نوفرعي ال نيذلا نم وه تقولا Il tempo è di quelli che non

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نوفرعي ال نيذلا نم وه تقولا Il tempo è di quelli che non
‫نوفرعي ال نيذلا نم وه تقولا‬
Il tempo è di quelli che non sanno
A loro il tentativo di chiudermi ametà
e-book generato non creato
Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate
CC BY-NC-ND 3.0
L’amore è sempre un compromesso fra ciò che è possibile e ciò
che è necessario.
Peter Høeg
Tutto lo sforzo consisterà nel ridurre questo principio antagonistico, questa incompatibilità a una semplice differenza, al gioco
di un’opposizione moderata, a una negoziazione dell’identità e
della differenza al posto dell’alterità rubata.
Jean Baudrillard
Un appuntamento vecchio di cinque anni
I
n quel bar ci siamo detti che ci saremmo rivisti fra cinque anni, di mattina, senza indicare un orario; adesso
è la mattina di cinque anni dopo, questa che vedo dal
finestrino del regionale partito da Bologna alle 9.40: ritrovo Calderino e un giallo sparso che il vento abbassa
e solleva come tasti sul pianoforte, ricordo la porta d’ingresso sul viale principale, l’osteria Bergamini, il nostro
primo pasto assieme, i resti nel suo piatto. I campi di
grano che il vento agita si alternano, dopo Osteria Nuova, a filari di vite, mais e granoturco, e sarà il mio regalo
raccontarti quanto sto vedendo: non ho con me niente
che non sia presenza.
Il treno rallenta, mi alzo dalla poltrona per cercare il
cartello che mi indichi dove siamo; siamo arrivati, e saremo in dieci che scendiamo da questo treno alle 9.56
di giovedì nove giugno duemilaundici; attraversiamo i
binari senza passare dal sottopasso, mi unisco anche io,
li seguo fino al piazzale antistante la stazione, loro sanno dove andare, io no: dov’è la piazza principale? Gli
alberi troppo vicini mi impediscono di vedere il campanile. Mi avvicino a una signora china sulla bicicletta
e le chiedo se posso disturbarla; mi dice di sì e ascolta
da chinata la mia domanda: dov’è la piazza principale?
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Risponde di andare dritto, si alza e con la mano mi indica la strada che a un certo punto – dice la signora – a
un certo punto curva verso sinistra e poi di fronte mi
troverò Porta Garibaldi, e Corso Italia fino a Piazza del
Popolo. Ringrazio la signora e cammino e cerco la tua
macchina fra quelle parcheggiate e penso alla Porta Garibaldi e Ringrazio la signora e cammino e cerco la tua
macchina fra quelle parcheggiate e penso a come sarà
rivederti; chissà se arriverai, Luisanna, chissà come sarà
quest’ultimo sipario; potresti anche lasciarmi seduto ad
aspettare sul tavolino di quel bar, lo faresti guardando
la scena da lontano, seduta e non vista. Quanto sarò disposto ad aspettare in quel bar? Due tre quattro ore, non
lo so. Si era detto che ci saremmo visti di mattina, e la
mattina finisce a mezzodì, ma io potrei aspettare anche
fino alle due, potrei farlo. Intanto mi siedo, ordino un
caffè e aspetto che arrivi.
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Chi è Luisanna
R
aggiungerò Luisanna, in Italia, e per tre giorni non
saranno lenzuola ruvide a coprirci, né le spighe di
giallo sparso a sorprenderci; non saranno le ciliegie di
mattina a rilassare i suoi nervi preoccupati di non piacere, né basteranno le mie rassicurazioni: «Cosa pensi?»
mi chiederà Luisanna.
«Penso al clown che mai è salito sopra la fune molle,
che mai – fingendo la caduta – ci ha fatto sguaiatamente
ridere.»
«Ci rivedremo?»
«Fra cinque anni, sì.»
Tra i diari di una francesina e i tetti rossi che domina
dalla sua finestra, allignano larghe le parole che Luisanna Gerace indirizza a uno sconosciuto, me. In ascolto,
dalla mia di finestra, seguo i confini del giardino, i primi fiori, gli ultimi tagli, l’agave; oltre la strada lo sforzo
meccanico strepita giovane legna: dentro la cabina c’è
un uomo la cui pancia grossa sfrega i comandi di manovra. È stato pagato per fare pulizia, lì dove a breve sorgerà una casa, proprio nello spazio visivo tra il lentisco
e gli aghi di pino; tra questi due non vedrò più i rilievi
dei Fratelli d’Est segnati da cesse tagliafuoco; vedrò ce-
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mento decorato e imposte sbarrate e una recinzione verde sarà il confine prima che il terreno inizi a digradare.
Ho freddo; se ho freddo significa che devo raccogliermi,
sgrommare dal muro i resti dei giorni passati e coprirmi
con essi. Non posso coprirmi di resti, non bastano. Cosa
resta sul comodino dopo che prendo in mano la matita?
Mi siedo e annoto il luogo del nostro incontro: «C’è un
bar nel Palazzo del Podestà, con i tavolini sistemati sulla piazza.» Ma prima di vederti c’è una cosa che devo
sapere, il tuo problema: «A tre anni mi hanno tolto la
milza, rischiavo di morire. Ho una lunga cicatrice verticale, sulla pancia. Dovrai essere paziente.»
Non potrò vederla nuda, è il suo problema e sarò paziente.
Nella piazza, seduto al bar del Palazzo del Podestà,
leggo di Cagliari e di Kate bambina, Cagliari bidda di
vicoli e fueddus, Cagliari lontana un aereo. Il contrasto
è nella paura di un incontro, nelle facce che sorridono
senza conoscermi, nelle biciclette che scampanellano,
nell’accappatoio che indosserà il pittore per discutere la sua tesi di laurea, nell’ammollo festoso dentro la
fontana. Fumo per allontanare il contrasto – fin troppo
facile. Fumo e bevo acqua con limone e (de)scrivo l’ennesima rappresentazione, sottovoce, come fanno quelli
che m’ignorano: perché non ridono? Si dovrebbe ridere
non solo cucciati dentro casa, si dovrebbe perlomeno
sorridere in tutte le piazze, o fare finta. E invece no, non
ride nessuno nella mia ennesima rappresentazione (de)
scritta.
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Braccia conserte e faccia in direzione del sole, occhi
chiusi, non sei tu silenziosa davanti al secondo caffè,
troppo silenziosa e sola ti guardi attorno, non sei tu che
cammini con una borsetta tenuta stretta, hai capelli color di ruggine? Non sei tu con la musica dentro le orecchie, in piedi dentro la piazza, quasi al centro, leggi un
libro? Vai veloce col passo e rallenti prima del primo
gradino e poi di nuovo veloce. Fumo ancora se vuoi, hai
detto che il sapore della sigaretta ti piace; fumo ancora
per mantenere il sapore; bevo un altro sorso d’acqua, mi
alzo e ti aspetto ti cerco ti togli la maglia perché è caldo
oggi, arriverai dai portici dietro di me o ti farai largo
fra i tavolini del bar? Guardo lontano per saperti vicina,
ma puoi essere tutti, ogni battito di questa piazza, ogni
bambino, perfino quel vecchio che passeggia col cane.
Ho guardato lontano rimettendomi seduto; ho ordinato un altro bicchiere d’acqua con limone e non sei arrivata; ho abbassato di nuovo la testa sul libro, ed eri lì
davanti a me con le mani in viso, e le parole d’affanno
agitate non le ricordo – tu le ricordi? – e tremavi quando
ho provato a stringerti allungando il braccio sulle tue
spalle, le sedie erano troppo lontane. Ci siamo alzati e
quel tentativo di stringerti a me era goffo, le sedie impedivano un comodo contatto: andiamo, mi hai detto.
Ti ho preso la mano guardando le scarpe che indossavi.
Erano piccole con la punta arrotondata e larga, molto
larga. Abbiamo camminato la tua via preferita fino alle
scalette di _____; lì ci siamo seduti ed è stato facile baciarsi: era previsto che lo facessimo e noi l’abbiamo fat-
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to, quasi frettolosi. Eravamo già un progetto, un dopo,
appena masticati e già in piedi, a ridiscendere i gradini
della chiesa e di nuovo imboccare la tua via preferita
verso la porta, camminare uno accanto all’altro e non
sapere cosa dire.
Entriamo nella stanza che abiteremo per tre giorni, a
Ca’ dei Cigni; posiamo le valigie e di nuovo siamo vicini, quasi stretti; e di nuovo ci interrompiamo. Luisanna
si abbassa sulla valigia, la apre e ne toglie fuori un vestito di cotone che arrotola a sé dicendomi che farà presto.
Entra in bagno slacciandosi i pantaloni e quando esce
indossa quello che non potrò toglierle, me l’ha chiesto
lei durante le lunghe telefonate, è il suo problema. Si
allunga nel letto e mi ripete che dovrò avere pazienza.
Io non dico nulla, mi sdraio accanto a lei e chiudo gli
occhi.
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Rumore
L
uisanna, trovarsi non è stato ripassare a voce alta i
tre assiomi sull’amore, non è stato ridere delle carte in Clavature che indicavano con precisione la strada
del ristoro, trovarsi non è stato nemmeno riconoscere la
tua voce; trovarsi forse non è mai accaduto. E mi chiedo dove siamo mancati ad ogni sbuffo tuo di sigaretta,
rumoroso e ansiogeno. Alla frenesia della tua fumata rispondo allungando le gambe e facendo suonare i
talloni sul ruvido delle lenzuola; manco di parola da
troppo tempo, lo so, e cerco riparo nel mio stesso odore,
mi copro, manco e maschero di mancanze altrui le mie
mancanze, te ne accorgerai, è il mio problema, il solito;
sono mancato questa notte e ancora prima di vederti e
ancora prima di conoscerti: manco e mi cerco negli altri.
Voglio chiudermi, ma la mancanza è un alloggio troppo
comodo.
«Vorrei che tu non ci fossi.»
«Quando?»
«Adesso. Vorrei che tu non ci fossi.»
«Perché?»
E non riesco a spiegarmi meglio: manifesto fiducia,
ma poi il rumore che sento fuori di me non è cambiato,
la pelle mi si accappona, diventa come il sughero, hai
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presente il rumore del vento che striscia sugli alberi?
Anche quello mi allontana privandomi della parola, mi
fa stare zitto; e mi fa pensare a questo arrivo agitato e
caldo e le nostre lenzuola nell’angolo e le porte sbattute,
hai pianto? ci siamo già perduti? averti dopo l’attesa è
subito perderti?
Averti, poi: chi è Luisanna Gerace?
Sono sdraiato sul letto con le spalle rivolte a Luisanna,
osservo com’è lento il movimento delle tende pesanti
che impediscono luce alla luna; lei mi cerca con la mano
e dice il mio nome con insistenza, a intervalli regolari.
Te lo scrivo Luisanna, c’è troppo rumore.
Anche tu, Luisanna, fai troppo rumore.
La mattina è luminosa e il mio sorriso inopportuno,
ma io mi sveglio sempre così: spalanco le persiane e mi
godo l’ultima danza del cigno: apre le ali solo quando si
sente osservato e quel laghetto sembra trasformarsi in
un palcoscenico.
Luisanna non parla e a me sta bene.
Me ne accorgo che Luisanna freme di tornare ai silenzi di stanotte, a quei silenzi a metà che non ho voluto
condividere.
«Va tutto bene Luisanna.»
«Va tutto bene un cazzo.»
«Liberiamo l’attesa» le dico. «Liberiamoci dall’attesa.
Smettiamo di ripeterci.»
«Non capisco.»
«L’attesa è continuo progettar l’azione; sospendiamo
l’azione e sospenderemo l’attesa.»
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«Non capisco: cosa dovrei smettere di aspettarmi?
Io cerco solamente un piccolo approdo, un orizzonte
da guardare e da cui guardarmi, una luce per quando
smetto di ridere. Un corpo. Perché questa necessità di
nascondere; dove guardi?»
Quando l’aereo si alza in volo chiudo gli occhi e butto
la testa all’indietro, la compressione che avverto mi dico
sia sempre la stessa durante il decollo. Non è Luisanna
quindi, non è lei che mi obbliga seduto con le cinture
allacciate solo in attesa delle velocità di crociera; non
è Luisanna che mi obbliga lontano dal finestrino. Sono
io. Solo io.
Davanti a me un professore legge una rivista, più
avanti esplodono le urla di un bambino, dietro leggono
giornali sportivi e ancora riviste. Accanto invece ho una
ragazza col gomito poggiato sul finestrino, che piange
sotto gli occhiali scuri per non farsi vedere.
Io preferisco stare dalla parte del corridoio, il finestrino è aperto per tutti gli altri. Non voglio vedere di sotto,
preferisco non domandarmi cosa lascio. Mi basto così,
comodamente seduto sul posto numero dodici che dà
sul corridoio.
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Lettere
È
Luisanna che agevola la mia fuga: i silenzi al telefono li faccio interpretare a lei, gioco di sponda senza
coraggio e appena vedo che posso scappare lo faccio
senza nemmeno sentirmi un traditore.
«Parlami.»
Non posso, rimango alla superficie delle cose, sterminata superficie che esclude qualunque altezza, assenza
di vertigine che non sia piana; e se mai dovessi misurare
l’amore, è nella sua dimensione piana che mi piacerebbe rincorrerlo, nella mancata frontiera. Nell’assenza di
limite.
«Parlami.»
Penso alle nostre camere separate e le vedo troppo vicine. Non voglio sentire i tuoi vagiti oltre il muro, le tue
notti insonni, il televisore acceso, i singhiozzi dei tuoi
passi quando è silenzio. Perché il muro, cara Luisanna,
fa passare tutto, anche gli odori, quelli della tua pelle e
delle sigarette spente, del balsamo per i capelli e della
crema per il viso. Sento tutto e non voglio null’altro che
non sia mio, nulla che non sia io.
«Parlami.»
Sono sdraiato nel letto di camera mia e dall’altra parte del telefono ci sono le sue domande. Vorrei che mi
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aiutasse, come ha fatto finora. Vorrei che mi aiutasse a
scappare e che trovasse lei il motivo di questa fuga. E
cerco invano di partire dalle sue domande per dirle che
non è ancora tempo di abbandonare le mie gabbie, dopo
un po’ mi mancano, sembra ci sia più aria lì dentro, nelle
mie gabbie, che nel mondo di fuori. Mi manca l’aria perché Luisanna respira anche per me.
«Parlami.»
Basta Charlotte Gabel per risponderci, il secondo assioma dell’amore: il grado di sfruttamento dell’amore è tale
che solo la prima volta una persona ama con la massima forza.
Ogni volta successiva è più debole della prima. E io non ho
inventato nulla, nessuno sforzo meditativo, me lo sono
trovato su questi racconti notturni e lo farò mio: sì, basta
l’inizio dell’amore per risponderci, basta inginocchiarsi fedeli ricordando di quanta grandezza riempimmo
quella prima volta: in ginocchio, la preghiera, è ricordo e
dimenticanza assieme: si prega per ricordare, e nel ricordo c’è una luce rassicurante che annulla il tempo facendoci quotidiano. Nell’atto quotidiano liberato dal tempo
e da qualunque idea dell’amore mi ritroverai nell’ennesimo tentativo di esserci, parte di un tutto quindi anche
di te, ma non chiedermelo, non ricordarmelo.
«Parlami.»
Fuggo dall’antefatto donnesco che ho realizzato, dalla
confusione amorosa, dal patetico somigliarci.
«Parlami.»
Non sono bravo con la verità.
«Parlami.»
Leggere la verità è molto più agevole.
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Donne, è arrivato l’arrotino!
Arrota coltelli, forbici, forbicine, forbici
da seta, coltelli da prosciutto!
Donne, ripariamo cucine a gas: abbiamo
i pezzi di ricambio per le cucine a gas.
Se avete perdite di gas noi le aggiustiamo, se la cucina fa fumo noi togliamo il
fumo della vostra cucina a gas.
Lavoro subito, immediato.
È arrivato l’arrotino!
Me lo ricordo l’arrotino quando nelle mattine d’estate
si fermava davanti casa di mia nonna e a me era impedito di vederlo: «Decimo, dove stai andando?» mi diceva mia nonna.
«Con nonno, ad arrotare i coltelli.»
Invece nulla, la porta si chiudeva ed io rimanevo a
frignare ignorato sotto la gonna di mia nonna, steso
sul pavimento a lacrimarlo e a tirare su col naso, fino a
quando non alzavo il viso e la vedevo enorme sopra di
me con le mani puntate nei fianchi: «Hai già finito? Devi
piangere per qualcosa però, mica per niente.»
Poi ho capito che non dovevo mucciare quando arrivava l’arrotino, tutta quell’emozione e il cuore che pareva suonasse dovevo tenerli per me e studiare i movimenti di mia nonna, perché era lei che decideva, fosse
stato per mio nonno, quello mi ci avrebbe pure portato
ad arrotare i coltelli con lui.
Dal cortile sentivo il rumore della lama che si poggiava sulla mola, dal cortile potevo uscire, da quel cancello
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panna con la ruggine nei giunti. E da quel cancello mi
affacciai: l’arrotino muoveva il piede veloce e tutti gli
uomini del vicinato lo chiudevano in cerchio, solo uomini, nemmeno un bambino e neppure una donna.
Oggi mi chiedo perché, perché l’arrotino chiamasse
le donne se poi ad uscire erano solo uomini. Mi chiedo questo, intanto che sistemo la caffettiera sul fornello;
non ho coltelli da affilare, né cucine a gas da riparare,
sono l’unica voce in questa casa vuota. E penso a Luisanna seduta sul divano stoffato di blu, la testa all’indietro e
le braccia allargate, sulla mano indossa una sigaretta che
fuma di languori e nevrosi, senza devozione: c’è stato un
tempo – si ripete Luisanna – che mi è sembrato un luogo
sul quale ciottolare di piedi con te: Proust e l’amore è solo
costruzione intellettuale; o l’ultimo spettacolo.
[Bologna, 23 giugno 2006]
Sono sola, Cirenaica. Sono sola e forse non è nemmeno colpa
tua. La distanza che sento è mia, congenita, è il colore dei
miei occhi. Io sono quella dei primi battiti, e di ciglia che si
abbassano stanche. E tu?
Non capisco, non capisco mai abbastanza e così ricomincio, sola. Com’è possibile? Languida, monca, dove la fermo
questa mancanza? A chi la mando adesso la mia nostalgia?
La solita, quella di sempre. Piccola piccola, così mi sento di
fronte all’amore. Questa parola sconosciuta, l’unica parola
che non conosco, ineffabile.
Sei entrato nel mio quaderno, straniero… pochi ci riescono!
Ho ancora 17 anni come il poeta e la sua maledizione, sono
uguale a quella me stessa. Indegna.
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Voglio incendi e poi ho paura di cerini spenti. Piccoli legnetti che rischiarano quell’unico attimo in cui la vita combacia
finalmente. Il tempo di un fiammifero. Aderenze?
Allora mi preparo, sono quasi pronta: sipario.
Mentre gli applausi schiacciano l’anima che ormai ingrassa
e tra un po’, forse, sarà solo un dvd ogni tanto.
17 anni assomigliano a questa strana sensazione dentro,
ma fuori, prima, erano stelle e mari e quando tiravo sassi al
mio destino (pensavo fosse destino) e qualcuno ancora aveva
orecchie per sentire suoni lievi di passi strascicati sui miei
lungomari di marzo. Ora i miei 17 anni hanno rumori sordi,
secchi, frustrati, spinti lontano e in basso e si infrangono
sulle mie gabbie.
E le tue gabbie?
Adesso la paura me la vedo sul viso, ogni giorno più grigia,
ogni giorno sempre di più è lei la più forte. Le mie stagioni
in paradiso, le mie vacanze dalla vita, tanto lei torna e sono
di nuovo io, come oggi a scrivere su un quaderno, stavolta
verde: sono sola, Cirenaica, mi hai reso di nuovo sola.
Luisanna, sentire è come misurare la distanza, e sentire mi viene normale: sento occhi che irridono intanto che sorseggiano birra, sento sguardi lamenti di pelli
e rossori. Sentire è anche non trovare il nome giusto,
mai. Tanto basta sentire. E quindi decido di raccogliermi proprio come mi hai insegnato: mi raccolgo vizioso,
tutto per me. E nemmeno per le tue domande c’è spazio oggi: mi allontano da quel me stesso che hai conosciuto per vestirmi di scuro, fatalmente matato. Lecco
ferite vecchie di secoli e non saranno quelle giovani a
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negarmi un altro abisso. Da te ho imparato a bordeggiare, e non mi piace perché mi mancano troppe citazioni,
nascondigli e omissis. Misuro la distanza e mi ascolto
per capire, leggo oltre il suono delle tue parole, oltre lo
scritto feroce e lo scatto improvviso. Leggo oltretutto di
tutto per dar forma a questo tutto eternamente ametà.
E mi disturba non capire, fare tardi, avvertire accerchiamento, allusioni e allucinazioni. E mi disturba in particolare affidarmi perché di nuovo cado nella mancanza.
Oggi che manco escludo dada e filosofia, le appendici
costruite negli anni, l’ordine dei fogli sparsi. Oggi che
manco, manco a me stesso prima che agli altri. E allora mi cerco senza aggettivi, sospendo il giudizio come
l’atto sospende l’azione: raccolgo e conservo: ho capito
di non potermi fidare quando la tua risata è diventata
distratta, l’ho sentita, non l’ho ascoltata: era molto distante da me.
[Bologna, 12 Luglio 2006]
Scrivo.
Non dovrei farlo.
Dovrei mischiare un po’ di musica al mio silenzio e andare
avanti, tranquillamente.
Ma non perdo mai occasione per scrivermi addosso e allora
mi spiego.
Devo molto più a me che agli altri questa mia confusione,
anche io sono fatta così...
Sono perennemente altrove: l’attesa, l’interruzione, l’impeto, gli arresti, le lunghe pause, gli strappi, le ripartenze;
sempre altrove, più in là, dove vorrei essere.
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È l’unica vita che conosco.
Lampadine surreali, a volte sono solo quelle.
Mi chiedo solo perché.
Perché? Che necessità c’era, Decimo?
Non dovrei neanche pensarci a questo tuo fiume disperato e
pazzo, non avrebbe senso.
Aeroporto di Cagliari. La vedo farsi largo tra una selva
di borse, girare la testa da una parte e dall’altra, spaesata;
mi faccio davanti a lei e l’abbraccio, poi la guardo dentro
il verde liquido dei suoi occhi e ci abbracciamo nuovamente, un po’ nervosi. La trovo più magra, le guance incassate, la pelle pulita e morbida. I capelli mi sembrano
di un colore diverso, ma non glielo dico. Camminiamo
verso la macchina uno accanto all’altro, mi tiro dietro la
sua valigia e lei ogni due passi mi guarda e scuote la testa.
Ci lasciamo il tramonto alle spalle e seduti sulla sabbia ascoltiamo il mare davanti a noi. Sono trascorsi pochi
giorni da quel pomeriggio luridato di richieste, mi tocco e
le mie mani sono le tue, camminavo scalzo anche in giardino, riempivo sacchi di fogliame e i rami gialli se ne venivano via senza usare le cesoie. Prima di quel pomeriggio, le giornate mi scivolavano addosso senza il pensiero
di Luisanna: non esisteva, era già passato, una parentesi.
Poi le mie lampadine che non si accendono e quel senso
di accerchiamento con cui combatto e perdo ogni volta.
Mi sento solo, annoiato. Mi eccito per un’immagine, per
un ricordo, sono un cerino spento e cerco Luisanna per
accendermi: di nuovo manco il cielo e di nuovo trovo il
mare che inghiotte ogni cosa.
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Adesso, su questa spiaggia, sono mani che graffiano la
schiena, bottoni che saltano, capelli tirati, morsi e vocali
di piacere: non ci curiamo dei passanti, dei cani che corrono, del rumore delle onde. Avvertiamo appena le contrazioni dell’orgasmo.
Raggiungiamo la stanza che ci ospiterà per queste due
notti, in via Roma, di fronte al porto. L’hotel Vittoria occupa l’intero quarto piano; negli altri piani ci sono appartamenti eleganti, sedi di partito, altri hotel. La stanza è
piccola e arredata con mobili antichi e tende che sfiorano
il pavimento di legno. Appena dentro mi affaccio al balcone che dà su via Roma; di fronte a me si apre il porto
di Cagliari, le barche vanno e vengono come passanti domenicali, lente, s’incrociano e si riconoscono. Il sole, già
oltre il Cambriano sulcitano, vìola pezzi di cielo leccati da
nuvole rade: un’esplosione di colori ogni giorno diversa.
Luisanna esce dalla doccia in accappatoio, si siede sul
letto dove sono disteso ed è distratta intanto che mi carezza il viso, si guarda attorno. I suoi capelli non sono
bagnati, le sue dita lunghe percorrono il mio corpo nudo.
Ecco l’interruzione, il suo problema, la vergogna che fra
poco Luisanna nasconderà sotto un vestito di cotone. Mi
aspetto che si alzi, e in bagno oppure dandomi le spalle indossi il vestitino di cotone che copre la carne cucita,
come ha sempre fatto a Ca’ dei Cigni. Non l’ho mai vista
completamente nuda. Nessuno dei suoi uomini l’ha mai
vista nuda. È il suo problema.
Quando si alza non è per indossare il vestitino di cotone, ma per accostare la finestra e chiudere le tende. Gli
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occhi si abituano al cambio di luce, Luisanna torna verso
il letto, lo sguardo basso sul pavimento su cui cammina a
piedi nudi, le mani ad allentare il nodo che chiude in vita
l’accappatoio, férmati!
(Non sono riuscito a dire nulla, non sono riuscito nemmeno a muovermi: fermàto dal suo corpo che indossava
la nudità guardavo la pancia sbregata, le braccia lungo
i fianchi, le testa leggermente piegata come Laura nel
quadro di Grenci. Ho rivisto Luisanna a tre anni e quella
cicatrice fresca sul suo corpo di bambina. L’ho vista crescere e detestare quello sbrego, averne paura, al mare, coi
seni appena accennati e il costume intero, rispondere alle
domande indiscrete delle amiche. E poi l’ho vista coi suoi
uomini, spiegare loro che preferisce così, con un vestitino
addosso, di quelli leggeri. Ma il corpo può essere ugualmente loro se vorranno.)
Quando ritorno sul suo viso Luisanna sta piangendo e
io non so cosa fare: perché stai piangendo? perché l’hai
fatto? cosa vuoi dirmi? Raccolgo l’accappatoio, ma non
voglio coprirti, non devo coprirti. Luisanna si chiude in
bagno lasciandomi con l’accappatoio in mano, nudo, davanti alla porta. Mi infilo sotto le lenzuola e le tiro fino
al collo. Quando Luisanna esce dal bagno la sua faccia
è fresca appena lavata, indossa un completo di lino e mi
dice che ha fame sedendosi sul letto.
Io sotto le lenzuola sono ancora nudo.
«Perché sei tornato?» mi chiede Luisanna.
«Te lo scrivo, c’è troppo rumore. Anche tu fai troppo
rumore.»
«Non capisco.»
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«L’hai fatto per me?»
«Cosa?»
«Di metterti nuda l’hai fatto per me?»
«E perché avrei dovuto?»
«Non lo so. Cosa ti aspettavi?»
«Che mi baciassi.»
«Non lo so perché sono tornato.»
L’ultima immagine che ho di noi è un’immagine triste,
un sipario che si chiude e noi nemmeno pronti a salutarci come si deve, nemmeno un abbraccio, nessuna frase
di circostanza, nessuna lacrima, nessun addio. Solo una
sigaretta di fretta riempita da poche parole, poi la porta
girevole e i nostri passi verso il tabellone: Bologna, uscita
numero 7, imbarco immediato.
«Ci vedremo fra cinque anni.»
«Ciao Luisanna.»
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Tentativi
C
i hanno fatto sistemare in fila, ordinati per cognome,
e quando è toccato il mio turno, invece di portarmi
nelle aule grandi del triennio in cui stavano sistemando
i concorsisti, mi hanno portato in aula M, primo piano
della facoltà di Ingegneria, sede del concorso pubblico
per Allievi Finanzieri. In aula M ho trovato altri aspiranti allievi, seduti e sorridenti, e in viso e nelle mani per
nulla tesi: erano quelli che sarebbero passati; eravamo
gli unici trenta posti disponibili, i già promossi. Il vocabolario di Leopardi mancato di verecùndia e raggio di
sole della cadente luna non mi sarebbe più servito, eseguivo subito, ricopiavo le risposte sotto dettatura, numeri associati a lettere che un uomo basso in divisa aveva
consegnato nelle mani di un altro uomo in divisa – forse
un suo sottoposto – prima di chiudersi la porta dietro.
Da lì in poi avrei dovuto solo ringraziare – mi si dica e
farò – imparando a dividere il mondo in civili e militari.
Mi si dica che ringrazio, subito, e batto forte col piede.
(Attenti: lo devo fare e pure ringraziare.)
La libreria stava proprio di fronte alla scuola alpina,
la strada a dividere il cancello grande con il piantone di
guardia, poi un giardino piccolo di ortensie, le macchine
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parcheggiate e la neve. Il fuori di me era così, una parte almeno, quella dell’ingresso principale. Il Travignolo
scorreva rumoroso d’estate come d’inverno costituendo
confine naturale anche per la caserma. Fra la catena di
porfidi del Lagorai, il gruppo di Cima d’Asta e il dolomitico circolare del Latemàr, imparai a sopravvivere, a
isolarmi, a occupare il tempo snervato del non sapere
cosa sarebbe accaduto di lì a qualche ora: sentivamo la
porta dell’aula aprirsi e il caporale di giornata era i nostri occhi: comodi se dalla porta era entrato un allievo;
in piedi se dalla porta era entrato un istruttore. Durante
le prime due settimane ci fu impedito di telefonare e di
fare la doccia, e quando chiamai mia madre, puzzolente ed esausto, quella s’incazzò perché non avevo ancora telefonato. La marcia lungo il torrente, in ottobre, col
sole, fu quasi piacevole; indossavamo la tuta mimetica
e attorno al collo il fazzoletto giallo: cinquecento allievi,
divisi in tre compagnie, che marciano indifferenti ai rumori del bosco. Febbraio fu il mese più freddo: temperature di meno quindici la mattina appena svegli, barba,
lavarsi e correre, soprattutto correre – in Piazza d’Armi
è vietato camminare! Attenti e riposo poteva essere una
punizione, magari nel corridoio delle camerate o sulle
scale delle aule: sentivi battere un piede e sicuro era Medoro Gianluca:
«Medoro?»
«Comandi.»
«Batta quel piede, Medoro! Vada sul riposo Medoro; e
poi sull’attenti. Bravo Medoro, continui Medoro: attenti
e riposo, batta forte Medoro!»
28
E quello continuava – attenti e riposo – e noi, passandogli accanto, evitavamo financo di guardarlo: lo
spirito di corpo lo dimostreremo fuori dalla scuola,
fra qualche mese; mi dicevo (anche) questo, ma non
credevo a nulla, mi assolvevo e poi mi condannavo,
sfogliavo libri e scrivevo lettere, leggevo il giornale,
parlavo poco e obbedivo agli ordini.
Nec Recisa Recedit.
A diciannove anni vivevo a Torino, con Silvia, piano
terra con giardino di una casa in affitto nel quartiere
Mirafiori; guadagnavo due milioni al mese e mi sentivo vecchio; a ventidue – stanco perfino di scendere dal
letto, figurarsi dei colleghi che giocavano in borsa – ho
caricato il baule in macchina e sono tornato a Santa
Lurìa: ce ne andiamo Silvia, nell’armadietto sistemerò
la divisa estiva e saluterò con una stretta di mano il
cane mio collega.
Era piacevole rispondere che non mi sarei fermato
a chi mi chiedeva cosa avessi fatto di lì in avanti; era
piacevole ritrovare il desiderio dopo aver obbedito.
Mio padre mal sopportò la mia risolutezza urlandomi
addosso disapprovazione e ricatti; le sue mani strette
alla camicia intendevano scuotere e allontanare con
violenza questi assurdi pensieri di vita nova; io premevo forte sul petto per liberarmi dalla morsa, il suo
piede all’indietro a spostare la sedia – è tuo padre ripeteva sua moglie come un disco rotto. Fu mio padre,
intanto che scendevo le scale, a dirmi di non farmi più
vedere.
29
La fatica che impegno per trovarmi suona note diverse dalla cronaca del quotidiano; eppure mi allungo,
ancora, stringendo fra le mani una piccola frase o un
libro da leggere, esco dalla mia camera solo per mangiare e prima di afferrare il bicchiere e ingollare acqua,
in piedi, devo dirti cosa conservo nelle mani – mi stai
ascoltando? – devi vedere la muffa sul soffitto – dovrei
aprire la finestra? – ora mi siedo e nascondo la mia
giornata nella tasca dei pantaloni, bevo ancora un sorso e sono quasi pronto: «A mezzogiorno ci vediamo a
casa di Marino» mi dice mia madre. Io non rispondo,
lei chiude la porta ed esce di casa.
Fra meno di due ore Marino Xaxa e mia madre si
imbarcheranno su un aereo che li porterà a Santander.
Poi da lì, in pullman, raggiungeranno Donostia: undici
giorni fra le province basche, di quei viaggi da consumarsi in fretta e ogni tanto una fotografia. Vent’anni
di viaggi Marino e mia madre e il massimo della trasgressione rimane il locale per scambisti a Pigalle, ma
era il loro primo viaggio e forse Marino voleva capire
chi aveva di fronte: «Ti aspetto fuori» gli ha detto mia
madre attraversando gli inchini dei camerieri.
Marino Xaxa e mia madre non hanno mai vissuto
nella stessa casa e per mia madre diventa sempre più
faticoso: «E non è solamente la distanza. Vivere due
case è anche vivere due spazi di relazione, due vite.
Non lo so.»
Penso a mia madre seduta in giardino, quando li accompagno in aeroporto; indossa un capello di paglia
con un nastro di raso che scende di lato e il ventaglio
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sono i rami colmi di foglie sopra la sua testa. Aspetta,
finalmente seduta dopo una vita di corsa. Aspetta di
chiudersi.
Anche lei.
31
Categorie
Q
uando torno da loro, Cosimo Floris sta seduto con
le gambe accavallate e le braccia larghe sopra il
divano, mentre Anita Santa Cruz è ancora in piedi, accanto alla porta, che si tormenta le dita rosicchiandosi
le unghie. Indossa dei pantaloni bianchi e una canotta
rosa che lascia scoperte le braccia abbronzate. Appena
sotto la pancia, i fianchi si allargano come le usualità
plastiche di Firrincieli. Consegno i libri a Cosimo che
li avvicina e sembra pesarli: «Tu che dici?» chiede ad
Anita. Lei alza le spalle e si aspetta che sia io a parlare.
Anche Cosimo mi guarda in attesa: «Prendili entrambi,
poi fammi sapere» gli dico intenzionandomi alla porta.
«Grazie» mi dice Cosimo alzandosi dal divano. «Ci
vediamo presto.»
E poi Anita: «Ciao Decimo.»
E poi io, che esco con loro e salgo fino all’appartamento di sopra, quello di Gottardo e Dodo, a masticar
necessitāte.
Prima che Gottardo si scoprisse omosessuale accogliendo Dodo nel suo letto, quest’appartamento sopra
il nostro era abitato da Gottardo e da sua moglie Tania,
con i quali Marino e mia madre facevano compagnia
e andavano per mari di vento largo e bolina: non era
33
Otello il Moro di Venezia, ma sedici leoni che alzavano
la Louis Vuitton Cup con in testa solo Bill Koch e la sua
America3.
«Erano tempi come plastiche di Burri» mi dice Gottardo. «Conosci Burri?»
Erano tempi annoiati, penso.
«Erano tempi bruciati di speranza» continua Gottardo.
Io e Dodo ascoltiamo in silenzio, mentre la luce comincia a diradarsi all’interno della cucina e oscura impronte di fango sulle mattonelle e peli di cane e macchie
di caffè. Mi piace ascoltare i resoconti di Gottardo perché aprono porte di stanze polverate, stanze vecchie di
vent’anni, di quando ancora mi incantavo con la bocca
spalancata e praticavo immaginazione e creazione.
«Forse viene anche Raffaello alla cena del quattordici,
è un amico, anche lui gay, un po’ troppo esplicito forse. Spero non si scandalizzi nessuno.» Parla lentamente
Gottardo e si rivolge alla notte scesa sul giardino che
dominiamo dalla sua terrazza.
«Troppo esplicito?»
«Sì, ha la tendenza a manifestare la sua diversità.»
«Non capisco: si reputa diverso?»
«Mah, in un contesto etero ci si sente un po’ diversi. È
come se tu ti trovassi in un contesto gay, non ti sentiresti
un po’ diverso?»
«Non credo. Perché mai le preferenze sessuali di una
persona dovrebbero condizionarmi a tal punto da farmi sentire diverso? Non capisco. Non credo che questo
possa accadere. E se dovesse accadere potrebbe succedermi anche in altri contesti.»
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«Infatti accade ma spesso preferiamo smussare tutte
le nostre specificità pur di essere accettati. Il tuo ragionamento è esclusivamente teorico e forse anche assoluto. Mi sembra che non voglia considerare tutte le variabili esterne che condizionano il nostro modo d’essere:
diciamo che Raffaello è orgoglioso delle sue preferenze
sessuali.»
«Orgoglio gay?»
«Una cosa del genere. Sia chiaro: capita infastidisca
pure me un atteggiamento simile; e se infastidisce me
non oso immaginare cosa possa scatenare in voi.» E ride
rumorosamente Gottardo.
In voi? Per la prima volta avverto una barriera nel
nostro dialogo. Quel voi mi irrita, non lo sopporto proprio, ghettizza me come ghettizza lui. Voi siamo noi
vorrei dirgli, ma fa ridere se ci pensi: voi siamo noi è
un deficit di comprensione che percorre i due sensi: non
c’è scritto da nessuna parte che sia solamente io a non
comprendere. (Forse anche questo è un ragionamento
esclusivamente teorico e anche assoluto?) Noi non saremo mai voi e viceversa. Eppure fino a qualche minuto
prima credevo che per nessuna ragione l’uomo potesse
essere categorizzato. E invece la categoria ce la metto io
stesso quando Gottardo, mentre fumiamo l’ultima sigaretta in giardino, mi confida la notizia che non vedi l’ora
di raccontare.
«Ti sembra così strano?»
«No, non mi sembra strano.» E invece mi sembra stranissimo: Gottardo e Dodo non sono gli unici gay del
condominio.
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Non sono gli unici, capito?
Ed io che.
E noi che.
Tutto cambia prospettiva: avverto gli alberi riprendere il loro lento movimento e il nuovo silenzio devo spezzarlo in un modo o nell’altro. Ma non ci riesco perché
sono impegnato a sistemare il nuovo gay nella apposita
categoria gay del condominio.
«Ma chi è?» faccio io sottovoce. E Gottardo se la ride
mentre continua a fumare: «Vedi, quest’olivo l’ho piantato troppo vicino al muretto. Dovremmo toglierlo. In
autunno facciamo un fosso tutt’intorno, bello profondo
e lo sistemiamo magari… lì.»
Faccio di sì con la testa ma vorrei sapere: chi è il nuovo gay?
Alla fine il nome non me lo dice ma mi fa capire che
se Lui non vuole scopare con Lei un motivo ci sarà. E mi
esce una risata strana, quasi di scherno nei confronti di
Lui che non vuole scopare con Lei, e forse Gottardo se
ne accorge, ma fa finta di nulla.
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Perché non parli?
E
ro fuori in giardino, cesoia in mano, che tagliavo i
rami secchi della siepe appeso alla rete di recinzione; pensavo a Sklansky, al concetto di valore atteso, a chi
avrei indirizzato il prossimo saluto: «Decimo, sta squillando il telefono.»
Mi ha trovato lei, sporco di terra e sudato, rosso in viso
già prima di ringraziare. L’avrei guardata ancora, pensavo; e poi me lo domandavo: avrei guardato nuovamente
in direzione della finestra di Anita Santa Cruz? E intanto
camminavo, lento. E intanto il telefono squillava. Era Luisanna, dal suo paesello pieno di sole e di mare, «ma le
serate» mi ha detto «sono troppo lunghe e lente e quindi
sono costretta a tornare indietro e indietro ci sei tu che
ammorbi l’aria e appesantisci i passi. E mi tormenta non
capire e non mi basta la sospensione di cui parli; dovrei
chiederti come stai e invece m’interessa sapere come stiamo, dove siamo e se nuovamente vedrò Cagliari. Tornerai a Bologna? Non dovevo chiamarti, scusa.»
Ascoltavo il rumore delle lame pradines una sull’altra,
l’ultimo tratto prima di chiudersi completamente: zac e
riaprivo, zac e di nuovo. La radio trasmetteva il nuovo
bollettino di guerra, bombe e incursioni aeree contro missili a lunga gittata nemmeno tanto precisi; subivo questa
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guerra impari e mi vergognavo del mio piccolo presente
al telefono.
«Dovrei smettere di trovarti patetico; e smetterla di vedermi difettosa.»
Luisanna si sta prendendo cura del ricordo, si scusa e
mi assolve, cerca la prova di una condanna nelle parole di
sua cugina e vorrebbe una gabbia coma la mia; mi solleva
matrigna dalla responsabilità del ricordo, ma pretende
voce – voce! – che risolva la sospensione: «Per esempio:
ho letto il tuo libro e non capisco: sono io Marialuisa?»
E ha riso Luisanna, e il sole che mi è sbattuto in faccia
quando ho scostato la tenda pareva avesse il suono della
sua risata; invece era Anita Santa Cruz quel rumore di
sole che ho sentito, asciugamano in vita che sbatteva sulle
caviglie, occhi bassi sui piedi, capelli sciolti sulla schiena
dorata.
Verso il mare.
Preferisco le parole perché del corpo ho paura, del mio
corpo bisognoso di corpo ho paura: quando mi avvicino troppo, quando l’intimo in qualche modo mi unisce
all’altro, mi chiude, ecco che viene meno la parola, la
sento perdersi tra le ipotesi elencate mentre osservo un
punto indefinito: se ci diamo nel corpo, perderei la parola
facendomi parlare dal necessario tocco, fisicità che si basta senza strutture.
Sempre vorrei che solo parole carezzassero i nostri corpi, sempre vorrei solo parole per uscir dal corpo, per sedermi nudo a mirare la mia adorata gabbia vuota.
38
La cena è quasi pronta
S
vetlana dice che sono troppo controllato, Dario che
mi piace circondarmi di donne, Nadia che sono un
seduttore, Luisanna che ho un brutto rapporto con le
donne, Michele che sono troppo complicato, Carlo che
gli faccio venire l’ansia, Ugone che sono arrogante e
presuntuoso, Giorgia è da un anno che non mi chiede
come stai, Cinzia da un mese, Vumo ha poco tempo da
dedicare alla lettura, Josto adora il banditismo e Marilena il noir mediterraneo; sento che Marilena ama
viaggiare, e se Svetlana predilige le capitali europee,
Dario preferisce il mare; Josto non lascerebbe mai la
Sardegna, Ugone vorrebbe farsi un’altra crociera e
Kristine conoscere finalmente l’interno della Sardegna; il periodo più bello per la Toscana è l’autunno;
sempre l’autunno è il periodo migliore per indossare
il gilet smanicato; gilet smanicato che va sopra una
camicia a quadri e se i pantaloni sono di velluto è meglio – il golf si può giocare benissimo anche vestiti
così. Il Golf Club Sa Tanca non ha nulla da invidiare
alle diciotto buche di Is Molas a Pula. L’estate scorsa
Ugone e Kristine non sono andati nemmeno una volta
a Pula. Dario e Svetlana sono andati in pizzeria da
Gualtiero e.
39
«E tu Decimo?»
«E io? Io mi sa che a Pula non ci sono mai stato.»
La cena è quasi pronta, e anche noi siamo pronti a
mettere in tavola tutta la nostra quotidianità e i soldi
guadagnati, la casa e la macchina nuova con i sedili di
pelle, i viaggi perché è bello viaggiare, i figli perché è
bello avere figli, il televisore al plasma e il decoder ultimo modello, il calcio e di nuovo il lavoro che ti impegna fino a tarda notte, la casa, la macchina, i viaggi, i
figli...
Detesto l’essenzialità della cultura media che ha soppiantato quella che Pasolini definiva la grazia popolare. L’essenzialità che cavalchiamo, l’immediatezza dei
nostri gesti, la velocità, ci portano a ignorare tutto ciò
che richiede elaborazione. Rifuggiamo la comprensione della complessità, ma la maneggiamo ugualmente.
(Infilo il coltello nella coscia e ce lo lascio qualche secondo, poi lo poggio sul dorso della mano. Se scotta, il
maialetto è pronto.)
Kristine è nata a Copenaghen, dove ha vissuto per
vent’anni. Ci vediamo poco con lei e Ugone, due volte
all’anno, e io ritorno sempre a quella cena con Peter
Høeg, fatico a crederci: Kristine Dhalin, la fidanzata del
mio amico Ugone, a cena con Peter Høeg.
Tempo fa, Kristine, mi ha detto che Høeg vive a Copenaghen, specificando via e numero. E io ci voglio
andare sulle sponde dell’isola di Sjælland, tra Kompagnistræde e Knabrostræde; aspetterei di vedere Høeg
passarmi davanti col suo impermeabile color champa-
40
gne e la sciarpa attorno al collo, per poi seguirlo mentre
si dirige al Kafe Kys; mi sistemerei nel tavolino accanto
al suo raccontando dei suoi capelli cenere nel silenzio di
una fiabesca Strædet.
«Sta per uscire un nuovo romanzo. Ricordate Kasper
Krone?»
«Il clown?» chiede Svetlana.
«Era un musicista, altro che clown. L’ho visto a Siviglia suonare la Ciaccona di Bach.»
«Come si concluse la vicenda? Fu estradato?»
«Era ricercato dalla polizia spagnola, questo lo ricordo bene, ma il governo danese non concesse l’estradizione. Kasper Krone sentiva il silenzio vibrare, avvertiva il terremoto. E il governo danese se ne servì.»
Mentre guido nella notte verso casa mi sento incompleto: la giornata mi ha stancato, ma non mi ha riempito. Siamo alle solite e la domanda è sempre la stessa: mi
bastano due cene all’anno?
Prima di salire ognuno nelle rispettive macchine ci
siamo detti che ci saremo sentiti presto, prestissimo. Ma
non andrà così. Fra qualche giorno non potrò prendere
il telefono e chiamare Ugone e Kristine dicendogli che
mi va di vederli, spezzerei un equilibrio e loro a domandarsi che cosa diavolo abbia in testa Decimo Cirenaica.
Ormai abbiamo raggiunto quest’equilibrio delle due
cene all’anno che se ci penso si è quasi trasformato in
obbligo.
In fondo sono questi i rapporti che l’uomo moderno
predilige: né troppo lontani, né troppo vicini. Non così
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vicini da dover giustificare ogni atto, non così lontani
da perdersi di vista. È una soluzione comoda se ci pensi.
Per non sentirmi escluso, anche io dovrei scorrere l’elenco delle buone azioni, numerarle in ordine progressivo per poi sommarle in una cena come quella di stasera.
Dovrei svuotarmi di tutta la cronaca che ho accumulato,
senza soffermarmi su qualcosa in particolare. E poi riempirmi di nuovo, lentamente, giorno dopo giorno, in
attesa della prossima cena.
Non lo so. A me una volta tanto piacerebbe pesarle
queste buone azioni, porre qualche obiezione, discutere. Magari alla prossima faccio un brindisi, mi alzo in
piedi e dico qualcosa. Qualunque cosa.
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Spiaggia di pietre
D
opo che hanno realizzato la spiaggia privata per
l’hotel del Signor Cees ci siamo trovati la spiaggia di Santa Lurìa completamente coperta di pietrame;
la spiaggia, la bàttima e i primi metri di fondale, tutto
coperto di pietrame medio-piccolo. «Altro che fenomeno naturale!» sbraita Baffone, il proprietario del chiosco
che vende bibite e gelati. Lui non abita nemmeno a Santa Lurìa, ma il Signor Cees lo impiccherebbe.
«Perché non è possibile una cosa così, io dico che non
è possibile. Tre anni fa questa era la spiaggia più bella,
tre anni fa, non lo dico io, lo dicevano tutti, io li sentivo. Santa Lurìa era un paradiso. Tutti volevano venire
qua, tutti. E adesso? Guàrdati intorno. Io lo denuncio a
quello lì. Tutti dobbiamo denunciarlo. Voi dovete denunciarlo, voi che ci abitate tutto l’anno, mica io. Io ci
vengo solo d’estate. E mi tocca a toglierle a me le pietre?
Certo che le tolgo se voglio lavorare, le tolgo io le pietre,
una busta al giorno. Almeno qua davanti le tolgo io, e
non potrei nemmeno farlo, rifiuti speciali dicono: e cosa
devo camminare nelle pietre? Vengo in spiaggia per che
cosa? Per le pietre? Ma voi siete matti, tutti quanti. Io le
tolgo eccome le pietre, una busta al giorno. Denunciatemi. Ancora qui siete?»
43
Ha da dire su tutto Baffone, e sempre con la solita
foga da comiziante, e più ti mostri interessato e più lui
diventa rosso in viso dallo sforzo, e le vene sul collo
s’ingrossano e fuma e urla contro il mondo intero.
L’estate scorsa io e Germano siamo rimasti seduti
con lui fin dopo il tramonto, a gurdare birra e ascoltare le sue maledizioni; bastava una parola e lui partiva
con resoconti-fiume che si concludevano sempre allo
stesso modo: fuori dalla Sardegna, tutti quanti. Americani, italiani, cinesi, marocchini, tedeschi, inglesi,
tutti.
«E i sardi?» gli chiede Germano.
«I sardi? Se ne devono andare!»
«I sardi?» faccio io. «Se ne devono andare dalla Sardegna?»
«Esatto, se ne devono andare perché l’hanno rovinata la Sardegna.»
Escluso Baffone quindi, ce ne infischiamo tutti della spiaggia di Santa Lurìa, io per primo, nonostante
sia la spiaggia più vicina a casa mia, nemmeno cinque
minuti a piedi. Mi dico – e ci diciamo – che il mare è
ugualmente pulito e il sole per fortuna sarà difficile
impedirgli di splendere ancora qualche migliaio di
anni. Chissà se splenderà per l’uomo mi chiedo sempre più di frequente. O se magari splenderà per qualche strano essere vivente oggi sconosciuto e l’uomo
magari, pur di sopravvivere, sarà costretto nelle città
sottoterra, come un topo. (Che alla fine se lo meriterebbe pure, l’uomo, un po’ di internamento.)
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Torno a casa perché il vento si è abbassato e l’afa iniziava a raccogliermisi in gola. Spero di trovare Anita
Santa Cruz seduta sul gradino, l’ho cercata in spiaggia,
ho fatto il giro largo, ho cercato i colori del suo costume, l’ingombro delle sue forme, il rumore della voce. Le
risa che schiumavano fra i bagnanti le ho ancora in testa, e diventano grugniti di fastidio quando mi accorgo
del gradino vuoto, la realtà della sua assenza; mi dico
che necessito di un finale come i vecchi che ogni notte
sorvegliano belle donne dagli occhi chiusi, mi dico che
basterebbe una porta serrata o l’improvvisa sua mancanza, un sospiro o una mano da dietro ad indicarmi
una frase, una voce, Jean Baudrillard: Fortunatamente, la
realtà non ha luogo.
Ad Andermatt, in Svizzera, il ghiacciaio
Gurschen è stato coperto con un telone
speciale di PVC bianco il quale riflettendo i raggi solari durante i mesi più caldi,
manterrà basse temperature al suo interno impedendo di fatto un eccessivo scioglimento della superficie ghiacciata.
Ancora una volta si cerca di arginare un fenomeno mitigandone gli effetti senza agire sulle cause: rallentiamo
la corsa senza cambiare direzione e la caduta rovinosa
sarà per chi verrà dopo di noi – figli, nipoti e pronipoti.
Siamo tutti complici, prime e ultime carrozze, guidatori
e passeggeri. E se il ghiacciaio si scioglie, l’effetto domino
coinvolgerà le piste, gli sciatori e i soldi che gravitano attorno
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al turismo della rinomata località svizzera. Quindi? Quindi il telone in PVC si rende necessario da un’urgenza
economica: la prospettiva “economicista” con la quale si affrontano le problematiche legate all’ambiente fornisce risposte
parziali e incomplete, ritarda gli effetti generati dal nostro
modello di sviluppo, sposta il problema nel tempo e lo consegna egoisticamente irrisolto a chi verrà dopo di noi. Punto.
Rileggo da capo, taglio e cucio.
Domani leggerò nuovamente il mio nome fra le pagine del giornale locale, e mio padre mi telefonerà soddisfatto, mentre i colleghi di università confonderanno
ritardi e impegni editoriali, senza sapere che i primi non
dipendono dai secondi, che nel ritardo ci vivo rincorrendomi, che scrivo lettere che puzzano di esercizio per
ritardarne la consegna, che ho smesso l’orologio per imbrogliare la tirannia del nostro tempo.
E sono in ritardo, adesso, il giornale a quest’ora l’avranno già chiuso, l’articolo uscirà dopodomani – forse.
In cucina abbasso la tapparella così da poter guardare
senza essere notato; attorno al tavolino parlano a voce
alta e si tirano le vesti fin sopra le ginocchia; oggi ha
fatto caldo che appiccica, e dopo il tramonto la terra
trasuda aria fresca e capita di trovarsi in giardino, anche a parlare. Donna Alda è la più anziana fra le tre,
figli grandi già sposati, un marito che faceva il tassista e
che ogni mese si fuma metà della pensione. Un giorno
il marito di Donna Alda mi ha detto che fumare è l’unica libertà che si prende e riflettendoci credo che valga la stessa cosa anche per me. Fumare e scrivere sono
le uniche manifestazioni di autentica libertà, le uniche
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scelte che giorno dopo giorno compio liberamente. Anche Donna Alda fuma e tossisce cavernosa, ma non l’ho
mai vista tirar di catarro. La seconda donna seduta al
tavolino è Donna Rosaria. Donna Rosaria ha un aspetto
tondeggiante ed è sempre truccata, credo sia la prima
cosa che faccia appena sveglia, puoi vederla che stende
i panni di buon mattino e stai pur certo che non le manca il rossetto, l’ombretto e il mascara. Dalle una pianta
da sistemare in giardino e farai di lei una donna felice.
Donna Rosaria parla sempre, in continuazione, sento
solo lei. E poi si lagna, con tutti: se parla con me ha da
dire sul primo che passa, se parla col primo che passa
sono certo abbia qualcosa da dire su di me. Donna Monica è la madre di Anita Santa Cruz, la più bella con gli
occhi azzurri ghiacciati e le linee del viso indurite dal
naso che sembra fatto con la squadra; la bocca è piccola
e si limita a concludere le frasi di Donna Rosaria rafforzandone le argomentazioni.
Giungono alle mie orecchie alcuni passaggi della discussione in corso. Parlano di raccolta differenziata dei
rifiuti, che fra qualche mese partirà anche in questa zona.
«Ci daranno un calendario?»
«E per che cosa?»
«Un calendario? Sicura?»
«Sissì, un calendario con i giorni colorati.»
«Macché calendario, io ho sentito…»
«Anche contenitori e buste colorate…»
«E dove li tengo i contenitori?»
«In balcone?»
«Ho sentito che…»
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«Magari pagassimo di meno…»
«Sì, è così, dipende dal…»
«Guarda che sono obbligati!»
«Ma stai scherzando?»
«Ciao» mentre mi sforzo di non giudicare l’impegno
civico delle tre donne sedute al tavolino, Ciao mentre accelerano i battiti e mi ritraggo dalla tapparella per paura di essere notato. Ciao. La voce di Anita Santa Cruz è
piatta come un lago ghiacciato su cui ci puoi pattinare;
chiusa ed essenziale, quella voce, senza sfumature: Ciao
Anita, che bello sarebbe pattinare sulla tua voce. Ciao,
mentre sgrano elenchi di negazione, in ascolto, la serranda abbassata, e di nuovo troppo vicino alla plastica marrone, respiro polvere umida e ti seguo, férmati,
aspetta, dov’eri, ti ho cercata.
«Ciao Anita» sento oltre la finestra
Mi ritrovo nell’antibagno a seguire i suoi passi, ho
sentito qualche rumore da sotto e mi sono bloccato. Se
ci fosse uno specchio potrei osservare la misera scena.
Non ho veramente altro da fare che sbavare dietro una
quindicenne? Mi accontenterei di un contatto furtivo,
una parola rubata, un sorriso. Perché, mi chiedo, perché dovrei accontentarmi solo di questo? Nessuna donna mi chiuderebbe regalandomi solamente un saluto,
e invece m’illudo che Anita Santa Cruz possa riuscirci.
Cosa muove la mia mente e il mio corpo? C’è dell’altro
che si unisce all’ebbrezza del proibito? Quanti sono i fili
che mi muovono beffandosi di me?
Dal bagno di sotto sento l’acqua scorrere; entro nel
mio bagno e apro il rubinetto anche se non devo lavar-
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mi le mani; il getto dell’acqua è continuo, le mie mani
sono ferme salde sul lavandino, le braccia tese di nervi,
la mia testa rivolta verso un ascolto: l’ultima volta che
ho parlato con qualcuno è stato al telefono con mia madre, stamattina.
49
Nessuno si accorge di niente
A
l bancone del Bar Flumini oggi c’è una Rossa che
non avevo mai visto, la pelle bianca di porcellana,
senza un difetto, liscia.
Intanto che aspetto il caffè sfoglio il giornale per vedere se mi hanno pubblicato l’articolo sul ghiacciaio
plastificato. Lo sfoglio con movimenti preparati e guardo il bar dall’alto: ci sono uomini che bevono birra allo
stesso tavolo, ma non parlano, uomini che giocano alle
macchinette del poker e fumano, uomini al mio stesso
bancone – ne conto due – ognuno a leggere dentro il
proprio giornale. Siamo tanti silenzi.
Nella pagina dei commenti con foto e nome dell’autore il mio articolo non c’è, magari lo pubblicano domani; chiudo il giornale e butto una bustina di zucchero
dentro il caffè. Se qualcuno guardasse me dall’alto vedrebbe un uomo al bancone con il giornale in mano che
gira meccanicamente il suo caffè, che prende in mano
la tazzina e gira il capo di 180 gradi per vedere quanti occhi lo stiano osservando: nessuno. Nessuno che lo
stia osservando, nessuno che mi stia osservando. Non si
è accorto nessuno che sto per bere il mio secondo caffè
della giornata, come non si è accorto nessuno dei pantaloni ben stirati e della camicia che scende perfetta,
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del giornale che tengo in mano e che avrebbe dovuto
ospitare un mio articolo, di Luisannna Gerace e Anita
Santa Cruz che occupano la mia mente a fasi alterne, del
romanzo che dovrei consegnare, della carne ancora da
comprare per la cena di stasera; nessuno che si accorge
di questa magra presenza, nessuno che mi chiede, che
mi pacca sulla spalla, che mi indica l’arrivo dell’allievo
dietro di me; nessuno si accorge di nulla dentro al Bar
Flumini, ognuno si basta di per sé. Io come loro pratico
assenza comune, non chiedo e non pacco sulla spalla e
non mi soffermo sull’orlo dei pantaloni che indossano
i due al bancone, come non pretendo parola da quelli
che bevono allo stesso tavolo, e non saluto nemmeno
quando abbandono il bancone e mi dirigo verso l’uscita. Sulla porta del bar mi giro nuovamente, ma non si è
accorto nessuno che sto andando via, nemmeno la Rossa dal viso porcellanato. Neppure l’allievo che aspetta il
maestro. Nessuno.
Percorro il giardino esploso di giallo e di verde, verso
casa; anche gli oleandri colorano e il rosmarino profuma
perché la notte è stata umida. Quando Anita si accorge
della mia presenza si sistema composta sulla sedia e mi
saluta sorridendo.
«Ciao Anita» sospiro appena, le gambe pesanti, le
mani che non trovano le tasche entro cui sistemarsi.
«Avete la cena oggi?»
E qui mi cemento, mi copro, le finestre che si affacciano sul giardino sono le orecchie di chi non frequenta il
mare e le sue chiacchiere. Anita Santa Cruz non deve
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fare domande, non a voce alta. Anita Santa Cruz deve
parlare piano perché anche io parlerò piano: «Sì, abbiamo la cena; perché non venite anche tu e Ludovica?»
In giardino ci siamo solamente noi due, penso questo
mentre mi rigiro fra le mani il giornale che avrebbe dovuto ospitare il mio articolo sul ghiacciaio plastificato;
ci siamo io e questa piccola bellezza assonnata che non
ho ancora capito cosa voglia da me e soprattutto non ho
ancora deciso cosa voglio io da lei. Non penso alle conseguenze di una tavola imbandita anche per loro, per
Anita Santa Cruz e la sua amica Ludovica, non c’è filtro
sociale che mi censuri, non adesso. Anita e Ludovica
alla cena del quattordici saranno solo manifestazione
fonica; ma ce ne vorrà di buio per non sentire in quella
tavola ferraglie di domande che avranno per oggetto la
loro presenza: cosa ci fanno quelle due?
«Ci vediamo dopo» mi dice Anita Santa Cruz.
Eccomi fra i rumori dei preparativi: sono mosso, agìto,
non v’è spazio per alcun pensiero che non sia questo,
adesso: rispondere a l’entusiasmo intanto che la tavola, lentamente, prende forma: quindici metri di tovaglia
blu, pampini a ingentilir le balze, bottiglie di vino, bicchieri e candele sulle pietre tutt’intorno, vociare sconosciuto che sale alto, ciabattare dentro la notte all’inizio,
avanti e indietro dalla cucina al giardino, sferragliare di
posate, fumo che sale, sedie mancanti, verdure grigliate, formaggi, carni, e una voce: «Ciao Decimo, mi sento
poco bene, buona serata.» E scompare dentro casa sua
senza aggiungere altro.
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«Ciao Anita.» Non riesco a dire altro. Ciao Anita, ormai non ci speravo più, ma vederti è il solito trambusto
di rumori che capita di associare al tuo viso a volte, altre
volte ai fianchi larghi, o alla tua voce, alle tue mani, ai
tuoi capelli, ai tuoi anni; ti osservo diventare donna e
liberare le parole dalla grazia dell’innocenza; ti aspetto
definitiva.
Qualcuno, in fondo alla tavola, chiede un brindisi e si
alza in piedi seguito da tutti gli altri; mi alzo anche io,
stranito e vergognato: se non avessi avuto Germano da
una parte e Ciro dall’altra avrei da solo fronteggiato il
desiderio di sentirmi altrove; loro due mi hanno trattenuto, e poi le risa di Sabrina.
Qualcuno ha chiesto un brindisi invocando il mio
nome: bene, che cosa dico? I bicchieri sono già alti sopra
le nostre teste, colmi di vino rosso e io...
Ecco cosa dico. Ecco a chi brindo.
«Brindo a chi non ha ancora deciso se vivere o morire.»
Alzo il bicchiere al cielo, tutti ripetono il mio brindisi: a chi non ha ancora deciso se vivere o morire, e poi
bevono, beviamo e ci rimettiamo seduti, silenziosi, la
candela frigge ogni tanto e la cera goccia sul candelabro posto in mezzo alla tavola. Silenzio. Ma poi tutto
riprende, lentamente ma riprende.
La cena continua senza che nessuno faccia riferimento
al mio brindisi, come se il silenzio l’avesse ucciso, come
se quell’attimo di pausa fosse servito per voltare pagina
e lasciarsi dietro quella dedica bizzarra. Sono solo un
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provocatore? Forse, e l’amaro che mastico è il silenzio
che si è accodato al mio brindisi. L’unica cosa che mi interessa è scandalizzare? Forse, ma questa volta nessuno
ha chiesto o ha sgranato gli occhi, solamente il silenzio
che uccide. Nessuno ha chiesto cosa volessi dire e a nessuno ho potuto dire che brindavo a me stesso. Perché in
fondo solamente questo mi interessava: far sapere che
io non ho ancora deciso, ma con l’unica intenzione di
provocare, sì. Non ci sono riuscito, il silenzio ha vinto.
La notte avanza lenta, infilandosi fra i resti della cena
sparsi sulla tavola, asciugando le sciare delle candele,
rabboccando mirto pastoso sugli unici bicchieri rimasti.
Il mio e il suo. Sempre così, da cinque estati a questa
parte per la cena del quattordici: sono nostre le ultime
parole.
«Chi è Luisanna?» mi chiede Germano.
«È stato un tentativo, provarmi in due nuovamente,
un esperimento di chiusura miseramente fallito.»
«Ancora sul sistema chiuso?»
«Ne sono convinto.»
«La vita è un’altra cosa.»
«La vita non è ripetizione quotidiana di gesti e parole: casa, macchina, ufficio, buongiorno, buonasera e
ritorno.»
«Cambierà.»
«Lo spero per te.»
«Ma se la vita è oblio perché affannarsi tanto, perché
questa continua tensione verso l’indefinito domani che
ti chiuderà? Sono tue queste parole.»
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«Perché solo chiudendomi potrò finalmente abbandonarmi. L’oblio viene dopo, è una conseguenza.»
«Con Silvia hai vissuto nell’abbandono?»
«Ho creduto.»
C’è una forza superiore che mi costringe su questa sedia, un dopo che piego al presente, forse un’esigenza:
avverto la fatica del silenzio accumulato, si moltiplicano gli incastri, le aperture, le chiusure: Luisanna Gerace
se n’è andata, Anita Santa Cruz si muove ancora.
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Scomparsa
L
e quattro del mattino. Sorseggio una camomilla
così che passino questi dolori, mi distendo nuovamente sul letto, bevo, sudo, penso: cos’è stato?
Continuo a fumare, non ci penso: nei fogli per terra
riconosco tutte le cancellature, le solite impronte che
mi lascio dietro. Bussano alla porta e sono scalzo, coi
piedi sudati, che abbasso la maniglia: «Chi è?»
«Decimo, sono Giovanni. Hai visto Anita? Non è ancora tornata.»
Mi viene freddo quando vedo Giovanni Santa Cruz
sull’uscio di casa mia, le parole non so nemmeno come
escono, ma escono: «Non l’ho vista, mi spiace.»
Anita Santa Cruz è sparita e il responsabile potrei
essere io, il mostro su cui puntare il dito, quello che ha
abboccato alle lusinghe di una quindicenne.
«Buonanotte.»
«Buonanotte.»
Chiudo la porta e faccio ritorno nella mia stanza.
Anita Santa Cruz è sparita e il responsabile sono io;
quello sguardo e quelle mani che indugiavano sul mio
corpo, quella bocca, la lingua, l’alito alla mela, i capelli
e il mare piatto davanti a noi – il fuoco era acceso?
Ricatto e colpa, urla e mani – le mie – che si stringono
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attorno al suo collo, in macchina, nel bagagliaio, sulle
strade che salgono fino a Monte di Chiesa, la notte che
scende, una sepoltura di fortuna e una doccia che si
porta via tutto. Ancora un conato di vomito e di nuovo in bagno, il giallo dei succhi gastrici che scivolano sul bianco del water e le contrazioni dello stomaco
mi piegano sui ginocchi. Penso che dovrei guardarmi
dall’alto, allontanarmi per vedere la fine. Tutto muore quando è scritto; la parola nasce quando è scritta e
muore subito dopo, quando la penna si alza dal foglio.
La luce intanto si leva lentamente e nella mia stanza
ritrovo i contorni di prima del buio. Dovrei alzarmi,
adesso, aprire la finestra così che ancora più luce entri nella stanza segnandone tutti gli spigoli, aprire la
porta come sto facendo, piano, andare in cucina e accendere la sigaretta che tengo in mano. È tutto finito
mi dico, tutto finito. Dovrei mettere la moca sul fuoco
e bere un caffè caldo, magari in giardino, come se non
fosse successo niente.
I miei occhi cercano i tuoi biondi raccolti e il viso di
bambina che mi vergogno a ricordare; provo profonda
vergogna per questa caccia spietata, esco in giardino e
mi siedo sotto l’albero, apro il libro, aspetto e ascolto:
si mischiano le voci che escono da casa di Donna Monica e fra quelle voci cerco la tua; e il rumore che sento,
quando alzo lo sguardo dal mio libro, è quasi neutro:
«Ciao Anita.»
«Ciao Decimo, non vieni al mare?»
«Magari più tardi.»
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Ciao Anita, mentre danzi nel giardino verso il cancelletto che dà sulla strada. Ciao Anita, mentre distolgo lo
sguardo dall’asciugamano legato in vita che cade fino
alle caviglie. I tuoi capelli raccolti sono d’estate, e la forcina che togli dalla bocca e chiudi in testa cioccando i
capelli l’ho visto fare in colonia a la cercatrice di pidocchi: aspettavo il mio turno come adesso, seduto sotto
un albero.
(La donna non fa che demolire ed è incapace di amicizia, fa dire Thomas Bernhard al pittore; Anita Santa
Cruz ha quindici anni ed è incapace di amicizia; Anita
Santa Cruz ha quindici anni ed è capace di amicizia perché dispensata dall’impiccio donnesco.)
Sconsolato è perfino il giardino che si affaccia sulla
strada provinciale, le macchine procedono lente, ferme
e poi lente, guardo dentro i finestrini, dietro l’agave, oltre. Ma non ci sei, non torni. Le macchine accendono i
fari, che ore sono? Tra il lentisco e gli aghi di pino, da
qui, riesco a vedere le cime basse dei Fratelli dell’Est. Si
accendono le luci di casa tua, un’ombra che si muove,
l’acqua scrosciante per la doccia, posate e piatti suonati
per la cena fra poco. Le luci, quell’ombra, sono donna
e bambina che ancora combattono fra loro, opera d’arte
coi primi segni d’incuria. Le luci, quell’ombra, si aprono sul giardino e tra i rami piegati escono i tuoi vapori. Volto le spalle alle macchine lente che mùsano a est
avvicinando alfabeti di bambina attraverso l’assenza
di donna, e dirigo fuor del mio recinto giardino questo
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sguardo obliquo sugli accadimenti, saluto Ludovica sul
gradino e cammino lungo la strada che mi separa dalla spiaggia: i confini non sono cambiati, ma quando li
potevo toccare e ogni passo era una corsa da scoprire,
intorno c’erano colori che non avrei più ritrovato: la prima volta che sono arrivato fin quaggiù davanti ai massi
grandi della spiaggia ero piccolo e ascoltavo l’affanno
del mio respiro, le scarpe sul terriccio, le onde piagnose che non conoscevano sosta. Ho attraversato l’ultimo
confine guardandomi dietro: una macchina abbagliava
il mio ingresso, i due massi prima della spiaggia li avevo appena superati, forse solo due passi.
Le onde, quel mare, suonavano Mozart e le sue note
bambine intanto che la macchina di Bach mi riportava
verso casa, privato.
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Ammazzamenti
F
orse è vero che bisogna uccidere chi più si ama per
poter restare soli. Gli altri, quelli che non ami abbastanza, sono talmente lontani che potresti evitare di
ucciderli. Penso questo, sdraiato sul letto con il sole che
lentamente si leva. In bocca ho un sapore sgradevole: è
il silenzio interrotto che mi lascia in bocca questo senso
di incompletezza: la finitezza della solitudine inizia a
farmi paura, la sua enorme perfezione mi costringe a
comprenderla. Sono sempre più convinto che la solitudine sia una scelta temporanea, in attesa della compagnia. Solo nel silenzio della solitudine si possono trovare gli elementi che in compagnia ti renderanno diverso,
forse unico. Jünger la solitudine l’ha chiamata ribellione, mentre il silenzio l’ha individuato nel passaggio al
bosco. Faticoso passaggio al bosco, faticosa ribellione.
Io ho faticosamente costruito il mio silenzio, ora lo
guardo, è cresciuto, maturo, e mi fa paura; la solitudine
tanto desiderata adesso siede al tavolo con me e vuole
partecipare al banchetto. Immagino di essere scavato
dalla solitudine, rosicchiato pezzo dopo pezzo, condito
con olio di oliva e servito freddo e farcito con verdure
e sistemato sul tavolo da pranzo e la casa piena di candele come piace a me. Il tutto annaffiato con del vino
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rosso che ho creduto di padroneggiare contentandomi
del parere di un solo esperto.
Ancora pochi giorni e tornerà mia madre, e i suoi rumori interromperanno questo clangore di fallimento;
ancora pochi giorni e prima di chiudermi la porta dietro
dovrò salutarla e dire dove sono diretto.
L’ingresso in spiaggia è composto da due grandi massi posti tra la strada e la spiaggia stessa. Una volta superati i grandi massi si può andare a destra o a sinistra.
Di solito io giro a destra, e mi sistemo non lontano dal
chiosco di Baffone. Oggi giro a sinistra e tutto è ruotato:
il mare a destra mentre cammino, le punte dei Fratelli
dell’Est a sinistra, Capoterra è dietro di me.
Appena mi metto seduto pronto ad accogliere le chiacchiere che pinnulìano dagli ombrelloni e dalle spiaggiole affondate sulla bàttima, mi accorgo del moccioso coi
capelli rossi che ho centrato al Parco di Sant’Andrea con
una pallonata: esce dall’acqua e si dirige verso la madre. Non dovrebbero riconoscermi, né lui né la madre:
quella domenica, al parco, ero vestito mentre oggi indosso i soli boxer da mare; quella domenica portavo gli
occhiali che oggi non ho; devo evitare i loro sguardi e
lentamente prendere l’asciugamano, nell’altra mano il
libro, ai piedi le ciabatte e ciao, via verso casa che non
riesco proprio a stare tranquillo con il pensiero della famiglia del moccioso nella stessa spiaggia in cui ci sono
anche io.
Parco Sant’Andrea, una mattina di fine aprile. Il cielo
senza manco una nuvola, limpido talmente che l’azzur-
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ro luccica. Osservo la chiesetta del XV secolo, i muri di
làdiri, le travi in legno mangiate dai tarli, le palme sistemate di recente sul retro, i piccoli alberi che fra trent’anni forse vedremo fare ombra.
La messa domenicale è appena finita e un gruppetto di ragazzini organizza la solita partita di pallone. Le
mamme fanno capannello poco distanti. A turno si rivolgono al proprio figlio e poi riprendono la chiacchiera. Mi arriva una pallonata che mi fa volare gli occhiali;
i bambini ridono tutti, e pure le mamme ridono, qualcuna alza una mano per chiedere scusa e io accetto le
scuse ricambiando il gesto. Raccolgo gli occhiali e poco
distante dalla panchina dove siedo riprende anche il
gioco e le chiacchiere delle mamme e i rimproveri persi nel vuoto. Il pallone rotola verso di me, lentamente, e senza nemmeno guardare mi alzo in piedi e tiro
una puntera in direzione dei bambini che iniziavano
a richiedere il pallone. Sento spach e poi buuum. Alzo
gli occhi e vedo un ragazzino coi cappelli rossi riverso
sull’erba, abbattuto dal mio tiro. Mi precipito verso il
ragazzino che intanto ha iniziato a strillare. Gli dico che
va tutto bene, di non strillare. Gli dico che mi dispiace,
di non strillare.
«Va tutto bene bambino.»
Gli dico che non l’avevo visto arrivare. Lui smette
di piangere d’improvviso, mi guarda e mi sputa e poi
riprende a urlare come un pazzo. Fanculo moccioso
dimmerda. Mi sollevo e vedo che le mamme stanno accorrendo, tutte, ognuno tiene la borsetta stretta fra le
mani come se quella fosse l’arma con cui affrontarmi.
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Abbaiano mentre si fanno vicine. Dietro di loro gli altri
ragazzini.
«Cosa sta facendo? Lo lasci, lasci il mio bambino, delinquente.»
Lo lasci? Lasci il mio bambino? Delinquente?
«Mi dispiace, non…»
«Cosa ha fatto al mio bambino?»
«Non volevo» faccio io, le mani iniziano a sudare.
Non volevo.
E i bambini col dito puntato: «È stato lui, l’abbiamo
visto noi.»
La madre del moccioso continua ad insultarmi; noto
che le si gonfia una vena sul collo ogni volta che strilla: come potevo prendermela con un ragazzino di otto
anni? Come può, dico io? Come posso?
Chiedo se hanno bisogno di andare al pronto soccorso: «Posso accompagnarvi io, non è niente di grave, è
solo una pallonata.» Ma questa donna dai ricci fitti color
prugna continua ad insultarmi e mi dice chi mi credo
d’essere che anche loro hanno la macchina per andare
al pronto soccorso.
«Se ne vada!» mi urla a un centimetro dalla faccia.
«Essì che me ne vado…»
Accendo la macchina e mi trovo davanti un uomo
poco raccomandabile che bussa al finestrino. Ora potrei
raccontare che Cirenaica è sceso dalla macchina e guardando l’uomo poco raccomandabile negli occhi gli ha
detto che è stato un incidente e il ragazzino coi capelli
rossi frigna troppo. Sì, è vero, potrei anche raccontare
che Cirenaica ha affrontato a muso duro la situazione.
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Potrei, certamente. Invece dico la verità: ho messo la retromarcia e sono scappato verso casa.
Come scappo adesso, con le scarpe in mano e il telo
da mare sulle spalle, verso casa.
65
Facile
S
cruto gli alberi che si muovono impercettibilmente,
la finestra è chiusa e il sole scalda il divano di cucina. Ancora il telefono che squilla, Germano mi dice
che stasera suona alla Galleria di Villasimius, un locale
elegante, pieno di candele e cuscini bianchi.
Va bene, ci vado. Ma con chi?
Magari con Nadia, nessun impegno come sempre,
uno sguardo d’intesa, i nostri occhi che luccicano e i
corpi che si attaccano, sempre così. Niente domande
complicate, niente supposizioni su cosa sarà domani.
Con Nadia non si progetta nulla: sì, vive. Nadia non ha
interesse a le chiusure, macchia la sfera – di tempo e di
spazio – senza ripetersi. Nella sua macchina parcheggiata sopra la baia di Santa Caterina dentro era caldo di
pelli e salive; e mi allungavo senza ipotizzare scadenze.
(E invece devo andarmene: ciao Nadia.)
«Ciao Decimo, ci sentiamo presto.»
Di quel pomeriggio ricordo le mie mani tremanti e insofferenti per non aver potuto completare l’opera. Non
è solamente una questione fisica e quindi i dolori che mi
hanno accompagnato tutta la sera, è un equilibrio che
viene a mancare, la terra sotto i piedi che sparisce d’improvviso, il cielo che cambia, la complicità di due vite
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mescolate in un’unica soluzione che evapora lasciandomi solo davanti al cancelletto di casa mia a salutare il
posteriore della sua Opel grigia che si allontana.
Ciao Nadia.
«Decimo? Ciao…»
«Ciao Nadia.»
Mi dice che è al mare con degli amici e che non tornerà prima di domani sera. Niente Nadia quindi. Niente
labbra morbide, capelli sottili e occhi scuri, niente terra sotto i piedi che si sbriciola e noi cadere avvinghiati
nell’ultimo abbraccio.
«Un caffè una di queste sere?»
«Ciao Nadia.»
Perfino la piazza si sarebbe stretta attorno a noi, abbracciati dal mattonato d’attorno e dai turisti coi pantaloni leggeri e il borsello a tracolla. Avremmo avuto
abbracci da Germano e dal suo gruppo – i musicanti li
chiama Francesco – e i bicchieri si sarebbero sollevati
dalla morsa della musica troppo alta; sorridenti, avremmo potuto sentire il dindinnìo dei nostri passi verso la
spiaggia e le macchine avrebbero abbagliato le nostre
figure tenute strette l’una al braccio dell’altra.
Non saremmo stati soli.
Provo a chiamare Giorgia. Il telefono squilla ma lei
non risponde. L’avrò chiamata quattro volte, forse cinque. E allora? E allora scorro mentalmente l’elenco delle
persone che mi piacerebbe avere accanto nella notte di
Villasimius: luci basse, musica, bottoni orfani d’asole,
pelli abbronzate che si sfregano sul mio corpo sudato,
ubriaco, il mio viso sorride perché mi sto divertendo, gli
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applausi si sprecano, le tette i culi sono in bella mostra,
il mio viso sorride perché mi sto proprio divertendo; la
cameriera è gentile, e ogni volta che mi porta da bere le
lascio un euro di mancia; mi guarda e sorride anche a…
…a chi?
A Giorgia magari. Sì, se mi rispondesse al telefono
sorriderebbe sicuramente anche a lei la cameriera gentile.
Fuori dal Bar Flumini c’è la moto di Sylvia. Potrei
andare con lei stasera? Magari in moto: bacerei tutte le
curve che salgono a Villasimius stringendomi ai suoi
fianchi e carezzandoglieli di tanto in tanto, e poi alla
Galleria, i suoi riccioli biondi che mi danzano davanti e
magari il suo collo che inizia a sudare e io la tocco e poi
mi odoro le mani, e lei ride e mi bacia, e anche le labbra
sembrano sudate.
Entro e saluto, ma come sempre non risponde nessuno. La vecchia davanti a la cassa alza lo sguardo e
subito ritorna con la testa china. In fondo al bar ci sono
due uomini che giocano a carte, potrei andare con loro
alla Galleria di Villasimius, giocheremo a tresette senza
il morto perché ci porteremo dietro anche l’omino che
suona il pianoforte ed è bianco in viso.
Mi avvicino all’allievo e gli chiedo come si chiami l’omino gobbo che solitamente suona il pianoforte.
«Lo conosce?»
Batte le dita sul tavolo e guarda il pianoforte aperto e
vuoto senza l’omino ricurvo sopra.
«Ci vediamo domani» gli dico. E mi avvicino sorri-
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dente al bancone. Sylvia mi guarda, si raccoglie i capelli
piovorno, ma non sorride.
«È da un po’ che non ci vediamo» le dico girandomi
con la testa da una parte e dall’altra.
«Veramente ci siamo visti stamattina» mi fa lei ritirando una tazzina sporca poco distante da dove mi sono sistemato. Osservo il movimento veloce della sua mano:
prende la tazzina, apre l’acqua, mi ripete che ci siamo
visti stamattina proprio di fronte al bar.
«Sì, hai ragione… comunque intendevo che è da a un
po’ che non ti vedevo dietro il bancone.» Ho cambiato
il tono della voce, sono quasi impaurito. Credo che non
le chiederò se stasera mi porta con la sua moto a Villasimius: l’aria umida di salsedine mi accontenterò di
ascoltarla dal finestrino di una macchina.
«È da un po’ che non mi vedi dietro il bancone perché
ero in ferie. Anche io ho diritto alle ferie, non credi?»
Mi domando se questa corpoduro del cazzo lo faccia
apposta o cosa. Ma certo che ne hai diritto, e chi ti ha
detto il contrario?
Sorseggio in silenzio il mio caffè, leggermente amaro,
come il sangue che gocciola dalla corazza che indosso
e forma una pozza sul pavimento. Fisso il pavimento
anni ottanta del Bar Flumini, e sopra la polvere e lo
sporco e le piedate c’è una pozza del mio sangue che
aspetta l’esercito di mosche per il consueto banchetto.
Eccolo il deficit di comprensione, si trasforma in sangue
perché a me fa male non essere compreso, e gocciola
senza soluzione di continuità, e io incapace di fermare l’emorragia barcollo alla vista di tanta amarezza, mi
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aggrappo all’attimo che sto vivendo con tale forza e intensità da oscurare il resto del creato, ci siamo io e il
caffè, tutto il resto è ricordo del dolore e per questo me
ne allontano. Sylvia non la guardo più, mi sento così
quando non trovo il punto d’incontro, quando faccio
tardi all’appuntamento, mi danno per non aver compreso. E allora l’esercizio è sempre il medesimo, sollevarsi
e guardare il Bar Flumini dall’alto: un uomo solo, io,
che osserva Sylvia ondeggiare fra le tazzine da lavare,
due uomini che giocano a carte, l’allievo al tavolino, il
pianoforte vuoto e la signora vecchia alla cassa.
Nessun altro rumore.
In macchina il vecchio motore muove la valanga che
s’ingrossa durante la discesa a valle, energia d’acqua, e
dopo l’ultima curva basta il passo suo strisciato sull’asfalto e il telo da mare legato in vita: Anita Santa Cruz,
una pagina ancora, forse l’ultima, per quella mano che
si solleva e per le labbra che si aprono in un ciao. Ciao
Anita.
Dovrei fermarmi?
Non devi fermarti.
La macchina singhiozza, calco la frizione, che marcia
metto?
La seconda.
Anita l’ho appena superata, mi guarda, la vedo dallo
specchietto, la macchina cammina lenta, un colpo di freno e di nuovo lentamente andare.
Mi fermo?
Non devi fermarti.
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Anita non mi guarda più, ha ripreso la sua camminata
verso la spiaggia.
Ecco, un passaggio, sì: metto la retromarcia.
Dove cazzo vai?
Le do un passaggio.
La macchina si muove in retromarcia verso di lei,
Anita si ferma, mi guarda, sorride, ha ancora pochi elementi per capire quanto sia imbarazzato davanti al suo
corpo, non interpreta la mia agitazione.
«Ciao Anita, non entrava la retromarcia» faccio io manovrando avanti e indietro sul cambio.
«Ciao Decimo.»
«Vuoi un passaggio fino in spiaggia?»
Sale in macchina e io mi aspetto che da dietro qualche
muretto possano sbucare due occhi indiscreti. Non la
guardo, non riesco. Ascolto.
Anita mi chiede di mia madre: «È rientrata dal viaggio?»
Le dico di no, che starà fuori ancora qualche giorno.
Ancora una domanda, immediata, come se avesse un
elenco di domande già pronte; la sua voce solletica le
mie orecchie e danza dentro l’abitacolo della macchina:
«E tua sorella? È da un po’ che non la vedo.»
Rispondo che la vedo poco anche io e per la prima
volta la guardo e mi guarda anche lei, un attimo di sublimazione, il tempo di ricordarmi che tornerai Anita
Santa Cruz. Non me ne volere se stasera non ti porto
con me a Villasimius, non ce la faccio proprio, non reggerei mica tutti i quaranta chilometri di curve sotto il
cielo lunato, e a destra – magari – il mare strisciato di
giallo e tu che parli della scuola e delle mani di lui che ti
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hanno fatto godere e mi chiedi quando arriverà il temporale e sono obbligato a rispondere anche alla domanda successiva: cosa faccio stasera? Mi piacerebbe, Anita
Santa Cruz, mi piace e non dovrei, devo andare, ma prima devo rispondere.
«Non lo so ancora, forse vado a Villasimius perché un
amico suona alla Galleria.»
(Adesso Anita aprirà lo sportello e raggiungerà Ludovica e gli altri amici in spiaggia. Vi siete detti tutto, alla
prossima. Lentamente inserirai la retromarcia, e poi a
casa per trovare qualcuno che ti faccia compagnia fino
alla vecchia città del carbone. Anche un cane.)
«Noi domani facciamo un fuoco in spiaggia, vieni?»
Che bello sarebbe.
Cosa?
Vederti fiammeggiata dalle onde nella notte, che bello
sarebbe.
«Ti faccio sapere» le dico; aggiungo un Ciao Anita e la
osservo allontanarsi: Ciao Anita.
Ripasso quei dieci metri di camminata fino ai due
massi dell’ingresso in spiaggia, anche se l’idea di Anita
m’infastidisce, pensarci mi rende accerchiato e additato. La sua presenza invece, ah, la sua presenza è una farmacia alfanumerica, segni e profumi, silenzi e rumori;
le parole le utilizziamo per illuderci che apparteniamo
ancora a questo mondo; le parole che scambiamo sono
fatte per resistere, rimanere aggrappati a questi muri,
camminare su queste strade. Mi guardo intorno, cerco
di scorgere all’interno dei giardini eleganti qualcuno
disposto a puntarmi contro il suo dito: tu! direbbe. E
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penserei che in fondo ha ragione e magari glielo direi
pure: hai ragione a puntarmi quel dito. Sì, avrei bisogno
proprio di questo: un dito contro, un’accusa e tutte le
conseguenze, compreso un linciaggio per aver sognato
lo sguardo (im)pudico di una quindicenne.
(Anita Santa Cruz. Confini violabili di pelle dorata o
viso di bambina che timidamente si affaccia. Microfoni
e taccuini per un evento che si consuma giorno dopo
giorno, diventa oggetto d’arredamento, fedele compagno di vita. La morte improvvisa di una quindicenne
vi accompagnerà nelle faccende domestiche, a lavoro,
nelle discussioni del sabato sera. L’evento vi sarà imposto senza che voi lo vogliate, la solita pillola per addomesticare la massa.)
Il telefono squilla e ancora spero che sia Giorgia e la
sua rivoluzione. Invece è mia madre, che mi racconta
Bilbo, ma la chiama Bilbao: sul Ponte Calatrava si è fermata per seguire la corrente del fiume Nervión fino alla
foce, incrociando ferro di gru e mattoni: «Ma tu l’hai
studiata l’archeologia industriale di Bilbao?»
Penso a Germano e Ciro, al Paseo de Uribitarte, poggiati coi gomiti sulle ringhiere bianche a odorare il fiume – la temperatura del mio corpo, fin dalla mattina,
si manifestava con brividi lungo la schiena: avevo la
febbre. E quindi non lo so, mamma, e rispondo che sì
oppure in fondo forse. Mia madre se ne accorge e il suo
orgoglio la sollecita a chiudere velocemente la telefonata. Sbuffo quando sto chiudendo il telefono e sbuffo an-
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che tornando verso camera. Ma dopo che mi siedo non
sbuffo più e penso che magari mia madre non stesse
aspettando altro che sentire la mia voce, tutto il giorno
che pensava a quando sarebbe risalita in camera dopo
la cena e avrebbe digitato il numero di casa, con il cuore
colmo di emozione che ormai è già qualche giorno che
non ci sentiamo – e lei se potesse mi chiamerebbe ogni
giorno. Quindi da una parte mia madre tutta contenta
di sentirmi e dall’altra io, o forse solamente il mio egoismo, senza alcuno spiraglio per contaminazioni esterne
se non quelle che richiedo io stesso.
A volte mi sento uno che non sa ricevere, e quest’ultima frase rimbalza nella mia testa e le parole di Luisanna
sovrastano il chiacchiericcio del baretto in cui beviamo
una birra: per non sentirsi soli bisogna saper ricevere. Cazzate penso, e faccio quello che avrei voluto fare quel
giorno: alzarmi. In cucina, indispettito, mi guardo intorno, apro il frigo e lo richiudo, torno in camera e mi
accendo una sigaretta.
Per non sentirsi soli bisogna saper ricevere.
Prima Luisanna l’ha scritta nel taccuino, questa frase,
e poi me l’ha ripetuta guardandomi, la bottiglia di birra
la teneva a mezz’aria, la musica era nella sua voce piena d’amore, un amore che non ho voluto ma è arrivato,
l’ho sentito bussare.
«Ti piace saperti solo perché è suggestivo, letterario,
facile. Perché chi è solo veramente ha paura perfino di
pensarlo. Ma forse un po’ lo sei… È più difficile ricevere
che dare. Credo che per non sentirsi soli bisogna saper
ricevere.»
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«E quindi io non saprei ricevere?»
Luisanna non mi risponde subito, e quando lo fa rimarca il fatto che sia più facile dare che ricevere, e mi
dice che io sono molto generoso e pure lei si sente generosa: «Dare o darsi possono scattare in automatico,
quasi d’istinto. Ricevere significa accettare, pensare,
capire quella mano tesa. E a volte quella mano non la
vogliamo capire, non abbiamo tempo per fermarci perché magari in quella mano c’è qualcosa che fa luce e noi
invece preferiamo il buio.»
Ci sono luoghi in cui ho terrore di addentrarmi e Luisanna sembra che ci sia da sempre, e mi prende la mano
e me li fai conoscere. Sono miei quei luoghi ma a me risultano sconosciuti, e Luisanna invece me li descrive, si
siede, accavalla le gambe, parla… Mi sembra di essere
passato sotto una enorme lente di ingrandimento e lei
sopra che ha guardato e annotato tutto. Ha fatto una
radiografia del mio stare al mondo, studiato i miei gesti,
registrato i miei suoni. Ha scoperto i vicoli più stretti
della mia mente, scritto sul mio corpo tutte le parole che
poteva contenere. Forse mi ha fatto paura questa sua
maniacale lucidità; o magari l’ossessiva ricerca della verità e di tutte quelle certezze che obbligano a una scelta.
Forse preferisco vivere senza conoscermi. Forse.
Seduto come sono sul divano di casa non penso più
alla serata di Villasimius, ma a tutti gli angoli bui che
dovrei illuminare. E fra questi il desiderio di solitudine,
che potrebbe essere anche bisogno, ma che si trasforma
in una maschera che indosso senza conoscerne i contorni.
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Fuori è quasi giorno e io non ho praticamente dormito. Sono stanco, gli occhi mi si chiudono ed il caffè mi ha
fatto tornare dei fastidiosi bruciori di stomaco.
Sento la porta dell’ingresso aprirsi. Mi alzo di scatto e
me la trovo di fronte con la faccia stanca, due borse che
molla appena dentro casa.
«Ciao Decimo» mi fa mia sorella sedendosi sul divano.
«Ciao.»
Non ricordo l’ultima volta che ci siamo incrociati, forse due notti fa, quando Giovanni Santa Cruz ha suonato
in piena notte per chiedere di Anita.
«Ma cos’eri sveglio?»
«Non riuscivo a dormire. Dov’eri?»
«Sono stata due giorni a Villasimius e ieri ho sentito
Germano e il suo gruppo suonare alla Galleria. Mi ha
detto che ti ha pure chiamato.»
«Sei stata alla Galleria?»
«Sì, sono stata alla Galleria. Sei sorpreso?»
E intanto si alza e fila in bagno. Tiene la porta aperta, io raggiungo camera sua e mi distendo sul letto, di
fronte al bagno, di fronte a lei che si lava i piedi. Ho voglia di ricevere, penso, e devo farle una domanda, una
qualunque.
«E Germano quindi?»
«Germano cosa?»
«L’hai visto?»
«Sì, te l’ho appena detto. Ora mi faccio la doccia, scusa.»
E chiude la porta, e io sempre seduto sul suo letto,
adesso a fissare la porta del bagno su cui il nuovo sole
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inizia a posarsi. Penso: ma che senso ha lavarsi i piedi
prima di farsi la doccia? Mia sorella appena dentro il
bagno ha sistemato i piedi sul bidet, li ha lavati e se li
è asciugati. Poi ha chiuso la porta dicendomi che si sarebbe fatta una doccia. E di lì a poco l’acqua ha iniziato
a scrosciare.
«Scusa» le dico bussando alla porta, «ma perché ti lavi
i piedi prima di farti la doccia?»
«Cosa?»
«Perché ti lavi i piedi prima di farti la doccia?»
«Non lo so, lo faccio in automatico.»
Passo la mano sui nodi della porta, ascolto l’acqua e
credo non riuscirò a raccontare a mia sorella cos’è successo questi giorni: Anita Santa Cruz e Luisanna Gerace
si sono prese le mie parole liberandomi dal discorso, mi
hanno relegato nell’angolo dell’atto, dove ogni movimento suona di corpo. Non riesco a manifestare alcuna
debolezza in sua presenza, ed il motivo risiede nel fatto
che lei conserva per troppo tempo le zoppicate altrui
comprese le mie. E non riesco perché è capitato di provare dolore per le sue lance, San Sebastiano legato. No,
devo difendermi in qualche modo, l’estate abbassa il
mio livello d’immunità, fa caldo, il sole scioglie le mie
ali di cera e l’acqua del mare a quest’ora è troppo fredda
per una nuotata.
Facile.
È sempre bastato poco per spezzare il cordiale incantesimo della convivenza. Fragile e facile, come chiamarsi fuori dal discorso per lunghi periodi, a volte anche
dei mesi.
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Fragile e facile.
E allora mi dico che organizzare le differenze sia uno
dei giochi più stimolanti della nostra epoca. Organizzare le differenze è consentirle, accettarle senza giudizi.
Proviamoci almeno.
«Vado a dormire» le dico.
«Cosa?» mi chiede lei sotto il rumore dell’acqua.
«Vado a dormire, sono stanco.»
«Buon risposo. A più tardi.»
Touché, Cirenaica.
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Trasparenza
I
ntanto che la Rossa dal viso porcellanato prepara il
caffè, l’allievo mi indica la sedia e la sposta per farmi
accomodare: «Ieri ha suonato per me. Si chiama César
Franck.» L’allievo torna a muovere le dita sul tavolino,
si corregge e riprende il tema dall’inizio: «La piccola
frase è una sonata per piano e violino; César mi ha confidato che è piuttosto mediocre.»
La Rossa, nel frattempo, ha sistemato il mio caffè sul
bancone; l’allievo non stacca lo sguardo dal pianoforte
vuoto; la vecchia signora alla cassa mi indica la pila di
quotidiani: «Oggi sono usciti i giornali, magari c’è pure
il suo articolo.»
L’allievo sorride, immoto, e mi dice che il caffè si fredda. Forse irride la mia assenza pubblicata sul giornale
– avrà letto il mio articolo? Forse ci vediamo domani.
Bevo il caffè, saluto la Rossa, mi dirigo alla cassa, prendo il giornale, pago e vado via senza salutare.
Ecco la mia foto. Ecco il mio articolo.
Ma che titolo è? Un caldo cappuccio salverà i nostri
ghiacciai. Io dico esattamente il contrario, quel telo in
PVC non salverà proprio niente. Il mio articolo è dilaniato, svuotato di senso e con un titolo che non riconosco. Chiudo il giornale e dopo quattro curve sono a
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casa. Sbatto la porta e corro in camera ad accendere il
computer. Si alza mia sorella, le dico che mi hanno pubblicato l’articolo e che me l’hanno storpiato. Non dice
nulla e si rimette a letto.
Alla cortese attenzione del direttore Ciprialotti. Il
nome dovrò metterlo? Gentile direttore. No. Gentile Direttore, maiuscolo va meglio. Gentile Direttore, mi chiedete articoli di 1500 battute… Non è vero, non mi hanno
mai chiesto nulla, sono io che glieli mando perché mi
piace troppo vedere il mio nome in chissà quantemila
copie. Quindi. Gentile Direttore, vi ho mandato un articolo di 1500 battute ed ho trovato pubblicato un articolo
di 800 battute, con un titolo che lascia intendere il contrario di quello che intendevo io. Insomma un disastro.
Magari quest’ultima frase la tolgo. Rileggo. Ci penso.
Per ora non spedisco niente.
Alla redattrice capo scrivo adesso però: Cara Adriana. Dipende da lei ovviamente, quelle pagine ricadono
sotto la sua responsabilità. Cara Adriana quindi. Cara
Adriana, vi ho mandato un articolo di 1500 battute e
ne avete pubblicato uno di 800: mi avete sventrato l’articolo. No dai, sventrato è troppo forte. Cara Adriana,
vorrei farle notare che il titolo è fuorviante, lascerebbe
intendere il contrario di quello che io sostengo. Punto.
Rileggo. Ci penso. Per ora non spedisco niente manco
a lei.
Caro Guido, a te posso dire quello che penso senza
problemi. Caro Guido, gli accordi erano altri. Veramente non c’erano accordi. Già. Caro Guido, comincio ad
averne abbastanza della vostra censura sottile. Esa-
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gerato? Caro Guido, non prendo un centesimo per gli
articoli che scrivo e mi chiedo se possa bastare la foto
subito sotto il titolo, la mia faccia ingannata dal senso
ribaltato, dal taglia e cuci di un redattore distratto, e mi
rispondo di no, che non può bastare; poi mi convinco
che sì invece, basta l’immagine, perché se anche fossero le più chiare di tutto il giornale, le mie parole, non
verrebbero comprese. E se venissero comprese magari
verrei pure emarginato. Ecco ci sono. Caro Guido, vi ho
scoperto, mi state emarginando: distruggete i miei articoli, li rendete innocui e poi li pubblicate. Ma scusa:
tanto vale non pubblicarlo, non credi? Caro Guido. Rileggo. C’è scritto solo Caro Guido. Questa non la salvo
nemmeno nelle bozze della posta in uscita. Ho voglia
di camminare. Esco. Non prendo la macchina. Mi sorprendo continuamente quando attraverso queste strade
semideserte: un cane abbaia il mio passaggio, un uomo
mi guarda e si solleva il cappello.
«Salute» rispondo.
L’ultimo tratto di strada è contornato da oleandri in
fiore, carichi di colori e foglie che debordano sulla strada. Poi i due massi.
C’è tanta gente in spiaggia e se non fosse per lo scempio del Signor Cees ce ne sarebbe perfino di più. Il mare
si allunga piatto fino all’orizzonte, nemmeno un soffio
di vento ad incresparne i contorni. La voce di Baffone
sovrasta il brusio da ombrellone: non sento i commenti sulla recente risoluzione dell’ONU, sull’afa di questi
giorni e sul ferragosto e le vacanze degli italiani; e poi
il cinema e la musica, le donne e i motori, i matrimoni,
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le fiamme estive, gli incendi, il caldo, l’umidità, le onde
del mare, le pietre e il Signor Cees.
Sovrasta tutto e tutti la voce di Baffone.
«Questa zona l’ho vista crescere, io. Quando sono arrivato non c’era nessuno. Il primo chiosco, il mio. Ogni
anno verso Maggio pulisco la spiaggia. Era più larga
prima, venti metri più larga. Guardate adesso, guardate! Tutte pietre sono. E non le posso nemmeno togliere.
Me ne frego dei rifiuti speciali, io. Ogni giorno ne porto
via una busta, di pietre, ogni giorno. E le butto nel fiume e me ne frego. Guardate qua davanti, solo sabbia,
manco una pietra: ho fatto tutto io.»
Appena stendo il telo per sistemarmi in un buco di
due metri quadrati, fra una coppietta tutta aggrovigliata e un ombrellone formato-famiglia con tanto di nonna
al seguito, vedo un uomo che agita le braccia verso di
me: è Gottardo, quello che abita sopra casa mia.
Ricambio il saluto e mi avvicino con passo spedito.
Sorride, mi stringe con forza la mano, si accende una
sigaretta e mi fa cenno di sedermi.
Cerco Dodo con lo sguardo ma non lo vedo.
«Siamo stati ad Alghero, ospiti di un amico. Ti ho parlato di Raffaello, vero?»
«Mi pare di sì» gli rispondo. «Quello eccessivo?»
«Esatto, proprio lui.»
Ridiamo. Poi Gottardo mi racconta di questo locale
di Alghero che sembra una grotta, con le pietre sudate e l’umidità che si taglia a fette, e sopra un palchetto
di legno un trombettista che suona e un contrabbasso
che l’accompagna. Mi dice che è un locale gay e magari si
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aspetta che la discussione di qualche giorno fa prosegua:
perché un locale gay? che bisogno c’è di caratterizzare
sessualmente un locale? ci dovremmo aspettare tutto un
mercato riservato ai gay? dalla cucina al bagno, dall’abbigliamento agli accessori? E intanto che Gottardo mi racconta di Raffaello che dà il via all’ammucchiata dentro il
locale spompinando il trombettista, e di lui che si butta in
mezzo e di Dodo incazzato che se ne va nel bar di fronte
a guardare una partita di Cricket e a bere birra scadente,
io penso al business del mercato gay, e anche sforzandomi
non ci trovo tanta differenza tra un frigorifero gay e uno
etero.
Vado a bagnarmi i piedi, l’acqua è fredda, e quando alzo
lo sguardo la vedo che cammina verso di me, Anita Santa
Cruz. Passeggia distratta sulla bàttima; accanto a lei c’è
Ludovica. Ridono. Si dicono qualcosa e mi guardano.
Dovrei entrare in acqua, adesso, e fare una lunga nuotata. Non vi ho viste, mi dispiace, sono senza occhiali.
Devo entrare in acqua, adesso, e fare una nuotata fino
a che le braccia non mi fanno male. Non vi ho viste, mi
dispiace, sono senza occhiali.
Sarei dovuto entrare in acqua.
«Ciao Decimo» e mi schiocca due baci e un po’ mi vergogno a farmi vedere in costume, e mi vergogno che mi
dia due baci di fronte a tutta questa gente.
Ma poi guarda come sto messo, non mi si può guardare in costume, ho la pancia della birra, sono magrissimo,
pure i peli nella schiena. E poi dietro di me, qualche metro
più in là, c’è Gottardo ed è arrivato pure Dodo. È vero,
Gottardo non si cura di queste cose, anzi potrei pure
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raccontargli qualcosa. Dodo invece mi preoccupa, è
uno che queste cose le osserva. E infatti appena mi giro
Dodo sta seduto e guarda verso di noi e saluta con la
mano. Gottardo invece sta sdraiato di schiena e gronda
sudore.
«Ricordati che stanotte facciamo il fuoco in spiaggia»
mi dice Anita mentre io muovo il piede sopra la risacca.
Non rispondo, ma faccio un sorriso come dire sì, tranquilla, come potrei dimenticarlo. E appena mi giro verso Dodo il sorriso lo maschero con uno sguardo scocciato e annoiato: cosa vorranno mai queste ragazzine?
Estate, sorrisi, falò in spiaggia e bagno a mezzanotte.
Ho trent’anni io, queste cose le ho già fatte. E quando
ritorno con lo sguardo su Anita e Ludovica, mi hanno
appena detto che continuano la loro passeggiata.
«Allora ci vediamo, ciao.»
Raggiungo Dodo e aspetto che dica qualcosa, qualunque cosa così che io possa capire cos’ha capito. Ma non
dice nulla e allora prendo il mio asciugamano e dico che
devo andare, sorridente. Gottardo nemmeno mi saluta,
sicuramente si è addormentato.
Dentro casa, seduto sul divano, ritorno in spiaggia:
ci sono Anita Santa Cruz e Ludovica che mi parlano
e ridono, e le grida di Baffone arrivano nitide, ma noi
continuiamo a scherzare e a programmare il falò di stanotte. Io un po’ mi vergogno e si vede da come muovo
le mani quando parlo. E poi tra una frase e l’altra mi
guardo i piedi, e il destro – di piede – lo faccio dondolare sul pelo dell’acqua. Si vede da queste piccole cose che
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mi vergogno a parlare con loro. Mi sembra che tutte le
famiglie stiano guardando solo noi e parlino di me, e io
sarò l’oggetto della loro discussione a tavola: hai visto
quello lì che rideva e scherzava con quelle bambine? Ma
quali bambine, signora. E poi sono loro che m’invitano
ai loro fuochi in spiaggia, e io ci vado perché devo riempire tempo e spazi bianchi, come adesso, che è la pancia
a guidarmi, a farmi carezzare il viso di Anita Santa Cruz
e quei fianchi sgraziati, e le parole acerbe che mi rivolge dissetano eccome. Ci vorrei mettere pure Gottardo e
Dodo dentro questo tempo e questi spazi bianchi, e magari anche il compleanno di Raffaello, il locale umido di
Alghero, il jazz di una tromba che dovrebbe ricordare
una specie di blue.
La finestra è aperta ma non c’è un alito di vento e comincio a sentire un po’ di appiccicaticcio. Il cielo è basso, lo avverto quasi ossessivo con quel velo permanente
che nasconde il sole.
Suonano alla porta interrompendo il mio resoconto.
Apro e c’è Gottardo con la solita panza nuda e gli occhi
fuori dalle orbite.
«Che impegni hai?» mi chiede manovrando uno stecchino con la mano. Dopo qualche secondo di silenzio
riprende a parlare.
«Dài, vieni su da noi, abbiamo organizzato una cena
fredda.»
La porta è aperta, e il salone animato da uno zampettare frenetico: una tovaglia verde copre una lunga
tavola, e sopra ci sono una decina di bottiglie di vino
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e qualche candela accesa. Un ragazzo sulla trentina coi
capelli ingellati mi dice di entrare, prende la bottiglia
che ho in mano e la posa sul tavolo. Non vedo Gottardo
né Dodo e quindi mi avvicino al tavolo per avere un
minimo di protezione. Mi capita spesso: scelgo un luogo di appoggio (il tavolo), un luogo in cui sedermi (la
sedia o il divano) o un luogo su cui poggiare la schiena
(il muro). In questo modo mi sento protetto. Il tavolo
è il posto più vicino, il mio riparo: mi ci appoggio con
le mani e inizio ad ascoltare pezzi di conversazioni e a
sorridere quando mi guardano. Poi arriva Dodo che mi
offre un bicchiere di Bellini trascinandomi a braccetto
in un giro di presentazioni che avrei evitato volentieri. Ora dovrei conoscere i nomi di tutti, ma ne ricordo
solamente uno: Ester. Mi ha stretto la mano con forza e
appena ha sentito il mio nome ha alzato il bicchiere in
segno di brindisi.
«Alla tua.»
Alla mia?
I suoi occhi hanno scintillato, io non ho nemmeno risposto, mi sono guardato i piedi, poi ho sorriso timidamente e sono tornato nel mio nascondiglio, qui, tra il
tavolo e la finestra che dà sul giardino.
Troppo bella per essere vera dentro il suo vestito nero
coi fiori gialli e i seni liberi di aderire alla seta; sono
scappato di fronte al suono della sua bellezza, ma ora
la guardo, lungamente. Mi sono nascosto per conoscerla meglio, ma poi mi dico che dovrei essere più sincero
e prendere ciò che viene, quindi mi sforzo di non guardarla e aspetto il prossimo contatto per scoprirla nuova-
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mente. Ohei Ester, non ce la faccio: quando ride lascia
cadere la testa davanti, i capelli scendono perpendicolari
al pavimento prima che le sue mani li riportino indietro
aprendo il suo sorriso a chi le sta di fronte; ah, quanto
vorrei essere lì cara Ester, quanto vorrei essere quello con
cui stai…
…ma è Gottardo! Cazzo, devo andare a salutarlo, adesso, magari lui mi chiederà se conosco Ester e io gli dirò di
sì, certo che la conosco, me l’ha presentata poco fa Dodo.
Gli dirò così a Gottardo, e di nuovo alzerò il bicchiere
davanti a quegli occhi nerissimi, ma questa volta sarò io
a parlare: «Alla tua, cara Ester.»
E invece rimango qua, tra il tavolo e la finestra, timoroso e un po’ idiota, a buttar giù un bicchiere dietro l’altro.
Raffaello me lo immaginavo eccessivo anche nel vestire, che ne so, credevo si presentasse con un vestito pieno
di strass intonando il triangolo no, e sulla porta, urlando
come una cagna in calore, mi sarei aspettato un vi amo
puttane. Sulla porta dell’ingresso, invece, non grida nulla, manco un saluto: suona il campanello nonostante la
porta sia aperta, posa la bottiglia sul tavolo e mentre tutti urlano il suo nome, lui sparisce nel corridoio stretto e
buio che conduce alla camera da letto. E mi domando se
sia quel Raffaello eccessivo di cui Gottardo mi ha parlato,
e penso che forse forse, se mi ci metto, sono più eccessivo io. Penso questo fino a quando non fa ritorno nel
salone con indosso solamente una specie di vestaglia a
rete; la musica si alza e lui agita sopra la testa la cintola
della vestaglia lasciando la preziosa mercanzia a penzo-
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loni davanti a tutti, Ester compresa, che inizia la danza
del tatto inscenando un ridicolo balletto. Il suono della
sua bellezza adesso è fastidioso, una puntina che salta
ripetendo all’infinito l’inizio del bridge, ma tu sei legato,
costretto ad ascoltare. Raffaello obbliga Ester a novanta
sul tavolo del salone. Risa e applausi mentre mangio una
tartina dietro l’altra e alterno Bellini e vino rosso; cerco
Gottardo con lo sguardo ma non lo vedo. Dodo è l’unico
che non applaude, che non sorride.
«Scopami» urla Ester. «Scopami adesso.»
Ma Raffaello la lascia così, col vestito sollevato e le mutande scese a metà.
Continua il giro Raffaello, inscenando balletti e palpate
un po’ con tutti, maschi e femmine.
Quando mi arriva di fronte ha il viso sudato; potrei reagire in qualunque modo, la mia mente è un foglio bianco
e ci scrivo sopra per la prima volta. Sono teso, con un
tramezzino in una mano e il bicchiere nell’altra. Potrei
spaccargli il bicchiere in testa. O prendere una bottiglia
che fa pure più male. Oppure tagliargli il pisello con un
coltello. Sì, ma dov’è il coltello?
Applaudono tutti, Gottardo non lo vedo. E neppure
Dodo vedo. La musica è troppo alta.
Aiuto.
Raffaello mi danza davanti senza curarsi del mio
sguardo gelido. Mi sfiora appena, prima il petto e poi
le gambe. Potrei dargli un calcio adesso, in piena faccia.
Si mette in ginocchio di fronte alla mia patta e dice:
«Ti posso conoscere?»
Ridono tutti. E rido anche io.
90
Quando iniziano a sbottonarsi le prime camicie ho già
deciso di raggiungere Anita e Ludovica, in spiaggia.
Se non fosse per la musica sarebbe una qualunque
notte.
Una qualunque notte d’estate.
Lascio la casa di Gottardo, e dietro le tapparelle abbassate delle altre case, al buio, ci sono occhi abbramiti
che vedono il figlio di Signora Isa attraversare il giardino con una bottiglia in mano.
C’era anche lui alla festa?
Lui chi?
Il figlio di Signora Isa. C’era anche lui alla festa che
hanno organizzato Gottardo e Dodo?
Ebbene sì mie care signore, c’ero anche io alla festa,
ma non mi sono trattenuto abbastanza per vedere quello che poi voi racconterete.
Non ho visto Ester vomitare direttamente dal balcone, non ho sentito le urla di Gottardo e Dodo, il tavolo
spaccarsi in due sotto il peso di chissà quante persone, i
bicchieri volare e con loro pure qualche bottiglia, le sedie
rotolare giù per le scale, i panini e i tramezzini e le tartine
diventare un tappeto informe, Raffaello nudo che si fa
inculare all’angolo del giardino e Giovanni Santa Cruz
che prima si mette a urlare e poi inizia a lanciare pietre e
tutto quello che gli viene a tiro. Non ho nemmeno visto
la polizia mie care signore. E manco la polizia ha visto
nulla perché quando sono arrivati nei loro tabardi gualciti il condominio pareva quello di ogni giorno, coi lampioni accesi e solo qualche grillo a cantare nella notte.
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Con la bottiglia in mano, sulla strada verso il mare,
ho guardato la luna: aveva il viso di una quindicenne,
tondo e pulito, gli occhi come le piscine di Chesbòn, il
naso come la torre del Libano che vigila verso Damasco,
le curve dei fianchi un lavoro di mani d’artista. Mi è venuta incontro stringendosi al mio collo, poi ha sorriso.
Tutta la notte.
Come erano belle le sue carezze, quanto migliori del vino.
E il profumo dei suoi unguenti più soave di tutti gli aromi.
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Ricorrenze
L
’ultima immagine che ho di noi è un’immagine triste, un sipario che si chiude e noi nemmeno pronti
a salutarci come si deve, nemmeno un abbraccio, nessuna frase di circostanza, nessuna lacrima, nessun addio.
Solo una sigaretta di fretta riempita da poche parole,
poi la porta girevole e i nostri passi verso il tabellone:
Bologna, uscita numero 7, imbarco immediato.
«Ci rivedremo?»
«Magari fra cinque anni.»
E quello che mi resta è un grazie che suona blasfemo
e stonato; fa male non solo alle orecchie. Mi hai detto di
trattarla bene questa storia; ed io rispondo da qui, ché è
l’unico mezzo che mi concedo, e penso che una dedica
non possa bastare e non c’è gratitudine che non ti arrivi
sporcata da languori e nevrosi e tic. E allora me la tengo
dentro la gratitudine, perché non sarebbe compresa. E
mi pesa quando appunto, sottolineo, cancello, sposto,
dimentico, ritorno. Mi pesa perché non so tenermi nulla: io so solamente dare, e lo faccio per liberarmi. Oggi
ho soffocato quei gesti che mi hanno reso malvagio,
senza scrupoli, indegno di amore, di mani tese e occhi
verdi. Ma non mi sento migliore, c’è sempre quel macigno, quel grazie che non riesco quasi a scrivere.
93
(Fra sei mesi prenderò una nave perché Anita, nel
frattempo, continuava a camminare, e mi verrà da chiederti scusa, ancora, mica ringraziarti per gli occhi di
ogni giorno; mi sentirò indietro, smarrito a volte, e mi
alzerò dalla sedia conducendo una vita qualunque, lavastoviglie e scopa nel ripostiglio prima di fare lunghi
respiri per tenere acceso il Borkum Riff senza bruciarmi
la lingua; ci proverò lo stesso a non ascoltarmi, abbozzerò poesie, prose e musiche per kalimba; berrò acqua
dal rubinetto aspettando che ritorni, stanca e dimenticata. E tu, prima di addormentarti, mi guarderai a lungo.)
È già capitato di voler telefonare a Luisanna, sentirne quasi il bisogno. Capita adesso mentre mi avvicino
alla libreria per prendere un libro, e sono sicuro capiterà
ancora. Ci ho riflettuto e forse gli ho dato una risposta
a questo bisogno; ci ho pensato e credo di aver capito
che non si tratta di fisicità, desiderio di mani che carezzano il mio corpo nudo. Nulla di tutto questo. È semplice mente, sogno, parola. Vorrei dialogare con te cara
Luisanna, ma non chiedermi altro, nessun sospiro telefonico, nessuna mano dentro le mutande. Dovrei dirtelo? Dietro l’ipocrisia della sincerità sarebbe fin troppo
facile scorgere la soddisfazione di un bisogno, del mio
di bisogno. Il tuo bisogno è d’improvviso divenuto secondario, le tue aspettative non contano un bel niente.
Sono io che mi sento trasformato, quasi migliore. Io che
accanto ai richiami sessuali presenti nella mia rubrica
telefonica leggo ancora più solitudine, mentre accanto
al tuo richiamo ci vedo un grosso punto di domanda. E
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la novità è proprio questo enorme punto di domanda.
Ancora una notte prima che mia madre faccia ritorno
nella sua casa. Ancora un po’ di silenzio per pensare a
quanta pace potevo far crescere oltre le finestre e invece
ho bruciato nelle mie gabbie chiassose. E poi il Bar Flumini a leccare la mia solitudine, persone che incroci per
qualche ora e il giorno dopo te ne sei già dimenticato,
coppie gay che ti obbligano a sorridere, amici che vedi
due volte l’anno e pensi sia comodo averli né troppo
vicini né troppo lontani, donne che non rispondono al
telefono contro donne che ti amano, giovani quindicenni che ti hanno aperto un mondo sconosciuto e forse per
questo ti hanno fatto paura.
Ancora una notte e finirà il mio resoconto. E se qualcuno mi dovesse chiedere perché ho parlato poco di me
gli risponderei che io sono quello che mi manca. Chiuso
ametà.
95
Chi è Hilde?
M
i stringo dentro il giaccone e fumo un’altra sigaretta, forte, fino al filtro, fino a quando brucia. Cagliari è già illuminata, mi guarda maestosa dentro le sue
mura che la chiudevano invano a difesa degli invasori.
E io guardo Cagliari e le sue luci, la strada che sale, il
palazzo bianco dove la politica gioca a piegarsi. E poi
via Roma, i suoi portici e i tavolini dei Caffè, le finestre
che mi salutano e io non ho nemmeno un fazzoletto da
agitare.
Manca poco che Novembre finisca. Manca poco che
la mia nave emetta due fischi e si allontani lentamente
dalla banchina. Ogni giorno così questa nave, sempre
alla stessa ora, da Cagliari a Civitavecchia per superare
il mare che ci divide dall’Italia.
«Non hai mai concluso nulla nella tua vita.» Le parole
di mia madre si confondono col vento che fende il bavero del mio giaccone. È vero mamma, non ho mai concluso nulla, ma questa volta parto senza abbassare la testa,
come ho fatto andando via da Torino con la macchina
carica di bagagli, e mio padre a ripetermi che quel posto
di lavoro i giovani se lo sognano, che lui l’aveva fatto
per me. Mi sono salvato allora e mi salvo anche adesso:
fin da bambini ci sottraggono il desiderio, uccidono il
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grillo curioso e tutti i suoi perché: dalla scuola dell’obbligo è continuo il venir meno del significato della parola studente: da colui che desidera a macchina da lavoro
che verrà. Sì, mi manca l’università del desiderio, troppi
passi accelerati dentro la colata di cemento dei dipartimenti di Ingegneria. Troppa voglia di deserto fuor di
noi invece che dentro di noi. Devo andare.
Mia madre era rientrata da qualche giorno invadendo
la casa coi suoi rumori, i suoi odori e tutto il resto. Anita Santa Cruz non la vedevo dal falò in spiaggia e non
avevo intenzione di incrociare il suo sguardo. Quando
sentivo la sua voce però, mi attaccavo dietro le tapparelle abbassate e rimanevo a guardarla tutto il tempo,
mi riempivo così, delle parole che non sentivo, delle sue
risa, delle occhiate che lanciava alle mie finestre abbassate. Trascorrevo le notti a scrivere il mio resoconto e
prima che mia madre si svegliasse per andare a lavoro
me ne andavo a dormire.
«Perché non vieni qualche giorno?» mi ha chiesto Hilde al telefono.
«Vengo, ma ripartirò domani stesso. E magari porto
pure Ciro con me.»
«A domani allora.»
«A domani.»
Hilde fa la giornalista, e ogni anno l’ultima settimana
di agosto la trascorre in Sardegna, a Santa Teresa di Gallura nella villa del padre. L’ho conosciuta a Cagliari, in
occasione di un convegno sui diritti dell’uomo. Lei era
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inviata per il suo giornale e sedeva al tavolo dei relatori. Alla fine del convegno mi sono avvicinato: non era
bella, portava gli occhiali e sudava nel mento, aveva un
aria stanca e stranita. Oltre alla camicetta macchiata, mi
colpì l’accento romano che durante la conferenza non
aveva manifestato. Ci scambiammo i contatti, scrivendoci periodicamente sulle rispettive vite. Poi sono stato
a Roma, a casa sua, un piccolo appartamento in pieno
centro, all’ultimo piano di un palazzo dei primi del novecento. Vive sola da diversi anni. Lei e un gatto senza
nome.
«Ci siamo incontrati per caso a Campo dei Fiori» mi
ha detto Hilde. «Pioveva, e l’ultima cosa a cui pensavo
era dargli un nome.»
Ogni estate, verso la fine di agosto, Hilde mi telefona
e mi dice che si tratterrà solo una settimana e che le farebbe piacere vedermi. E io vado, prendo la macchina e
sto qualche giorno da lei, nella camera degli ospiti, con
la cameriera che la mattina mi porta la colazione a letto. Io e Hilde non avevamo mai parlato dei fatti nostri,
sempre a ridere e crastulare tipo comari sulle vite degli
altri. Forse per nasconderci non avevamo mai parlato
dei fatti nostri, per non prestare il fianco.
Io e Hilde fino a qualche mese fa ci conoscevamo appena.
La nave si allontana lentamente e Cagliari e i puntini
luminosi diventano luoghi indefiniti e sulla banchina
del porto ci si prepara per la nave che arriverà domani.
In piena notte, nel mar Tirreno scurissimo, due colpi di
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sirena saluteranno l’incrocio fra le navi: una che va, l’altra che viene.
Quando lascio la ringhiera del ponte numero due, mi
rimane nelle mani l’umido salato del mio mare, qualcosa che si attacca nel momento dell’addio. E quando
scendo le scale in ferro e le porte intorno sbattono e il
vento fischia e brucia sul mio viso e fa volare i capelli
di una donna raccolta nella sua giacchina, quando scendo le scale puntando il ponte numero uno mi sfrego la
mano sul viso così che l’odore del mare rimanga più a
lungo, e poi, seduto su una panchina di legno mi lecco
le dita per sentirne il sapore. Riparto da Zuri: ci siamo
io e Ciro fermi in questo borgo del Guilcier che conta
al massimo trenta famiglie. Facciamo una sosta per un
caffè prima di proseguire verso Santa Teresa di Gallura.
Hilde ci aspetta.
Qualche stradella parte dalla piazza interrompendo
la continuità del cerchio di case; una di queste arriva
dritta agli alberi fossili restituiti dal lago i primi del secolo scorso e sistemati in uno spettrale Parco del ricordo. Nei fondali del lago ci sono le rovine di Zuri vecchia, e quando il livello dell’acqua si abbassa esce fuori
il campanile.
Una finestra si apre e qualcuno ci guarda, una tenda
si scosta e dietro il vetro qualcuno ci guarda, dal portone di una casa esce una signora, si sistema la sedia e ci
guarda. Ci guardano tutti, ci fissano come se stessero
aspettando un cenno o una richiesta di aiuto. Is foresusu
diranno. Chissà dove vanno e chissà cosa vogliono is
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foresusu. Cerchiamo un po’ di silenzio miei cari signori,
giusto un attimo prima di riprendere il nostro cammino
verso Santa Teresa di Gallura, magari un caffè se ci fosse
un bar.
«Ma cos’è questo posto?» mi chiede Ciro. «Non c’è
nemmeno un bar...» e si dirige verso il centro della piazza, con tutti gli occhi addosso mentre io mi siedo sulla
panchina di cemento nel parco degli alberi fossili, e il
salice adesso striscia le foglie sulle mie spalle.
«Oh» mi urla Ciro, «Decimo, mi sa che ho trovato il
bar.» E sento l’eco delle sue parole cadere giù fino al
lago.
Al centro della porticina in legno è appeso un cartone
con la scritta BAR; bussiamo, ma non risponde nessuno,
poi entriamo, timorosi, in quella che sembra la cucina di
una casa invece che un bar: «C’è nessuno?» E quando
scosto la tendina della porta interna per vedere se c’è
qualcuno, un viso rugoso dentro una chioma bianchissima e cotonata mi si fa davanti.
«Cosa volete?»
«Buonass…» farfuglio indietreggiando. «Buongiorno
signora. Scusi, stavo guardando se c’era qualcuno.»
«Cosa volete?» Ci ripete aprendo il rubinetto dell’acqua e lavandosi le mani.
«Fuori c’è scritto BAR ma forse abbiamo sbagliato.»
«Cosa volete dal bar? Questo è il bar.» Ci dice la vecchia dai capelli cotonati asciugandosi le mani; queste
pareti tinteggiate di verdino sono il bar, questi poster
degli anni cinquanta, la foto di Gigi Riva con l’autografo accanto a quella della Madonna senza autografo, il
101
tavolo con i piedi in ferro tutti arrugginiti, il lavandino
bianco e la cucina a gas, il frigo grigio di una marca che
andava di moda negli anni settanta.
«Allora cosa volete?»
«Ah, scusi, stavamo guardando la foto di Gigi Riva.
Due caffè. È possibile?»
«Quella foto me l’ha firmata lui e l’ha dedicata a me
quando io e mio marito – in su celu siat – avevamo il
bar in via Roma a Cagliari.» E intanto che mette la caffettiera sul fuoco continua: «Sapete dov’è via Roma a
Cagliari? Di dove siete?»
Rispondiamo che siamo di Quartu Sant’Elena e comunque sappiamo dov’è via Roma. E lei ci dice che sua
sorella aveva un bar a Quartu Sant’Elena.
«Si chiamava Mariuccia mia sorella – in su celu siat – e
aveva il bar tra viale Colombo e via Marconi, sulla strada che porta al Poetto.»
Intanto il caffè inizia a rumoreggiare dentro la caffettiera, Ciro osserva attentamente i poster appesi al muro
e la signora coi capelli cotonati ci dice se vogliamo dei
biscotti, poi chiude il gas e sparisce dietro la tendina.
Io e Ciro non facciamo a tempo manco a fare un commento che lei torna coi caffè fumanti e si siede con noi.
«Allora? Cosa ci fate a Zuri? Qua non passa mai nessuno.»
E quando faccio per rispondere lei sparisce nuovamente oltre la tendina colorata e torna con un piattino
carico di biscotti.
«Questi li ho fatti stamattina ma non sono usciti molto
buoni. Allora? Cosa ci fate a Zuri?»
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«Stiamo andando a Santa Teresa di Gallura e ci siamo
fermati qua perché volevamo vedere il parco degli alberi fossili e la chiesa rosa.»
Ciro è silenzioso, sorseggia il suo caffè e si guarda attorno. Io continuo con una domanda: «Ma è vero che
quando il lago si abbassa spunta il campanile della chiesa di Zuri vecchia?»
«Se la croce del campanile è fuori dal lago dovete segnarvi come ho fatto io adesso» dice la signora.
Poi inizia a raccontarci di Zuri vecchia e del lago che
si poteva attraversare solo d’estate.
«D’inverno bisognava passare dai monti perché se
passavi dal lago venivi inghiottito. Poi c’è stata l’alluvione e Sa Perda Manna è scesa fino a valle ingrossando
il lago e nel giro di un paio di giorni Zuri vecchia non
c’era più, se l’era portata via il lago. Appena è caduta Sa
Perda Manna ha smesso di piovere e il lago si è ingrossato lentamente, dandoci il tempo di prendere tutte le
nostre cose. Ogni giorno, da quassù, guardavamo le nostre case sparire una per una inghiottite dall’acqua, tutte, tranne il campanile della chiesa. Abbiamo pensato
che fosse un segno e ci siamo messi a costruire la chiesa
rosa, l’avete vista? Da un po’ di tempo però è sempre
chiusa, la aprono solo per Sant’Egidio, una settimana.
Peccato, perché io ci andrei se fosse aperta e invece mi
tocca sentirmi la messa alla radio e al posto dell’ostia mi
mangio un pezzo di pane. Andate a vederla, almeno da
fuori, sopra il portale ci sono scene di festa e i passi de
su ballu tundu. Sapete cos’è su ballu tundu?»
«Sì.»
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«E lo sapete ballare?»
Scuoto la testa e torno sul mio caffè.
«Io lo ballavo da piccolo, quando da mia nonna uccidevano il maiale e facevano la festa.»
«E come si chiama tua nonna?»
Ciro non risponde subito, poi glielo dice che si chiama
Teresa e vive ad Armungia.
«E ci vai a trovarla tua nonna?»
«Sì, ci vado.»
«Bravo» fa lei.
E quando le chiedo quanto dobbiamo lei ci dice che
non fa nulla, che era da molto che non parlava con qualcuno che non fosse del paese, che i suoi nipoti non vanno a trovarla manco per Natale.
Prima di riprendere la strada verso Santa Teresa di
Gallura ci fermiamo davanti alla chiesa rosa. Ciro si avvicina, tocca una pietra e si fa il segno della croce.
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Fatuo non è il fuoco
H
ilde sarà a Cagliari per un convegno che deve seguire per il suo giornale: «Ci vediamo direttamente lì» mi dice al telefono. «Jolly Hotel, ore diciotto.»
Allo strano incontro di Santa Teresa di Gallura non ha
fatto seguito nemmeno una telefonata, tutto è finito in
quei tavolini del bar in piazzetta, nel mare cristallino,
nel parcheggio dove ci siamo abbracciati. E nel frattempo mi sono convinto che veramente le mie erano solo
suggestioni, che Hilde non mi guardava affatto, non mi
cercava, non mi voleva toccare, non mi sorrideva dallo
specchietto retrovisore. Il mio solito film, un’idea che ho
costruito io senza alcuna complicità.
Dopo il convegno Hilde saluta tutti con una stretta di
mano e poi mi raggiunge sorridente. Ha il mento sudato e appena sale in macchina ci passa sopra un fazzoletto. Attraversiamo Cagliari per cercare un ristorante,
una Cagliari trafficata e stranamente euforica. Hilde
mi guarda, poggia la testa sul finestrino e mi guarda
e sorride. Sembra non ascoltarmi quando parlo, troppo concentrata sul mio profilo. Io non credo che anche
queste siano suggestioni: Hilde insiste, indugia sui contorni del mio orecchio e mi dice che sembra disegnato
talmente è perfetto.
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Cosa vuoi Hilde? Fammi capire come mi devo comportare perché così risulto neutrale: rido se c’è da ridere, parlo se interpellato, apro il finestrino quando me lo
chiedi, ti allungo l’accendino, spengo la radio, parcheggio, scendiamo e ci avviamo verso il ristorante.
Fatti appena due passi le nostre mani si cercano, si toccano, come se fosse naturale prendersi per mano come
due fidanzati ancora in amore. Appena sento il calore
delle sue dita ritraggo la mia mano, e la ritrae anche lei.
Va tutto bene Cirenaica.
Mangiamo e lentamente ci scopriamo, nessuna suggestione quindi, era tutto vero: «Credevo fosse solamente
la mia fantasia» mi dice Hilde, «solo un’idea, e quando
sono tornata a Roma non ho avuto il coraggio di chiamarti.»
Le dico che anche a me è capitata la stessa cosa. Le
nostre mani adesso si toccano, siamo consapevoli del
contatto, la guardo dritta negli occhi, sono piccoli, di un
marrone normalissimo.
Hilde ha una camera pagata al Jolly Hotel ma non ci
metterà mai piede.
Lungo la litoranea verso casa quasi ci spogliamo. Hilde
mi bacia l’orecchio, io le sfioro i seni abbondanti, mi bacia il collo, io infilo la mano sotto la sua gonna, Hilde mi
tocca, mi slaccia i pantaloni e si abbassa su di me. Guardo
la sua testa che fa su e giù, butto indietro la testa per un
attimo e quando torno sulla strada sono nell’altra corsia.
Hilde non si accorge di nulla e continua.
La mia stanza è un carnevale di panni sporchi: camicie per terra, pantaloni, mutande, calze, asciugamani, c’è
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di tutto. Mi scuso come al solito, facendo un mucchio e
lasciandolo in un angolo del bagno. Quando torno in camera, Hilde è in piedi davanti alla libreria, guarda i miei
libri distratta, non ne toglie nemmeno uno per guardarci
dentro.
Mi siedo sul letto e quando Hilde mi viene di fronte
inizia a carezzarmi il viso, poi i capelli. Infila la mano
dentro la camicia e mi graffia la schiena. Sotto il corpetto color panna Hilde non ha nemmeno il reggiseno, e
quando slaccio l’ultimo bottone mi si fanno davanti due
tette che così grandi non mi era mai capitato di toccare.
Facciamo l’amore soffocando le parole sul cuscino, i
nostri gemiti sono appena sussurrati, mia madre dorme
oltre il muro e forse è rientrata anche mia sorella; la notte
che entra dalla finestra la illumino con due candele, la
annaffio con un vino scadente, la fumo quasi fino all’alba. La fumiamo, io e Hilde; e parliamo poco, forse ci siamo già detti tutto. Ogni tanto il suo sguardo volteggia
per aria, sbatte sui libri che abbiamo di fronte, poi ritorna su di me. Si assenta Hilde e mi sorride per scusarsi.
Facciamo l’amore, beviamo e fumiamo.
Ma le parole che mi rimangono sono troppo poche.
«Mi piaci Cirenaica.»
E mi piaci anche tu, Hilde, certo che mi piaci, ma non
mi posso concentrare su questo perché sono troppo impegnato a decifrare la tua assenza: ci sei, ma mi sembra
di non vederti.
La mattina seguente Hilde si sveglia presto, accende il
suo computer e manda al giornale il resoconto del convegno e le interviste realizzate.
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La casa è vuota, mia madre è a lavoro, mia sorella dorme ancora. Io e Hilde ci facciamo la doccia e di nuovo,
silenziosi, facciamo l’amore. Poi usciamo. Direzione Arbus e le sue dune di sabbia, un deserto di sabbia fra
corbezzolo e zinnibiri, e poi il mare. Ma prima le miniere abbandonate, un luogo dove il tempo sembra essersi
fermato. E anche io desidero fermare il tempo prima di
continuare. Desidero fermarlo e comprenderlo.
La macchina invece continua a camminare. Le strade
sono sconnesse e silenziose. E dopo ogni curva si aprono panorami di materiale di scarto.
«Ti aspetto a Roma» mi ha detto Hilde in aeroporto.
«Riprenderemo da qui, da questo bacio.»
E se giro pagina ci sono quei giorni uno dietro l’altro,
tutti uguali, giorni in cui scrivere era troppa fatica con
la mente impegnata ad immaginare il prossimo abbraccio, la sua casa che odora di caffè, il gatto senza nome
e le finestre coi vetri sporchi; giorni che ho consumato
nell’attesa: uno due tre quattro giorni di attesa, la notte a
girarmi nel letto, le mattine davanti al computer e i pomeriggi chinato sugli appunti dell’ultimo esame all’università, sempre la stessa pagina: Generalità su gas,
vapori, polveri, fibre, fumi, aerosol. Fino a quando non
mi arrivano poche parole che però devo farmi bastare.
Ho incontrato una persona a cui ero legata tempo fa, abbiamo bevuto un caffè assieme e io ero felicemente confusa. Mi
sembrava giusto dirtelo. Firmato Hilde.
Non le ho risposto, non sapevo cosa dire, se capire le
sue parole o buttarle nel cesso. Mi dicevo che poteva
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capitare e poi che non doveva capitare. Hilde era la mia
fuga, un treno che passa e non sai dove è diretto, un
complice che ti aiuta ad evadere. Hilde era la chiusura del cerchio, la prima giustificazione, la più semplice:
una donna può tutto, per una donna si perde tutto o si
conquista tutto. Lasci la tua terra per una donna, la famiglia, gli amici, l’università. Lasci una vita e ne cerchi
un’altra. Una donna ti basta. Ti basta?
Esco nuovamente sul ponte che il vento sembra essersi abbassato. Ho mangiato al ristorante, la testa china
sul mio piatto d’insalata, una cotoletta gommosa e una
frutta. Poi un caffè al bar e adesso una sigaretta. Sputo il
fumo in alto quando sento il mio nome.
«Decimo!»
Decimo?
Ludovica si avvicina a passi svelti.
Ludovica?
Io m’irrigidisco, butto la sigaretta senza motivo, affondo le mani nelle tasche del giaccone, le tolgo nuovamente fuori, alzo il bavero e di nuovo le mani nelle
tasche.
Ludovica? Che cazzo ci fa Ludovica?
Si avvicina sorridente insieme ad un’altra ragazza, mi
saluta con due baci, mi chiede come sto e mi presenta
la sua amica.
«Questa è Annapaola.»
«Piacere» faccio io.
«Ti ho visto al ristorante ma non potevo avvicinarmi,
siamo in gita con la scuola. Senti, non è che mi faresti
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fare due tiri?» Mi chiede Ludovica mentre mi accendo
un’altra sigaretta.
«Se vuoi te ne do una.»
«Nonnò, grazie, non fumo io, solo qualche tiro ogni
tanto. Comunque stiamo andando a Roma e poi due
giorni a Firenze. E tu invece, dove stai andando?»
La presenza di Ludovica mi obbliga a quel fuoco
acceso in spiaggia, gli asciugamani umidi e noi che ci
stringiamo per sentire meno freddo. Poi la mia fuga,
coi capelli ancora bagnati, e lungo la strada deserta
quell’immagine che mi ossessiona: Anita Santa Cruz e
il trentenne che si baciano, forse si toccano dentro l’acqua scura e tiepida di quella notte d’agosto. Forse Anita Santa Cruz ha raccontato a Ludovica cos’è successo
quel giorno dentro l’acqua. O forse no.
«Perché sei sparito?»
Io non sono sparito, cara Ludovica, ero dentro casa
che vi guardavo da dietro le finestre abbassate. Vi osservavo sedute in giardino, stavate consumando gli ultimi giorni di vacanza prima di tonare a scuola. I vostri
sguardi esitavano sulle mie finestre abbassate. A comprare le sigarette ci andavo la notte, quando sentivo il
portoncino di Anita chiudersi alle sue spalle. Compravo
le sigarette all’automatico e qualche volta mi fermavo
in spiaggia dove c’era ancora qualche pezzo di legno
carbonizzato, reduce del nostro fuoco, e fissavo il mare
scuro e i riflessi della luna.
Un gruppo di ragazze della loro comitiva si dirige
verso Ludovica e Annapaola.
«Noi andiamo. Ciao Decimo.»
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Mi saluta con due baci e sparisce insieme alle sue amiche sopra le scale in ferro.
Io rimango qua, ancora per un po’, a ripetermi che va
tutto bene, che Ludovica quella notte è l’unica che non
ha fatto il bagno, stava accanto al fuoco, aveva freddo.
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Mi completerà a modo suo
S
ono entrato in acqua da solo, e poi è arrivata lei, Anita
Santa Cruz: s’immergeva sott’acqua e usciva troppo
vicina a me, si attaccava alle mie gambe instabili, fiaccava
le mie resistenze. Forse giocava. Poi le mie mani hanno
smesso di giocare, i miei occhi si muovevano lenti, il mare
scuro, la notte, la luna che sbatteva sui nostri corpi bagnati avvicinandoli. È stato un attimo, una follia, un pensiero cattivo. Prima le mie mani sui suoi fianchi, poi la sua
bocca sulla mia. È stato un attimo, una follia, un pensiero
cattivo. Non volevo. In bocca il sale e la sua lingua. In
testa solo la fuga, la mia fuga verso casa, dove tutto era
la notte, ma qualcosa si muoveva ancora: Giovanni Santa
Cruz non riusciva a dormire, aveva negli occhi l’immagine di Raffaello che si fa inculare in giardino, Gottardo e
Dodo guardavano la loro casa distrutta e non capivano. Io
ho inserito la chiave nella porta e quando mi sono trovato mia sorella davanti l’ho tranquillizzata: «Va tutto bene
Francesca.»
C’è sempre qualcosa che mi manca, non riesco mai a sentirmi
completo. Quindi lo chiedo agli altri di completarmi. E ognuno
mi completerà a modo suo.
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Ho ucciso una bambina e mi merito una donna, l’ho
fatto perché non v’era femmina dentro di lei, mai avuta
se non dentro i libri che ho creduto di leggere, un piccolo sogno bambino, ecco cos’era Anita Santa Cruz, un
sogno bambino che nascondeva una donna, altro che
femmina Anita Santa Cruz, quante grazie cancellate
di cipria e matite sugli occhi e canotte luminose: Anita
Santa Cruz è la femmina che ho perso, Luisanna Gerace un’allucinazione, una richiesta mai soddisfatta, una
mancanza di silenzio delle mie rappresentazioni.
Chiudo il libro che il treno entra lento in stazione.
Il rumore delle stazioni è sempre lo stesso: annunci,
fischi, saluti, valigie, corse, biglietti, qualche lacrima e
mai un sorriso.
Non c’è nessuno che mi sta aspettando, nemmeno un
taxi ché ho giusto i soldi per mangiare una settimana.
L’orologio della stazione segna le 10.25, ma quello è
fermo dal 1980. L’altro orologio, quello che cammina,
mi ricorda che è quasi ora di pranzo e devo sbrigarmi.
Lei ritornerà per pranzo, come ogni giorno, un pasto
di un’ora e poi di nuovo a lavoro, senza nemmeno il
tempo di sedersi sul divano. Ho scritto l’indirizzo su
un foglietto, e sulla mappa della città sistemata appena
fuori la stazione studio il tragitto che mi porterà a via
Montanari.
Aspetterò che esca per andare a lavoro, magari seduto
sul marciapiede. Non suonerò il campanello, quello no.
Starò seduto, senza curarmi degli sguardi dei passanti.
E quando alle 14.00 sentirò il cancelletto aprirsi, mi alzerò e solleverò la mano.
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Stringo il foglietto fra le mani, ogni tanto lo metto in tasca, poi di nuovo a leggere l’indirizzo per intero e sempre
quel sapore ferroso nella bocca.
Questo quartiere ha il tuo nome: Cirenaica.
Mi fermo per sistemare la borsa nell’altra spalla. Le due
valigie me le tiro dietro.
Via Montanari n° 25.
Mi siedo nel marciapiede e aspetto.
Aspetto di chiudermi. Finalmente sentirmi completo.
[fine]
Santa Lurìa, 20 agosto 2006 – 25 luglio 2011
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