Omero e l`epica arcaica - Blog-ER
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La letteratura dell’età arcaica “La cultura europea incomincia con l’Iliade e l’Odissea, i due poemi epici in 24 canti ciascuno che la tradizione consolidatasi nel mondo greco attribuiva ad un autore chiamato Omero. E incomincia con la rissa per il possesso di una schiava.” (Luciano Canfora) OMERO E LA POESIA EPICA L’EPICA, UNA POESIA NARRATIVA Epos e logos Il termine epica deriva dalla parola greca eòpov, che possiede molteplici significati: a) parola, discorso, e quindi racconto, narrazione, ecc, a sottolineare il fatto che l’epica si basa sulla narrazione di eventi; b) verso di poesia, a sottolineare il fatto che il canto epico trae la sua forma espressiva da precisi schemi metrici. Nel mondo antico, in effetti, eòpov (la “discorso narrativo”, prima forma di espressione poetica) è quasi sempre contrapposto a lo@gov (il “discorso razionale”, frutto di ragionamento, capace di spiegare, convincere e far prendere decisioni). In questo genere letterario vengono catalogati testi appartenenti a periodi e popoli estremamente lontani tra di loro. Origini e sviluppo dell’epica 1) Il patrimonio più antico di miti e leggende è, probabilmente, quello proveniente dal mondo sumerico e assiro-babilonese, testimonianza di una produzione che doveva risalire già al IV secolo a.c. Il testo più noto è L'epopea di Gilgamesh, potente re di Uruk, per due terzi immortale (in quanto figlio della dea Ninsur) e per un terzo mortale. 2) Anche gli Egizi conobbero l'epica, come testimonia il poema sorto sulla famosa battaglia di Quadesh, combattuta dal faraone Ramses Il contro gli Ittiti nel 1296 a.c. circa. 3) Seguono poi le opere dei Greci (Iliade, Odissea, Argonautiche), dei Romani (Eneide). 4) L’epica ebbe una fioritura anche in epoca medioevale, con i cicli carolingio (in poesia) e bretone (in prosa) e i vari cantari (componimenti narrativi in versi di origine popolare, recitati da cantastorie girovaghi). 5) Nell’età rinascimentale ricordiamo invece i poemi cavallereschi Il Morgante di Luigi Pulci, l’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo, l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto e la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso. I caratteri della poesia epica Benché l'epica, dunque, abbia assunto forme diverse nel corso dei secoli e luoghi in cui fiorì, essa si identifica in componimenti narrativi ampi, in versi o in prosa, che celebrano vicende appartenenti ad un passato più o meno lontano, spesso favoloso e mitico, e le gesta compiute da uno o più eroi, espresse in uno stile solitamente elevato e solenne. Quando questi componimenti sono scritti in versi, prendono il nome di poemi. Essi sono caratterizzati da alcuni elementi costanti: 1) La centralità dell’eroe. L'epica racconta delle vicende (guerre, avventure, viaggi e peregrinazioni) di solito organizzate intorno alla figura di un eroe, dotato di sentimenti e qualità eccezionali, che vengono dimostrate in duelli, battaglie, incontri con esseri dai poteri sovrumani, o nel conquistare oggetti preziosi. 2) La presenza di storie parallele. Accanto alla vicenda principale, l'opera epica può presentare narrazioni parallele, che introducono personaggi secondari o notizie relative ai popoli con cui viene a contatto il protagonista. 3) La fusione di mito e realtà storica. Sovente si mescolano con disinvoltura elementi mitologici con altri realistici ed è importante notare, a tale proposito, che, ove alla base della composizione vi sia un fatto storico, esso risulta trasfigurato e nobilitato proprio dall'inserimento della dimensione magica. Le origini della poesia epica in Grecia Le imprese eroiche erano recitate con l’accompagnamento di uno strumento musicale (hé fo@@rmix, la cetra). Per questo erano composte in versi e non in prosa: i versi, infatti, grazie alla loro musicalità, sono un supporto utilissimo per la recitazione. Coloro che cantavano queste imprese erano gli aèdi e i rapsodi, già presenti fin dall’età età micenea. Gli aedi (aèoidoi@) erano i cantori che vivevano alla corte dei sovrani. Si trattava di una vera e propria professione, anche se modesta. Spesso aggiungevano alla materia mitica le imprese compiute dagli antenati del re per il quale lavoravano. I rapsodi (réaywjdoi@, letteralmente cucitori di canti), invece, erano cantori girovaghi e recitavano le gesta degli eroi in occasioni particolari, come gare, feste, mercati, ecc. Aedi e rapsodi sono i primi autori della poesia epica e le loro opere (perdute, perché tramandate oralmente) costituiscono le prime manifestazioni letterarie in Grecia. Le funzioni dell’epica: divertire, celebrare, educare Possiamo riconoscere all’epica 2 funzioni fondamentali, alle quali, nel tempo se ne aggiunge una terza: 1) Divertire il pubblico. Il primo scopo dell’epica è di tipo estetico: intende, cioè, dilettare, divertire il pubblico che ascoltando o leggendo il testo epico, prova piacere e riconosce il valore “poetico”, letterario dell’opera. 2) Celebrare grandi personaggi. Di solito un'opera epica prevede però anche un fine encomiastico, cioè celebrativo: celebrare le grandi imprese degli eroi è un obiettivo evidente anche per il lettore moderno. 3) Educare le nuove generazioni (“enciclopedia tribale”). Nei testi epici troviamo la rappresentazione del pensiero, dei valori e delle abitudini della società in cui tali componimenti vengono ambientati. Ciò di solito avviene tramite il recupero di miti e di leggende legati al mondo degli dèi e degli eroi di un determinato popolo, oppure attraverso la descrizione dettagliata di armi, banchetti, duelli, riti, abitudini familiari. Per questo l’Iliade e l’Odissea sono state definite dallo studioso inglese Eric Havelock come una “enciclopedia tribale”, ossia come il testo che riassume e trasmette la cultura e i valori di un popolo, sul quale i giovani greci formavano la propria educazione (paidei@a). LA FIGURA DI OMERO Sin dall'antichità, il poeta epico per eccellenza fu ritenuto Omero, al quale si attribuiva la composizione di due poemi, l’Iliade e l’Odissea, e di numerose altre opere minori tra le quali: - gli Inni, che narrano le vicende degli dèi e ne tessono l'elogio, - la Batracomiomachia, cioè la battaglia delle rane e dei topi (una parodia del genere epico) - gli Epigrammi. La tradizione lo descriveva come un vecchio molto saggio, cieco, come indicava il nome (interpretato come oé mh# oérw^n, colui che non vede; anche se oçmhrov è parola greca che significa “schiavo, ostaggio, pegno” ), degno di venerazione e di rispetto anche per la sua menomazione, poiché ai ciechi venivano spesso attribuite doti profetiche. Omero vagava di città in città per cantare i suoi poemi. Ben undici città si contendevano l'onore di avergli dato i natali, tra cui Smirne, Argo e la stessa Atene. Quanto all'epoca in cui il poeta visse, lo storico greco Erodoto (484-430 a.C.) indica la metà del IX secolo. Oggi si tende a pensare alla metà dell’VIII sec. a.C. Dubbi sull'attribuzione delle due opere principali ad uno stesso autore e sull'esistenza stessa del poeta Omero cominciarono a nascere già in età ellenistica (III secolo a.C.), quando ebbe inizio la cosiddetta questione omerica. APPROFONDIMENTO. Nuove ipotesi su Omero UN GIALLO APERTO. Chi è l’autore dei due poemi? Cantami o diva dell'assiro Achille Omero? Uno scrivano greco vissuto in Cilicia. La rivoluzionaria tesi di uno scrittore austriaco di VALERIO MASSIMO MANFREDI Omero senza pace. Le teorie sull'interpretazione dei suoi poemi, sulla loro storicità, sull'affidabilità delle sue ambientazioni costituiscono un complesso filologico immenso che va sotto il nome di «questione omerica» e si arricchisce continuamente. L'ultimo è costituito dall'interpretazione dello scrittore austriaco Raoul Schrott, autore di una traduzione dell'Iliade, secondo il quale il poema non risale al IX-VIII secolo a.C. come si è sempre pensato ma solo al VII, e il poeta non era originario della Ionia come dice la tradizione ma della Cilicia ed era uno scrivano greco al servizio della burocrazia dell'Impero assiro che dominava quella regione proprio di fronte a Cipro. Troia poi non era affatto sui Dardanelli come si è sempre creduto e non aveva nulla a che fare con la città scavata da Schliemann, Doerpfeld e ultimamente Korfmann, ma era la città cilicia senza nome che è stata scavata a Karatepe («Collina nera») nella Turchia sud-orientale. Lo Scamandro era il Piramo e il mare non era l'Egeo ma il golfo di Alessandretta. Scioccante. La teoria esposta da Schrott ha convinto fior di accademici. Purtroppo in questi casi è difficile pronunciarsi perché quello che si ha a disposizione per il momento è un'intervista rilasciata alla Frankfurter Allgemeine Zeitung che gli ha dedicato ben cinque pagine. La teoria sembra comunque basarsi soprattutto sul linguaggio di Omero (Schrott ha anche tradotto l'epopea di Gilgamesh), sull'esame accurato del territorio nei pressi di Karatepe e sul fatto che le descrizioni di Omero non sono secondo lui applicabili al sito di Hissarlik scavato da Schliemann. Lo Scamandro è troppo piccolo, il Monte Ida è troppo rotondo, non c'è nessun approdo capace di ospitare 1.200 navi e via demolendo. Schrott sostiene insomma l'ipotesi che l'Iliade sia nata scritta e non orale come avevano ipotizzato Milmann Parry e Albert Bates Lord, e che la guerra di Troia si debba ambientare nel golfo di Cilicia. Inoltre fa presente che in lingua fenicia (usata anche in Cilicia) gli scrivani erano chiamati bene omerim (figli del cantore), da cui si spiegherebbe il nome che non ha peraltro riscontro nell'onomastica greca del tempo. Il resto si apprenderà quando la teoria rivoluzionaria di Schrott sarà pubblicata per esteso. Non è la prima volta che la collocazione dell'Iliade viene spostata su altri teatri geografici. Qualche anno fa addirittura si ipotizzò, sulla base di presunti riscontri toponomastici, che l'azione si dovesse collocare nel Baltico! La questione omerica comincia di fatto già con Giovanbattista Vico, che si accorse della stratificazione presente nei poemi omerici, della differenza molto forte tra Iliade e Odissea e di anacronismi frequenti che segnalavano epoche diverse a cui attribuire i singoli passi. Da quel momento in poi la letteratura critica su Omero è dilagata e le ipotesi e gli studi si sono susseguiti a getto continuo. Un punto fondamentale fu la ricerca condotta negli Anni 30 del secolo scorso dagli studiosi americani Milman Parry e Albert Bates Lord. Armati di uno strumento tecnologico rivoluzionario, il magnetofono, registrarono i componimenti dei poeti orali serbi e arrivarono alla conclusione che i meccanismi compositivi erano gli stessi che si potevano trovare nei poemi omerici. Questa ipotesi, largamente accettata dagli studiosi, risolveva molti problemi fra cui quello della stratificazione. Un evento bellico come la guerra di Troia avrebbe innescato una serie di canti che avrebbero dato origine a un corpus fatto di composizioni spontanee di diversa lunghezza e di diverse caratteristiche. Composti in epoche diverse da cantori (gli aedi) diversi, i canti sarebbero poi confluiti nei due grandi poemi di Omero. In questo modo si spiegava bene come mai lo scudo di Aiace, relitto della panoplia micenea, è un pezzo da museo in confronto a quello di Achille, riconoscibilissimo come capolavoro dell'arte orientalizzante del VI secolo a.C., e così pure l'elmo di Merione costituito da zanne di cinghiale, confermato appieno dai rinvenimenti di oggetti uguali nelle tombe micenee, era molto più antico degli elmi crestati presenti in tutto il poema attribuibili alle armature del secolo VI a.C. Restava comunque il problema del divario antropologico-culturale fra Iliade e Odissea, che presentano due mondi diversi, troppo lontani per poter essere attribuiti allo stesso autore. Qualcuno pensò che Omero avesse composto l'Iliade da giovane e l'Odissea da vecchio, ma si tratta di un'ipotesi onestamente piuttosto ingenua. Ma allora chi era veramente Omero? E se il meccanismo della composizione orale è così sofisticato, come dicevano Parry e Lord, perché mai avrebbe dovuto mettere per iscritto le sue storie? Una risposta abbastanza plausibile si poteva riconoscere nel fenomeno della colonizzazione che incomincia all'inizio del IX secolo a.C. con la fondazione della più antica colonia greca d'Occidente: Pitecussa, ossia Ischia. Si sa da molti particolari nelle fonti che i piccoli gruppi che migravano, composti solo da giovani maschi scapoli, portavano spesso con sé un poeta, vero e proprio uomolibro che era il depositario dell'intero patrimonio della tradizione e della memoria storica e culturale. D'altra parte già gli Argonauti avevano preso con sé Orfeo. Ma poi l'invenzione e la diffusione della scrittura avrebbe reso possibile trasportare i poemi anziché i poeti, e quindi ecco la versione scritta del corpus della guerra troiana e dei ritorni di Odisseo e degli altri eroi. Un ritrovamento archeologico proprio a Ischia portò alla luce un corredo funebre di cui faceva parte una coppa recante un'iscrizione che faceva chiarissimo riferimento a un passo dell'Iliade. La tomba fu datata al IX secolo a.C., per cui se ne dedusse che in quell'epoca l'Iliade non solo esisteva ma era ben conosciuta anche dai greci migrati in Occidente. Dunque in Omero si poteva forse riconoscere colui che per primo aveva messo per iscritto parti del corpus della guerra di Troia. Rimaneva però il mistero di chi fosse e del perché di lui non si sapesse nulla. Schrott ora ribalta tutto: prima c'era il testo, ed era un testo assiro come quello in cui era scritta l'ultima versione dell'epopea di Gilgamesh, poi sarebbe venuta la diffusione orale. La prova sarebbe nelle formule espressive che si riscontrano solo nelle tavolette in cuneiforme e nella topografia dei luoghi che ancorerebbero l'Iliade all'area della Cilicia, anche se lo studioso ammette che non si può leggere il poema come un Baedeker. E forse anche in certi episodi: è indubbio che la coppia Gilgamesh-Enkidu richiama in qualche punto quella di Achille e Patroclo. Quanto a Omero, era uno scrivano che sapeva leggere il cuneiforme. Qualche anno fa Calvert Watkins credette di riconoscere in un verso in lingua luvia la stessa metrica che esiste in alcuni pochi versi dell'Iliade dissonanti dalla metrica dell'esametro epico, e analogie onomastiche con Omero furono riconosciute nei documenti ittiti. Era quindi esistita un'Iliade asiatica? L'ipotesi non è stata mai scartata, ma Schrott dovrà fornire elementi molto convincenti per ribaltare così radicalmente una topografia e una etnografia egea così profondamente radicate e codificate come quelle che appaiono nel catalogo delle navi e nella continuità della tradizione sulla collocazione di Ilio-Troia nel quadrante nordoccidentale della penisola anatolica. (La Stampa, 24/12/2007) L’ILIADE. IL POEMA DELL’IRA FUNESTA IL MITO: DAL SOGNO DI ECUBA ALLA GUERRA DI TROIA Il sogno di Ecuba. Paride era uno dei 50 figli di Priamo, re di Troia. Alla sua nascita la madre Ecuba aveva sognato che il bambino si tramutava in un pezzo di legno infuocato che incendiava tutta la città, e per questo egli era stato affidato dal padre ad un pastore al fine di tenerlo lontano da Troia. Divenuto un giovane bellissimo, egli viveva sul monte Ida pascolando il suo gregge, ignaro della sua vera identità. Il pomo della discordia. Durante il banchetto allestito per le nozze tra la ninfa marina Teti e il greco Peleo, re di Ftia (futuri genitori di Achille), la Discordia, unica dea a non essere stata invitata, decide di vendicarsi lasciando cadere sulla tavola imbandita una mela d'oro che reca incisa la scritta: «Alla più bella». Poiché ben tre dee, Era, Atena e Afrodite, si contendono il primato della bellezza, Zeus, per evitare spiacevoli conseguenze, decide di affidare la decisione ad un ignaro pastore, e casualmente è scelto proprio Alessandro. Le tre dee, pur di risultare vincitrici, offrono ciascuna dei doni al giovane per convincerlo nella scelta: Era gli promette la potenza, assicurandogli il dominio dell'Asia; Atena gli offre la saggezza e il valore; Afrodite l'amore della donna più bella del mondo. L’amore che vice tutto. Paride opta per quest'ultima proposta e consegna il pomo ad Afrodite, la quale mantiene la sua promessa. A Paride (a cui nel frattempo è stata rivelata la vera identità e a cui è stato concesso di ritornare alla corte di Troia) è data l’occasione di andare a Sparta in missione diplomatica: qui Afrodite fa innamorare di lui Elena, moglie del re Menelao, giudicata da tutti la donna più bella del mondo, e la induce a fuggire a Troia con lui. Una guerra combattuta per l’onore. Menelao, per vendicare l'oltraggio subìto, organizza una spedizione contro Troia a cui partecipano molti principi achei con i loro eserciti di terra e di mare, primo fra tutti Agamennone, fratello di Menelao e re di Micene, capo di tutte le truppe. Secondo alcune varianti del mito, però, non tutti, però, aderiscono spontaneamente all'iniziativa della guerra. Un falso pazzo. Ad esempio, Odisseo, si finge pazzo pur di restare in patria accanto alla moglie Penelope e al neonato figlioletto Telemaco. Davanti ad un gruppo di guerrieri, venuti da lui per convocarlo alla guerra, comincia ad arare la sabbia della spiaggia, seminandovi sopra del sale. Sembra veramente un folle, ma Palamede è più furbo di lui: prende il piccolo Telemaco e lo depone davanti all'aratro da cui rischia di restare schiacciato. Subito Odisseo ferma i cavalli e solleva da terra il figlioletto. Così venuta alla luce la sua falsa pazzia, Odisseo si unisce agli altri comandanti e inizia i preparativi per la partenza. Una finta fanciulla. Ed ecco, invece, la storia di Achille, figlio della dea del mare Teti e del mortale Peleo, re di Ftia. Al momento della sua nascita - poiché un oracolo aveva previsto per lui una breve vita -, la madre lo aveva reso invulnerabile tuffando il suo piccolo corpo nelle acque del fiume Stige. Ma il tallone, punto in cui la madre lo sorreggeva con la mano mentre lo immergeva, era rimasto vulnerabile. Fervono, intanto, i preparativi per la guerra e la dea Teti consiglia al figlio di nascondersi, vestito da donna, nella reggia del re Licomede, nell'isola di Sciro, confuso tra le sue dodici figlie. Ma la voce del travestimento si diffonde e Odisseo architetta uno stratagemma per scoprire Achille. Si finge un mercante e si reca dalle figlie di Licomede alle quali mostra stoffe preziose e graziosi monili. Tutte le fanciulle sono attratte da quelle merci, meno una che se ne sta distratta in disparte. Ad un tratto Odisseo trae fuori dalle mercanzie una lucente spada e un elmo imponente. Subito Achille si tradisce: indossa l'elmo, impugna la spada e la brandsce con forza. Così scoperto, si spoglia degli abiti femminili, chiama a raccolta i suoi guerrieri, i Mirmidoni, e si prepara alla partenza. Si narra che, sul punto di salire sulla nave, la madre Teti gli riveli una ulteriore possibilità a lui concessa dal Fato: egli può scegliere tra una vita breve ma gloriosa ed una lunga ma oscura. Naturalmente Achille sceglie la gloria. Il sacrificio di Ifigenia. La flotta degli Achei si riunisce ad Aulide, in Beozia, ma non può salpare perchè forti venti contrari impediscono la navigazione. Allora l’indovino Calcante vaticina che non c’è nessuna possibilità di salpare se Agamennone non offrirà in sacrificio ad Artemide la più bella delle sue figlie (Artemide è adirata con lui per gli affronti che lui ei padre Atreo le hanno fatto in passato). Ulisse è inviato a Micene a prelevare Ifigenia. Alla madre Clitennestra, moglie di Agamennone, è detto che la fanciulla sarà data in sposa al grande Achille, e la donna acconsente (ma non perdonerà mai il marito, quando sapra dell’inganno e dell’uccisione della figlia). Secondo la versione più antica del mito la ragazza è immolata ad Artemide dalle mani del padre stesso, e i Greci possono salpare alla volta di Troia (così è in Eschilo, nell’Orestea), mentre secondo la versione più recente, che rifiuta il sacrificio umano, Artemide, proprio quando la fanciulla sta per essere sgozzata dal padre, la sostituisce con un cervo, poi la conduce in Tauride (l’attuale Crimea) dove la fa diventare sua sacerdotessa (così è nelle tragedie di Euripide, Ifigenia in Aulide e Ifigenia in Tauride). Dieci anni di guerra. Il possente esercito cinge d'assedio la città di Ilio (secondo nome con cui veniva indicata Troia, in onore di due suoi antichi sovrani, Troilo e Ilo) per dieci anni, prima di riuscire a conquistarla. L'episodio cui fa riferimento l'lliade, cioè la contesa fra Agamennone e Achille, appartiene proprio al decimo anno di guerra. LA REALTÀ STORICA: TROIA È DAVVERO ESISTITA La città di Troia, attorno alla quale si snodano gli avvenimenti dell'Iliade, esistette realmente, come possiede certamente un fondamento storico la guerra che vi si combatté.•Il sito fu identificato tra il 1871 e il 1873 dal tedesco Heinrich Schliemann, un archeologo dilettante con la passione per l’Iliade, al quale nessuno dava fiducia, nei pressi della località di Hissarlik sulla costa dell' Asia Minore, nell'attuale Turchia. Gli scavi archeologici portarono alla luce nove strati di una città distrutta, appunto, nove volte e poi altrettante ricostruita; il settimo strato, secondo Schliemann, doveva appartenere alla Troia cantata da Omero (che secondo la tradizione sarebbe caduta nel 1184 a.C.). Studi successivi, condotti da Whilelm Dorpfeld portarono, invece, a identificare la città omerica nel settimo strato (Troia VIIa) databile tra il 1500 e il 1000 a.C., mentre quella individuata da Schliemann (Troia II) risaliva ad un'epoca molto più antica, databile intorno al 2500-2000 a.C. In ogni caso, la città esistette davvero, così come avvenne il conflitto che ne determinò la distruzione, anche se le cause non furono quelle narrate dal mito. Presumibilmente si trattò di una guerra determinata da interessi commerciali ed economici, visto che la città di Troia era posta in una posizione tale da poter ostacolare i traffici dei navigatori micenei con l'Oriente. Troia, infatti, sorgeva sulla costa occidentale dell’Asia Minore, e attraverso l’imposizione di dazi esercitava il controllo dello stretto dei Dardanelli (in antico detto Ellesponto), che attraverso il Mar di Marmara (l’antica Propontide) collega il Mar Mediterraneo con il Mar Nero (il Ponto Eusino, cioè “mare ospitale”). Gli Achei attaccarono Troia poiché erano interessati a commerciare liberamente con i popoli del Mar Nero per acquistare grano, ambra e ossidiana, come testimonia anche il mito degli Argonauti alla ricerca del Vello d’oro. LA STRUTTURA DELL’ILIADE Il poema racconta in più di 15.000 versi esametri, raccolti dai grammatici alessandrini nel III secolo a.C. in 24 libri, gli avvenimenti accaduti durante 51 giorni del decimo e ultimo anno dell'assedio della città di Troia o Ilio (da cui il nome lliade al poema). Non vengono narrati né l'inizio della guerra né gli anni seguenti e l'opera termina prima della conquista della città da parte degli Achei. Gli avvenimenti descritti nell'lIiade si svolgono nell’arco di 51 giorni, sono raccontati secondo l’ordine cronologico (l’intreccio coincide con la fabula), anche se la narrazione fa largo uso di sommari, ellissi, digressioni, e il ritmo della narrazione risulta estremamente vario: ad esempio il primo e l’ultimo libro coprono ciascuno 20 giorni, mentre dal II al VII, come anche dall’XI al XVIII, si narrano eventi accaduti in un solo giorno. Gli avvenimenti sono organizzati attorno a tre nuclei tematici: 1) La contesa fra Achille e Agamennone e il ritiro di Achille dai combattimenti (libri I-X); 2) La morte di Patroclo per mano di Ettore (libri XI-XVIII); 3) Il ritorno in battaglia di Achille e la morte Ettore (libri XIX-XXIV). 1) La contesa e il ritiro di Achille (libri I-X) Libro I: giorni 1°- 21°. - giorni dal 1° a 9° - Apollo manda la pestilenza nel campo greco per vendicare l’oltraggio di Agamaennone al suo sacerdote Crise; - giorno 10° - Consiglio dei Greci: Calcante speiga le ragioni dell’ira di Apollo; contesa fra Achille e Agamennone; Achille si allontana dal campo di battaglia. - giorni dall’11°al 20° -Teti sale all’Olimpo e attende Giove che si trova presso gli Etiopi. - giorno 21° - Giove promette a Teti di vendicare l’orgoglio ferito di Achille: i Greci avranno bisogno di lui. Libri II, 67 - VII, 514: giorno 22° - giorno 22° - Sogno di Agamennone: l’inganno di Giove. Assemblea dei Greci: Tersite. Rassegna delle forze greche e troiane. Elena. - Il duello fra Paride e Menelao. Violazione della tregua: prima battaglia. Eroismo di Diomede; mancato duello fra Diomede e Glauco. Incontro di Ettore ed Andròmaca alle porte Scee. Duello fra Ettore e Aiace. Libro VII, 515 – fine : giorni 23° e 24° - giorni 23°e 24° - Tregua per seppellire i caduti. I Greci costruiscono un muro a difesa delle navi. Libri VIII - X: giorno 25° - giorno 25° - Seconda battaglia: vittoria troiana. - nella notte - I capi greci a consiglio nella tenda di Agamennone. Ambasceria ad Achille e orazione di Ulisse; rifiuto di Achille e intervento di Aiace. Ulisse e Diomede verso il campo nemico. Dolone. 2) La morte di Patroclo (LIBRI XI-XVIII) Libri XI - XVIII: giorno 26° - giorno 26° - Terza battaglia: l’eroismo di Aiace; i Troiani arrivano sino alle navi greche; l’aiuto di Giunone e Nettuno ai Greci e l’inflessibilità di Giove; intervento e morte di Pàtroclo; salvataggio della salma di Patroclo; il dolore di Achille; Teti e la promessa di nuove armi. - nella notte - Vulcano fabbrica le armi di Achille; 3) Il ritorno di Achille (libri XIX-XXIV) Libri XIX - XXIII: giorno 27° - 29° - giorno 27° - Teti consegna le armi ad Achille. Rappacificazione fra Achille e Agamennone. Quarta battaglia. Duello fra Enea ed Achille; Achille contro i Troiani e contro il fiume Xanto; duello fra Ettore e Achille; morte di Ettore; il dolore d Priamo, Ecuba e Andromaca. - giorni 28° e 29° - gli onori funebri per Patroclo; Libro XXXIV: giorni 30° - 51° - giorni 30° - 39° - Achille lascia insepolto il cadavere di Ettore; - notte del giorno 39° - Priamo guidato da Mercurio si reca da Achille che gli rende il corpo di Ettore e 11 giorni di tregua; - giorni 40° -51° - Onori funebri per Ettore. I PERSONAGGI DELL’ILIADE La società raffigurata è di tipo aristocratico, in cui il ruolo di primo piano spetta agli aristoi, i migliori (i nobili, ossia gli eroi). Gli dei greci sono antropomorfi e hanno gli stessi vizi e le stesse virtù degli uomini. Al di sopra di tutti c’è il Fato, il destino, che costituisce una forza ineluttabile, contro cui non si può combattere, e contro la quale neppure Zeus e gli altri dei possono fare nulla. Assistenti del Fato sono le Moire o Parche (Làchesi, che fila, Cloto, che regge il filo, ed Atropo, che taglia: sono coloro che assegnano la parte, meros, di vita ad ogni individuo). E’ interessante osservare che nell’Iliade ogni persona diviene profeta al momento della morte. I Greci Agamènnone: figlio di Atrèo (e quindi Atride), re di Micene, comandante supremo, partecipa alla spedizione contro Troia con 100 navi. Menelao: fratello di Agamennone, re di Sparta, partecipa alla spedizione con 60 navi. Achille: figlio di Peleo (Pelide) e della Nerèide Teti, proviene dalla Tessaglia (Ftia) e partecipa alla spedizione a capo dei Mirmidoni con 50 navi. Pàtroclo: figlio di Menezio, più vecchio di Achille, è il suo inseparabile amico. Fenìce: è l’affezionato pedagogo di Achille. Aiace: figlio di Telamone (Telamònio), re di Salamina, guerriero imponente; partecipa alla spedizione con 12 navi; si scontra in duello con Ettore. Aiace: figlio di Oilèo (Oilèo), re della Locride, partecipa alla spedizione con 40 navi. Diomède: figlio di Tidèo (Tidide), re di Argo; guerriero forte e spregiudicato; partecipa alla spedizione con 80 navi. Ulisse: figlio di Laèrte (Laerziade), re di Itaca; astuto e diplomatico; partecipa alla spedizione con 12 navi. Nèstore: il più vecchio, re di Pilo, testimone della generazione eroica precedente; partecipa alla spedizione con 90 navi. I Troiani Priamo: figlio di Laomedonte, ultimo re di Troia, padre di 50 figli e 50 figlie, una ventina dei quali avuti dalla moglie Ecuba. Ecuba: moglie di Priamo, regina di Troia. Paride: figlio di Priamo, il rapitore di Elena. Ettore: figlio di Priamo, marito di Andròmaca e padre di Astianatte. Andromaca: moglie di Ettore. Cassandra: figlia di Priamo, sacerdotessa, in grado di prevedere il futuro. Polidamante: interprete di prodigi e saggio consigliere di Ettore. Enea: figlio di Anchise e di Venere, re dei Dàrdani, altra popolazione della Tròade. Sarpedonte: figlio di Giove e di Laodamìa, principe dei Lici, alleati dei Troiani; muore in battaglia. Glauco: figlio di Ippòloco, cugino di Sarpedonte, è un altro principe dei Lici. Gli dei Dalla parte dei Greci sono schierati: Atena ed Era, perché offese dalla scelta di Paride. Poseidone, perché aveva contribuito alla fondazione di Troia, ma non aveva ricevuto la ricompensa pattuita da Laomedonte, padre di Priamo. Efesto, marito di Afrodite; fabbrica le armi di Achille. Teti, perchè madre di Achille. Dalla parte dei Troiani sono schierati: Afrodite, perché scelta da Paride come la più bella fra le dee. Ares, parteggia per i Troiani ma con scarso successo; verrà addirittura ferito da Diomede. Latona con i figli Artemide e Apollo, perché i Greci hanno rapito Criseide, figlia del suo sacerdote Crise. Scamandro, dio-fiume protettore di Troia; sarà domato da Achille. Zeus, perché i Troiani discendono da suo figlio Dardano, ma deve sottostare al Fato che ha decretato la fine della città. LE TRADUZIONI La prima celeberrima traduzione dell'Iliade è quella pubblicata nel 1810 da Vincenzo Monti (1754-1828) in versi endecasillabi sciolti, magniloquente e molto suggestiva nelle scelte formali e lessicali, secondo i canoni del neoclassicismo allora in voga, ma assai libera rispetto all’originale (Monti non conosceva il greco, e Ugo Foscolo lo definì il “traduttor dei traduttor d’Omero”). Altrettanto famose le traduzioni parziali di Ugo Foscolo (1778-1827), Giovanni Pascoli (1855-1912) e Salvatore Quasimodo (19011968), quest'ultima in versi liberi e più vicina a noi per la maggior semplicità di metro e struttura. Nel corso del Novecento sono state redatte molte traduzioni del poema: alcune conservano un livello stilistico elevato, come quella in prosa di Nicola Festa (Sandron, 1919) e quella in versi di Ettore Romagnoli (Zanichelli, 1924); altre, invece, in versi liberi, sono più legate alla lingua quotidiana, come quelle di Rosa Calzecchi Onesti (Einaudi, 1950) e Guido Vitali (Paravia, 1952). Le traduzioni più recenti sono quella in prosa di Giuseppe Tonna (Garzanti, 1974) e Maria Grazia Ciani (Marsilio, 1990), e quelle in versi liberi di Giovanni Cerri (BUR, 1996), Guido Paduano (Einaudi, 1997) e Mario Giammarco (Newton, 1997). Della traduzione di M.G. Ciani si è servito Alessandro Baricco per una riduzione del poema che ha suscitato molto scalpore (Omero, Iliade, Feltrinelli, 2004). I TEMI DELL’ILIADE 1) Gli ideali guerreschi e aristocratici. Nell’Iliade abbiamo l’assoluta prevalenza di ideali guerreschi, in un quadro socioculturale di tipo aristocratico. Il popolo non compare nell’Iliade: meritano attenzione solo gli eroi. Gli “aòristoi” (i migliori) sono uomini eccezionali le cui qualità, sia fisiche che spirituali, hanno qualcosa di gigantesco, di sovrumano: portano armi pesantissime, lanciano massi enormi, resistono in lunghissime battaglie, hanno terribili ire, sdegni paurosi, bramosie di vendetta portate all'eccesso, al punto da sembrare addirittura disumane. Tutti sono così, ma l'eroe in cui maggiormente visibile ciò è Achille, in cui ogni atteggiamento fisico e spirituale è di gran lunga superiore alla normale misura umana. “Quando egli, dopo la morte di Pàtroclo, inerme, si mostra ai Troiani e lancia l’urlo di guerra, quell’urlo basta ad atterrire i Troiani e a farli fuggire; (...) A Ettore morente, che gli domanda di rendere il suo corpo al padre per la sepoltura, risponde che egli vorrebbe che la rabbia e il furore lo spingessero a mangiar crude le sue carni” (G. Perrotta). 2) Il desiderio di gloria. Perché i personaggi omerici sono così? Che cosa li spinge a queste passioni gigantesche ? Essi conoscono una sola aspirazione: la gloria; e temono una sola sciagura: il disonore. Alla gloria aspirano tutti gli eroi e da questo sentimento offeso deriva l'ira di Achille, sulla quale tutto il poema è imperniato. E proprio per amore di gloria Achille accetta una vita breve e rinuncia ad una vita lunga e serena, ma ingloriosa. Appunto qui sta la grandezza della sua figura: attraverso la ricerca della gloria egli cerca di sconfiggere la morte che proietta la sua ombra sulle sue azioni. I personaggi omerici sono eroi per questo, perchè, prima di ogni cosa, aspirano alla gloria per perpetuare la loro memoria fra gli uomini e per questo combattono e muoiono. È questo il caso di Achille, questo il caso di Aiace nella battaglia attorno alle navi, è questo il caso di Pàtroclo che, vissuto sempre all'ombra della fama di Achille, approfitta di una circostanza favorevole e tenta anche lui di conquistare la sua gloria. 3) Il senso del dovere. Ma accanto agli eroi come Achille ed Aiace, campioni di una società guerresca che considera il valore militare come la maggiore virtù dell'uomo, ecco che troviamo Ettore, un tipo d'eroe molto diverso dagli altri. Ettore non ama la guerra, né brama la gloria; combatte per necessità, difende la città assediata, e facendo ciò, difende i vecchi genitori, il figlio e la moglie - e compie un dovere che è gravoso, ma egli sa che deve essere compiuto. Questo è importante: egli sente già che Troia sarà vinta, ma, ciò malgrado, farà il suo dovere fino all'ultimo e affronterà la morte con la coscienza di compiere un sacrificio che non gioverà alla città. Con la raffigurazione di Ettore, dunque, Omero ha creato un personaggio, i cui ideali sono superiori a quelli degli altri eroi, un eroe “moderno”, come e stato detto, cioè un eroe di una società che non ammira come massima virtù il valore militare, ma il senso dei dovere e l’amore per la patria. 4) “Civiltà di vergogna”. È stato tuttavia osservato che il parametro dell’agire da parte degli eroi è sempre l’opinione degli altri. Gli antropologi chiamano questo tipo di civiltà “civiltà della vergogna”, perché il comportamento umano viene regolato in base al senso dell’onore di fronte al giudizio degli altri. La nostra civiltà, invece, è una “civiltà della colpa”, poiché il nostro comportamento viene regolato in base al senso di colpa di fronte ad una legge superiore. Gli eroi omerici non conoscono il sentimento soggettivo di colpa, ma solo il fallimento nel raggiungere il loro obiettivo che determina il giudizio negativo da parte degli altri. Anche Ettore non sfugge a questa legge: il suo senso del dovere è dettato dal disonore che colpirà lui e i suoi cari se si sottrarrà al suo destino. Egli sa che Troia cadrà, ma l’unica possibilità di salvezza per sé, per la città e per i propri cari è garantita dalla grandezza e dalla nobiltà della proprie azioni di chi combatte per lei. Ciò non lo salverà dalla morte, non salverà Troia dalla distruzione, non salverà i suoi cari dalla schiavitù, ma garantirà loro quella gloria che li renderà immortali. 5) Una concezione laica della vita. Gli dei stessi che intervengono spesso nella vicenda non sono altro che la personificazione di forze naturali che limitano e condizionano l’agire degli uomini, ma non possono garantire loro la salvezza. Per questo è stato detto che i poemi omerici sono l’espressione di una visione sostanzialmente laica, nella quale la vita è l’unico orizzonte degli uomini (le anime dei morti sono unicamente rivolte al tempo in cui vedevano la luce del sole, in cui è stata data loro la possibilità di realizzare compiutamente la loro esistenza. 6) I sentimenti. Nel poema si apre così anche la gamma vastissima di sentimenti che caratterizza la vita dell’uomo: l'affetto paterno, la dolcezza del legame coniugale, l’amicizia, il dolore. E così l'Omero che ha creato Achille ed Aiace, crea anche Andromaca, tenera sposa che supplica il marito di fuggire e salvarsi, crea Teti, la dea che piange come una comune madre mortale, crea Priamo, anziano re stroncato dal dolore che bacia la mani dell'uccisore del figlio. 7) La tragicità della condizione umana. E quell’Achille che brama la gloria ed è feroce con Ettore morto, alla fine del poema è improvvisamente aperto al sentimento dell’amicizia e della pietà e di fronte al vecchio Prìamo piange - lui il vincitore! - quando s'accorge che una sola legge, quella del dolore, sovrasta vincitori e vinti. Neanche la gloria ottenuta per le grandi imprese compiute riuscirà a sconfiggere la morte e il dolore. Accanto al motivo epico, ecco comparire il motivo tragico della scoperta della morte e dell’ineluttabilità di un destino (il Fato) che neppure gli dei sono in grado di controllare. Ed Ettore, che ha capito ed accettato tutto questo, è degno della massima venerazione. “Omero, narrando di un conflitto immane, fra le stragi orrende e le rovine non parteggia né per i vincitori né per i vinti, né per i Greci né per i Troiani, ma soltanto vede innanzi a sé uomini travolti dalle passioni e dall'ineluttabile Fato (...) e contempla dall’alto con pietoso sguardo i casi e lieti e tristi della vita, ben sapendo che come le foglie, così sono le stirpi degli uomini (...), l'una nasce e l'altra dilegua” (A. Rostagni). LA STRUTTURA DELL’ILIADE • Una trama relativamente organica. • In evidenza “caratteri” dei protagonisti. • La prospettiva interna (51 giorni del nono o decimo anno di guerra). • “Ring-composition”: la supplica di Crise ad Agamennone e quella di Priamo ad Achille (con esiti diversi…) I CONTENUTI DELL’ILIADE • Il superamento dell’ira è solo nella consapevolezza del dolore dell’esistenza. • La timh@ come “onore”: - prezzo che qualifica il valore del guerriero; - un umanesimo esistenziale basato sulla consapevolezza dei limiti dell’uomo e dei legami fra gli individui. • Le aristìe non sono mai fini a se stesse. • Achille respinge i doni di Agamennone (libro IX, vv. 308-429): la disillusione dell’eroe (Adam Parry). Ma non è pacifismo (Achille riprende a combattere). LETTURE IN TRADUZIONE • I, 1 e ss.: Proemio. • I, 225-244: L’ira di Achille. • II, 182-277: Tersite, l’antieroe. • VI, 392-493: Ettore e Andromaca. • IX, 308-429: Achille respinge l’invito di Odisseo ad accettare i doni di Agamennone. • XXII, 296-363: La morte di Ettore. • XXIV, 477-551: Priamo alla tenda di Achille. APPROFONDIMENTO. L’Iliade riproposta da Baricco Un'altra bellezza. Postilla sulla guerra di ALESSANDRO BARICCO (pubblichiamo la postfazione al volume Omero, Iliade, Feltrinelli 2004) Non sono, questi, anni qualunque per leggere l'Iliade. O per "riscriverla", come mi è accaduto di fare. Sono anni di guerra. E per quanto "guerra" continui a sembrarmi un termine sbagliato per definire cosa sta accadendo nel mondo (un termine di comodo, direi), certo sono anni in cui una certa orgogliosa barbarie, per millenni collegata all'esperienza della guerra, è ridivenuta esperienza quotidiana. Battaglie, assassinii, violenze, torture, decapitazioni, tradimenti. Eroismi, armi, piani strategici, volontari, ultimatum, proclami. Da qualche profondità che credevamo più sigillata, è tornato a galla tutto l'atroce e luminoso armamentario che è stato per tempo immemorabile il corredo di un'umanità combattente. In un contesto del genere vertiginosamente delicato e scandaloso - anche i dettagli assumono un significato particolare. Leggere in pubblico l'Iliade è un dettaglio, ma non è un dettaglio qualsiasi. Per esser chiaro, vorrei dire che l'Iliade è una storia di guerra, lo è senza prudenza e senza mezze misure: e che è stata composta per cantare un'umanità combattente, e per farlo in modo così memorabile da durare in eterno, ed arrivare fino all'ultimo figlio dei figli, continuando a cantare la solenne bellezza, e l'irrimediabile emozione, che era stata un tempo la guerra, e che sempre sarà. A scuola, magari, la raccontano diversamente. Ma il nocciolo è quello. L'Iliade è un monumento alla guerra. Così la domanda sorge naturale: che senso ha in un momento come questo dedicare tanto spazio, e attenzione, e tempo a un monumento alla guerra? Come mai, con tante storie che c'erano, ci si ritrova attratti proprio da quella, quasi fosse una luce che detta una fuga alla tenebra di questi giorni? Credo che una risposta vera la si potrebbe dare solo se si fosse capaci di capire fino in fondo il nostro rapporto con tutte le storie di guerra, e non con questa in particolare: capire il nostro istinto a non smettere di raccontarle mai. Ma è una questione molto complessa, che non può certo essere risolta qui, e da me. Quel che posso fare è restare all'Iliade e annotare due cose che, in un anno di lavoro a stretto contatto con quel testo, mi è accaduto di pensare: riassumono quanto, in quella storia, mi è apparso con la forza e la limpidezza che solo i veri insegnamenti hanno. La prima. Una delle cose sorprendenti dell'Iliade è la forza, direi la compassione, con cui vi sono tramandate le ragioni dei vinti. È una storia scritta dai vincitori, eppure nella memoria rimangono anche, se non soprattutto, le figure umane dei Troiani. Priamo, Ettore, Andromaca, perfino piccoli personaggi come Pàndaro o Sarpedonte. Questa capacità, sovrannaturale, di essere voce dell'umanità tutta e non solo di se stessi, l'ho ritrovata lavorando al testo e scoprendo come i Greci, nell'Iliade, abbiano tramandato, tra le righe di un monumento alla guerra, la memoria di un amore ostinato per la pace. A prima vista non te ne accorgi, accecato dai bagliori delle armi e degli eroi. Ma nella penombra della riflessione viene fuori un'Iliade che non ti aspetti. Vorrei dire: il lato femminile dell'Iliade. Sono spesso le donne a pronunciare, senza mediazioni, il desiderio di pace. Relegate ai margini del combattimento, incarnano l'ipotesi ostinata e quasi clandestina di una civiltà alternativa, libera dal dovere della guerra. Sono convinte che si potrebbe vivere in un modo diverso, e lo dicono. Nel modo più chiaro lo dicono nel VI libro, piccolo capolavoro di geometria sentimentale. In un tempo sospeso, vuoto, rubato alla battaglia, Ettore entra in città e incontra tre donne: ed è come un viaggio nell'altra faccia del mondo. A ben vedere tutt'e tre pronunciano una stessa supplica, pace, ma ognuna con la propria tonalità sentimentale. La madre lo invita a pregare. Elena lo invita al suo fianco, a riposarsi (e anche a qualcosa di più, forse). Andromaca, alla fine, gli chiede di essere padre e marito prima che eroe e combattente. Soprattutto in questo ultimo dialogo, la sintesi è di un chiarore quasi didascalico: due mondi possibili stanno uno di fronte all'altro, e ognuno ha le sue ragioni. Più legnose, cieche, quelle di Ettore: moderne, tanto più umane, quelle di Andromaca. Non è mirabile che una civiltà maschilista e guerriera come quella dei Greci abbia scelto di tramandare, per sempre, la voce delle donne e il loro desiderio di pace? Lo si impara dalla loro voce, il lato femminile dell'Iliade: ma una volta imparato, lo si ritrova, poi, dappertutto. Sfumato, impercettibile, ma incredibilmente tenace. Io lo vedo fortissimo nelle innumerevoli zone dell'Iliade in cui gli eroi, invece che combattere, parlano. Sono assemblee che non finiscono mai, dibattiti interminabili, e uno smette di odiarli solo quando inizia a capire cosa effettivamente sono: sono il loro modo di rinviare il più possibile la battaglia. Sono Sherazade che si salva raccontando. La parola è l'arma con cui congelano la guerra. Anche quando discutono di come farla, la guerra, intanto non la fanno, e questo è pur sempre un modo di salvarsi. Sono tutti condannati a morte ma l'ultima sigaretta la fanno durare un'eternità: e la fumano con le parole. Poi, quando in battaglia ci vanno davvero, si trasformano in eroi ciechi, dimentichi di qualsiasi scappatoia, fanaticamente votati al dovere. Ma prima: prima è un lungo tempo, femminile, di lentezze sapienti, e sguardi all'indietro, da bambini. Nel modo più alto e accecante, questa sorta di ritrosia dell'eroe si coagula, come è giusto, in Achille. È lui quello che ci mette più tempo, nell'Iliade, a scendere in battaglia. È lui che, come una donna, assiste da lontano alla guerra, suonando una cetra e rimanendo al fianco di quelli che ama. Proprio lui, che della guerra è l'incarnazione più feroce e fanatica, letteralmente sovrumana. La geometria dell'Iliade è, in questo, di una precisione vertiginosa. Dove più forte è il trionfo della cultura guerriera, più tenace e prolungata è l'inclinazione, femminile, alla pace. Alla fine è in Achille che l'inconfessabile di tutti gli eroi erompe in superficie, nella chiarezza senza mediazioni di un parlare esplicito e definitivo. Quel che lui dice davanti all'ambasceria mandatagli da Agamennone, nel IX libro, è forse il più violento e indiscutibile grido di pace che i nostri padri ci abbiano tramandato: Niente, per me, vale la vita: non i tesori che la città di Ilio fiorente possedeva prima, in tempo di pace, prima che giungessero i figli dei Danai; non le ricchezze che, dietro la soglia di pietra, racchiude il tempio di Apollo signore dei dardi, a Pito rocciosa; si possono rubare buoi, e pecore pingui, si possono acquistare tripodi e cavalli dalle fulve criniere; ma la vita dell'uomo non ritorna indietro, non si può rapire o riprendere, quando ha passato la barriera dei denti. Sono parole da Andromaca: ma nell'Iliade le pronuncia Achille, che è il sommo sacerdote della religione della guerra: e per questo esse risuonano con un'autorevolezza senza pari. In quella voce - che, sepolta sotto un monumento alla guerra, dice addio alla guerra, scegliendo la vita - l'Iliade lascia intravedere una civiltà di cui i Greci non furono capaci, e che tuttavia avevano intuito, e conoscevano, e perfino custodivano in un angolo segreto e protetto del loro sentire. Portare a compimento quell'intuizione forse è quanto nell'Iliade ci è proposto come eredità, e compito, e dovere. Come svolgere quel compito? Cosa dobbiamo fare per indurre il mondo a seguire la propria inclinazione per la pace? Anche su questo l'Iliade ha, mi sembra, qualcosa da insegnare. E lo fa nel suo tratto più evidente e scandaloso: il suo tratto guerriero e maschile. È indubbio che quella storia presenti la guerra come uno sbocco quasi naturale della convivenza civile. Ma non si limita a questo: fa qualcosa di assai più importante e, se vogliamo, intollerabile: canta la bellezza della guerra, e lo fa con una forza e una passione memorabili. Non c'è quasi eroe di cui non si ricordi lo splendore, morale e fisico, nel momento del combattimento. Non c'è quasi morte che non sia un altare, decorato riccamente e ornato di poesia. La fascinazione per le armi è costante, e l'ammirazione per la bellezza estetica dei movimenti degli eserciti è continua. Bellissimi sono gli animali, nella guerra, e solenne è la natura quando è chiamata a far da cornice al massacro. Perfino i colpi e le ferite vengono cantati come opere superbe di un artigianato paradossale, atroce, ma sapiente. Si direbbe che tutto, dagli uomini alla terra, trovi nell'esperienza della guerra il momento di sua più alta realizzazione, estetica e morale: quasi il culmine glorioso di una parabola che solo nell'atrocità dello scontro mortale trova il proprio compimento. In questo omaggio alla bellezza della guerra, l'Iliade ci costringe a ricordare qualcosa di fastidioso ma inesorabilmente vero: per millenni la guerra è stata, per gli uomini, la circostanza in cui l'intensità - la bellezza - della vita si sprigionava in tutta la sua potenza e verità. Era quasi l'unica possibilità per cambiare il proprio destino, per trovare la verità di se stessi, per assurgere a un'alta consapevolezza etica. Di contro alle anemiche emozioni della vita, e alla mediocre statura morale della quotidianità, la guerra rimetteva in movimento il mondo e gettava gli individui al di là dei consueti confini, in un luogo dell'anima che doveva sembrar loro, finalmente, l'approdo di ogni ricerca e desiderio. Non sto parlando di tempi lontani e barbari: ancora pochi anni fa, intellettuali raffinati come Wittgenstein e Gadda, cercarono con ostinazione la prima linea, il fronte, in una guerra disumana, con la convinzione che solo là avrebbero trovato se stessi. Non erano certo individui deboli, o privi di mezzi e cultura. Eppure, come testimoniano i loro diari, ancora vivevano nella convinzione che quell'esperienza limite - l'atroce prassi del combattimento mortale - potesse offrire loro ciò che la vita quotidiana non era in grado di esprimere. In questa loro convinzione riverbera il profilo di una civiltà, mai morta, in cui la guerra rimaneva come fulcro rovente dell'esperienza umana, come motore di qualsiasi divenire. Ancor oggi, in un tempo in cui per la maggior parte degli umani l'ipotesi di scendere in battaglia è poco più che un'ipotesi assurda, si continua ad alimentare, con guerre combattute per procura attraverso i corpi di soldati professionisti, il vecchio braciere dello spirito guerriero, tradendo una sostanziale incapacità a trovare un senso, nella vita, che possa fare a meno di quel momento di verità. La malcelata fierezza maschile cui, in Occidente come nel mondo islamico, si sono accompagnate le ultime esibizioni belliche, lascia riconoscere un istinto che lo shock delle guerre novecentesche non ha evidentemente sopito. L'Iliade raccontava questo sistema di pensiero e questo modo di sentire, raccogliendolo in un segno sintetico e perfetto: la bellezza. La bellezza della guerra - di ogni suo singolo particolare - dice la sua centralità nell'esperienza umana: tramanda l'idea che altro non c'è, nell'esperienza umana, per esistere veramente. Quel che forse suggerisce l'Iliade è che nessun pacifismo, oggi, deve dimenticare, o negare quella bellezza: come se non fosse mai esistita. Dire e insegnare che la guerra è un inferno e basta è una dannosa menzogna. Per quanto suoni atroce, è necessario ricordarsi che la guerra è un inferno: ma bello. Da sempre gli uomini ci si buttano come falene attratte dalla luce mortale del fuoco. Non c'è paura, o orrore di sé, che sia riuscito a tenerli lontani dalle fiamme: perché in esse sempre hanno trovato l'unico riscatto possibile dalla penombra della vita. Per questo, oggi, il compito di un vero pacifismo dovrebbe essere non tanto demonizzare all'eccesso la guerra, quanto capire che solo quando saremo capaci di un'altra bellezza potremo fare a meno di quella che la guerra da sempre ci offre. Costruire un'altra bellezza è forse l'unica strada verso una pace vera. Dimostrare di essere capaci di rischiarare la penombra dell'esistenza, senza ricorrere al fuoco della guerra. Dare un senso, forte, alle cose senza doverle portare sotto la luce, accecante, della morte. Poter cambiare il proprio destino senza doversi impossessare di quello di un altro; riuscire a mettere in movimento il denaro e la ricchezza senza dover ricorrere alla violenza; trovare una dimensione etica, anche altissima, senza doverla andare a cercare ai margini della morte; incontrare se stessi nell'intensità di luoghi e momenti che non siano una trincea; conoscere l'emozione, anche la più vertiginosa, senza dover ricorrere al doping della guerra o al metadone delle piccole violenze quotidiane. Un'altra bellezza, se capite cosa voglio dire. Oggi la pace è poco più che una convenienza politica: non è certo un sistema di pensiero e un modo di sentire veramente diffusi. Si considera la guerra un male da evitare, certo, ma si è ben lontani da considerarla un male assoluto: alla prima occasione, foderata di begli ideali, scendere in battaglia ridiventa velocemente un'opzione realizzabile. La si sceglie, a volte, perfino con una certa fierezza. Continuano a schiantarsi, le falene, nella luce del fuoco. Una reale, profetica e coraggiosa ambizione alla pace io la vedo soltanto nel lavoro paziente e nascosto di milioni di artigiani che ogni giorno lavorano per suscitare un'altra bellezza, e il chiarore di luci, limpide, che non uccidono. E' un'impresa utopica, che presuppone una vertiginosa fiducia nell'uomo. Ma mi chiedo se mai ci siamo spinti così avanti, come oggi, su un simile sentiero. E per questo credo che nessuno, ormai, riuscirà più a fermare quel cammino, o a invertirne la direzione. Riusciremo, prima o poi, a portar via Achille da quella micidiale guerra. E non saranno la paura né l'orrore a riportarlo a casa. Sarà una qualche, diversa, bellezza, più accecante della sua, e infinitamente più mite. La Repubblica, 14 settembre 2004 Iliade, la guerra tra orrore e bellezza di EUGENIO SCALFARI Non sarà un caso se l' Iliade riscritta da Alessandro Baricco si trova dopo pochi giorni dall' uscita del libro ai vertici delle classifiche diffusionali. Un nuovo interesse per la poesia in genere e per i poemi in particolare? Lo starebbero a comprovare le letture "en plein air" della Divina Commedia di Vittorio Sermonti nelle piazze e nei teatri di tante città, i vari festival di poesia e l' attenzione del cinema sull' epica e i suoi personaggi. Ma per quanto riguarda l' Iliade c' è forse una motivazione speciale: quel poema mette in scena la guerra, è un monumento alla guerra e alle sue infernali bellezze. L' attualità d' un monumento del genere è evidente. Di qui il richiamo che esercita su un pubblico che privilegia l' horror, la violenza, la muscolarità, la sfida e la vittoria del più forte. Così pensa Baricco e forse coglie un aspetto non marginale dell' umore pubblico. Questa sua posizione ha suscitato molte reazioni e aperto un dibattito che si svolge su diversi piani. Anzitutto su un piano storico-pedagogico: la guerra è orrore e non bellezza; chi esalta sia pure in senso poetico la "bella guerra" e vede in essa la piena realizzazione della vitalità confonde l' etica con l' estetica, coltiva una dimensione decadente che non corrisponde alla sensibilità della nostra epoca, si iscrive in buona sostanza nel novero dei cattivi maestri e degli apprendisti stregoni. Il secondo piano del dibattito riguarda l' analisi del poema omerico che Baricco compie nella lunga postilla con la quale il suo libro si conclude e che Repubblica ha pubblicato il 14 settembre scorso: un esame attento e per molti versi sorprendente per le intuizioni critiche che contiene e per la lettura moderna di un testo antico di tremila anni ma ancora capace di suscitare emozioni e passioni. Infine la terza questione è quella non già del testo omerico ma della riscrittura che ce ne dà Baricco. L' autore è lui anche se opera (liberamente) sulla traduzione di Maria Grazia Ciani. Anche lui si iscrive deliberatamente in quella piccola schiera di «traduttor dei traduttor d' Omero» che ebbe in Vincenzo Monti il suo migliore e più duraturo esempio attraverso il quale la mia generazione ebbe il suo primo incontro col «Cantami o diva del Pelide Achille l' ira funesta» che ancora oggi ci ricorda gli anni della nostra prima giovinezza. Da questa terza questione, il testo di Baricco, comincerò dunque le mie riflessioni che sono di carattere letterario e insieme etico e politico. *** Abbiamo già detto che il telaio linguistico e vorrei dire anche metrico che l' autore adopera è la versione in prosa della Ciani. Una versione tra le migliori (insieme a quella di G. A. Privitera della Fondazione Leonardo Valla) per la resa del testo greco del quale rispetta la lettera, l' ispirazione e il ritmo posato dell' esametro senza avvilirlo in una cantilena, peggio ancora se rimata. Ottima dunque la scelta di Baricco che tuttavia, in più di una occasione, rompe la scansione del ritmo e l' aulicità del lessico prendendosi alcune licenze che a volte stridono come il raschio prodotto da una lama di coltello strisciata sul marmo. Quando Odisseo per esempio elenca ad Achille i doni inviatigli da Agamennone per riguadagnarne l' amicizia, il Pelide risponde: «Me ne frego dei suoi doni». Baricco era certamente consapevole dello stridore di quel «me ne frego» e lo usa volutamente per dare al racconto la spigliatezza della modernità, ma il risultato che ottiene non va nel senso desiderato. Produce uno scandalo stilistico inutile che non alleggerisce il fraseggio ma lo disarticola. Così pure in alcune giunzioni che si propongono di chiarificare e di render compiuto il testo e che l' autore fa stampare - per distinguerle dalla versione Ciani - in carattere corsivo. Esse aiutano il lettore a seguir meglio il racconto ma la dimensione didascalica va quasi sempre a detrimento di quella poetica. Ne risulta un racconto a volte aritmico, che in parte vanifica l' "andante" e il "largo" che costituiscono il fondale della Ciani, introducendo disarmonie e dodecafonie che interrompono l' epicità del testo. Qui cessano le possibili critiche al lavoro di Baricco, al quale non reca invece alcun danno l' inserimento del brano di Demodoco sulla caduta di Troia, tratto dall' Odissea, e di altre fonti post-omeriche che concludono efficacemente l' intero romanzo. C' è ancora un punto da rilevare: il taglio netto compiuto dall' autore di tutto ciò che riguarda la presenza degli dei nel poema. Quella presenza, dice Baricco, appesantisce inutilmente la narrazione senza essere necessaria. Gli dei dell' Iliade sono infatti talmente antropomorfici da risultare un inutile duplicato degli eroi che combattono attorno alle mura di Ilio. Le loro liti, le loro rappacificazioni, la loro brama di guerra, la ripetitività dei loro comportamenti è tale da non distinguersi in nulla dai mortali che vivono e muoiono sotto i loro occhi. Cancellarli dal testo lo sveltisce senza produrre alcun danno. Mi permetto di non essere del tutto d' accordo su questo punto. Ci sono infatti alcuni punti topici dell' Iliade nei quali i mortali - se abbandonati a se stessi - si comporterebbero in modo affatto diverso da come alla fine decidono di agire perché indotti o costretti dall' intervento di un dio. Cito: «Diomede torna in battaglia soltanto perché Atena glielo impone assicurandogli la sua protezione; Priamo attraversa l' accampamento acheo e arriva alla tenda di Achille per implorarlo a restituirgli il corpo del figlio perché Zeus lo induce a muoversi e manda Hermes a proteggerlo. Lo stesso Zeus manda Teti, madre divina di Achille, a convincere il figlio di fare buona accoglienza a Priamo e di rendergli il corpo di Ettore, che altrimenti Achille non avrebbe restituito. Senza la presenza, spesso capricciosa ma talvolta saggia, delle divinità, la storia di Troia insomma sarebbe andata diversamente. Il che solleva un problema non piccolo sull' autodeterminazione umana rispetto ad una presenza "provvidenziale". La cancellazione degli dei dal testo conferisce ai mortali un' autonomia dei comportamenti che nel poema non c' è. E incide direttamente su un aspetto importante del libro di Baricco là dove parla di una sorta di "pietas" di Achille che si manifesterebbe appunto nell' incontro con Priamo e che invece non è farina del suo sacco ma frutto dell' intervento di Teti e di Zeus. Siamo con ciò arrivati al nocciolo dell' opera, contenuto nella "postilla" che la conclude, quella sulla quale si è acceso il dibattito e che più ci interessa: la guerra è un inferno ma bello, ed è una pulsione permanente dell' uomo, fa parte integrante della sua condizione ed esprime una sua bellezza e addirittura una pienezza vitale. Per superare quella bellezza, modificare quella condizione e abolire insieme alla guerra anche gli orrori che essa comporta occorre quindi costruire un altro tipo di bellezza che affascini gli uomini e li distolga dal vagheggiamento del mito guerriero. Così Baricco nella sua postilla che, a mio avviso, è uno dei punti alti e sorprendenti della sua riflessione sull' Iliade. *** Un monumento alla bellezza della guerra, ma non monolitico. C' è dell' altro in questo poema dedicato all' età del bronzo ma scritto quando già la civiltà degli eroi si era conclusa e per molti aspetti appariva arcaica e superata. Intanto va segnalato un punto abbastanza sconvolgente: per la prima volta, proprio sul nascere della civiltà occidentale, una guerra viene raccontata non soltanto dal punto di vista dei vincitori ma anche da quello dei vinti. Non era mai accaduto prima e non accadrà neanche dopo, per molti secoli. Nella letteratura ellenistica e poi in quella romana non c' è traccia di narrazioni che ospitino la storia dei vinti. Neppure la "pietas" virgiliana offre varchi agli sconfitti, con la sola eccezione dell' episodio di Didone, nel suo strazio e nel suo suicidio causato dall' abbandono di Enea. è vero che la schiera di troiani che fuggono da Ilio mentre nella città ancora infuriano la strage e l' incendio, raffigura i vinti nella loro estrema disperazione, con l' eroe che trasporta sulle spalle il vecchio padre Anchise e tiene per mano il figlioletto in mezzo alle fiamme e alle urla del massacro. Ma quella schiera di disperati è già proiettata verso un futuro di grandi vittorie, i loro discendenti regneranno su tutto l' orbe diffondendo nel mondo sulla punta della spada i doni della pace, del diritto e del benessere. Omero da questo punto di vista è molto più moderno di Virgilio, poeta di corte che canta la forza di Roma e l' apoteosi di Augusto. Ma c' è un altro aspetto sorprendente del poema omerico che Baricco ha il merito di mettere in luce ed è la lettura femminile di quella vicenda che fa da contrappunto alla lettura maschile e guerriera. Le donne troiane vogliono la pace e detestano la guerra. Lo gridano senza riserbo in pubblico e nell' intimità dei rapporti con i mariti e con i figli cercando di distoglierli dal mito della vittoria e della bella morte. Questa pena femminile contiene valori del tutto diversi da quelli dell' età eroica; valori sconosciuti perfino nella residenza degli dei olimpici, dove sono proprio le dee a mostrarsi più bramose di sangue e di strage. Atena ed Era in particolare arrivano al punto di ribellarsi a Zeus perché lo giudicano incerto tra le due parti contendenti e forse incline alla tregua delle armi. Armano i loro carri alati e si preparano ad irrompere nella magione di Zeus incuranti di affrontare uno scontro che non potrebbe che vederle perdenti pur d' ottenere che la cruenza non si arresti ma proceda speditamente fino in fondo. I valori femminili non trovano dunque alcuna protezione né ascolto nelle divinità olimpiche, eppure costituiscono una componente essenziale nella trama del poema. Ecuba, Andromaca, Cassandra, perfino Elena, oggetto di scandalo, e insieme a loro il coro delle donne troiane, non fanno che implorare la pace, o almeno una tregua, il dialogo col nemico. Qualche scheggia di questi sentimenti femminili si percepisce anche in Paride ma trattandosi di un uomo e per di più del figlio del re, le sue esitazioni sono giudicate sintomi di viltà e come tali censurate dai suoi pari, fratelli e compagni. Sicché, per riscattarsi da quelle accuse, anche Paride si arma e combatte finché, nell' ultima notte di Ilio, sarà scannato da Menelao. Soltanto Ettore ascolta e comprende i lamenti delle donne ed è per questo che la sua figura merita un discorso a parte come si addice ad un personaggio archetipico situato da Omero a mezza strada tra la civiltà degli eroi e quella degli uomini. *** I ragazzi della mia generazione studiavano Iliade e Odissea nelle prime classi del ginnasio inferiore, come si chiamava allora. Ricordo che l' Odissea ci annoiava un po' , ci sperdevamo in quel viaggio infinito, nella sua improbabile geografia, in quelle avventure delle quali sfuggiva il senso alle nostre menti non ancora uscite dalla fanciullezza. Ma l' Iliade era un' altra cosa. Il senso era chiaro: le battaglie, le vittorie, l' umiliazione degli sconfitti. Era ciò che mandavamo in scena ogni giorno all' uscita di scuola, sul marciapiede di cemento prima del ritorno a casa: con la palla di gomma o col pallone di cuoio, a "ruba bandiera" o alla guerra francese, a guardie e ladri o a cowboys contro pellirosse. Nello stesso modo mimavamo anche la guerra di Troia. Si erano formati due partiti: la maggior parte di noi stava dalla parte dei troiani e la difficoltà consisteva nel trovare chi combattesse sotto le insegne dei greci. Ettore ci affascinava molto più di Achille, forse perché l' invulnerabilità del Pelide ci pareva un privilegio sleale; gli eroi greci, Agamennone in testa, ci erano antipatici salvo forse Aiace Telamonio, il solo che ci sembrasse fatto della stessa pasta dei guerrieri che difendevano le mura di Troia. Ettore combatteva per la sua patria; era forte ma non invincibile. Nessun dio combatteva al suo fianco. Insomma era un giusto, uno dei nostri come Buffalo Bill e Tom Mix che difendevano l' accampamento dalle orde dei sioux. Non c' era una logica ma un sentimento in questa scelta: amavamo il perdente e non il finto eroe predestinato a vincere. Probabilmente percepivamo una predilezione di Omero, del resto abbastanza evidente nel poema dove si configura il patriottismo troiano contro l' immensa armata d' invasione mobilitata dai re Achei. Ma noi eravamo per Ettore soprattutto per un' altra ragione: era un uomo, non un semidio come quasi tutti gli eroi. Perciò ci apparteneva e noi appartenevamo a lui. La sua guerra era difensiva e questo ci piaceva: difendeva la sua bandiera, non andava in cerca di bottino e di schiavi. Quando poi, non più fanciulli ma ormai adolescenti, rivisitammo quel mondo attraverso le terzine dantesche del XXVI canto dell' Inferno, l' innamoramento per Ulisse fu immediato. Ma questo è un altro discorso che tra poco riprenderò. *** Il nocciolo del dibattito che si è acceso attorno al libro di Baricco riguarda la bellezza della guerra, cui i pacifisti oppongono il suo orrore e la sua ferina bestialità. Non è vero, sostengono, che la guerra sia uno degli elementi costitutivi della condizione umana. Al contrario: gli uomini vogliono la felicità e la vita, quindi la pace. Il culto della bella guerra, della guerra igiene del mondo, è il prodotto di una cattiva cultura che privilegia un falso elemento estetico rispetto al sentimento morale. Fino a quando la sensibilità estetica resta nei confini di una poetica, trova una sua accettabile motivazione. Ma se ne esce, diventa istigazione alla violenza, alla sopraffazione e alla morte. L' autore sostiene che l' ideale guerresco non sarà superabile fino a quando gli uomini non saranno in grado di creare un' altra più seducente bellezza, ma questa bellezza c' è già, affermano i suoi contraddittori, anzi c' è sempre stata ed è quella della pace. La lotta tra il bene della pace e il male della guerra. Argomentata in questo modo la questione mi sembra malposta. Il problema non è infatti quello della scelta tra pace e guerra ma quello del potere. Il potere è certamente un elemento costitutivo della condizione umana, anzi dell' intero orbe vivente. Perfino gli alberi si disputano la luce del sole e il più robusto toglie spazio e aria al vicino che intisichisce e declina. Così gli animali di ogni specie difendono il loro territorio a prezzo della vita e sono di volta in volta cacciatori o prede nell' incessante lotta per il cibo; quando vivono in branco disputano per il comando ed è il più forte ad assumerlo. E così, in modi ancora più intensi e sofisticati, accade anche nella nostra specie dove la lotta per il potere assume forme spesso indirette e sublimate perché noi, a differenza delle altre forme di vita, conosciamo la nostra condizione mortale e aspiriamo al potere per esorcizzare la morte o per rinviarne gli effetti attraverso la conquista della gloria affidata al ricordo della posterità. La guerra procaccia potere e gloria. La battaglia attorno alle porte Scee tramanda gli eroi attraverso i millenni. Ma il bambino che ancora nulla sa né di gloria né di memoria e neppure di morte sa però fin dai suoi primi mesi di vita che deve conquistare un suo territorio e lotta per questo giorno dopo giorno difendendo con grida e lacrime il suo giocattolo e impadronendosi se può del giocattolo altrui. Se poi è di sesso maschile impara rapidamente il gioco della guerra e ne fa il suo impegno principale e quasi la sua vocazione. è bello il potere? Fate attenzione: la pace ha una sua bellezza e anche la guerra può esprimere paradossalmente una dimensione estetica del "beau geste" e infatuare di sé. Ma il potere è impermeabile sia all' estetica che all' etica. Ha una sua dimensione autonoma e necessaria. L' opposto del potere non è l' impotenza poiché nessun essere vivente aspira all' impotenza. L' opposto del potere è la solitudine. * * * Personalmente credo che si debba e si possa costruire un' altra bellezza ed è quella della conoscenza di sé e dell' amore per gli altri. Avevo detto prima di Ulisse rivisitato da Dante. L' Ulisse dantesco ha certamente potere, è un navarca e guida i suoi compagni. Ma dove li guida? Non verso la guerra che ha lasciato da tempo alle sue spalle. Li guida verso un viaggio misterico e iniziatico. «Considerate la vostra semenza / fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e conoscenza». Non è forse questa la nuova bellezza con la quale vincere i fantasmi dell' orrore e i cavalieri dell' apocalisse portatori di morte e di distruzione? La Repubblica, 13 ottobre 2004 L’Iliade di Scalfari e di Baricco è un equivoco di GIOVANNI CERRI I miei colleghi classicisti dell’Università e dei Licei sono in genere abbastanza soddisfatti per un certo rilancio mediatico di Omero oggi in atto: film, spettacoli teatrali, paginoni sui principali quotidiani a tiratura nazionale. Con i tempi che corrono per lo studio del greco e del latino, tutto fa brodo; se un po’ di chiasso intorno ad Omero finisse per incrementare il numero degli studenti interessati a quelle discipline, sarebbe comunque una boccata d’aria. Da questo punto di vista, potrei anche essere d’accordo. Tuttavia mi sembra che qualche riflessione il fenomeno, per come si sta realizzando, la meriti. Il film Troy è dichiaratamente un colossal-fumettone, che non ha e non vuole avere a che fare davvero niente col testo dal quale è stata tratta la sceneggiatura. Il recital di Alessandro Baricco è una pubblica lettura non dell’“Iliade”, ma di un suntorifacimento elaborato da Baricco stesso in funzione dello spettacolo. Film e recitazione hanno avuto entrambi grande successo di pubblico, dando così ragione alle scelte dei loro autori. Dunque nulla da obiettare. Ma Baricco ha poi pubblicato il suo copione presso la casa editrice Feltrinelli (settembre 2004) con il titolo Omero, Iliade, facendolo per giunta seguire da un pezzo conclusivo (pp. 157-163), nel quale crede di interpretare proprio Omero. Ecco che allora l’operazione comincia ad acquistare margini di equivoco. Egli afferma: «Per essere chiaro, vorrei dire che l’Iliade è un poema di guerra, lo è senza prudenza e senza mezze misure: e che è stata composta per cantare un’umanità combattente, e per farlo in modo così memorabile da durare in eterno, ed arrivare fino all’ultimo figlio dei figli, continuando a cantare la solenne bellezza, e l’irrinunciabile emozione, che era stata un tempo la guerra, e che sempre sarà. A scuola, magari, la raccontano diversamente. Ma il nocciolo è quello. L’Iliade è un monumento alla guerra». Poi aggiunge qualche notazione critica più fine: «È una storia scritta dai vincitori, eppure nella memoria rimangono anche, se non soprattutto, le figure umane dei Troiani»; e, ancora, scopre giustamente «tra le righe» l’emergere continuo di «un amore ostinato per la pace», e cita alcuni passi pertinenti. Chiunque abbia studiato con un minimo di attenzione e di sensibilità il poema, sa che è ben altro e ben di più che un inno alla guerra, increspato da qualche rimorso di pace. E’ come dire che la Divina Commedia sia stata composta da Dante per fare propaganda cattolica, pur con qualche sana puntata anticlericale. Comunque, fino a questo punto, non mi sarei ancora allarmato: Baricco, con quella bocca, può dire quel che vuole! Senonché la sua “critica” ha scatenato un dibattito giornalistico, che lo ha seguito sullo stesso terreno, avvalorando quel giudizio forviante e riduttivo, finché nella provocazione è caduto in pieno un uomo dello spessore culturale di Eugenio Scalfari, il quale si muove sulle sue orme nelle pagine culturali della Repubblica (1 ottobre 2004), con inizio in prima pagina e sotto il titolo Iliade: la guerra tra orrore e bellezza. Purtroppo, il titolo non è errore redazionale, ma rispecchia fedelmente il contenuto del pezzo. Peccato che uno dei più grandi critici del Novecento, Wolfgang Schadewaldt abbia iniziato l’introduzione alla sua splendida traduzione tedesca in versi con le seguenti parole: «L’Iliade tratta le vicende della guerra di Troia, cioè una successione ininterrotta di battaglie. Eppure non è un poema guerresco. Parla di eroi e dei loro destini, ma non è un poema eroico». Peccato che Omero stesso, nel proemio, chiarisca a scanso di equivoci che il suo tema poetico non è la guerra in sé, della quale nemmeno indugia a narrare l’epilogo, ma «l’ira di Achille», cioè un dissidio tragico tra eroi, nel quale entra in gioco tutta intera la loro personalità, dall’orgoglio ferito all’amore frustrato, con risvolti di carattere generale che investono questioni basilari di diritto, osservanza religiosa, lealtà dei comandanti verso l’esercito, correttezza costituzionale tra capo supremo e re confederati, valori la cui infrazione comporta la rovina della collettività nel suo insieme. Perché mai i Greci antichi, per i ben mille e quattrocento anni della loro storia, avrebbero continuato a farne, con recitazioni e letture scolastiche, il poema fondante della loro civiltà, se fosse stato solo un canto di guerra? Mi piacerebbe un giorno poter illustrare la vera natura dell’Iliade a livello giornalistico: ma ora è di altro che voglio discutere. La divulgazione è un’ottima cosa, se è intelligente e competente: è anzi il sale della cultura, perché porta a livello di cultura media i risultati conoscitivi che lo meritino. Diviene invece pessima, se è banalizzante; ancora peggiore, se, come purtroppo è in questi ultimi sciagurati decenni, la singola operazione si iscrive in un processo univoco di banalizzazione della cultura, della politica e del costume. C’è anche un fatto di etica professionale. Perché persone, rispettabilissime e valide sotto altri profili, debbono impancarsi a critici letterari, pur risultando di evidenza palmare che sono del tutto incompetenti in materia? Perché il sistema consente loro la pubblicazione di sciocchezze ai massimi livelli dell’editoria? E perché il grande pubblico deve finire col credere che l’Iliade sia quella robina lì, e non quello che realmente è, un grande poema cosmico sulla vita umana e sul suo mistero? Anche l’Iliade, come la Divina Commedia, è un «poema sacro, al quale ha posto mano e cielo e terra». Alludevo sopra alla banalizzazione politica. Ebbene, la banalizzazione critico-letteraria porta Baricco e Scalfari anche a quella. Sì, perché vogliono poi spremere una morale attuale da quella favoletta esopica cui hanno ridotto il racconto di Omero! Una morale attuale in rapporto alla nauseabonda guerra dell’Iraq (e dell’Afganistan). Dice Baricco: «Quel che suggerisce l’Iliade è che nessun pacifismo, oggi, deve dimenticare, o negare quella bellezza: come se non fosse mai esistita. Dire e insegnare che la guerra è un inferno e basta è una dannosa menzogna. Per quanto suoni atroce, è necessario ricordarsi che la guerra è un inferno: ma bello (corsivo nel testo)». Con la sua estetica bellicistica Omero, anticipando Marinetti, ha il merito oggettivo e involontario di svelarci qual è la ragione psicologica profonda del fatto che la guerra abbia ripreso a dilagare: nei risvolti del nostro cuore la amiamo; solo dopo aver preso coscienza di ciò, saremo in grado di elaborare un’estetica diversa, che ci porti fuori dal circolo vizioso: «Costruire un’altra bellezza è forse l’unica strada verso una pace vera. Dimostrare di essere capaci di rischiare la penombra dell’esistenza, senza ricorrere al fuoco della guerra. Dare un senso, forte, alle cose senza doverle portare sotto la luce, accecante, della morte». Dall’estetica dannunziana del rischio e del lavacro di sangue a una sana estetica della quotidianità: questa è la soluzione dei mali che ci attanagliano. E qui Scalfari si diversifica finalmente da Baricco. Perché scendere così in basso, e avvilupparsi nella mediocrità? Meglio un’etica-estetica più elitaria, presentabile anche nei salotti di un certo livello: «Personalmente credo che si debba e si possa costruire un’altra bellezza ed è quella della conoscenza di sé e dell’amore per gli altri... L’Ulisse dantesco ha certamente potere, è un navarca e guida i suoi compagni. Ma dove li guida? Non verso la guerra che ha lasciato da tempo alle sue spalle. Li guida verso un viaggio misterico e iniziatico... Non è forse questa la nuova bellezza con la quale vincere i fantasmi dell’orrore e i cavalieri dell’apocalisse portatori di morte e di distruzione?». Ed è la chiusa del suo pezzo. La banalizzazione di Omero ha portato così i due pubblicisti a una mistificazione ideologica vera e propria: i guai del nostro tempo, a cominciare dalle stragi del Medio Oriente, sono in realtà colpa nostra (cioè dei popoli), sono colpa dell’Omero che si annida in noi. Bisogna trovare una via di predicazione che ci redima, e sarà la pace. Una regressione davvero paurosa verso l’illuminismo e l’idealismo più ingenui! E l’aggressione americana? Il petrolio? L’apparato militare-industriale? I centri di potere multinazionale, interessati al controllo capillare del mondo? Ma queste, si sa, sono ubbìe del vecchio marxismo. Liberazione, 3 novembre 2004 Ma non parlate di postmoderno. L’Iliade di Baricco di ALESSANDRO BARBERO Uno scrittore di successo si ritrova fra le mani una materia incandescente, fatta apposta per piacere al suo pubblico: una saga feroce e grandiosa di sangue e di passioni, accaduta davvero in un lontano passato. Questa storia in teoria la conoscono tutti, ma in realtà non la legge più nessuno, perché è stata scritta in una lingua incomprensibile e secondo il gusto di tanto tempo fa. Perciò lo scrittore decide di fare l'unica cosa sensata: riscriverla nella sua lingua, ma soprattutto nelle forme che il suo pubblico è in grado di capire e di amare. Anche per lui è un atto d'amore, quell'amore che ci induce ad appropriarci di qualcosa e riplasmarlo a nostra immagine; il che non esclude che lo scrittore, sotto sotto, conti anche sul grande successo mediatico che un'operazione così originale non potrà non riscuotere. Abbiamo capito, diranno i nostri lettori: è Baricco con l'Iliade di Omero. Beh, non proprio. Stiamo parlando, naturalmente, di Benoit de Sainte-Maure, che verso il 1160, alla meravigliosa corte di Enrico Plantageneto e Eleonora d'Aquitania sulla Loira, decise che il suo pubblico si era nutrito abbastanza di pulp fiction, ovvero di canzoni di gesta, e che era ora di proporgli un nutrimento più sostanzioso riscrivendo la saga di Troia. Benoit non leggeva il greco omerico e si accontentò di attingere a tarde compilazioni latine, ma la materia, gli eroi e gli amori, erano comun-que quelli, e il successo era assicu-rato. Ne uscirono, non venti monologhi, ma i trentamila versi del Roman de Troie, traboccanti di battaglie furibonde e di passioni tormentose, di scavo psicologico e di tragedia incombente; un esperimento straordinario di riappropriazione di un materiale reso apparentemente intoccabile dalla polvere dei secoli. Oggi Baricco ci riprova, e fa benissimo; soltanto non veniteci a dire che è un'operazione postmoderna. “La Stampa” 28 settembre 2004 RITORNI. Il campo di battaglia in cui i Greci sconfissero i Troiani è lo stesso in cui oggi riparano masse di profughi. Ecco perché è meglio che il povero Ettore non abbia vinto ILIADE. Achille dalla parte dei Curdi di GIOVANNI GIUDICI Le rovine di Troia sono a un tiro di schioppo dal mare. Pochi però avranno pensato, nelle settimane dell'emergenza curda, che molti di quei profughi sospinti dall'ansia di nuove patrie, e da traffici di mafia, verso precari imbarchi sulle coste nord-occidentali della Turchia, si assiepavano sulle stesse rive dove più di tremila anni fa Greci e Troiani avevano combattuto una guerra decennale. Su quella stessa polvere il grande Achille, campione del campo greco, aveva trascinato legandolo al proprio carro di combattimento il cadavere del suo valoroso rivale: Ettore, figlio del re di Troia Priamo. Affascinati dal "Garamond" tondo che esalta con nobile nitidezza i caratteri greci e per una tarda nostalgia ginnasio-liceale, noi scorrevamo il testo-a-fronte dell'Iliade Einaudi-Gallimard, tradotta in ben ritmati e calibrati versi da Guido Paduano, con il commento di Maria Serena Mirto (un'impresa, sarà corretto aggiungere), che ha seguito a breve distanza la traduzione di Giovanni Cerri, col commento di Antonietta Gostoli, per i "Classici Rizzoli". Quei caratteri greci ci richiamavano con insistenza a una lontana poesia di Vittorio Sereni, "La ragazza di Atene" "... ahimè che il puro / segno delle tue sillabe si guasta, / in contorto cirillico si muta", dove la tradotta su cui viaggia il tenente Sereni sta varcando il confine tra Grecia e Jugoslavia: 1942. Continuavamo a leggere, a collazionare, smontare e rimontare i pezzi di quel meraviglioso giuoco di "Lego" o "Meccano" dove ogni evento si rispecchia nel suo analogo o compensativo, per una specie di feed-back. E può anche succedere, a un vecchio scolaro, di cedere alla nostalgia di una terza o quarta ginnasio dove in più della metà parteggiavamo per Ettore e solo alcuni irriducibili si esaltavano per Achille. Valore sfortunato contro aristocratica protervia? Ma le cose non stavano, e non stanno, precisamente così. Perchè se un tredicenne del 1937, sulla scia dei neoclassici endecasillabi di Vincenzo Monti, poteva anche cimentarsi in un pastiche poetico del fatale duello fra i due campioni facendo vincere Ettore, al disincantato sguardo adulto l'eroe troiano tende ad apparire come una specie di “brav fioeu”, mentre Achille giganteggia in tutta la sua statura di personaggio tragico, biondo e spietato. Infatti è proprio lui, Achille, la vittima che Omero sacrifica alla cieca necessità del Destino: figlio di una dea, Achille non ha potuto ereditarne l'immortalità; deve subire la prepotenza di Agamennone che gli porta via la bella concubina Briseide; Ettore gli ammazza poi Patroclo, l'amico del cuore... Ma finché è vivo (perché, come sappiamo, morirà in un tempo che è al di là del poema, nel breve dopo-Iliade che precede la caduta di Troia) sarà stato lui a proporre al lettore quel moderno esempio di pietà e carità che è la restituzione del corpo di Ettore al vecchio Priamo. Davanti al supplice padre del nemico, Achille pensa al suo vecchio padre Peleo, che non lo vedrà più ritornare alla nativa Ftia. La sua ira, la menis tema-principe dell'opera, si scioglie in una commozione che tocca il sentimento anche alle soglie del XXI secolo. Sì, versa lacrime il corrusco eroe, aggiungendo (come già per la morte di Patroclo) le sue alle tante che scorrono in questo libro di guerra. Per Patroclo ha pianto anche la bella Briseide, che sperava nell'aiuto di lui per convincere Achille a sposarla. Per Ettore piange la moglie Andromaca, già nel citatissimo addio del Libro VI. Alle porte Scee, quando lui sta per scendere in battaglia: ha presentito il destino di vedova, serva in terra straniera. Il loro bambino, Astianatte, sarà passato a fil di spada, e sempre nel dopoIliade, dal figlio di Achille, Pirro. Poema del "sangue per la patria versato", l'Iliade ci offre anche una singolare quasi-metafora di resurrezione: i corpi degli eroi deturpati dalle ferite ritrovano splendore e giovinezza al momento in cui vengono ricomposti per il rito funebre. Così e' per il licio Sarpedonte, per Patroclo e infine per lo stesso Ettore. Non si riesce a non pensare al XIV del "Paradiso" dantesco, dove "... questo folgor che già ne cerchia / fia vinto in apparenza da la carne / che tutto dì la terra ricoperchia...". Non insensibile all'invito dell'ironia, Omero sembra blandamente divertito, allo spettacolo di un pantheon di dei e dee che, nella lottizzazione dei propri favori, litigano e si fanno dispetti. Le dee specialmente (Era dalle "candide braccia", Atena dagli "occhi splendenti" e l'"aurea" Afrodite) baruffano come pescivendole. I risonanti epiteti rispondono, come si sa, a ragioni anche metricoprosodiche e forse, con la loro ripetitività e prevedibilità, saranno serviti ad assecondare l'attesa di un "pubblico" la cui sociologia resta per noi oscura... Soltanto il famosissimo epiteto dell'Aurora ("dalle dita di rosa") è usato con parsimonia tutta speciale: solo due volte, nel primo Libro e nell'ultimo. Ma per Omero, e per gli anonimi aedi dai quali egli derivava probabilmente i suoi materiali, l'Iliade è, specialmente, un'affermazione dell'orgoglio nazionale dei Greci nei confronti dei "barbari" persiani. "Priamo ai piedi di Achille è anche Serse vinto da Temistocle, è Dario sconfitto da Alessandro", leggiamo nel saggio introduttivo alla sobria traduzione in prosa - prosa di Maria Grazia Ciani (Marsilio). Per lo scontro frontale fra le poleis elleniche e gli sterminati eserciti del Gran Re, si dovranno però attendere, rispetto alla cronologia della guerra troiana, almeno cinque secoli. Quale che fosse, Chio o Smirne, la città che aveva dato i natali al Poeta tra il IX e il VII secolo a.C., egli attingeva i propri ricordi da quelli di generazioni da tempo scomparse. Ma già nel VII secolo le colonie eoliche e joniche sulle coste dell'Anatolia non potevano non guardare con preoccupazione ai "barbari" dell'Est. Se avessero vinto, anziché i Greci, i Troiani, quelle colonie greche non sarebbero mai nate e addio, allora, isoletta di Tenedo sacra ad Apollo, addio discreti approdi che, nei secoli e fino ad oggi, sarebbero stati imbarco e via di scampo per profughi e perseguitati. Nomi fino all'altro ieri su tutti i nostri giornali: Kumikala, Canakkala... Giovanni Giudici Corriere della Sera, 24 gennaio 1998, p. 27 "Cantami, o Diva", "Canta, Musa divina", "L'ira cantami, dea": variazioni per un incipit "Iliade di Omero", traduzione di VINCENZO MONTI (prima ed. 1810) 1 5 Cantami, o Diva, del Pelìde Achille L'ira funesta che infiniti addusse Lutti agli Achei , molte anzitempo all’Orco Generose travolse alme d’eroi, E di cani e d’augelli orrido pasto Lor slame abbandonò (così di Giove L’alto consiglio s’adempia), da quando Primamente disgiunse aspra contesa Il re de' prodi Atride e il divo Achille. Omero, "Iliade", traduzione di MARIA GRAZIA CIANI, a cura di ELISA AVEZZÙ, Venezia, Marsilio, 1990. L'ira cantami, dea, l'ira di Achille figlio di Peleo, l'ira funesta che ha inflitto agli Achei infiniti dolori, che tante anime forti di eroi ha gettato nell'Ade, tanti corpi ha dato in pasto a cani e ad uccelli. Si compiva cosi' il piano di Zeus dal momento in cui la contesa divise fra loro Agamennone, signore di popoli, e il divino Achille... Omero, "Iliade", traduzione di GUIDO PADUANO, a cura di MARIA SERENA MIRTO, Torino, Einaudi-Gallimard, 1997 1 5 Canta, Musa divina, l'ira di Achille figlio di Peleo, l'ira rovinosa che porto' ai Greci infiniti dolori, e mando' sottoterra all'Ade molte anime forti d'eroi, e li lascio' in preda ai cani e a tutti gli uccelli: cosi' si compiva il volere di Zeus da quando si divisero, in lite l'uno con l'altro, il figlio di Atreo, capo d'eserciti, e il nobile Achille. Iliade. La parola che tradì Agamennone di GIOVANNI MARIOTTI Vicino a un articolo di Giovanni Giudici sull'Iliade, il "Corriere" di ieri riportava l'incipit del poema in tre diverse traduzioni: quella in ottave di Vincenzo Monti (da non confondere con l'altra, famosissima, in endecasillabi sciolti), e le due, recenti, di Guido Paduano e di Maria Grazia Ciani. A tutte e tre vorrei muovere un'obiezione: con timidezza, perche' ho dimenticato il greco (o meglio, non l'ho mai saputo veramente); ma, per rilevare quello che ho rilevato io, non occorre essere grecisti, basta la prima liceo. Mi riferisco all'ultima parte dell'incipit, e precisamente al settimo verso del testo originale, la' dove Omero contrappone l'Atride (e cioe' Agamennone) ad Achille. "Divino" viene chiamato Achille, e su questo non mi sembra siano possibili controversie; quanto ad Agamennone, l'epiteto che Omero gli attribuisce viene variamente reso in italiano: "re de' prodi", traduce il Monti, "capo d'eserciti" Paduano, "signore di popoli" Maria Grazia Ciani (e quest'ultima soluzione e' adottata anche da un altro traduttore, Giovanni Cerri, la cui Iliade e' apparsa nei Classici Rizzoli due anni fa). Diamo ora un'occhiata al testo greco: "anax andron", scrive Omero; che significa, letteralmente, "signore di uomini". Puo' sembrare una differenza da poco, ma a me non sembra che sia cosi': mettendo a fronte nello stesso verso Achille "divino" e l'Atride "signore degli uomini", Omero suggerisce una contrapposizione tra sfera divina e sfera umana che ogni traduzione non strettamente letterale fa svaporare. Il capo politico, Agamennone, appare totalmente immerso nelle faccende dei mortali; Achille, l'eroe figlio della dea Teti, si colloca nel riverbero di un altro universo, che e' quello degli dei; e se questa differenza fosse una fra le chiavi del loro conflitto? A mio giudizio, "signore di uomini" non e' esteticamente inferiore a "re de' prodi", "capo d'eserciti" o "signore di popoli": perche' allora scostarsi dalla resa piu' immediata e letterale? Non sempre una traduzione puo' essere rigorosamente fedele, ma lo deve essere ogni volta che puo'. GIOVANNI MARIOTTI Corriere della Sera, 26 gennaio 1998, pag. 21 L’ODISSEA. IL POEMA DELL’AVVENTUROSO RITORNO IL MITO: I “NOSTOI” DEGLI EROI L'Odissea prende il nome dal protagonista è Odusseu@v (Odisséo, Ulisse per i Latini), l'eroe greco famoso per la sua intelligenza. Il poema racconta il suo lungo viaggio (durato dieci anni) per ritornare a Itaca, la terra natale, dopo l'espugnazione di Troia, a cui aveva contribuito combattendo e ideando l'inganno del cavallo di legno. L'Odissea si ricollega dunque al ciclo di poemi epici che ha come sfondo la guerra di Troia e comprende anche vicende successive alla morte di Ettore (episodio conclusivo dell'Iliade): fanno parte di questo ciclo anche una serie di narrazioni perdute composte dagli aedi sugli avventurosi ritorni in patria degli eroi dalla guerra di Troia, in greco no@stoi, cioè « ritorni». L'Odissea si può inserire in questo filone narrativo, di cui costituisce l'esempio più illustre. Proprio per la ricchezza di eventi e vicende in cui il protagonista si trova coinvolto, l'Odissea, pur essendo un'opera in versi, può essere definita il primo grande “romanzo di avventure” della letteratura occidentale. LA REALTÀ STORICA: I TRAFFICI NEL MEDITERRANEO Non esiste nell'Odissea un preciso fatto storico di riferimento come nell'lliade, ma essa costituisce ugualmente una fonte preziosa storica, anche perché non si possiedono documenti scritti sull'epoca posteriore a quella micenea, a cui, invece, si fa cenno nel poema. La base storica dell'Odissea si collega con le prime esplorazioni che i Greci fecero nel Mediterraneo, creando rotte e scali che poi verranno sfruttati e perfezionati nel corso della seconda colonizzazione. La società rappresentata nell'Odissea appare più complessa rispetto a quella dell'lIiade: accanto alla società aristocraticoguerriera che detiene il potere, a cui appartiene Ulisse, compaiono altri gruppi sociali, come gli artigiani, in cui sono compresi falegnami, medici, aedi e indovini, di cui è riconosciuta l'utilità; vengono citati anche i braccianti, considerati all'ultimo gradino della scala sociale, e i servi, che possono godere della protezione del padrone e spesso sono saldamente inseriti nella struttura economica e sociale della famiglia a cui appartengono. Ad essi si oppongono coloro che vivono di espedienti o di elemosina. La narrazione, dunque, nel suo complesso, anche se vengono introdotti elementi fantastici e fiabeschi tipici del tema del viaggio, si presenta più realistica rispetto a quella dell'Iliade, perché, accanto alla società aristocratico-guerriera, compare in modo più evidente il mondo quotidiano, per esempio la famiglia, composta non solo dai parenti, ma anche dai servi, dagli schiavi e dai professionisti; le varie attività economiche, la stratificazione sociale. APPROFONDIMENTO. I “no@stoi” degli eroi greci da Troia L’Iliade, come è, noto, termina con i funerali di Ettore. Da altre tradizioni si conoscono le vicende conclusive della guerra di Troia e ciò che accadde ai maggiori condottieri greci sulla via del ritorno in patria. A partire dalle vicende di Troia nasce infatti un ciclo di nostoi (termine greco che significa "ritorni"), cioè di racconti' dei ritorni dei comandanti greci; si tratta di viaggi difficoltosi e avventurosi, molto spesso ostacolati dagli dei e che non sempre approdano a un lieto fine. La causa di queste difficoltà è da attribuire all'ira degli dei causata da due motivi: innanzitutto l'inganno del cavallo, per cui Troia sarebbe caduta non grazie alla superiorità bellica, ma all'astuzia di un uomo; il secondo motivo dell'ira degli dei è da cercare in un atto sacrilego rimasto impunito: dopo la caduta di Troia, il greco Aiace d'Oileo trascinò via la bella principessa Cassandra, figlia di Priamo, che aveva cercato rifugio e protezione nel tempio di Atena abbracciandone la statua. Aiace non solo strappò la fanciulla dalla statua, ma ne abusò all'interno del tempio, inimicandosi in tal modo la dea. Atena si vendicò poi anche sugli altri comandanti che non punirono l'atto sacrilego di Aiace. La storia dei ritorni infelici dei Greci è stata oggetto di racconti e di tragedie sin dall'epoca antica. Passiamo in rassegna alcune di queste vicende. ! Aiace d'Oileo subisce un naufragio, ma si salva aggrappandosi a una roccia e si vanta di essersi salvato a dispetto degli dei. Viene allora fatto annegare dal dio del mare, Poseidone. ! Menelao, ritornando a Sparta con la moglie Elena, perde la rotta e da venti e correnti contrari viene spinto sulle spiagge dell'Egitto, dove rimane per diverso tempo e dove viene a conoscenza della fine del fratello Agamennone e dei sacrifici da compiere per poter fare finalmente ritorno in patria. Telemaco, figlio di Odisseo, recatosi a Sparta per cercare notizie del padre viene accolto e aiutato da Menelao e da Elena. ! Diomede arriva sano e salvo nella sua patria, Argo, ma qui scopre che la moglie, regina della città, lo ha tradito e ne sta tramando la morte. Deluso e amareggiato, Diomede preferisce abbandonare per sempre Argo e cercare nuove terre; nella sua peregrinazione giunge infine in Italia. ! Idomeneo, re di Cnosso, è invece costretto a compiere un gesto crudele e disumano per ottemperare a un voto fatto per rendere propizio il suo ritorno e quello dei suoi uomini: aveva infatti promesso di sacrificare agli dei la prima persona incontrata sul suolo cretese. Il destino vuole che la prima persona ad andargli incontro sia il suo stesso figlio. Gli dei puniscono il gesto di Idomeneo con una terribile pestilenza, per cui i Cretesi si trovano costretti a esiliare il loro re. ! Agamennone, il re dei re, rientra da vincitore a Micene, ma qui incontra una morte crudele e feroce per mano della moglie Clitemnestra (sorella di Elena) e del suo amante Egisto. A spingere la donna a tale gesto fu il sacrificio della loro figlia Ifigenia, compiuto dallo stesso Agamennone all’inizio della spedizione contro Troia, per placare l'ira della dea Artemide e poter finalmente partire per Troia. Clitemnestra non perdonò mai il marito, covando per più di dieci anni un odio implacabile e un profondo desiderio di vendetta. Insieme ad Agamennone trova la morte violenta anche Cassandra, figlia di Priamo, prigioniera e concubina del re greco. La tragica fine di Agamennone e la vendetta operata più tardi dal figlio Oreste, che uccide la madre e l'amante usurpatore, con tutte le sue conseguenze (persecuzione del giovane da parte delle Erinni; rifugio a Delfi per ottenere la protezione di Apollo; processo ad Atene con l'assoluzione finale) diventano argomento di alcune tragedie di Eschilo (525-456 a.C.). ! Il nostos più famoso resta comunque quello di Odisseo, splendidamente raccontato da Omero con una ricchezza di eventi e una cura dei particolari davvero incredibili. M.L. TORDINI, Le immagini e la memoria. Epica, Paravia, Torino LA STRUTTURA DELL’ODISSEA L'errare di Ulisse da un luogo all'altro dura 9 anni; al 10° anno ritorna ad Itaca; complessivamente, dunque, egli rimane assente da Itaca 20 anni (10 anni per la guerra di Troia + 10 di viaggi). Ma l’Odissea racconta solo gli eventi accaduti nell’arco di 40 giorni (34 secondo un’altra ricostruzione), durante i quali veniamo a sapere anche ciò che è avvenuto nei dieci anni precedenti, attraverso la tecnica del flashback e l’utilizzo di narratori di II grado e di III grado: l’intreccio del poema, dunque, non coincide con la fabula, come avveniva nell’Iliade. In sostanza, l'Odissea, composta di 12.000 versi e divisa come l'lIiade in 24 libri, presenta, tre nuclei tematici: 1) La Telemachia (libri I-IV): Telemaco, figlio di Ulisse, non riuscendo a mantenere il potere ad Itaca in assenza del padre, parte per raccogliere notizie su di lui. 2) I viaggi di Ulisse (libri V-XII) contenenti il racconto delle peregrinazioni dell'eroe nel Mediterraneo (a partire dal libro IX narrate in prima persona attraverso un lungo flash back). 3) Il ritorno e la vendetta di Ulisse (libri XIII-XXIV): Ulisse torna a Itaca e sconfigge i nobili che insidiavano il suo regno. 1) La “telemachia” (libri I-IV) Libro I: giorno 1° - giorno 1° - Il concilio degli dei. Atena si reca da Telèmaco ad Itaca. Libro II: giorno 2° - giorno 2° - Assemblea degli Itacesi. Partenza di Telemaco. Libro III: giorni 3° e 4° - giorno 3° - Telemaco a Pilo. - giorno 4° - Telemaco a Fere. Libro IV: giorni 5° e 6° - giorno 5° - Telemaco a Sparta. Accoglienza di Elena e Menelao. - giorno 6° - Telemaco è a Sparta e intanto a Itaca i Proci preparano un agguato per ucciderlo al suo ritorno. 1) I viaggi di Ulisse (libri V-XII) Libro V: giorni 7°- 31° (oppure 1°- 25°) - giorno 7° - Mercurio intima a Calipso di lasciar libero Ulisse. Calipso comunica tale ordina ad Ulisse. - giorni dall'8° al 12° - costruzione della zattera (tre giorni) e partenza da Ogigia. - giorni dal 13° al 28° - Ulisse per mare sulla zattera. - giorni 29° e 30° - Il naufragio: Ulisse alla deriva. - giorni 31° - Ulisse approda all’isola dei Feaci. NB: Era partito da Troia con 12 navi, ognuna delle quali aveva circa 60 uomini; è arrivato dai Feaci come naufrago solitario. Libri VI - IX : giorno 32° (oppure 26°) - giorno 32° - Libro VI: Ulisse naufrago si presenta a Nausicaa. - Libro IX: Ulisse alla reggia di Alcinoo. Il racconto della lunga permanenza presso Calipso. - Libro IX: Il banchetto. Le gare in onore di Ulisse. Il canto di Demodoco e il pianto di Ulisse. Libri IX - XII : giorno 33° (oppure 27°) - giorno 33° - Ulisse racconta le sue peregrinazioni (flash back). Ecco le tappe: Libro IX: - a Ismaro (in Tracia), presso i Ciconi, popolo ostile e bellicoso, Ulisse è attaccato; perde 72 uomini; giunge presso i Lotòfagi, magiatori di Loto, che dona l’oblio (sulle coste della Libia); - arriva presso i Ciclòpi, mostri antropofagi con un solo occhio (in Campania, nei Campi Flegrei, oppure in Sicilia, ad Aci Trezza): nell’avventura con Polifemo, perde 6 uomini, vi dimora 3 giorni; Libro X - giunge all'isola di Eolo, re dei venti (presso le isole Eolie o Lipari, in Sicilia): vi dimora 30 giorni; dopo 9 giorni di navigazione, ormai in vista di Itaca, i compagni di Ulisse aprono l’orcio che conteneva i venti contrari donato da Eolo, e le navi tornano indietro, ma Eolo li caccia via adirato scatenando una tempesta.è presso i Lestrìgoni, feroci cannibali (in Sardegna, presso le Bocche di Bonifacio): perde 11 navi su 12 con tutti gli equipaggi; - arriva nell’isola Eea (sul promontorio del Circeo), presso Circe, maga che trasforma gli uomini in maiali. Ulisse si salva grazie all’aiuto di Ermes e Circe si innamora di lui e libera i compagni: vi dimora 1 anno. Circe suggerisce di recarsi nell’Ade ad interrogare l’indovino Tiresia. Libro XI - si reca nel paese dei Cimmeri, che abitano le terre non identificate dell’estremo occidente, avvolte da nebbie perenni (storicamente erano un popolo che abitava nei pressi del Mar Caspio), Ulisse scende nell'Ade, il regno dei morti, dove interroga l’indovino Tiresia che gli predice il futuro; Libro XII - è di nuovo da Circe, per una breve sosta;naviga presso l’isola della Sirene (nel golfo di Napoli), che fanno naufragare i marinai grazie al loro canto ammaliatore. Ulisse riesce ad ascoltare il loro canto facendosi legare all’albero della nave e turando con la cera le orecchie dei compagni; - a fatica passa quasi indenne presso Scilla e Cariddi, i due mostri che distruggono le navi che attraversano lo stretto di Messina; perde 6 uomini;giunge all'isola di Trinacria (la Sicilia), i compagni di Ulisse uccidono e mangiano i buoi sacri al dio Elios (il sole); vi dimora 36 giorni. Ripartito, perde la nave e tutti i compagni, per la tempesta scatenata dal dio, offeso; - giunge naufrago nell’isola di Ogigia, dimora della ninfa Calipso, che si innamora di lui e lo trattiene per 7 lunghi anni. L’ordine di Zeus, portato da Ermes, obbliga Calipso a lasciare libero Ulisse, che costruisce una zattera e parte, ma Poseidone scatena la tempesta che lo farà naufragare nell’isola dei Feaci. 3) Il ritorno e la vendetta di Ulisse (libri XIII-XXIV) Libro XIII: giorno 34° (oppure 28°) - giorno 34° - Ulisse parte dalla terra dei Feaci e arriva ad Itaca. Libro XIV: giorno 35° (oppure 29°) - giorno 35° - Ulisse ospite nella capanna del porcaro Eumeo. Libri XV e XVI: giorni 36°e 37° (oppure 30°e 31°) - giorno 36° - Arrivo di Telemaco presso Eumeo. - giorno 37° - Riconoscimento di Ulisse da parte di Telemaco. Libri XVII - XIX: giorno 38° (oppure 32°) - giorno 38° - Il ritorno di Telemaco a Itaca. Il cane Argo muore. - nella notte - Colloquio fra il mendicante e Penelope. Il riconoscimento di Ulisse da parte di Euriclea. Libri XX - XXIII: giorno 39° (oppure 33°) - giorno 39° - Melanzio e Ctesippo offendono Ulisse. La prova dell’arco. La strage dei Proci. - La purificazione della casa. Riconoscimento di Ulisse da parte di Penelope. Libri XXIV: giorno 40° (oppure 34°) - giorno 40° - Incontro di Ulisse e Laerte. Incontro di Ulisse con il suo popolo. I PERSONAGGI DELL’ODISSEA 1) Gli uomini Ulisse: figlio di Laerte e Anticlea, re di Itaca, è il protagonista del poema. è un eroe complesso, duttile, abile, intreprendente, capace di adattarsi alle diverse situazioni. è al tempo stesso un guerriero, ma anche un cercatore, un esploratore curioso. La sua condotta non è guidata dai rigidi criteri dell’onore: si adatta alle circostanze e agli inerlocutori, sa mentire e dissimulare con astuzia proverbiale. Solo in parte egli corrisponde all’Ulisse presente nell’Iliade. La nostalgia per la patria lontana e il desiderio di riabbracciare gli affetti familiari contribuiscono ad arricchire di umanità la sua complessa figura. Telemaco: figlio di Ulisse e Penelope. Cresce sotto la guida di Mentore, il compagno di Ulisse cui è stato affidato. A vent’anni parte da Itaca alla ricerca del padre. Laerte: anziano padre di Ulisse. Argo: vecchissimo cane di Ulisse; muore alla vista del padrone che ritorna dopo vent’anni. Alcinoo: re dei Feaci, abitanti dell’isola di Scheria. è un sovrano saggio e illuminato, che accoglie benevolmente Ulisse e lo aiuta a ritornare in patria. Demodoco: è l’aedo che canta le vicende di Troia alla corte di Alcinoo, Menelao e Elena: accolgono Telemaco nel suo viaggio a Sparta. Tiresia: è l’indovino che nell’Ade predice il futuro ad Ulisse. 2) Le donne Penelope: moglie di Ulisse, donna saggia, insidiata dai Proci. Riesce a rinviare la decisione di risposarsi con lo stratagemma della tela: promette di scegliere lo sposo al termine della tessitura di una tela che lei creava di giorno e disfaceva di notte. Nausicaa: giovane figlia di Alcinoo. Soccorre il naufrago (Ulisse) approdato all’isola dei Feaci e lo porta alla corte del padre. 3) I popoli e le creature magiche :•i Ciconi: popolo ostile e bellicoso, che risiede in Tracia, nella città di Ismaro.•i Lotòfagi: magiatori di Loto, che dona l’oblio. La loro terra è da collocare in Africa, probabilmente sulle coste della Libia.•i Ciclòpi: mostri antropofagi con un solo occhio. La loro sede è stata collocata in Campania, nei Campi Flegrei, oppure in Sicilia, ad Aci Trezza. Ulisse entra con alcuni compagni nella grotta di Polifemo: occorrerà tutta l’astuzia di Ulisse per poter uscire dall’antro.•Eolo: re dei venti, ha la sua corte presso le isole Eolie o Lipari, in Sicilia. dona a Ulisse un otre che contiene i venti contrari alla navigazione, ma i compagni di Ulisse, ritenendolo pieno di tesori lo aprono e le navi tornano indietro.•i Lestrìgoni: feroci cannibali che vivono in Sardegna, presso le Bocche di Bonifacio.•Circe: è una maga, figlia del Sole, che trasforma gli uomini in maiali, ma diventa una fata benefica dopo essere caduta ai piedi di Odisseo. Vive nell’isola Eea, identificata con il promontorio del Circeo (la costa da Gaeta a Sperlonga si chiama ancora “Costa di Ulisse”.•i Cimmeri: popolo misterioso che vive nelle terre dell’estremo occidente, avvolte da nebbie perenni (storicamente erano un popolo che abitava nei pressi del Mar Caspio). Qui Ulisse scende nell'Ade, il regno dei morti,•le Sirene: creature con il corpo di uccello e il volto di donna che vivono su un’isola, da collocare forse nel golfo di Napoli. Il loro canto ammalia i naviganti facendoli naufragare. Ulisse riesce ad ascoltare il loro canto facendosi legare all’albero dellanave e turando con la cera le orecchie dei compagni.•Scilla e Cariddi: due mostri marini che impediscono il passaggio delle navi attraverso lo stretto di Messina. Scilla ha infiniti tentacoli mentre Cariddi è un gorgo profondissimo.•Calipso: è una ninfa bellissima, che vive sull’isola di Ogigia (forse presso lo Stretto di Gibilterra). Innamorata di Ulisse, cerca di trattenerlo presso di sé offrendogli il dono dell’immortalità. 4) Gli abitanti di Itaca Fra i Proci si distinguono: Antìnoo di Itaca, che ne è il capo ed il più violento; Anfìnomo di Dulichio, il più mite e saggio; Eurìmaco di Itaca, cerca una mediazione con Ulisse per evitare la strage; Ctesippo di Same. Servi fedeli ad Ulisse: Eumèo, il porcaro; Filèzio, il pastore; Euriclèa, la nutrice. Eurinome, la dispensiera. Servi infedeli: Melànzio, il capraro; Melanto, l’ancella. 4) Gli dei. Atena: protegge Ulisse, permettendogli di ritornare a Itaca. Poseidone: è nemico di Ulisse che gli ha accecato il figlio Polifemo. Ermes: porta a Calipso l’ordine di Zeus di lasciare libero Ulisse. Elios: è il dio Sole, che fa morire in un naufragio tutti i compagni di Ulisse, perché hanno mangiato le carni delle mucche sacre a Elios. LE TRADUZIONI DELL’ODISSEA La traduzione più famosa è quella del 1805 di Ippolito Pindemonte (1753-1828) in endecasillabi sciolti, quasi contemporanea alla versione dell'Iliade di Monti e simile ad essa per la fraseologia e il lessico molto complessi, tipici del gusto neoclassico dell'epoca. Hanno tradotto buona parte del testo dell’Odissea anche i poeti Giovanni Pascoli (1855-1912) e Salvatore Quasimodo (1901-1968), quest'ultimo in versi liberi, adottando una struttura più semplice sia nel metro sia nella sintassi. Sono famose le traduzioni del Novecento: da una parte quella in prosa di Nicola Festa (Sandron, 1926) e quella in versi di Ettore Romagnoli (Zanichelli, 1926) entrambe ancora in uno stile aulico e solenne; dall’altra quelle in versi liberi, ma condotte con una sensibilità più vicina alla nostra di Francesca Castellino (SEI, 1958), Rosa Calzecchi Onesti (Einaudi, 1963), Emilio Villa (Feltrinelli, 1964) e Giovanna Bemporad (Le Lettere, 1970 e 1990). La traduzioni più recenti sono quella in versi liberi di G. Aurelio Privitera (Mondadori, 1981-86), di Enzio Cetrangolo (Sansoni, 1990) e Mario Giammarco (Newton, 1997) e quelle in prosa di Giuseppe Tonna (Garzanti, 1982), Maria Grazia Ciani (Marsilio, 1994) e Franco Ferrari (UTET, 2000). I TEMI DELL’ODISSEA 1) Il prototipo del romanzo. Mentre l'Iliade è un poema tutto risonante di bagliore di armi, e quindi è un poema di guerra, l'Odissea si distingue per la varietà dei luoghi e dei personaggi, per la costante presenza del mare, ora amico, ora nemico, per la ricchezza delle vicende meravigliose e strane. È quindi un poema di avventure, «il primo libro di avventure, quasi il primo romanzo di tutta la le letteratura europea». (G. Perrotta). Il poema è tutto pieno di quello che i critici hanno chiamato l'elemento meraviglioso, cioè quella materia, quel contenuto fantastica ed irreale che si esprime nella descrizione di Circe, la bellissima maga che trasforma gli uomini in porci, nella rappresentazione del Ciclope temibile e mostruoso, nelle notizie sul frutto del loto che fa dimenticare ogni cosa a coloro che ne mangiano. Bisogna dire però che questa materia così irreale viene descritta dal poeta con una tale precisione, con una tale ricchezza di particolari realistici, che quel mondo meraviglioso e irreale si presenta agli occhi del lettore come il mondo di ogni giorno. 2) Il multiforme ingegno di Ulisse. Ma nell’Odissea non ci sono soltanto queste descrizioni e questi episodi, cioè il poema non è solo un interessante campionario di strane avventure e di luoghi fantastici: se tutto il poema consistesse in questo non sarebbe un capolavoro. Nell'Odissea c'è soprattutto la figura di Ulisse. Ulisse domina il racconto dal primo verso all'ultimo: anche quando egli fisicamente è assente, domina il poema, come - basti un esempio - nel colloquio fra Telèmaco e Mente del primo libro: lui non è tra i personaggi presenti, ma non si parla che di lui, del suo sperato ritorno, della sua temuta morte. Ulisse e l'eroe della saggezza, dell'intelligenza, che di fronte alle difficoltà e agli ostacoli riesce sempre a trovare la via per superarli, pazientemente, senza «colpi di testa» ma preparando prima un piano e portandolo dopo a compimento. 3) Il desiderio di conoscere. Inoltre Ulisse è dominato da una grande passione: il desiderio di sapere, di apprendere, di conoscere luoghi nuovi, usanze di popoli sconosciuti. Questa sua passione lo mette spesso in situazioni difficili, gli crea dei fastidi, ma lui preferisce sopportare tutto ciò pur di appagare questo suo prepotente bisogno di sapere. È questo il caso dell'avventura col Ciclope, quando i compagni gli consigliano di far preda nella grotta e tornare alle navi, ma lui, invece preferisce restare e correre dei rischi, pur di potere appagare la sua sete di conoscere. Considerato tutto questo, si capisce, perché Ulisse sia stato sempre - nel mondo classico, nel mondo medioevale, nel mondo moderno uno degli eroi maggiormente esaltati dai filosofi e dai poeti, che in lui hanno visto un simbolo della migliore qualità umana, quella che ha fatto progredire l'uomo e lo ha fatto passare da una conquista all'altra: cioè la brama di conoscere. 5) Il mondo degli affetti. Ma Ulisse non è un personaggio dominato solamente da una passione così elevata come è la brama di conoscere, Ulisse ha anche passioni più comuni, passioni che hanno anche gli uomini normali, di ogni tempo e di ogni paese. Sono esse: la nostalgia della patria e l'ardente affetto per la famiglia. Ulisse non fa che sognare, anche in mezzo alle delizie dell'isola di Calipso, la sua “petrosa Itaca” e la casa e Penèlope e il figlio Telèmaco che ha lasciato bambino e da più di vent’anni non vede. Qui è l’aspetto più umano dell’ Odissea, che diventa appunto il poema del ritorno, in quanto esamina l'ansia e gli stati d'animo di chi è lontano dalle persone e dai luoghi cari. 6) Il bisogno di giustizia. Ma, ritornato in patria, Ulisse trova una particolare situazione: i Proci che gozzovigliano e sperperano; e quindi al tema del ritorno ecco che si collega il tema della vendetta. La strage dei Proci è la logica conclusione del poema e l'Odissea così termina ritornando al tema accennato nel primo canto. Lì Telèmaco, amareggiato dalle prepotenze dei Proci, parlando con Mente aveva espresso l'ardente desiderio di veder tornare il padre col vendicatore: se “mai vedessero quell’uomo / qui ritornare...” Negli ultimi libri, quel desiderio si realizza e i Proci pagano la pena della loro cattiveria. Tutto questo dimostra - fra l'altro - la grande capacità dell'autore, che riprende e conclude alla fine il tema accennato all'inizio e dà al suo poema una salda unità. LA STRUTTURA DELL’ODISSEA • L’intreccio e la funzione del cantore: una narrazione in medias res.•Una struttura ad anello: dal presente al presente (attraverso il flash-back). • Un’opera sperimentale: la polutropi@h dell’autore (e non solo del protagonista), che sa usare narratori di grado diverso e sa costruire un testo in cui la fabula non corrisponde all’intreccio. • “Quandoque bonus dormìtat Homerus”: gli errori del narratore si spiegano alla luce di una produzione e di una fruizione del testo orale. Cfr. l’incontro fra Atena-Mente e Telemaco (I, 253-305) LE DIFFERENZE FRA ILIADE E ODISSEA • Le nuove “formule odissiache”. • Un mondo degli dei più attento al mondo degli uomini (esigenza di giustizia nel mondo). • Un nuovo tema: la sopravvivenza del singolo al posto dello scontro armato fra le masse e la ricerca della timh# (onore) e del kle@ov (fama). • I nuovi motivi: amore, rispetto, devozione, ospitalità, equo compenso, corresponsabilità fra dei e uomini per le sventure. • I nuovi valori dell’eroe: sopportazione, astuzia, travestimento. LETTURE IN TRADUZIONE • I, 1 e ss.: Proemio. • I, 32-43: Il lamento di Zeus e la fine degli Atridi. • I, 253-305: Dialogo fra Atena-Mente e Telemaco • VI, 25-185: Nausicaa accoglie Odisseo. • IX, 347-414: L’incontro con il Ciclope. • XI, 471-491: L’incontro con Achille nell’Ade • XVII, 290-327: Il cane Argo. • XXI, 405-434: La gara dell’arco. • La cicatrice di Ulisse APPROFONDIMENTO. L’intelligenza di Odisseo MARCEL DETIENNE, JEAN-PIERRE VERNANT La mh^tiv di Odisseo Il passo che segue delinea le caratteristiche dell'astuzia, tipico non solo di Odisseo, ma anche di alcune divinità, fra cui Atena ed Hermes, non a caso suoi fedeli alleati. Esso è l'arma con cui riesce a piegare il Ciclope, ma è anche una caratteristica "globale" di Odisseo, che sa attendere il momento giusto per agire come per parlare: perciò, pur nella commozione, il suo autocontrollo e lo sua astuzia consentono anche l'ultimo riconoscimento - legato a un'abilità pratica e alla capacità di mantenere un segreto - che porterà alla felicità. Il concetto di metis. In primo luogo la forma d'intelligenza designata dal termine metis si esercita a vari livelli, ma l'accento è sempre posto sull'efficacia pratica, sulla ricerca del successo nel campo dell'azione: molteplici abilità utili alla vita, perizia dell'artigiano nel suo mestiere, artifici magici, uso di filtri e di erbe, stratagemmi di guerra, inganni, finzioni, astuzie di ogni genere. [In ogni situazione di scontro] o di competizione - che si debba competere con un uomo, una bestia o una forza naturale - il successo può essere ottenuto in due modi: o con una superiorità di "potenza" nel campo in cui si svolge la lotta, per cui il più forte ottiene la vittoria; oppure con l'utilizzazione di accorgimenti di altro ordine, il cui effetto è precisamente quello di falsare i risultati della prova e di fare trionfare colui che poteva considerarsi senz'altro battuto. La metis tra inganno e intelligenza superiore. Il successo procurato dalla metis riveste così un significato ambiguo: a seconda del contesto esso potrà suscitare reazioni contrarie. Talvolta vi si vedrà il prodotto di una frode, perché la regola del gioco non è stata rispettata; talvolta provocherà tanta ammirazione quanta sorpresa, avendo il più debole, contro ogni previsione, trovato in sé le risorse necessarie per piegare il più forte. Per certi aspetti la metis si accosta all'astuzia sleale, alla perfida menzogna, al tradimento, armi disprezzate delle donne e dei vigliacchi. Per altri aspetti essa appare invece più preziosa della forza; è in certo modo l'arma assoluta, la sola che può garantire in ogni circostanza, quali che siano le condizioni della lotta, la vittoria e il dominio sugli altri. Per quanto forte possa essere un uomo o un dio, viene sempre un giorno in cui egli trova qualcuno più forte di lui: soltanto la superiorità in metis conferisce a una supremazia quel duplice carattere di stabilità e di universalità che fa di essa un vero e proprio potere sovrano. Le caratteristiche della metis. L'uomo della metis è sempre pronto a scattare; agisce come un fulmine. Ciò non vuol dire che egli ceda, come accade di solito agli eroi omerici, a un impulso improvviso. Al contrario, la sua metis ha saputo pazientemente attendere che si verificasse l'occasione attesa. Anche quando deriva da un brusco slancio, l'azione della metis si colloca agli antipodi dell'impulsività. La metis è rapida, improvvisa come l'occasione che essa deve prendere al volo, senza lasciarla passare. Ma essa è tutto tranne che leggera, lepté: carica di tutto il peso dell'esperienza acquisita, è un pensiero denso, fitto, serrato pukiné, invece di ondeggiare qua e là secondo le circostanze, essa radica profondamente la mente nel progetto che ha elaborato in anticipo, grazie alla sua capaci di prevedere, al di là dell'immediato presente, una fetta più o meno spessa di futuro. Omero attribuisce infine alla metis una terza caratteristica. Essa non è una né unita, ma molteplice e diversa. Ulisse è l'eroe polumetis [scaltro] come è polutropos [versatile] e poluméchanos [...] nel senso che non manca mai di espedienti, di porai, per trarsi d'impaccio in ogni genere di difficoltà. Istruito da Atena ed Efesto, divinità della metis, anche l'artista possiede una téchne pantoie, un'arte versatile, un'abilità in tutto. Il polumetis è definito anche poikilòmetis. Il termine poikilos designa la trama variegata di un tessuto, lo scintillio di un'arma, il mantello chiazzato di un cerbiatto, il dorso brillante del serpente, costellato di macchie scure. La varietà della metis. La varietà e l'ondeggiamento appartengono così intimamente alla natura della metis, che l'epiteto poikilos, riferito a un individuo, è sufficiente a designarlo come uno spirito scaltro, un furbo dalle mille trovate (poikilòboulos), dalle mille astuzie. La varietà, il cambiamento della metis, sottolineano la sua parentela con il mondo multiplo, diviso, ondeggiante dove essa è immersa per esercitare la sua azione. È questa complicità con il reale che assicura la sua efficacia. La sua duttilità, la sua malleabilità le conferiscono la vittoria in campi in cui non vi sono regole fisse per il successo, né ricette pronte, in cui ogni prova esige l'invenzione di una nuova difesa, la scoperta di una via di scampo (pòros) nascosta. [...] La metis è essa stessa una potenza di astuzia e d'inganno. Essa agisce per travestimenti. Per ingannare la propria vittima assume una forma che maschera, invece di rivelarla, la sua vera natura. In essa l'apparenza e la realtà, sdoppiate, si oppongono; come due forme contrarie, che producono un effetto di illusione; questo effetto trae in errore l'avversario e lo lascia, di fronte alla sua disfatta, sbalordito come di fronte ai sortilegi di un mago. M. DETIENNE, J.-P. VERNANT, Le astuzie dell'intelligenza nell'antica Grecia, Laterza, Bari 1978, p. 3 e sgg. APPROFONDIMENTO. La cicatrice di Ulisse ERICH AUERBACH La cicatrice di Ulisse Il brano proposto, tratto da una fondamentale opera critica dello studioso tedesco Erich Auerbach (1892-1957), spiega la digressione sulla cicatrice di Odisseo in base all'abitudine, tipica del poeta epico, di illustrare tutto nei minimi particolari. L’evidenza e la concretezza e nello stile di Omero. L'escursus sull' origine della cicatrice non si distingue in fondo dai molti passi in cui un personaggio o un oggetto non prima veduti, foss'anche in mezzo all'infuriare della battaglia, viene descritto nella sua forma e origine, o da quelli in cui si danno notizie d'un dio novellamente apparso, di dove s'è trattenuto nell'ultimo tempo, di che cosa v'ha fatto, e per quale via è arrivato; anzi mi sembra che perfino gli epiteti siano alla fine da riportare alla stessa necessità di dare a tutto ciò che compare una forma sensibile. Qui è la ferita ad apparire nel corso dell'azione, ed è una cosa intollerabile per il sentimento omerico vederla semplicemente emergere dal fondo oscuro del passato. Essa deve uscire chiara alla luce, e con essa un tratto della giovinezza dell'eroe; non altrimenti che nell'Iliade, quando già brucia la prima nave e finalmente i Mirmidoni s'accingono a . correre in aiuto, si trova ancor tempo non solo per una splendida similitudine con i lupi, non solo per l'ordinamento delle schiere dei Mirmidoni, ma anche per la descrizione esatta dell'origine di alcuni capi minori (Il., XVI, v. 155 sgg.). Senza dubbio l'effetto estetico che con ciò si raggiunge deve essere stato notato assai presto, e più tardi anche voluto; ma tuttavia il motivo originale si dovrebbe cercare nella fondamentale tendenza dello stile omerico a presentare le cose in una forma finita ed esatta, palpabili e visibili in tutte le loro parti e nelle loro relazioni di spazio e di tempo. La concretezza nei discorsi e nelle rappresentazioni. Le cose non vanno diversamente per gli aspetti intimi: anche di questi nulla può restare celato o inespresso. Gli uomini d'Omero manifestano il loro intimo senza nulla tralasciare, e anche l'espressione delle passioni ha un suo ordine: quello che non dicono agli altri, lo dicono nel proprio cuore, sicché il lettore venga a conoscerlo. Nei poemi omerici accadono molte cose orribili, ma accadono raramente senza che le bocche parlino: Polifemo parla con Ulisse, costui parla coi pretendenti quando comincia a ucciderli; Ettore e Achille parlano a lungo prima della battaglia e dopo, e nessun discorso è così affannoso da mancare dell'articolazione logica e linguistica o da cadere nel disordinato. E ciò vale naturalmente non soltanto per i discorsi, ma in genere per ogni cosa rappresentata. I singoli elementi della rappresentazione vengono ovunque messi in chiarissima relazione reciproca, e un gran numero di congiunzioni, d'avverbi, di particelle e d'altri strumenti sintattici, tutti ben definiti nella loro importanza e finemente graduati, delimitano fra di loro le persone, le cose e gli avvenimenti, creando nello stesso tempo un collegamento fluido e continuo. Come le cose singole, così assumono evidenza in una forma perfetta anche le loro relazioni di tempo, di luogo, causali, finali, consecutive, comparative, concessive, antitetiche e limitative, sicché si ha un trascorrere incessante, ritmico e vivace dei fenomeni e non si scorge mai una forma, rimasta allo stato di frammento o illuminata a metà, mai una lacuna, una frattura, una profondità inesplorata. La concretezza nelle digressioni. E questo trascorrere delle cose avviene in primo piano, vale a dire sempre in assoluta presenza locale e temporale. Si è portati a pensare che le molte digressioni, e questo continuo andare innanzi e ritornare, debbano creare una specie di prospettiva spaziale e temporale; ma lo stile omerico non suscita, mai questa impressione. Il modo in cui si evita questa impressione prospettica si può esattamente cogliere osservando il procedimento con cui le digressioni vengono introdotte, una forma sintattica che è familiare a ogni lettore d'Omero. La digressione sulla cicatrice di Ulisse. Essa è impiegata anche nel nostro passo, ma la si può ritrovare anche in digressioni più brevi. Alla parola «cicatrice» (v. 393) s'aggiunge prima una proposizione relativa «che a lui un cinghiale...», la quale si distende in un'ampia parentesi sintattica; in questa s'insinua insospettata una proposizione principale (v. 396: «Un dio gli aveva dato..."), che si svincola adagio adagio dalla subordinazione, finché, col verso 399, il nuovo contenuto comincia a liberarsi anche sintatticamente e arriva al verso 467: «Questa toccava adesso la vecchia...», dove si ritorna al punto dell'interruzione. Con un incastro così lungo come questo sarebbe stato in ogni caso difficile un ordinamento sintattico; tanto più facile sarebbe stato presentare in prospettiva l'azione principale mediante un'adatta disposizione del contenuto. Se cioè si fosse riportato tutto il racconto della ferita come ricordo d’Ulisse, in questo momento risvegliatosi in lui, si sarebbe dovuto introdurre la storia della ferita solo due versi prima, al primo accenno alla parola «ferita», quando già i motivi «Uisse» e «ricordo» sono lì a portata di mano. Ma questo dar le cose soggettivamente e in prospettiva, creando il primo piano e lo sfondo, sicché il presente si apra verso il passato, è completamente estraneo allo stile omerico, il quale conosce solo un primo piano, solo un presente ugualmente illuminato e oggettivato. Così introduce l'excursus soltanto due versi più tardi, allorché Euriclea ha scoperto la cicatrice; ora non è più data la possibilità d'un ordine prospettico, e la storia della ferita diventa a sé stante e tutta presente. E. AUERBACH, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 1956, p. 3 e sgg, APPROFONDIMENTO. Il mito di Ulisse Ulisse nel mondo greco, oltre l’Odissea Altri elementi sulla sua figura leggendaria compaiono nelle tragedie di Sofocle (Aiace, Filottete) e di Euripide (Ciclope, Troadi, Ecuba, Oreste). Molti episodi della sua leggenda sono raffigurati nelle pitture vascolari greco-ellenistiche. Ulisse nel mondo romano Il mito dell’uomo errante che arricchisce sempre più il suo sapere ha affascinato enormemente gli scrittori occidentali. Nel mondo latino Ulisse è ricordato - da Virgilio nell’Eneide; - da Orazio, che lo definisce modello di virtù e sapienza (Epistole, I, II, 17-26); - da Seneca che, insieme con Ercole, lo celebra come vittorioso sulle umane paure (Costanza del sapiente, II, I); - da Cicerone che, ricordando l’episodio delle sirene, ne esalta il desiderio di conoscenza (Sul sommo bene e sul sommo male, V, XVIII, 49). Sulla morte di Ulisse esistono diverse versioni: nella Telegonia di Eugammone di Cirene si dice che fu ucciso dal figlio Telegono, mentre Plinio il Vecchio e Solino narrano che riprese il mare dopo il suo ritorno a Itaca e fece naufragio oltrepassate le Colonne d’Ercole. Dante e “il folle volo” Attraverso gli scrittori latini, la figura di Ulisse è tramandata nel Medioevo: famosissimo è l’episodio dell’Inferno di Dante (Canto XXVI) in cui l’eroe greco, rinchiuso in una fiammella tra i fraudolenti assieme a Diomede, narra la sua fine (il “folle volo”) in vista della montagna del Purgatorio, divenendo simbolo del desiderio di conoscenza e nello stesso tempo ammonimento a non oltrepassare i limiti posti all’uomo. Il mito di Ulisse nelle letterature europee In Italia il mito venne più volte ripreso: - da Giambattista Gelli (1498-1563) nel dialogo La Circe (1549), in cui l’autore immagina che, avuta la possibilità da Circe di far tornare uomini coloro che la maga aveva trasformato in animali, Ulisse discuta invano con loro, scoprendo che tutti i suoi compagni, eccetto l’elefante che era stato filosofo, si rifiutano di riprendere le antiche sembianze; - da Claudio Monteverdi, con Il ritorno d’Ulisse in patria, opera rappresentata a Venezia nel 1640 in cui è centrale l’infelicità della solitudine di Penelope; - da Ippolito Pindemonte nella tragedia Ulisse (1778); - da Ugo Foscolo nel sonetto A Zacinto in cui l’eroe greco è detto “bello di fama e di sventura”; - da Arturo Graf con L’ultimo viaggio di Ulisse. - con le poesie Il ritorno (in Odi e Inni, 1906) e L’ultimo viaggio (in Poemi conviviali, 1904), Giovanni Pascoli lo presentò alla fine della vita, deluso e pieno di dubbi; - Gabriele d’Annunzio, nelle Laudi (1903), come un superuomo sprezzante del pericolo; - Umberto Saba nella poesia Ulisse (ultima della raccolta Mediterranee, 1946) come il simbolo del “non domato spirito” e del doloroso amore per la vita. In Portogallo la fortuna dell’eroe è legata alla leggendaria fondazione, da parte sua, della città di Lisbona in una tappa dei suoi viaggi per mare. A essa si riferiscono i poemi in ottave - Ulisseo ou Lisboa edificata, di Gabriel Pereira de Castro (1636) e - Ulyssipo di Antonio de Sousa de Macedo (1640). In Spagna - Lope de Vega lo rappresentò nella Circe; - Luis Belmonte Bermúdez (1587-1650) in Los trabajos de Ulises; - Calderón de la Barca in uno dei suoi autos, Los encantos de la culpa e nella commedia El mayor encanto, Amor. Non meno presente nelle opere degli scrittori di lingua inglese: - Ulysses (1706), tragedia di Nicholas Rowe (1674-1789); - The Adventures of Ulysses (1808), composizione in prosa di Charles Lamb; - Ulysses (1842), monologo lirico di Alfred Tennyson; - The Return of Ulysses, uno degli otto drammi di Robert Saymour Bridges (1844-1930). - opera fondamentale della narrativa del Novecento è poi l’Ulysses dell’irlandese James Joyce (1922). Tra le altre opere ispirate al mito di Ulisse: Ulysse, dramma di François Ponsard (1852); L’arco di Ulisse di Gerhart Hauptmann (1914); Odissea, poema di Nikos Kazantzakis (1938). La musica, la pittura, il cinema Numerosi sono i melodrammi e le opere musicali che trattano di episodi relativi al personaggio, e anche i pittori che ne hanno fatto il tema di loro opere (ad esempio: Claude Lorrain, Guido Reni, Pieter Paul Rubens, J.M.W. Turner). Nel 1996 Luciano Berio ha rievocato il mito di Ulisse nell’opera Outis. L’eroe che esplora nuovi mondi e nuovi “continenti” di conoscenza ha suggerito lo spunto per titoli di film famosi: - Ulisse di Mario Camerini (1954) - Lo sguardo di Ulisse di Theodoros Angelopoulos (1995). ANALISI DEI POEMI OMERICI LA QUESTIONE OMERICA La figura di Omero Sin dall'antichità, ad Omero, si attribuiva la composizione di due poemi, l’Iliade e l’Odissea, e di numerose altre opere minori tra le quali gli Inni, che narrano le vicende degli dèi e ne tessono l'elogio, la Batracomiomachia, cioè la battaglia delle rane e dei topi, una parodia del genere epico e gli Epigrammi. La tradizione lo descriveva come un vecchio molto saggio, cieco, come indicava il nome (interpretato come oé mh# oérw^n, colui che non vede; anche se oçmhrov è parola greca che significa “schiavo” ), degno di venerazione e di rispetto anche per la sua menomazione, poiché ai ciechi venivano spesso attribuite doti profetiche. Omero vagava di città in città per cantare i suoi poemi. Ben undici città si contendevano l'onore di avergli dato i natali, tra cui Smirne, Argo e la stessa Atene. Quanto all'epoca in cui il poeta visse, lo storico greco Erodoto (484-430 a.C.) indica la metà del IX secolo. Oggi si tende a pensare alla metà dell’VIII sec. a.C. I termini della questione Dubbi sull'attribuzione delle due opere principali ad uno stesso autore e sull'esistenza stessa del poeta Omero cominciarono a nascere già in età ellenistica (III secolo a.C.), quando ebbe inizio la cosiddetta questione omerica. La questione omerica è quel complesso di problemi che la critica letteraria (o filologia) studia a proposito di Omero, cercando di rispondere alle seguenti domande: 1) è esistito il poeta Omero? 2) è l’autore di tutte le opere a lui attribuite? 3) I poemi omerici hanno una loro unità? Le premesse: i filologi alessandrini In epoca ellenistica (III-II secolo a.C.) i filologi che lavoravano alla Biblioteca di Alessandria d’Egitto (noti come “grammatici alessandrini”, fra i quali ricordiamo Aristarco di Samotracia, Aristofane di Bisanzio e Zenodoto di Efeso) iniziarono a studiare in modo scientifico tutte le opere attribuite al poeta Omero e sollevarono dubbi circa l'autenticità delle opere cosiddette minori. Ma studiarono soprattutto l'Iliade e l'Odissea: li divisero in 24 libri e ne pubblicarono le prime edizioni critiche. Due grammatici, Xenone ed Ellanico ipotizzarono, per le evidenti differenze che esistono fra i due poemi, che solo l'Iliade fosse opera di Omero, assegnando l'Odissea ad un altro poeta di epoca più tarda (furono detti cwri@zontev, cioè separatisti). Prevalse, tuttavia, la teoria unitaria, sostenuta da Aristarco di Samotracia, che riconosceva come non autentiche le opere minori, ma sosteneva che Iliade e Odissea erano stati scritti da una sola persona. L’autore anonimo del trattato “Sul sublime” (I sec. d.C.) assegnerà l’Iliade alla giovinezza e l’Odissea alla maturità di Omero. Le premesse: le polemiche tra Sei e Settecento La questione venne ripresa intorno alla metà del Seicento, quando il francese François Hédelin, abate D'Aubignac (16041676) sostenne, nelle Congetture accadeiche o dissertazione sull’Iliade (1668), che Omero non fosse mai esistito e che i due poemi fosero, in realtà, un insieme di canti staccati (definiti “piccole tragedie”, opera di aedi diversi, privi di unità e coesione interna, messi per iscritto all'epoca di Pisistrato (VI sec. a.C). Il filosofo italiano Gian Battista Vico (1668-1744) nella II edizione dei Principii di Scienza Nuova (1730) proclamò Omero una figura favolosa e simbolica, un'idea che incarnava la storia di un popolo, e definì i poemi una “opera collettiva” del popolo greco che celebrava il proprio patrimonio culturale. Nel Saggio sulle origini delle lingue (1762), il filosofo illuminista Jean-Jaques Rousseau rivendicò anche per Omero la nozione di “linguaggio naturale o selvaggio”, rispetto al quale la scrittura rappresentava un asservimento della passione e della fantasia. L’inglese Robert Wood, nel 1769, ribadì nel suo libro Un saggio sul genio originario di Omero, che la composizione e la trasmissione dei poemi dovevano essere avvenute oralmente. La scuola analitica… La prima indagine rigorosa dal punto di vista scientifico venne fornita dal filologo tedesco Friedrich August Wolf (17591824), nei Prolegomena ad Homerum (1795), che dovevano essere la premessa ad una edizione critica del testo dei due poemi: essi erano una serie di canti separati tramandati dagli aedi per via orale e quindi soggetti a modificazioni ed ampliamenti, fissati in forma scritta intorno al VI sec. a.C. (sarebbe stato Pisistrato a far cucire insieme diversi canti tramandati separatamente). Le idee di Wolf furono riprese nell'Ottocento dalla cosiddetta corrente analitica, (da aènalu@ein = enucleare) i cui maggiori esponenti furono: • Karl Lachmann (17931851), con la celebre teoria dei canti sparsi (individuò nell’Iliade da 16 a 18 rapsodie). • Gottfried Herder (1772-1848), con la teoria del nucleo originario (secondo la quale Omero avrebbe composto due canti originari, Urilias e Urodissias, che sarebbero poi stati progressivamente ampliati da altri autori),; • Adolf Kirchhoff (1826-1908), per il quale l’Odissea era l’unione di quattro poemi più brevi (Kleinepen); • Ulrich von Wilamowitz (1848-1931), il princeps filologorum, che sosteneva anche per l’Iliade la teoria dei Kleinepen, ma riteneva che doveva essere esistito un poeta che intorno all’VIII sec. a.C., aveva unificato i poemetti in un epos monumentale (Grossepos). …e quella unitaria (e neo-unitaria) In opposizione alla corrente analitica, agli inizi del ‘900 la teoria “unitaria” fu rilanciata dal filologo tedesco Wolfgang Schadewalt che nei suoi Studi sull’Iliade (1938), sosteneva la coerenza interna dell’Iliade e attribuiva la loro composizione ad un unico poeta di genio, vissuto presumibilmente intorno all'VIII secolo a.C., che avrebbe rielaborato in modo del tutto originale del materiale preesistente. Sull’Odissea, invece, la posizione di Schadewalt resta parzialmente anlitica. Da queste basi, nel corso del novecento, si è sviluppata la corrente “neo-unitaria”, della quale ricordiamo Karl Reinhardt, che nel saggio L’Iliade e il suo poeta (1961) sostiene e che l’Iliade e l’Odissea sono opere concepite in modo unitario (e non frutto dell’unione di canti preesistenti), come prova la complessa architettura dei due poemi. Milman Parry e l’oralistica Tra il 1928 e il 1932 lo studioso americano Milman Parry (1902-1935) pubblicò dapprima una serie di studi, poi i risultati di una serie di campagne di ricerca in Serbia e Croazia condotte insieme ad Albert B. Lord tra il 1933 e il 1935 (registrò più di 12500 esecuzioni orali). Egli scoprì che i cantori popolari serbo-croati (detti “guslari”, perché si accompagnavano con la “gusla”, una sorta di violino) erano in grado di improvvisare canti eroici di estensione paragonabile all’Iliade e all’Odissea, ricorrendo a un patrimonio formulare tramandato mnemonicamente: dunque, come loro, gli antichi aedi improvvisavano la loro poesia nel momento stesso in cui la recitavano, attingendo ad un materiale precostituito da una lunga tradizione. È dunque per questo motivo che utilizzavano uno stile formulare: le formule, infatti, grazie alla loro ripetitività, aiutavano il cantore, che narrava i vari episodi basandosi sia sulla memoria sia sull'improvvisazione, a ricordare i versi; inoltre rappresentavano un serbatoio a cui attingere per completare i propri versi improvvisati o non ricordati. L’Iliade e l’odissea sarebbero dunque la rielaborazione in forma scritta di materiale precedente tramandato oralmente. Dizione epica e genesi dei poemi (L.E. Rossi) • Canti magici e preghiere • Canti mitici e mitologia divina • Mitologia degli eroi • Il canto di Achille, Femio e Demodoco • Il cantore guerriero • Gli aedi e il loro repertorio • Formularità: esempi • Interazione simpatetica fra pubblico e aedo • Oralità e scrittura convivono. Ciò spiega: - la convivenza di anacronismi: Stratificazione di civiltà - la aritificialità della lingua Punti fermi e questioni aperte Oggi molte questioni restano ancora aperte, ma possiamo affermare con una certa sicurezza che: 1) la composizione dell'lIiade è precedente a quella dell'Odissea, in quanto sussistono differenze nella rappresentazione della società sia in ambito politico sia culturale e religioso: la prima fu redatta nel corso dell'VIII secolo, la seconda alla fine del medesimo secolo e testimonia un livello di evoluzione sociale maggiore; 2) la nascita dei poemi si colloca nel momento in cui la tradizione orale stava lasciando il posto a quella scritta ed essi rappresentano l'elemento di transizione dall'oralità alla scrittura; 3) i due poemi sono il risultato più raffinato di opere tramandate oralmente, come testimoniato da epiteti, formule fisse, versi identici impiegati dagli aedi per ricordare i canti recitati; essi, dunque, hanno subito rimaneggiamenti, aggiunte, tagli effettuati dagli stessi cantori e confluiti nella stesura del testo scritto; 4) l'elaborazione della materia orale in forma scritta è stata effettuata da uno o più poeti, che, secondo alcuni, si sarebbero limitati a riunire e organizzare canti già esistenti, secondo altri, avrebbero impresso al materiale in loro possesso un'impronta decisiva e del tutto personale, modificandolo in modo significativo. LA LINGUA E LO STILE DEI POEMI OMERICI L’esametro Nei poemi epici greci e latini viene usato l'esametro, il tipo di verso più idoneo al racconto per il suo ritmo ampio e fluente. Lo stile formulare Nell'epica antica vi sono frequentissime espressioni ricorrenti, tanto che si può parlare di uno stile formulare, cioè fatto di formule fisse (nei poemi omerici, ad esempio, dee e donne bellissime sono sempre dotate di «bianche braccia», i guerrieri valorosi sono sempre paragonati a feroci leoni). Lo stile formulare consiste nella ripetizione insistita di: - patronimici (ad esempio: Achille è definito il Pelide in quanto figlio di Peleo; analogamente troviamo il Laerziade, figlio di Laerte, l'Atride, figlio di Atreo); - epiteti, che indicano qualità fisiche o morali (ad esempio: Achille dal piede veloce, Agamennone il re dall'ampio potere, Atena dagli occhi azzurri; Odisseo distruttore di città; Apollo, che è in grado di saettare lontano); - espressioni ricorrenti per definire condizioni del mondo naturale (ad esempio: l'Aurora dalle dita di rosa) o situazioni (ad esempio i personaggi parlano sempre con parole alate), ecc. - interi versi o gruppi di versi ripetuti es…… Le similitudini Nel genere epico si fa grande impiego di similitudini, cioè di paragoni tra personaggi o situazioni con immagini forti che ne sottolineano un aspetto particolare. Ad esempio, l'eroe che si getta in battaglia è simile ad un leone che si avventa sulla sua preda; Achille all'inseguimento di Ettore appare come un cane sui monti che insegue un piccolo di cerva. L'uso di questa figura retorica è particolarmente significativo, poiché i paralleli, attingendo spesso al mondo quotidiano (caccia, agricoltura) come a quello religioso, mitologico o naturale, ci forniscono informazioni sulla vita, sui sentimenti e sul pensiero di popoli di cui il canto epico è l'espressione. LA SOCIETÀ OMERICA E LE “ANACRONIE” Omero, dipingendo un'epoca lontana grande e splendida, cioè quella dei re, dei combattenti e dei navigatori micenei, da un lato narra eventi e costumi che sapeva propri di quella età, ma introduceva anche, inconsapevolmente, elementi propri della realtà a lui contemporanea, cioè l’VIII secolo a.C., e del periodo intermedio (il medioevo ellenico). Fra le principali anacronie, ricordiamo: • le armi e gli strumenti sono di bronzo, ma Omero, nelle similitudini nomina spesso il ferro (sconosciuto ai micenei, ma tipico della sua epoca); • i guerrieri si servono di carri leggeri trainati da cavalli, come all'epoca micenea, ma Omero ricorda anche l’uso dei cavalcare i cavalli, che fu introdotto in Grecia dai Dori, dunque dopo la fine dell’età micenea; • il viaggio di Ulisse ripercorre le rotte già tracciate dai Micenei nel Mediterraneo occidentale, ma l’autore descrive una società in cui la pratica dell’attività marinara è tipica; • i riti funebri che vengono celebrati si concludono con la cremazione, tipica del Medioevo ellenico, cioè dell'età successiva a quella micenea, in cui si praticava l'inumazione (lo testimoniano le tombe micenee); • la figura del re nell’Iliade è abbastanza vicina a quella del potente wanax miceneo, mentre nell' Odissea si avvicina di più a quella del basileus del medioevo ellenico, i cui poteri erano fortemente limitati dalle assemblee dei nobili. ANTROPOLOGIA E TEOLOGIA NEI POEMI OMERICI LE RELAZIONI UMANE La concretezza del linguaggio omerico (Bruno Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo) • I 9 verbi della vista: oéra^n, ièdei^n, leu@ssein, aèqrei^n, qea^sqai, ske@ptesqai, oòssesqai, dendi@llein, de@rkesqai (= lampeggiare dello sguardo); paptai@nein (= guardarsi intorno con circospezione). • I sostantivi che indicano il corpo: sw^ma = il cadavere; de@mav = la corporatura; me@lea = i muscoli; gui^a = le articolazioni; crw@v = la superficie del corpo. • La dimensione interiore dell’uomo: yuch@ = elemento vitale; qumo@v = l’organo che suscita le emozioni; no@ov = la funzione che genera le immagini; frh@n = il diaframma. Civiltà di vergogna (Eric R. Dodds, I Greci e l’irrazionale). Non un conflitto etnico: stessi dei e stessa cultura fra Greci e Troiani Scene tipiche e consuetudini sociali (W. Arend) GLI UOMINI NELL’ILIADE Caratteri dell’eroe omerico (es. Achille): - Forza e bellezza: egli è kalo@v te me@gav te. - L’onore (timh@): nobiltà di nascita ma anche di comportamento in battaglia. - La vergogna (aièdw@v): reazione al giudizio negativo degli altri aòristoi. - L’ira (mh^niv): reazione all’onore oltraggiato. - L’individualismo : le aèristei^ai come duelli. - La fama (kle@ov) conseguita attraverso la vittoria o la morte in battaglia (la gioia del combattimento è qualcosa di lontanissimo dalla nostra sensibilità). Agamennone e la nuova base del potere: • Scontro fra due ideali: aèreth@ (valore in battaglia) e aòfenov (ricchezza). • Il peso dei “doni” nella società aristocratica: ma non placano l’oltraggio ricevuto. Ettore eroe moderno: • Ettore, la sua famiglia e il suo popolo: ma non sfugge alla regola dell’ aièdw@v. • L’amore e la morte: la figura di Andromaca e la preveggenza della fine. Achille dalla “ferinità” alla partecipazione umana: • L’incontro con Priamo: inizio dell’umanesimo occidentale. Tersite e il mondo popolare GLI UOMINI NELL’ODISSEA Nell’Odissea si possono individuare: - una componente epica: la strage dei Proci come duello (ma c’è “suspence” fino all’ultimo). - una componente avventurosa: la prova sostituisce la guerra. I nuovi valori dell’eroe: • L’intelligenza (mh^tiv): Odisseo è polu@metiv e polu@tropov e la fama si basa sulla astuzia non sulla forza. • La civiltà: i Greci sono soggetti alle norme (qe@mistev), i Ciclopi privi di norme (aèqe@mistoi). • Il no@stov: dall’infinito al finito, alla ricerca degli affetti. • Il sentimento: è “privato” e “soggettivo”. Es. Nausicaa, Argo, Penelope. Verso la crisi della “società della vergogna”? GLI DEI NEI POEMI OMERICI Gli dei nei poemi omerici sono stati interpretati come: • 1) ipostasi di aspetti dell’uomo (interpret. psicologica) • 2) personificazione di forze della natura (interpret. naturalistica) • 3) specchio della società aristocratica (interpretaz. sociologica) Nell’Iliade: • Divinità solari e non ipostasi di forze magiche. • Ma il mistero c’è: la Moira e il lato oscuro della vita. Nell’Odissea: • Gli dei garanti di giustizia • Il mondo dell’oltretomba: da una visione laica all’idea di una vita ultraterrena, seppure negativa (Odissea XI: la ne@kuia). LE RELAZIONI FRA UOMINI E DEI Il pantheon omerico: a) tratti arcaici: teriomorfismo; b) tratti moderni: antropomorfismo e irridente comicità. I poteri degli dei oscillano tra: a) un potere e una preveggenza quasi assoluti; b) Il condizionamento da un potere superiore non sempre chiaro. Es. Zeus ed Era assistono alla morte di Sarpedone (Iliade XVI, 431-461). Le relazioni fra dei e uomini (Albin Lesky): • 1. prossimità/distanza: gli dei interferiscono con gli uomini, ma sono anche distanti da essi; • 2. favore/crudeltà: un favore può trasformarsi in crudeltà improvvisa; • 3. arbitrio/diritto: il comportamento degli dei è amorale, e sono spesso violenti e ingiusti, ma Zeus nell’Odissea si pone come garante del diritto. I POEMI DEL “CICLO” I Greci del V secolo possedevano un gran numero di poemi epici, intorno alle imprese degli eroi. Essi sono coevi o posteriori all’Iliade stessa. Evidentemente, a seguito della straordinaria fortuna dell’opera di Omero, i materiali della produzione rapsodica (che sappiamo essere stata fiorente già prima di Omero - come ci testimoniano gli aedi Femio e Demodoco nell’Odissea - e nella quale verosimilmente erano narrati gli altri episodi della saga troiana e altre saghe della mitologia greca) vennero presto o tardi organizzati in poemi sul modello di quelli omerici, fino a costituire dei veri e propri “cicli” (da ku@klov, cerchio) su un determinato argomento. I vari cicli furono poi raggruppati in un unico grande “ciclo”, che aveva l’ambizione di raccogliere tutta la materia epica. I poemi ciclici sono andati perduti, probabilmente schiacciati dalla grandezza di Omero. Per i segmenti più remoti della catena (il ciclo delle origini) abbiamo poco più che dei titoli, mentre disponiamo di maggiori informazioni per gli anelli successivi (ciclo argonautico e ciclo tebano). Il segmento sul quale possediamo maggiori informazioni è il ciclo troiano: il filosofo Proclo (II sec. d.C.) aveva ricavato una sintesi dei poemi del ciclo troiano e l’aveva inserita nella sua Crestomazia, purtroppo perduta. Ma il patriarca di Costantinopoli Fozio (IX sec. a.C.) la riassume nella sua Biblioteca. Per questo ne conosciamo i titoli e gli autori cui erano attribuiti ed è anche possibile ricostruirne il contenuto. I principali poemi del ciclo sono i seguenti: TITOLO LIBRI AUTORE Poemi delle origini Teogonia ? libri ? Titanomachia ? libri ? Poemi del ciclo Argonautico Canti di Corinto ? libri ? Canti di ? libri ? Naupatto Poemi del ciclo Tebano Edipodia ? libri Cintone di Sparta Tebaide ? libri Antimaco di Ceo Epigoni ? libri [Omero] Poemi del ciclo Troiano Canti ciprii 11 [Omero] libri Stasino Etiopide 5 libri Arctino di Mileto Piccola Iliade 4 libri Lesche di Mitilene Distruzione Ilio di 2 libri Ritorni (Nòstoi) 5 libri Telegonia 2 libri EPOCA CONTENUTO ? ? Origine del cosmo e degli dei. Guerra di Zeus contro i Titani. ? ?. La spedizione degli Argonauti alla ricerca del vello d’oro. La spedizione degli Argonauti alla ricerca del vello d’oro. ?. Vicende della dinastia tebana dei Labdacidi: Edipo vince la Sfinge ma sposa incestuosamente la madre Giocasta. VIII sec. Vicende della dinastia tebana dei Labdacidi: storia di Eteocle a.C. e Polinice figli di Edipo; i due si uccidono a vicenda durante la spedizione dei sette principi contro Tebe. ? Vicende della dinastia tebana dei Labdacidi: spedizione dei figli dei sette che porta alla conquista della città. VIII sec. Antefatti della guerra di Troia: decisione di Zeus di scatenare a.C. la guerra per regolare l’eccesso di popolazione; giudizio di Paride, ratto di Elena; preparativi dei Greci per la spedizione; Achille si traveste da donna tra gli abitanti di Sciro per non partire per la guerra; il sacrificio di Ifigenia. VIII sec. Eventi successivi all’Iliade. Vittorie di Achille contro a.C. Pentesilea, regina delle Amazzoni, e contro Memnone re d’Etiopia, giunti in aiuto dei Troiani. Le armi di Achille sono contese fra Ulisse e Aiace. VII sec. Follia di Aiace. Ulisse si reca a Lemno per condurre Filottete a.C. a Troia. Ultime fasi della guerra di Troia fino alla costruzione del cavallo di legno. VIII sec. Introduzione del cavallo di legno a Troia. Distruzione di Ilio. a.C. Incendio e saccheggio Arctino di Mileto o Lesche di Mitilene Àgia ?. di Trezene Eugammone VI sec. di Cirene a.C. Eventi precedenti l’Odissea: i viaggi di ritorno in patria degli eroi dopo la guerra di Troia, ad eccezione di Odisseo. I viaggi di Telegono, figlio di Odisseo e di Circe. Sbarca ad Itaca, uccide Odisseo senza riconoscerlo e sposa Penelope. Telemaco sposa Circe. Gran parte della materia dei poemi del ciclo costituirà la base della produzione dei grandi tragediografi nel V secolo a.C. (Eschilo, Sofocle, Euripide) e da Apollonio Rodio in età ellenistica. Altri autori che sintetizzeranno la materia epica e mitica saranno il greco Apollodoro (con la Biblioteca, nel II sec. a.C.) e il latino Igino (con le Fabuale nel II sec. d.C.).