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Il futuro dell’Europa, rischi e opportunità in un anno di svolta Lugano 24 maggio 2016 Buonasera, è un grande onore per me essere ospite della vostra assemblea. Ringrazio l’avvocato Marina Masoni per l’invito. Le previsioni, in tutti i campi, sono destinate a essere smentite. Ma non farle è impossibile, forse addirittura colpevole. Il grande economista americano John Kenneth Galbraith diceva che “la sola funzione delle previsioni in campo economico, è quella di rendere persino l’astrologia un po’ più rispettabile”. Il mio segno zodiacale è il toro, che nel linguaggio borsistico ha un significato preciso. Cercherò, dunque, di segnalare, nella parte finale del mio intervento, alcuni elementi positivi, diciamo rialzisti, sui quali fare affidamento. Lo farò per convinzione razionale, non per influsso degli astri. Ma cominciamo dalle incognite geopolitiche che l’Europa nel suo complesso, Svizzera compresa, si trova ad affrontare. Siamo usciti dalla depressione finanziaria del 2008? Otto anni dopo la crisi del debito privato, poi trasformatasi in crisi del debito sovrano, il prodotto interno lordo (Pil) dell’Eurozona fatica a recuperare il livello del marzo 2008. In Germania è superiore del 5,5 cento. In Italia inferiore di una percentuale analoga. L’Italia ha perso circa il 20 per cento della sua capacità produttiva, il dieci per cento del reddito. La Svizzera ha ampiamente recuperato e superato quei livelli dimostrando anche la capacità di assorbire, abbastanza in fretta, l’impatto negativo del franco forte. L’Unione europea sconta gli effetti fiscali di una serie di aggiustamenti nazionali (Grecia, Irlanda, Portogallo, Cipro, Spagna) e di una perdita di peso specifico. E’ stata incapace di reagire a una congiuntura sfavorevole. Un’analisi pubblicata questa mattina fotografa assai bene la differente reazione alla crisi tra Stati Uni ed Europa. Lo studio è UBS. L’indice di Borsa S&P 500 dal 2007 a oggi ha guadagnato il 31 per cento, l’Eurostoxx ha segnato, nello stesso periodo, un ribasso del 29 per cento. La crescita, in tutti i Paesi, è più modesta di quanto, non pensassimo soltanto pochi mesi fa. Il Fondo monetario ha aggiornato le sue previsioni e stima un aumento del prodotto interno lordo (Pil) mondiale del 3,2 per cento quest’anno e al 3,5 per cento l’anno prossimo. La zona euro dovrebbe crescere all’1,5 per cento nel 2016 e all’1,6 nel 2017. La Germania all’1,5 quest’anno e all’1,6 l’anno prossimo. L’Italia all’1 per cento nell’anno in corso e l’1,1 per cento l’anno prossimo. La Svizzera è cresciuta dello 0,9 nel 2015. Le previsioni sull’anno in corso oscillano intorno all’1,5 per cento. Il quadro internazionale è assai complesso e mette a dura prova tutte le nostre convinzioni teoriche, tutte le nostre conoscenze pratiche. Se soltanto qualche anno fa ci avessero detto che avremmo avuto tassi bassi, petrolio in calo e prezzi al consumo calanti avremmo esultato pensando di poter vivere come Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll, che peraltro era un matematico oltre che un reverendo. Ma purtroppo il coniglio bianco di Carroll si è trasformato nel cigno nero di Nassim Taleb. L’eccessivo indebolimento del prezzo del petrolio ha messo in crisi banche e società occidentali (la metà delle aziende impegnate nello shale oil, nel fracking americano è fallita) e colpito le nostre esportazioni verso i Paesi produttori. La deflazione è il termometro della nostra incapacità di crescere. I tassi negativi creano seri problemi alle banche e alle assicurazioni, rendono la gestione dei debiti più problematica. I mercati finanziari sono alla ricerca di nuovi fondamentali. Gli investimenti sono la variabile più penalizzata. E il piano Juncker, dal nome del presidente della Commissione europea, in teoria di 315 miliardi di euro (ma in realtà molti meno grazie all’effetto leva) non ha ancora dispiegato i suoi effetti e vi sono molti dubbi sulla sua realizzazione. Basti pensare che al momento l’Italia – non velocissima nell’impiegare i fondi europei – è al primo posto per risorse utilizzate attraverso le agevolazioni del piano Juncker. La domanda non cresce come sarebbe necessario. Una volta si sarebbe detto che il cavallo, cioè l’economia, non beve. Ma di fronte all’eccesso di liquidità provocato alla politica monetaria della Bce, abbiamo il sospetto che il cavallo non sappia nuotare o sia addirittura annegato. Il reddito non aumenta a sufficienza. La disoccupazione si riassorbe con grande lentezza. Significativa è la flessione del peso specifico della industria manifatturiera europea. Emergono elementi che fanno temere una stagnazione secolare, ipotesi di cui discutono gli economisti. L’Europa invecchia, risparmia molto, forse troppo. E consuma relativamente poco, anche per l’allargarsi delle diseguaglianze. I maggiori consumi della parte minoritaria sempre più ricca non compensano l’indebolimento negli acquisti della maggioranza relativamente sempre più povera. L’innovazione tecnologica sostituisce al momento (io però sono ottimista per il futuro) più posti di lavoro di quelli che crea, basti pensare al settore bancario. Le grandi multinazionali hanno profitti elevati, con la possibilità di scegliersi il luogo dove farsi tassare. L’abuso di posizioni monopolistiche, specialmente negli Stati Uniti (con aiuti statali, cosa assai più rara in Europa), interroga gli osservatori sull’efficacia delle norme antitrust e fa discutere sulla necessità di promuovere più concorrenza, incoraggiando nuove attività imprenditoriali, soprattutto le start up. I governi hanno armi sempre più spuntate per correggere le storture di un’economia globalizzata. La Banca centrale europea, presieduta da Mario Draghi, ha cercato di aiutarli con una politica monetaria molto accomodante. Il quantitative easing ha creato lo spazio temporale per consentire agli esecutivi di varare le necessarie riforme, in particolare in tema di sostenibilità del welfare. Quello europeo ha un costo che equivale al 50 per cento di quello mondiale, pur essendo il Pil dell’Unione europea ormai inferiore a un quarto del prodotto mondiale. Riforme difficili. Impopolari. E il tempo passa. L’Italia ha approvato, ormai più di un anno, una coraggiosa legge sul lavoro – alla quale abbiamo dato un nome inglese Jobs Act nella speranza che funzioni meglio - che rende di fatto i licenziamenti molto più facili che in altri Paesi, incoraggia i contratti a tempo indeterminato. Gli effetti reali sull’occupazione (comunque cresciuta con il tasso di disoccupazione al di sotto del 12 per cento) si valuteranno meglio quando si saranno esauriti benefici fiscali per complessivi 12 miliardi in tre anni. Una legge analoga, ma certamente meno incisiva, quella francese, che porta il nome dell’attuale ministro del Lavoro Myriam El Khomri ha scatenato un’ondata di proteste ed è in bilico. L’età media sempre più elevata degli elettori non favorisce scelte coraggiose. Le riforme più incisive fanno perdere voti anche perché producono effetti reali in un tempo insopportabilmente lungo per la politica. Per esempio, le riforme Schroeder, soprattutto sul mercato del lavoro (Hartz), hanno richiesto quattro anni prima di segnare la svolta di cui ha beneficiato la Germania con cancelliera la signora Merkel. La politica monetaria espansiva della Bce, come prima quella della Federal Reserve o della Banca del Giappone, ha creato un eccesso di liquidità e una situazione del tutto inedita dalla quale sarà difficile uscire presto. “Il mercato dei capitali perde – come dice l’economista tedesco Werner Sinn – la capacità di distinguere tra rischi buoni e rischi cattivi”. Di valutare la bontà degli investimenti. Come si esce dal quantitative easing, perché prima o poi sarà necessario? Non lo sa ancora nessuno. E qui veniamo agli aspetti più politici dell’attuale congiuntura europea. E parlo in particolare dell’Unione europea, di Bruxelles. La crisi greca è purtroppo destinata a riesplodere, dopo il terzo salvataggio, nonostante le recenti misure del governo di Atene. Cinque anni di negoziati, decine e decine di summit. Sono stati messi 450 miliardi in un Paese che ha ancora 300 miliardi di debiti. Un Paese che però rappresenta solo l’1 per cento dell’economia europea. Ed è incredibile che non si sia riusciti a risolvere un problema percentualmente così piccolo. Il Fondo monetario si è espresso recentemente per un taglio deciso del debito greco. La minaccia del terrorismo riguarda tutti, ma nonostante quello che è accaduto a Parigi o a Bruxelles, non vi è ancora un reale coordinamento delle politiche di sicurezza. Ogni volta grandi promesse, poi la guardia inevitabilmente si abbassa. Bruxelles con le sue troppe polizie è la metafora della divisione europea. Anche sul tema dei migranti non vi è una politica comune. Se ne accorge anche il governo federale svizzero che deve peraltro dare attuazione al risultato del referendum del 9 febbraio e rinegoziare molti degli accordi bilaterali con Bruxelles. Vedremo quali effetti pratici avrà il recente accordo con la Turchia (che è stata beneficiata di tre miliardi e della promessa di un via libera sui visti). L’Unione europea, dividendosi tra Nord e Sud sulla questione della ripartizione dei migranti, ha dato una nuova prova di debolezza e di inconcludenza. Una questione, quella della ripartizione della quota di migranti, che riguarda la popolazione di una media cittadina italiana. Un po’ come l’uno per cento della Grecia. E se vogliamo restare nell’ambito delle proporzioni che segnalano l’impotenza occidentale, l’Isis, l’autoproclamatosi stato islamico conta all’incirca 30 mila combattenti. Possibile che non possa essere sradicato da una coalizione di trenta Paesi? Forse è perché troppi combattono guerre diverse, con nemici diversi? Le principali incognite sul futuro dell’Europa, dopo la vittoria su misura del verde van der Bellen nelle elezioni presidenziali austriache, sono legate al referendum inglese del 23 giugno prossimo e al voto spagnolo di tre giorni dopo. I possibili effetti di una Brexit sono stimati in una ripercussione sul pil inglese tra l’1 e il 4 per cento. Ma sono le conseguenze politiche che allarmano di più, rispetto a quelle economiche. Un’uscita di Londra darebbe di nuovo fiato alla voglia di secessione della Scozia, forse anche dell’Irlanda del Nord. Una vittoria del “leave”, il sì all’uscita del regno Unito dall’Unione europea rinfrancherebbe le aspettative catalane, contrarie a Madrid ma non a Bruxelles. Il ricorso al referendum sull’Europa, ipotesi della quale ha già parlato il leader slovacco Fico (da luglio presidente di turno dell’Unione europea) potrebbe diventare il modo attraverso il quale governi in difficoltà possono recuperare consenso e mantenere il potere. Le previsioni sul voto inglese vedono in vantaggio i sostenitori dell’Europa. Ma anche una vittoria del fronte europeo non sarebbe priva di effetti collaterali. Le concessioni a Londra per indurla a restare sono state generose. E non si può pretendere di rimanere in Europa, godendo di tutti i vantaggi e minimizzando i costi. I malumori degli altri Paesi non si farebbero attendere. La Spagna rischia l’ingovernabilità e segnala, come è avvenuto peraltro in Austria, la crisi di identità dei due tradizionali schieramenti politici, socialisti e popolari. Il dilagare di formazioni populiste e nazionaliste rappresenta un’altra seria incognita che grava sul futuro dell’Europa. La mancanza di risposte unitarie, di politiche più efficaci sul lato dell’economia, del terrorismo e dei migranti, è destinata fatalmente a incoraggiare posizioni estreme di rifiuto dell’euro e del trattato di Schengen. Ma chiudersi ed elevare muri non serve a nulla. Le elezioni presidenziali francesi e politiche tedesche del prossimo anno sono scadenze così importanti da paralizzare le decisioni dei governi e la ricerca di intese comunitarie. Le grandi incognite geopolitiche che il Continente deve affrontare richiedono sforzi comuni e l’immaginazione dei tempi migliori delle nostre storie, con leader all’altezza del loro compito e non preoccupati di perdere consenso nell’immediato. Quali sono gli elementi positivi sui quali fare affidamento in questo contesto europeo e mondiale, così difficile se non drammatico? La convinzione di poter contare - e il Ticino ne è uno dei migliori esempi - su un capitale sociale di grande rilevanza che non compare in alcuna statistica economica. E’ fatto di intelligenza, volontà, determinazione, mutua responsabilità, consapevolezza del proprio ruolo. Anche il Ticino, come molti dei migliori distretti industriali tedeschi o italiani, può contare su un grado di coesione sociale che è di per sé un fortissimo elemento competitivo. Il capitalismo dei territori, che si confronta in Europa con il modello anglosassone, con quello renano o anseatico, con quello francese, di cui abbiamo visto le difficoltà, o con quello temibile delle società postcomuniste, ha una capacità di adattamento formidabile, coniuga la creatività all’eccellenza dei materiali e dei processi produttivi, sviluppa una capacità di marketing direttamente proporzionale alla profondità delle tradizioni e della cultura. Ha, insomma, quella che si chiama con un termine di moda resilienza. Ma ha ancora un nemico temibile nel proprio senso di superiorità, che sarebbe meglio non coltivare e in una non soddisfacente capacità di ricambio fra le generazioni. Non deve guardarsi allo specchio e cullarsi sui propri risultati. Deve correggere i propri difetti. Le quattro C del capitalismo dei territori (casa, capannone, campanile, comunità) rappresentano uno straordinario fattore di coesione e di sviluppo, ma senza l’internazionalizzazione, l’apertura incondizionata alle nuove tecnologie, il marketing più avanzato e l’intuito imprenditoriale sull’evoluzione dei gusti del pubblico, il futuro potrebbe non essere così roseo. Internazionalizzarsi non vuol dire recidere i legami con il territorio. Anzi, il mondo compra prodotti che sa che vengono da questa terra e sono fatti con lo spirito della sua civiltà. Il successo di un distretto industriale dipende dal grado di coesione e dalla capacità di rinnovarsi della sua comunità di riferimento. A maggior ragione nell’era digitale nella quale si fatica a distinguere l’autentico dalla copia. E si avrà sempre più bisogno, specie nella nascente e vasta classe media mondiale, alla quale voi vi rivolgete, di certificazione di qualità, e fascino civile oltre che commerciale, di marchi, con storia e tradizioni riconoscibili e apprezzate. Grazie.