuale, la comparsa delle pulsioni sessuali, le trasformazioni somatiche, l’acquisizione del pensiero ipotetico-deduttivo, i cambiamenti degli altri nei propri confronti. L’adolescente definisce la propria identità attraverso un progressivo inserimento nel contesto sociale. Vede se stesso rispecchiato negli altri: nelle richieste, nelle opinioni, negli sguardi che esprimono consenso o disapprovazione; sguardi che non sempre si sanno correttamente interpretare e che pure sono così importanti per l’adolescente. Secondo Palmonari (1991), l’inserimento nella società avviene paradossalmente mediante un processo di differenziazione. Sostiene l’autore che “attraverso il proprio rapporto con i gruppi di riferimento l’adolescente chiarisce oltre a quello che è e che vuole essere, anche quello che non è e non vuole diventare, nonché i motivi dell’accettazione di certi modelli e del rifiuto di altri. La costruzione dell’identità, cioè, passa anche attraverso un processo attivo di differenziazione da modelli di sé che si 12 percepiscono realizzabili ma non si accettano, e di ricerca di una posizione appropriata del sé rispetto agli oggetti sociali significativi (persone, gruppi, istituzioni, elementi naturali e moduli cognitivi) che compongono il proprio campo cognitivo. E’ importante aver chiaro che alla base di questi processi cognitivi ci sono esperienze sociali precise, rese possibili da complessi giochi di appartenenza e di adesione a vari gruppi” (Palmonari 1991, p.68). L’adolescente precisa la propria identità in rapporto all’appartenenza ad un gruppo e alla differenziazione rispetto ad un altro; il fatto di appartenere ad un gruppo esclude ai suoi occhi la possibilità di altre appartenenze. Il tentativo dell’adolescente di ordinare in categorie la realtà si scontra tuttavia con la realtà sociale; le sue ancora immature capacità di costruzione di un quadro semplice e chiaro della realtà sono sfidate dalla comparsa di nuovi e non previsti gruppi di riferimento che lo costringono a rimettere in discussione visioni e scelte considerate ormai definitive. Susan Harter (1990) in una rassegna di studi sullo sviluppo dell’identità nell’adolescenza, indica alcuni cambiamenti critici nella fase adolescenziale. Così come nella scrittura cinese la parola “crisi” è composta da due ideogrammi che significano “pericolo” e “occasione”, i guadagni evolutivi dell’adolescenza comportano sia minacce sia possibilità per la costruzione dell’identità personale. Harter osserva che, oltre al passaggio da una concezione di sé in termini fisici a una concezione in termini psicologici, 13 l’adolescente mostra una progressiva capacità di riflettere sul proprio pensiero e sui propri stati d’animo. Nella descrizione di sé l’adolescente utilizza più categorie rispetto a quelle utilizzate negli anni precedenti. Questa capacità, che può essere vista come un guadagno evolutivo, porta con sé la necessità di integrare la molteplicità degli aspetti in una teoria coerente del sé. Gli adolescenti che riescono ad affrontare questo compito potranno raggiungere una rappresentazione chiara e realistica del concetto di sé che costituirà una base per l’identità futura. Una navigazione difficile in queste acque produrrà invece un concetto di sé distorto e irrealistico e una incapacità di integrare aspetti del sé apparentemente contraddittori e i diversi aspetti del sé connessi ai molteplici ruoli che l’adolescente si trova ad assumere in questa fase della vita. Gli studi documentano che il periodo che va dai 14 ai 15 anni è quello più critico, in relazione a questo compito, in quanto gli adolescenti sono ora in grado di cogliere le contraddizioni tra i diversi aspetti del sé che emergono nei rapporti con i genitori, con gli amici, col partner, senza riuscire ancora a risolverle. Secondo Harter, il compito di integrare i diversi aspetti del sé risulta più arduo per le adolescenti; queste infatti, contrariamente ai loro coetanei, sembrano sperimentare maggiori difficoltà nell’assumere contemporaneamente ruoli diversi e contraddittori. Le adolescenti infatti esprimono un bisogno di coerenza e di integrazione più forte rispetto agli adolescenti; per le adolescenti le 14 contraddizioni risultano più salienti e più conflittuali di quanto non lo siano per i maschi. Durante l’adolescenza, la descrizione di sé contiene elementi reali e aspetti ideali. La discrepanza tra i due piani – tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe o si pensa di dover essere – resa possibile grazie all’acquisizione del pensiero ipotetico-deduttivo, può produrre, nel caso sia percepita come troppo ampia, scontentezza, depressione, ansietà. Anche in relazione a questo aspetto, gli studi rivelano che il periodo più critico è quello compreso tra i 14 e i 15 anni, quando cioè lo scarto tra sé ideale e sé reale è avvertito come più grande. Il periodo dell’adolescenza è anche segnato da un improvviso aumento della tendenza all’introspezione. L’adolescente è particolarmente preoccupato dell’esistenza e del funzionamento di un sé mentale, sia dei processi consci sia di quelli inconsci. L’adolescente ha però difficoltà a differenziare le proprie preoccupazioni, i propri pensieri su di sé, da quelli degli altri. Erroneamente, attribuisce a una sorta di “uditorio immaginario” la propria attenzione e i propri giudizi sul suo aspetto e sulla sua condotta. Rosenberg (1974) parla di un “concetto di sé barometrico” per descrivere la “volatilità” del concetto di sé e delle reazioni emotive ai feed-back che l’adolescente riceve o crede di ricevere dagli altri significativi. 15 La contraddittorietà dei ruoli, le fluttuazioni del sé, le difficoltà a valutare realisticamente le impressioni suscitate negli altri – rese, quest’ultime, più cariche di conseguenze proprio per l’importanza che queste impressioni assumono per l’individuo – sfida le ancora imperfette capacità dell’adolescente e concorrono a produrre una particolare vulnerabilità dal punto di vista psicologico. Nel corso della propria esistenza, gli individui elaborano e rielaborano continuamente il concetto che hanno di se stessi; fa parte di tale elaborazione la valutazione che si dà di se stessi, in altre parole la stima di sé. Dal punto di vista teorico, la ricerca sulla stima di sé si ispira ai lavori di William James e di George Herbert Mead. Per James, la stima di sé è connessa alla percezione del proprio funzionamento in ambiti importanti; per Mead, svolgono un ruolo decisivo i giudizi espressi da altri significativi. La Harter (1990), rifacendosi ai contributi di James e Mead, sostiene che la competenza e il successo negli ambiti rilevanti per l’individuo e gli atteggiamenti degli altri significativi sono fattori importanti in qualsiasi età, ma che lo sono in modo particolare nell’adolescenza . La psicologa americana ha condotto le sue ricerche sul concetto di sé, focalizzandosi in modo particolare sull’adolescenza. L’aspetto fisico contribuisce a definire la stima di sé, in particolare per le ragazze; la stima di sé si fonda anche sull’accettazione sociale da parte dei coetanei, sulla competenza scolastica, quella atletica e la condotta. 16 Nell’infanzia e nella fanciullezza sono soprattutto i genitori e gli insegnanti a influenzare la stima di sé. Con il progredire dell’età, la stima di sé è influenzata maggiormente dai rapporti con amici e coetanei. 1.3 L’adolescenza come passaggio Nelle società tradizionali, il passaggio dalla fanciullezza alla vita adulta era sancito dalla celebrazione di un rito durante il quale l’iniziato lasciava la sua famiglia e il villaggio per apprendere i segreti che avrebbero fatto di lui una persona adulta. Nel rito di passaggio, l’adolescente doveva affrontare una serie di prove per poter essere accolto nella società degli adulti; i riti d’iniziazione all’età adulta avevano la funzione di sottrarre i giovani dalla tutela dei genitori e di renderli membri a pieno titolo della tribù. L’iniziando veniva separato dal suo gruppo di appartenenza per essere introdotto nella società in una condizione diversa. Il rito modificava radicalmente lo status sociale del soggetto da iniziare e, segnalando il cambiamento di appartenenza, esprimeva il mutamento di identità. Nelle società tradizionali, l’adulto si proponeva come iniziatore, come colui che, recependo un’istanza che è nel ragazzo stesso, metteva a disposizione occasioni che provocavano, facilitavano e segnavano il passaggio alla vita adulta; si proponeva 17 come colui che consentiva all’adolescente di leggere e di verificare la sua esperienza di crescita. Una delle caratteristiche del mondo moderno è costituita dalla scomparsa dell’iniziazione: nella nostra società non esiste nessuna forma esplicita di rito di passaggio (Eliade 1976). Nella nostra società non ci sono più riti istituzionali di passaggio che aiutino l’adolescente a definire la propria identità e il proprio ruolo sociale. Sebbene sia scomparsa l’iniziazione ritualizzata, l’esigenza di una definizione della propria identità e la verifica di questa in rapporto alla realtà sociale costituiscono compiti distintivi dell’adolescenza, sia in quelle società nelle quali essa è risolta in un passaggio subitaneo, sia in altre, come la nostra, nelle quali l’acquisizione dello status di adulto avviene molti anni dopo il raggiungimento della maturità biologica. Il legame con i coetanei e la vita di gruppo assumono un ruolo centrale nel processo di ridefinizione dell’identità personale che si attua durante l’adolescenza. Oltre alla vita di gruppo, che è un tratto distintivo della condizione di vita della maggior parte degli adolescenti, ci si può chiedere quali altre occasioni e spazi permettano all’adolescente di affrontare in maniera efficace i compiti di sviluppo e quali caratteristiche assuma la mediazione adulta, sostanza dell’iniziazione. Nel corso dei riti di passaggio, si richiedeva il superamento di una prova di coraggio: l’iniziando doveva superare una serie di esercizi di destrezza, prontezza di riflessi, sprezzo del pericolo. Oggi, il bisogno di misurarsi e di 18 valutare le proprie capacità trova meno possibilità di risposta, soprattutto per chi vive nelle aree urbane. La manipolazione della realtà attraverso modelli di riferimento (ad esempio, i videogames) fa sì che la forza muscolare, la prontezza di riflessi e l’abilità manuale siano sempre meno importanti rispetto alla concettualizzazione e alla elaborazione di segnali. La possibilità di utilizzare nella propria casa una quantità sempre più grande di tecnologie che consentono la ricezione di informazioni dall’esterno permette di avvicinare virtualmente realtà lontane, facendole entrare nel territorio privato di ciascuno; a queste esperienze, vissute quasi sempre da soli, può capitare di partecipare molto intensamente. La prospettiva incerta del futuro può ostacolare l’elaborazione di un progetto di vita e favorire una contrazione della percezione del futuro, rendendo l’adolescente meno capace di gestire la propria vita secondo le categorie del possibile (Berti 1991). Il rito di passaggio, in quelle società dove ancora sopravvive, comprende anche una serie di cerimoniali che simboleggiano la separazione del giovane dalla famiglia. Crescere significa prendere il posto dei genitori e nella fantasia inconscia il crescere è implicitamente aggressivo. L’esito di questo processo dipende dalle risposte che famiglia e contesto sociale sapranno dare. Quello che va evitato è il sottrarsi allo “scontro delle armi”. In un’epoca nella quale il processo di crescita sembra avvenire senza che si manifestino aperte ribellioni e conflitti tra genitori e figli, è più che mai attuale la considerazione di Winnicott: la ribellione appartiene 19 alla libertà che voi avete concesso al vostro bambino, allevandolo in maniera tale da permettergli di esistere di per sé. L’ambivalenza adulta tra emancipazione e controllo – della quale l’iperprotettività familiare e la minore conflittualità tra genitori e figli sono alcune manifestazioni – non permette un adeguato sviluppo dell’autonomia e rischia di portare all’incremento di legami disfunzionali per la crescita personale. Questi aspetti, brevemente delineati, ricordano l’importanza della presenza adulta e il ruolo del contesto sociale nel processo di crescita adolescenziale. In questa fase della vita le risposte che il contesto sociale offre in risposta ai bisogni di crescita sono di grande importanza. Il mondo degli adulti può sostenere questi bisogni, indirizzarli, dotarli di significato e valorizzarli oppure impadronirsene, banalizzarli, ignorarli. La possibilità di affrontare in modo positivo i compiti di sviluppo, da quello più impegnativo a quello meno complesso è legata al sostegno sociale sul quale l’adolescente può contare. Ricorrendo alla metafora di Siddharta, Palmonari (1997) immagina diverse vicende adolescenziali. C’è chi, già abile nella navigazione, si trova ad attraversare il fiume in un giorno di quiete, guidato da un barcaiolo saggio che lo fa partecipare attivamente alla traversata e utilizza il passaggio del fiume come un’occasione per aiutarlo a scoprire aspetti della vita minuti ma carichi di significato. 20 C’è anche chi, privo di qualsiasi esperienza a riguardo, si trova su un battello guidato da un barcaiolo incapace, disorientato, in un giorno di burrasca. Pur con i limiti comuni a qualsiasi metafora, che mettendo a fuoco un aspetto ne trascura altri non meno significativi, quella di Siddharta permette di sottolineare due aspetti in particolare del passaggio adolescenziale: “a) in tutte le adolescenze il protagonista deve affrontare una gran mole di problemi: capita ad alcuni che essi siano distribuiti lungo un percorso e possano essere affrontati uno dopo l’altro sì che l’impresa possa avere una buona riuscita; capita a molti altri invece che essi si presentino complessi, più o meno aggrovigliati in modo assurdo, tali da rendere difficile, a volte quasi impossibile, la risoluzione di essi. Non c’è adolescenza senza problemi anche se nella maggior parte dei casi tali problemi possono essere, con un costo più o meno rilevante, risolti. I problemi, d’altronde, non sono entità fatali e incomprensibili che capitano a caso. Sono in rapporto con il contesto culturale e sociale in cui l’adolescente vive, con le relazioni che egli ha con il suo ambiente più prossimo, con la sua storia personale (Palmonari, Carugati, Ricci Bitti e Sarchielli 1979). b) Nel percorso adolescenziale il protagonista non è mai del tutto solo: egli è sempre in compagnia di altri (genitori, insegnanti, coetanei, altre persone significative) che possono offrirgli una guida sicura e comprensiva, oppure richieste incomprensibili tali da svalorizzare il senso del suo impegno, o al limite dargli 21 indicazioni frammentarie e contraddittorie che aggiungono confusione alla mancanza di esperienza. Questo non vuol dire che in molte occasioni l’adolescente non si senta veramente solo e distante da tutti: in quei momenti egli avverte di non potersi fidare di nessuno, di dover dirigere da solo il proprio cammino. Tutti fanno, in momenti più o meno lunghi, questa esperienza: è augurabile che essa non sia quella più importante o, all’estremo, quella che contrassegna tutta l’adolescenza “(Palmonari 1997, p.48). 22 1.4 Riferimenti bibliografici Berti C. (1991) Adolescenza e sport a rischio, in G. Speltini, Aspetti psicologici dell’attività sportiva, Clueb, Bologna Bosma H. e Jackson S. (a cura di) (1990) Coping and self-concept in adolescence, Springer, Berlin Coleman J.C. (1974) Relationships in adolescence, Routledge, London Coleman J.C. e Hendry L. (19902) The nature of adolescence, Routledge, London; trad. it. La natura dell’adolescenza, Il Mulino, Bologna, 19922 Eliade M. (1976) Initiations, rites, sociétés secretes, Gallimard, paris Harter S. (1990) Processes underlying adolescent self-concept formation, in R. Montemayor, G.R. Adams e T.P. Gullotta (a cura di) From childhood to adolescence, Sage, Newbury Park (Calif.) Havigurst R.J. 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