Le multinazionali tascabili - Dipartimento di Tecnica e Gestione dei

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Le multinazionali tascabili - Dipartimento di Tecnica e Gestione dei
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Le multinazionali europee e italiane: vizi e virtù
dalla fine degli anni ottanta a oggi
Fulvio Coltorti*
“La tecnica moderna, in molti rami industriali, ha fatto via via crescere, in termini
assoluti e relativi, il volume del capitale minimo necessario per avviare la produzione
a costi sufficientemente bassi: ciò crea un ostacolo «naturale» alla concorrenza.
…Sul piano teorico, il potere di mercato delle grandissime imprese di industrie concentrate rimane problematico”
Paolo Sylos Labini, Oligopolio e progresso tecnico (1967)
Le multinazionali europee sono qui esaminate dapprima sottolineando la loro
caratterizzazione di settori e Paesi e poi nella loro evoluzione nel periodo
1989-2004. Il tratto dominante dell’analisi riguarda il confronto tra i progressi dell’organizzazione e lo sviluppo del capitale finanziario. Vengono approfonditi l’aumento dimensionale, la globalizzazione di fabbriche e mercati,
il divergente andamento della produttività e della quota distribuita al lavoro. I
risultati dal lato delle innovazioni appaiono positivi, ma la nuova organizzazione globalizzata ha concorso a costituire un endemico eccesso di flussi di
cassa che sovente ha sconfinato in comportamenti viziosi. È aumentato il ricorso al mercato finanziario mediante il collocamento di obbligazioni che
hanno sostituito, ma non del tutto, il credito bancario. La riduzione dell’impronta bancocentrica e la crescente presa diretta sul mercato del risparmio sono fenomeni positivi, ma a patto che vengano predisposti per tempo sistemi efficaci di vigilanza e di indirizzo. Queste imprese, essendo oligopolistiche e naturalmente restrittive della concorrenza, sono socialmente accettabili solo se
portatrici di un continuo progresso tecnico trasferito all’intero sistema. Le considerazioni di chiusura chiariscono come il declino italiano da molti lamentato sia da ricondurre essenzialmente alla crisi delle imprese di dimensione
maggiore, il cui recupero al virtuosismo costituisce conditio sine qua non per
una nuova più efficace politica industriale.
* R&S e Ufficio Studi Mediobanca. Lo scritto riprende alcuni passi di un saggio elaborato per un seminario tenuto ad Artimino nel settembre 2004 nell’ambito degli “incontri pratesi sullo sviluppo
locale”. Sono grato ai colleghi della R&S che si sono fatti amabilmente carico della verifica dei dati
che ho ripreso dall’indagine annuale sulle multinazionali. Ringrazio Giacomo Becattini, Marco
Bellandi e Gabi Dei Ottati, che hanno letto alcune parti dello scritto per Artimino, fornendomi
suggerimenti preziosi e Giancarlo Michellone che mi ha consentito una versione tecnicamente più
appropriata del paragrafo dedicato alle innovazioni. Le posizioni qui espresse riflettono una visione esclusivamente personale e nessun altro al di fuori dell’autore ne è responsabile.
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1. Premessa
Le multinazionali rappresentano la massima evoluzione dimensionale della grande impresa1: oltre ad aver perduto la dimensione locale, esse hanno
superato quella nazionale poiché operano in più paesi usandone indifferentemente i fattori produttivi (lavoro e capitale) e collegando luoghi di produzione diversi da quelli di consumo. Essendo legate sempre meno ad un luogo specifico, possono finire per perdere la patria; per tale motivo sono spesso chiamate anche transnazionali. Tuttavia, per lo più, restano attaccate al
paese di origine attraverso un cordone ombelicale dai contorni più o meno
definiti; le relazioni preferenziali riguardano ora i mezzi finanziari (i sistemi
bancari e le borse), ora il sostegno ottenuto dai governi (commesse pubbliche, aiuti alla ricerca) o dalla comunità economica in generale; il più delle
volte la direzione centrale e i principali istituti di ricerca vengono mantenuti
nel paese originario. Il comando viene esercitato in forme differenziate: da
un lato, vi sono strutture manageriali solitamente designate con procedure
autoreferenziali, oppure da investitori che hanno una prevalente logica finanziaria i quali non appartengono più solo al paese di origine; dall’altro,
non mancano casi di controllo statale, mentre una terza categoria riconduce
ad azionariati familiari. L’efficienza viene valutata a livello di rendimento del
capitale non tanto in sé, quanto rispetto agli impieghi alternativi che gli investitori hanno a disposizione. Le multinazionali si caratterizzano dunque sia
per la dimensione del tutto ragguardevole del capitale che investono, sia per
la complessità della loro organizzazione, sia infine per la ricerca di tecnologie e prodotti nuovi che possano garantire il collocamento di grandi quantità
di prodotti sui mercati nei quali vengono tenute posizioni oligopolistiche.
Scopo di questo scritto è quello di analizzare l’evoluzione delle multinazionali europee dalla fine degli anni ottanta ad oggi, mettendone in
evidenza gli aspetti economici e finanziari, traendo infine alcune conclusioni anche riferite all’esperienza italiana2.
Le cosiddette “multinazionali tascabili” richiamano aziende di media dimensione la cui natura è
assai diversa dalle giant firms oggetto di questo scritto.
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Si assume come principale fonte quantitativa l’indagine annuale che la Ricerche e Studi di Mediobanca
(R&S) ha condotto sulle multinazionali a partire dal 1995; essa considera quelle di dimensione maggiore
aventi sede nella triade Europa, Nord America e Giappone. La soglia è stabilita in un fatturato di gruppo pari ad almeno 2 miliardi di euro e ad una presenza all’interno del Paese di origine pari almeno all’1% del giro
d’affari complessivo dell’insieme delle sue multinazionali. Questa definizione comporta la rilevazione di
tutte le società di un qualche peso e fa assumere all’indagine una natura di fatto censuaria. I dati qui utilizzati sono quelli delle edizioni 1997 (che copre il primo decennio 1989-1995) e 2005 (periodo 1995-2004).
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2. Quante e dove
L’indagine R&S individua 230 multinazionali industriali nella triade Europa, Nord America e Giappone (rispettivamente, 133, 64 e 33), oltre a 45
gruppi internazionali operanti nelle telecomunicazioni e nelle utilities. Esse impiegano circa 18 milioni di persone (21 milioni, includendo le terziarie) con un capitale in termini di totale attivo pari a 5.700 miliardi di euro3.
Queste aziende non sono presenti in tutti i paesi con la stessa intensità; i
tassi di “multinazionalizzazione” sono diversi in primo luogo perché una
grande impresa internazionale tende a pesare all’interno del proprio paese
tanto più quanto questo è minuscolo; in secondo luogo, perché gli stessi
paesi si caratterizzano per livelli di sviluppo differenti e le multinazionali
derivano massimamente da aziende che si sono consolidate nelle economie cosiddette avanzate. Infine, i sistemi industriali esprimono modelli di
specializzazione produttiva differenti, caratterizzati quindi dalla presenza
di imprese la cui dimensione ottimale varia a seconda del settore in cui
operano. Queste posizioni relative possono essere valutate rapportando la
dimensione delle multinazionali, ad esempio in termini di fatturato, al prodotto interno lordo del rispettivo paese di origine. Il grafico della Figura 1
(i Grafici e le Tabelle sono riportati in Appendice) conferma che l’importanza delle multinazionali tende a crescere man mano che diminuisce il valore del Pil nazionale; se si usa la linea interpolante come tendenza naturale, si ha modo di verificare dove le multinazionali contano di più e dove
meno: di più in Germania, Regno Unito, Olanda, Svizzera e Finlandia; meno soprattutto in Italia e Spagna; Stati Uniti, Giappone e Francia stanno all’incirca sulla media. Nel caso di Italia e Spagna, si tratta di paesi caratterizzati dalla prevalenza di piccole e medie imprese.4 Un’altra importante conCirca i capitali impiegati, si farà riferimento a due concetti, il capitale tout court, rappresentato dal complesso delle risorse finanziarie conferite dai soci e dai terzi (patrimonio netto e debiti finanziari), e il totale dell’attivo che rappresenta la somma degli attivi contabilizzati nei bilanci (correnti, immobilizzati materiali e immateriali). La differenza tra le due misure è data dalla quota finanziata dall’impresa nel suo ciclo produttivo e finanziario (ovvero prevalentemente dai passivi di funzionamento che nel calcolo del
“capitale” vengono dedotti dagli attivi).
4
L’indagine R&S considera le imprese a livello di bilancio consolidato, attribuendole al paese nel
quale hanno la sede. Questo procedimento – motivato anche dalla natura delle informazioni desumibili dai bilanci di gruppo – porta a discriminare i paesi in base alle attività di cui le loro imprese sono proprietarie. Così, l’Irlanda ha una bassa intensità di multinazionali e tuttavia ciò non
significa che esse vi siano assenti, ma che gli insediamenti derivano in massima parte da imprese
di paesi esteri.
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siderazione riguarda le attività alle quali sono interessate le multinazionali;
il settore più importante nella triade è quello energetico il cui peso varia
peraltro in funzione degli andamenti del prezzo del petrolio; nel 2004 ha
costituito il 21% delle vendite. Nel manifatturiero (Tabella 1) la principale
specializzazione è nei mezzi di trasporto, che si collocano in prima posizione in ciascuna delle aree della triade; questo comparto concentra il 2627% del fatturato in Europa e Stati Uniti e il 38% in Giappone; vi è poi la
chimica, la cui presenza è importante soprattutto in Europa e negli Stati
Uniti, e l’elettronica (che pesa per il 35,5% in Giappone e oltre un quinto
negli Stati Uniti). La meccanica non-automotive è rilevante in Europa e,
meno, in Giappone. Le attività che vedono le grandi multinazionali meno
impegnate sono quelle legate ai beni per la persona (tessile-abbigliamento, pelletterie, calzature, gioiellerie) e la casa (materiali da costruzione e
mobili)5. Negli ultimi 10 anni vi è stato un aumento di peso dell’automotive
in Europa (la sua quota è aumentata di 6 punti percentuali) e Giappone
(+4 punti) a fronte di un regresso negli Stati Uniti (5 punti in meno). Queste
tendenze sono avvenute a compensazione di andamenti opposti che in
Europa hanno riguardato soprattutto la chimica (3,7 punti in meno), in
Giappone la meccanica non-automotive (2 punti in meno), mentre negli
Stati Uniti si è puntato sull’elettronica (3,4 punti in più).
Quando si scende nel dettaglio dei singoli paesi europei emergono altre differenze: l’importanza dei mezzi di trasporto origina principalmente
dalle imprese tedesche (49% del fatturato manifatturiero), italiane (42%),
francesi (28%) e scandinave (14%); la chimica è rilevante nel Regno Unito (47%), in Svizzera (39%), Francia (23%), Benelux (22%) e Germania
(15%); la meccanica non-automotive in Scandinavia (21%), Germania
(18%), Svizzera (16%), Italia (15%) e Francia (13%). Vi sono anche altre
specializzazioni: l’elettronica in Scandinavia (23%); l’alimentare in Svizzera (34%), Benelux (21%) e Regno Unito (17%); infine, la siderurgia in
Benelux (22%), Regno Unito (15%) e Italia (9,5%). Questa situazione è
5
Tutto ciò pare coerente almeno in parte con i risultati di Chandler (1996); questi, introducendo il
tema degli “attributi storici” (pp. 18-21), mette in evidenza che le imprese capaci di raggiungere le
dimensioni maggiori sono quelle che hanno saputo sfruttare le economie di scala e di varietà (scope) e di ridurre i costi di transazione. Per Chandler, che considera le imprese in base al numero e
non alla consistenza della rispettiva attività, si tratta prevalentemente dei settori alimentare, chimico, energetico, della metallurgia primaria e meccanica pesante (macchine e mezzi di trasporto).
Nelle grandi multinazionali indagate da R&S il peso dell’alimentare è poco superiore al 5% (in termini di fatturato 2004) e risulta caratterizzante soprattutto per le multinazionali svizzere.
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determinata in buona misura dai comportamenti di alcuni grandi gruppi.
Così, il progresso europeo nei mezzi di trasporto è derivato in buona parte dall’aumento dimensionale della tedesca Daimler Benz che attraverso
l’acquisizione della statunitense Chrysler è divenuta nel 1998 la maggiore
impresa mondiale; in Giappone molto è venuto dallo sviluppo della
Toyota. Negli Stati Uniti hanno contato il consolidamento dei produttori
nell’area ICT (nel decennio 1995-2004 la Hewlett-Packard è salita dal 13°
all’8° posto in termini di fatturato; la Dell si è posizionata al 13° e la Intel
ha guadagnato 7 posizioni), nonostante il lento ridimensionamento dell’IBM che nel 1989 era la seconda azienda manifatturiera mondiale per
totale attivo, nel 1995 la quinta, nel 2004 la settima6.
L’Italia è un paese con una bassa presenza di multinazionali. L’indagine R&S ne individua 15, ma quelle veramente importanti sono solo Eni
e Fiat; aggiungendo il terzo gruppo (Finmeccanica) la concentrazione
dei primi tre sul totale è pari al 70%, ovvero poco meno dell’indice del
Regno Unito (73%) che possiede la particolarità di ospitare le due maggiori multinazionali energetiche del mondo (BP e Royal Dutch Shell, la
seconda peraltro con azionariato misto anglo-olandese); gli indici di
concentrazione degli altri paesi sono assai minori, generalmente non
più del 50%, ove si escluda il caso della Svizzera (64%), che peraltro
realizza un prodotto lordo annuo pari ad un quinto di quello italiano7.
L’Italia è anche (con Finlandia e Norvegia) l’unico paese che colloca
ancora due multinazionali a controllo statale tra le prime tre.
3. Dalla fine degli anni ottanta a oggi
Tra il 1989 e il 2004 il prodotto interno lordo a prezzi correnti dei paesi dell’eurozona è aumentato del 97%; le multinazionali europee sono
cresciute dell’88% nel valore aggiunto e del 113% nel fatturato. In prima
approssimazione, dunque, hanno aumentato le quote di mercato riduIn questo ridimensionamento ha influito la cessione di attività di produzione dell’hardware; a fine anni novanta importanti cespiti sono stati scorporati e ceduti alla Celestica (la quale ha poi rilevato altre
unità, comprese quelle che l’IBM aveva in Italia) mentre a fine aprile 2005 è stata la volta della divisione
personal computer, venduta alla Lenovo, società con sede negli Stati Uniti e stabilimenti in Cina e India.
7
Tra le multinazionali olandesi ve n’è una, la ST, a capitale misto italo-francese. Il quadro delle
considerazioni fatte nel testo non ne risente, dato che la metà del giro d’affari di tale gruppo aggiungerebbe il 2% appena al totale italiano.
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cendo peraltro il loro contributo alla produzione del reddito. Gli aspetti principali della loro evoluzione si possono riassumere some segue:
- tendenza di lungo periodo all’aumento delle dimensioni;
- crescente globalizzazione delle loro attività;
- aumento della produttività superiore a quello del costo unitario del
lavoro e conseguente forte aumento della quota di valore aggiunto
destinata ai profitti.
L’aumento delle dimensioni è l’aspetto più evidente ed è avvenuto in buona misura attraverso acquisizioni e fusioni. Un ruolo importante in tale processo è stato giocato, soprattutto nella seconda metà degli anni novanta, dall’opportunità di assorbire imprese oggetto di privatizzazioni. Le fusioni e acquisizioni tra le stesse maggiori multinazionali (cosiddetti mega merger) tra il
1995 e il 2004 sono state 73 e hanno coinvolto aziende aventi un totale attivo
di 2.857 miliardi di euro (Figura 2). Il fenomeno ha interessato innanzitutto i
gruppi europei e anglosassoni, con principali operazioni nel 1998 (acquisizione della Chrysler da parte della Daimler Benz), nel 1999 (fusione Exxon e
Mobil) e nel 2000 (acquisizione della Mannesmann da parte della Vodafone,
fusioni di BP con Atlantic Richfield e Burmah Castrol e di Bell Atlantic con
GTE). La dimensione media delle multinazionali industriali in termini di attivo
di bilancio è passata da 10,1 miliardi di euro nel 1989 a 24,9 miliardi nel 2004
con un incremento del 146%; in Europa la variazione è stata del 170% (da 7,8
a 21,1 miliardi). A titolo di raffronto, nello stesso periodo il PIL a prezzi correnti dei paesi dell’eurozona è cresciuto – come già ricordato – solo del 97% e
quello degli Stati Uniti del 114%. È bene distinguere il settore energetico da
quello manifatturiero (Tabella 2). Nel primo, la leadership è stata mantenuta
dai gruppi petroliferi anglosassoni eredi delle cosiddette “sette sorelle”8: nel
Le storiche “sette sorelle” del petrolio si sono oggi ridotte a quattro. Quelle originarie erano costituite dalle tre principali eredi del gruppo Rockefeller (Standard Oil of New Jersey, poi Exxon, Socony
Mobil Oil, poi Mobil, e Standard Oil of California, poi Chevron), dalla Royal Dutch/Shell, dalla BP,
dalla Texaco e dalla Gulf. I processi di concentrazione hanno visto la confluenza di Gulf e Texaco
nella Chevron (rispettivamente, nel 1984 e nel 2001) e la fusione a fine 1998 di Exxon e Mobil. La BP
ha assorbito nel 1997 la Standard Oil dell’Ohio, nel 1998 l’Amoco (erede della Standard Oil Indiana)
e nel 2000 l’Atlantic Richfield. I processi di fusione nel settore petrolifero hanno quindi portato a ricostituire di fatto la originaria Standard Oil di Rockefeller, la cui dissoluzione era stata comandata
dalle autorità antitrust americane nel 1911. Le attività sono ora concentrate in due grandi tronconi, il
primo nato dalla citata fusione della Exxon e della Mobil nel 1998, il secondo dall’unione tra Chevron e Texaco nel 2001. Al di fuori del cartello delle sette sorelle, negli Stati Uniti vi è stata l’importante fusione tra Phillips e Conoco (quest’ultima già facente capo alla Du Pont) nel 2002.
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2004 la graduatoria per fatturato vedeva saldamente in testa le due britanniche BP e Royal Dutch Shell e la ExxonMobil, con Chevron e ConocoPhillips al quinto e sesto posto; la francese Total e l’italiana Eni hanno guadagnato rispettivamente il quarto e settimo posto; la prima grazie ad una fusione nel 1999 che ha coinvolto Total, Elf Aquitaine e Petrofina. Seguivano i due gruppi tedeschi EON e RWE e la francese EdF,
tutte utilities.
Nel manifatturiero lo sviluppo più consistente ha riguardato i gruppi
tedeschi e giapponesi. Lo sviluppo dei produttori americani è stato molto
lento, e multinazionali un tempo famose hanno subìto le conseguenze di
scelte gestionali sfortunate o volte essenzialmente all’abbandono di settori ritenuti non core (GM, Ford e IBM). Spostando l’ottica sul totale attivo (ovvero su una dimensione finanziaria) i gruppi manifatturieri tendono a primeggiare su quelli energetici (Tabella 3): il rapporto tra fatturato
e capitale investito è tra il 140% e il 160% per BP e Royal Dutch Shell,
mentre scende al 75-80% per DaimlerChrysler e Toyota. In termini di capitale, si nota, inoltre, che tra il 1989 e il 2004 l’espansione più importante è stata realizzata dai paesi del cosiddetto capitalismo renano: Germania e Giappone con DaimlerChrysler e Toyota hanno, infatti, sottratto le
prime due posizioni alle anglosassoni Royal Dutch Shell e General Motors. La Germania è il paese con il maggior sviluppo (nel 1989 piazzava
nella top list due società che rappresentavano il 9% delle prime 15, nel
2004 ne contava invece tre che incidevano per il 23%), mentre la francese Total ha sostituito al 10° posto l’italiana Fiat. Ancora due osservazioni:
la Toyota si segnala per una strategia controcorrente di crescita prevalentemente interna9; l’italiana Fiat si era anch’essa sviluppata sensibilmente
e sino al 2002 compariva tra i primi 15 gruppi industriali del mondo; le
difficoltà più recenti, che hanno richiesto importanti disinvestimenti,
l’hanno fatta uscire dal novero dei giganti.
Il processo di globalizzazione delle multinazionali (espansione delle
attività produttive al di fuori dei paesi di origine) ha dato sicuramente
una forte spinta all’aumento delle dimensioni; l’ingresso in nuovi mer9
La crescita della Toyota è derivata dall’espansione della base produttiva nei paesi asiatici, in Nord
America e in Europa. L’unica acquisizione di qualche rilievo è stata quella della giapponese
Daihatsu nel 1998. Occorre anche ricordare che i dati di questa multinazionale escludono la Toyota Industries (suo maggior azionista col 24% dei diritti di voto) operante nella meccanica e componentistica, con una presenza anche nell’automotive (dove produce i modelli Yaris in Europa, e i
modelli Rav4 e Corolla Sedan per Europa e Nord America).
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cati è stato cercato per: sostenere la crescita, ridurre i costi di produzione utilizzando risorse locali, diversificare i rischi ciclici legati alle singole
economie. La globalizzazione più consistente ha riguardato le multinazionali europee: tra il 1989 e il 2004 la quota estera sul totale è passata,
per gli occupati dal 47,9% al 64% (+16,1 punti) e per le vendite dal
58,4% al 77,4% (+19 punti). I gruppi americani sono passati nello stesso
periodo dal 35,6% al 55,2% per la forza lavoro (+19,6 punti) e dal 37,1%
al 47,4% per il fatturato (+10,3 punti). Le vendite estere dei gruppi giapponesi – per i quali non si dispone di dettagli sufficienti sull’occupazione – rappresentavano il 38,6% del totale nel 1989 e il 51,3% nel 2004
(Tabella 4). Da questi dati si può vedere che il fenomeno ha riguardato
in misura diversa i luoghi di produzione e quelli di vendita. Le imprese
nordamericane hanno interpretato la globalizzazione principalmente
come un decentramento produttivo: la quota estera degli occupati nordamericani è aumentata di circa 9 punti in più rispetto a quella del fatturato; per i gruppi europei le due variazioni invece sono state molto simili, ma con situazioni diverse tra i singoli paesi: i gruppi tedeschi hanno
delocalizzato prevalentemente nei primi sei anni, mentre nell’ultimo decennio lo sviluppo della quota estera degli occupati è stata molto simile
a quella delle vendite; per i gruppi francesi si è trattato principalmente
di un’espansione commerciale; i gruppi italiani hanno seguito dapprima
anch’essi un’internazionalizzazione commerciale (quota estera sulle
vendite aumentata di quasi 8 punti nel 1989-95 contro i circa 3 degli occupati) e successivamente hanno delocalizzato i luoghi produttivi (16,3
punti in più nella quota estera dei dipendenti nel 1995-04)10. Per le imprese britanniche lo sviluppo è stato equilibrato, ma anche qui con una
maggiore attenzione agli aspetti commerciali nel 1989-9511. Occorre
Il principale esempio di globalizzazione italiana è quello della Fiat Auto, principale settore del
conglomerato Ifi. La società ha puntato sui paesi emergenti, contando sui bassi costi di produzione e sulle speranze di avvio della motorizzazione locale. Caratteristiche di questa politica sono
state l’adozione del sistema di produzione snella (denominato “fabbrica integrata”) e la decisione
di produrre un unico modello di base per i paesi emergenti (cosiddetta world car). Se l’imitazione
del toyotismo ha sicuramente rappresentato un grande progresso organizzativo, il progetto world
car ha avuto minor fortuna. Su questi aspetti si rinvia anche ai vari articoli pubblicati nella parte
monografica della rivista Economia e Politica Industriale, n. 116 del 2002.
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Questi spostamenti comprendono l’outsourcing di interi processi aziendali in favore di aziende localizzate prevalentemente in paesi asiatici. Un caso tipico è quello dei call center indiani; quelli maggiori
sono controllati quasi per intero da multinazionali americane. Si valuta che più del 70% del valore creato dall’attività di outsourcing in India sia acquisito da multinazionali (Financial Times, 25 agosto 2004).
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considerare che le quote di internazionalizzazione in Europa tengono
conto delle relazioni intraeuropee; escludendole, la frazione estera risulterebbe pari al 46% e cioè assai vicina a quella delle multinazionali
americane (47%) e giapponesi (51%). In buona sostanza, nella media,
l’interesse locale delle multinazionali è attratto ora per metà circa da ciò
che accade nella macro-area in cui hanno avuto origine (Europa, Nord
America, Giappone) e per metà dal resto del globo.
La globalizzazione ha avuto effetti sulla produttività e sui costi di lavoro. La misurazione della produttività dai bilanci delle multinazionali
è molto difficoltosa avendo a che fare con imprese le cui attività sono
disperse su più paesi. La misura più utile, pur se necessariamente a
prezzi correnti, è il valore aggiunto calcolato in euro pro-capite. Questo indicatore presenta tra il 1989 e il 2004 un incremento del 96,1% per
le multinazionali europee e dell’85,3% per quelle statunitensi (misurate
in euro). La variazione del costo unitario del lavoro è stata pari al 66,1%
per le prime e al 75% per le seconde (Tabella 5). Relativamente alla sola manifattura, nell’ultimo decennio l’incremento del valore aggiunto
pro capite ha superato quello dei salari unitari di 15,5 punti in Europa e
di 7,2 punti negli Stati Uniti; la logica della pura delocalizzazione da costi sembra dunque aver avuto minor successo della globalizzazione generalizzata di fattori e mercati. Quando in Europa si scende a livello di
paese, le migliori performance sono segnate dai gruppi tedeschi (per i
quali l’incremento del valore del prodotto pro capite ha superato quello dei salari di quasi 18 punti), britannici (16 punti circa) e svizzeri (14
punti). Questo primo indicatore mostra comunque che vi è stato un miglioramento di margini in tutti i diversi schemi di globalizzazione che le
imprese hanno scelto di attuare.
Poiché il valore della produzione per addetto è aumentato più del
suo costo, la distribuzione del valore aggiunto si è modificata. I conti
delle imprese europee12 nel decennio 1995-2004 mettono in evidenza che la quota assorbita dal lavoro è scesa dal 65,8% al 57,8% (8
punti in meno) con un vantaggio quasi pari dei profitti lordi (7,4
punti), essendo la differenza attribuita agli interessi passivi sui debiti
finanziari (Tabella 6). Le variazioni più consistenti hanno riguardato
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Per le imprese statunitensi non è sempre disponibile il dato del costo del lavoro e ciò impedisce
di calcolare il relativo aggregato del valore aggiunto.
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i gruppi francesi e tedeschi (dove la quota dei salari si è ridotta di 10
punti). In Italia e Regno Unito vi è stato un aumento della quota assorbita dagli interessi passivi, il che ha notevolmente ridimensionato
l’espansione dei profitti; la Germania ha registrato un profilo opposto, e la maggiore sottrazione alla quota del lavoro (10 punti) ha consentito di mantenere elevata la quota dei profitti. Altro aspetto degno
di nota è costituito dalla riduzione della quota del valore aggiunto
sul fatturato; sulla variazione di questo indicatore incidono, in aumento, i maggiori profitti e, in diminuzione, i processi di alleggerimento della componente produttiva interna. Questi ultimi riflettono
una tendenza generale della manifattura, volta a sviluppare la flessibilità delle strutture produttive a fronte di domande espresse da mercati sempre più variabili e differenziati, nonché a beneficiare della
globalizzazione attraverso l’impianto di stabilimenti o la loro delocalizzazione in paesi in via di sviluppo a basso costo della manodopera. In sintesi, l’incidenza del valore aggiunto è passata dal 34,8% del
fatturato nel 1995 al 33,6% nel 2004 dopo aver toccato un minimo del
31% circa nel 2001.
Le conseguenze dei fenomeni citati sui rendimenti del capitale sono
contrastanti sia nei settori che nelle determinanti. Il roi dell’aggregato di
tutte le imprese (che sintetizza il rendimento del capitale conferito nell’impresa dagli azionisti e dai creditori finanziari) è migliorato di circa un
punto passando dal 15,7% nel 1995 al 16,8% nel 2004 (Tabella 7). Tale
variazione combina un miglioramento di oltre 11 punti nelle multinazionali energetiche (su cui influisce l’aumento del prezzo del petrolio registrato nel periodo più recente) ed un regresso di quasi un punto nella
manifattura. Quest’ultima variazione, peraltro, deve essere valutata tenendo conto della dinamica dell’inflazione; in termini reali (cioè, al netto del recupero dell’inflazione13) il roi manifatturiero è anch’esso aumentato di 1,8 punti, con le europee progredite per 1,3 punti (Figura 3).
Restando sulla manifattura, il miglioramento del tasso di profitto appare in realtà relativamente modesto; quando si osservano le componenti, si ha modo di verificare che la dinamica sconta in positivo l’aumento dei margini a cui si è già accennato (1,3 punti in più in termini
nominali sul fatturato), ma soffre fortemente del calo della rotazione
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È stato usato il deflatore del prodotto interno lordo dei paesi Ocse, esclusi quelli ad alta inflazione.
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del capitale investito, passata dal 167,1% nel 1995 al 142,7% nel 2004.
Ciò deriva soprattutto dall’espansione degli intangibles; gli attivi immateriali (avviamenti e altre spese rinviate per l’ammortamento agli esercizi futuri, contabilizzate in massima parte a seguito di fusioni e acquisizioni) sono aumentati di 13,6 punti passando dall’11,1% al 24,7% del
capitale investito: si tratta in tutta evidenza di poste che non producono
alcun reddito e la loro iscrizione porta ad un semplice appesantimento
di capitale14. A ciò va aggiunta la permanenza di un’importante quota di
attivi (circa un quarto del totale) detenuti in forma finanziaria (impieghi
liquidi e immobilizzati), il cui rendimento ha seguito il calo dei tassi registrato nel periodo.
4. Le innovazioni
Una valutazione della capacità innovativa delle grandi multinazionali è assai difficoltosa, non disponendo di un quadro formalizzato
di dati e informazioni circa le effettive nuove realizzazioni. Un indicatore molto convenzionale, ma di sicuro interesse, è rappresentato
dall’ammontare degli sforzi per innovare; sforzi misurati attraverso le
spese destinate a ricerca e sviluppo (R&S). Si tratta di dati da assumere con le usuali cautele sia per quanto attiene alla loro effettiva valenza, sia per le probabili disomogeneità di rilevazione tra le varie
imprese15. Essi restano tuttavia pressoché l’unica fonte statistica disponibile ai fini di questo scritto. Orbene, la media delle spese di riSulla correttezza di tali iscrizioni vi sarebbe molto da dire. Intanto, si tratta di valori che derivano
dalla valutazione che gli amministratori della società acquirente attribuiscono ai cespiti della società acquisita; in secondo luogo, recentemente, sono stati cambiati i criteri di ammortamento di
tali intangibles introducendo il requisito della loro semplice congruità (cosiddetto impairment test); di fatto, mentre in precedenza gli amministratori erano tenuti a considerare tra i costi annuali
un ammortamento di tali intangibles, ora possono farne a meno dimostrando che la loro utilità è
rimasta invariata rispetto all’anno precedente.
15
Ad esempio, sappiamo poco di quanto spendono le imprese italiane: in primo luogo a causa
della loro reticenza, essenzialmente perché in larga maggioranza non rispettano l’obbligo di trasparenza prescritto dal Codice civile. Le grandi aziende che comunicano i dati sono appena un
terzo (contano per quasi la metà del fatturato); stessa percentuale per le medie imprese (base l’universo individuato nell’indagine Mediobanca-Unioncamere). Si arriva dunque alla singolarità di
individuare imprese che depositano brevetti senza aver mai dichiarato un qualche impegno in ricerca. Questo fenomeno induce anche a valutare assai poco attendibile il dato italiano di R&D nelle statistiche internazionali.
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cerca e sviluppo calcolata dal DTI britannico nella sua indagine annuale su 1.000 principali imprese mondiali dà un valore che si commisura al 3,8% del fatturato, con punte di oltre il 10% nei comparti
dei farmaceutici, biotecnologie e servizi informatici con valori relativamente elevati nell’elettronica, nei prodotti per la salute, nei mezzi
di trasporto e nella difesa (tra 4% e 9% del fatturato) (Tabella 8). Non
è facile apprezzare compiutamente questo indice.
Una prima considerazione potrebbe muovere dalla presenza in
classifica delle grandi multinazionali dell’indagine R&S (le maggiori
del mondo). Esse figurano tra le prime imprese in alcuni dei comparti citati, ma si tratta prevalentemente di quelli che si distinguono per
le incidenze più basse. Il loro indice medio è intorno al 4% con le
multinazionali europee allineate alla media prima citata. Se si raffrontano le spese in R&S con le distribuzioni di dividendi negli anni
più recenti si ottiene un quadro poco confortante che vede una tendenziale flessione delle prime e un aumento dei secondi. Ciò parrebbe
dar ragione in prima battuta alle tesi di Baumol, secondo il quale le invenzioni più importanti (breakthrough innovations) provengono dalle piccole imprese, per passare poi alle grandi nella fase dello sviluppo 16. Tuttavia, la validità dell’impegno innovativo deve essere
verificata nel lungo periodo e le piccole imprese possono realizzare singoli progetti, ma spesso procedono in modo incostante nel
tempo specie per quanto attiene al loro sviluppo.
I dati dell’indagine R&S consentono di tracciare un profilo di 16 anni
(1989-2004). In questo periodo le multinazionali europee hanno costantemente aumentato le spese di ricerca sino al 2001, anno a partire
dal quale, come già ricordato, si è verificata un’inversione di tendenza,
soprattutto ad opera dei gruppi francesi e scandinavi, il cui calo sconta
peraltro un parziale effetto di riclassificazione contabile. Se si calcola
l’indice relativo sul fatturato (rapporto tra indice delle spese di ricerca e
indice delle vendite) si nota una tendenziale stabilità di lungo periodo;
16
Baumol (2005). Nel saggio si richiama la relazione della Small Business Administration per l’anno 1994 dove appare un lungo elenco di importanti innovazioni introdotte nel XX secolo da imprese americane di piccola dimensione; tra queste l’aria condizionata, il microprocessore, la colata continua nella produzione di acciaio, il defibrillatore, la radio a modulazione di frequenza, l’elicottero, il circuito integrato, il personal computer, il supercomputer, il pacemaker, il foglio elettronico del pc e numerosi altri. Osservando le imprese che depositano brevetti, quelle di piccole dimensioni hanno un rapporto brevetti/dipendenti pari a 13/14 volte quello delle grandi.
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e ciò emerge anche nel caso in cui si considerino le sole multinazionali
manifatturiere (Graf. 4). Pare dunque di poter concludere che le grandi
multinazionali considerino l’attività di ricerca e sviluppo di fondamentale importanza per le loro strategie e inoltre che lo sviluppo più recente di queste imprese verso maggiori dimensioni abbia comportato proporzionali impegni di maggior ricerca.
Come detto, non si dispone di un quadro attendibile e formalizzato
dei risultati di questi sforzi. Ricordando la più importante specializzazione delle multinazionali manifatturiere, i mezzi di trasporto, è però
possibile cercare qualche riscontro nei dati a livello di singole aziende.
Non v’è dubbio che vengano prodotte in continuo innovazioni di ampia portata. Il contributo dell’industria automobilistica europea è di tutto rilievo; si è distinta per l’introduzione di soluzioni atte a migliorare la
sicurezza del trasporto e a ridurre l’impatto ambientale, anche in risposta ad indirizzi di politica comunitaria17. Si tratta di innovazioni che hanno coinvolto l’intera filiera produttiva e quindi in misura rilevante i
subfornitori. Tra queste, gli impianti antibloccaggio dei freni (ABS, fine
anni ‘70), l’airbag (introdotto all’inizio degli anni ’80) e il controllo elettronico di stabilità (ESP, metà anni ’90)18. Tra i principali risultati occorre
citare la caduta dei tassi di mortalità negli incidenti stradali: tra il 1970 e
il 2003 si è passati da 77 mila a 43 mila morti, nonostante l’aumentata
circolazione abbia prodotto un leggero aumento del numero degli incidenti. In percentuale, sulle sole autostrade, si è trattato del 90% di morti in meno nel Regno Unito, dell’86-89% in meno in Francia e Germania, del 59% in meno in Italia e dell’81% in meno negli Stati Uniti19. Recentissima l’introduzione del concetto di mobilità cooperativa (un progetto integrato europeo), basata sul collegamento tra vettura e infrastruttura e tra veicoli intelligenti per aumentare la sicurezza stradale e
contenere la congestione del traffico. Occorre anche ricordare lo studio
continuo dei materiali con un maggiore interesse prima per l’alluminio
(che ha favorito la riduzione dei pesi dei veicoli) e poi nuovamente per
l’acciaio, che negli ultimissimi anni ha riguadagnato terreno anche grazie alla disponibilità di tipologie (acciai altoresistenziali) che permettoNormative europee sulle emissioni inquinanti (da euro1 a euro5), sulla protezione dei pedoni e
l’incipiente normativa su chiamata di emergenza e trasporto di merci pericolose.
18
Un ruolo significativo è attribuibile alla tedesca Robert Bosch.
19
VDA (2005), pag. 98.
17
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no di accrescere il rapporto prestazioni-pesi a costi competitivi. Tra le
realizzazioni recenti di grande importanza, il common rail 20 e il multijet per le alimentazioni diesel, i sistemi multipoint a controllo elettronico per le alimentazioni a metano (tutti originati dal Centro Ricerche
Fiat) e, seppur allo stato ancora di incerta valutazione, quelle della
giapponese Toyota il cui interesse si è rivolto alle soluzioni motoristiche ibride (carburante ed elettricità), con il primo modello prodotto su
larga scala, commercializzato dal 1997. Anche negli anni precedenti, i
contributi dell’area ricerca dell’italiana Fiat erano stati importanti, dalla
stessa ideazione dei sistemi ABS a fine anni sessanta, allo sviluppo di
materiali innovativi (plastici e compositi introdotti nei paraurti, negli interni e nei portelloni) negli anni settanta-ottanta21.
Restando nell’automotive, è il caso di segnalare la profonda spinta innovativa che riguarda i subfornitori e che muove da tre principali fenomeni: lo spostamento dei centri produttivi nei paesi dell’Est europeo e
asiatici (soprattutto in Cina), al seguito dei produttori di veicoli, l’aumento della quota di loro spettanza nel valore della produzione (secondo stime dei produttori tedeschi, dal 65% nel 2002 al 77% nel 2015);
la necessaria adozione di conseguenti nuove strategie organizzative attraverso operazioni di fusioni, acquisizioni e alleanze22.
5. Il capitale
L’esame dei flussi finanziari nel periodo 1996-2004 mette in evidenza
20
Si tratta della prima versione del controllo motore turbodiesel ad iniezione diretta, peraltro ceduto alla tedesca Bosch nei primi anni novanta. Si trattò di una grande innovazione che ha progressivamente spinto la diffusione delle autovetture con motore diesel: nel 2005 esse hanno rappresentato metà delle vetture immatricolate nell’Europa a 15 (contro il 14% nel 1990), con punte del 69%
in Francia, 68% in Spagna, 58% in Italia e 42% in Germania. La quota di mercato europeo dei produttori tedeschi nelle vetture diesel è salita nel 2004 al 50% (VDA, 2005, p. 39).
21
R&S (1993), p. 25-27. Il Centro Ricerche Fiat rappresenta la più importante struttura di ricerca
privata in Italia con servizi prestati a quasi tutte le principali case automobilistiche. Oltre a quanto
citato nel testo, innovazioni recenti riguardano l’introduzione dell’elettronica per il controllo del
motore e dell’autotelaio, le trasmissioni robotizzate (denominate selespeed) commercializzate dalla Magneti Marelli intorno a metà anni novanta, i sistemi innovativi di controllo del clima all’interno dell’abitacolo (anni novanta), i controlli longitudinali e laterali del veicolo.
22
VDA (2005), p. 53 e ss. La quota dei subfornitori è prevista passare tra il 2002 e il 2015 dal 77%
all’85% nella produzione di chassis, dal 63% all’80% nel treno-guida, dal 50% al 64% nel motore,
dal 4% al 41% nelle parti strutturali, dal 45% al 71% negli esterni, mantenendosi all’84% negli interni e nelle parti elettriche ed elettroniche (VDA, 2005, p. 56 dove si citano studi Mercer).
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che il cash-flow ha registrato livelli consistenti, rappresentando praticamente il totale delle risorse di cui le multinazionali hanno potuto disporre (Tabella 9); gli apporti dei soci e l’indebitamento finanziario sono rimasti su valori assai contenuti. Ciò è dovuto, da un lato, alla sostenuta redditività di cui si è parlato in precedenza; dall’altro, al contenuto
importo (in termini relativi) degli investimenti tecnici, i quali hanno assorbito meno della metà degli impieghi delle multinazionali viste nel
loro complesso. Vi sono state due principali eccezioni, la Germania e il
Giappone dove la quota degli investimenti tecnici è salita quasi al 70%
del totale; le imprese tedesche hanno fronteggiato la spesa con un consistente ricorso all’indebitamento finanziario. Il tasso d’investimento
non ha presentato alcuna rilevante flessione; l’acquisto di nuovi immobilizzi in rapporto allo stock esistente è infatti oscillato tra il 7% e l’11%.
In buona sostanza, la sintesi è che vi è stato un eccesso di risorse generate dalla gestione rispetto ai fabbisogni per investimenti produttivi i
quali sono rimasti nella norma.
Il fenomeno della generazione di cassa merita un qualche approfondimento. In misura non lieve esso pare indotto da un lato dalla favorevole congiuntura del settore energetico (pur con alterne vicende), dall’altro dalla riorganizzazione profonda dei processi produttivi all’interno delle grandi imprese manifatturiere. L’introduzione progressiva della produzione snella23, combinata con la globalizzazione delle fonti di
produzione e di approvvigionamento, ha comportato una sensibile riduzione dei fabbisogni finanziari indotti dalla crescita dimensionale. Il
rapporto tra le immobilizzazioni tecniche nette e il fatturato per le multinazionali manifatturiere è dapprima aumentato di 1,6 punti percentuali (periodo 1989-95) e poi sceso di 2,8 punti. La flessione più consistente è stata però quella del circolante: in rapporto al fatturato è diminuito di 1,3 punti nel 1989-95 e di altri 3,8 punti nel 1995-2004; in totale
23
I metodi della lean production, introdotti in Giappone dalla Toyota a partire dagli anni cinquanta, si sono diffusi nelle aziende occidentali nella seconda metà degli anni ottanta (Womack-JonesRoos, 1990). In Italia essi erano già parzialmente impliciti nell’organizzazione dei distretti industriali; la grande industria li ha recepiti in occasione delle ristrutturazioni degli anni novanta con
l’entrata in funzione dei nuovi stabilimenti Fiat di Melfi in Basilicata e di Pratola Serra in provincia
di Avellino. La cultura organizzativa moderna delle grandi imprese richiama ormai il principio della disaggregation quale strumento per ottenere una maggiore focalizzazione di unità operative di
piccole dimensioni relativamente autonome; tipico l’esempio della Johnson & Johnson, rivisitata
in 150 aziende separate ciascuna delle quali presidia differenti mercati (Roberts, 2004, p. 180 e
ss.).
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si è trattato di oltre 5 punti che, sommati al ridimensionamento della
produzione diretta, portano il saldo a –6,4 punti percentuali di fatturato, saldo che misura il vantaggio finanziario (relativo) indotto dal disfacimento dello storico schema fordista24. La metà del “disfacimento” è riconducibile ai minori impieghi di magazzino.
Questo eccesso di fondi ha sortito un doppio esito: da un lato, ha favorito la crescita tramite acquisizioni; dall’altro, ha spinto a distribuire
agli azionisti una quota importante dell’eccesso di risorse. Il rapporto
con i soci si è tradotto in una forte distribuzione di dividendi (in Europa
il 14% del totale degli impieghi con picchi del 17% nelle energetiche e
del 28% nelle imprese del Regno Unito; negli Stati Uniti poco meno del
20%), con l’aggiunta di un consistente riacquisto di proprie azioni sul
mercato. Quest’ultimo fenomeno ha riguardato le imprese statunitensi
e britanniche; solo in Francia e Italia gli azionisti hanno sottoscritto
nuove azioni per importi che hanno superato i dividendi.
Dal 1995 al 2004 le multinazionali nordamericane (energetiche comprese) hanno distribuito 574,8 miliardi di dollari in dividendi e hanno
riacquistato proprie azioni per 491,3 miliardi; al netto dei 227,3 miliardi
di aumenti di capitale, i mezzi distribuiti al mercato hanno totalizzato
838,7 miliardi, ovvero il 27,6% del cash-flow 25. Come detto, la principale motivazione di tale fenomeno è da individuare nell’eccesso di finanza generata dalla gestione e quindi dal livello dei profitti conseguiti sui
mercati: i gruppi americani hanno costantemente mantenuto rendimenti del capitale di molto superiori a quelli delle multinazionali di altri
paesi con un roi oscillato nel 1995-2004 tra un minimo del 17,2% e un
massimo del 24,5% (Europa tra 13,4% e 16,6%, Giappone tra 4,7% e
10%) e un roe superiore al 14% con picchi del 27-28%. La seconda motivazione riguarda l’intreccio – spesso perverso, come hanno dimostrato numerosi eventi recenti – tra amministratori, banche d’investimento
e investitori istituzionali. La comunità finanziaria tende a valutare l’efficienza delle imprese in termini di creazione di valore, ovvero del margine tra il rendimento prodotto e il costo medio del capitale utilizzato,
24
Si tratta di una riorganizzazione che ha riguardato le imprese di tutte le dimensioni. In Italia,
questo nuovo modello industriale è particolarmente visibile nelle medie imprese la cui componente di produzione interna è pari ad appena il 24% contro la media del 33% delle multinazionali
manifatturiere europee. Per le medie imprese italiane rimando al mio scritto del 2005.
25
R&S (Multinationals, edizione 2005).
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laddove quest’ultimo comprende sia i mezzi di terzi (debiti), sia il patrimonio netto. Il costo del patrimonio viene calcolato figurativamente
aggiungendo al rendimento degli impieghi risk-free (tipicamente i titoli
di Stato) un margine per il compenso del rischio industriale che nella
media oscilla tra 5 e 6 punti. Poiché queste imprese possono collocare
sul mercato strumenti di debito a tassi relativamente vicini a quelli dei
titoli di Stato, ne segue che il costo medio del capitale che usano viene
di molto appesantito dalla componente di mezzi propri. Ecco quindi
l’incentivo a ridurla (allo scopo di massimizzare la differenza tra il rendimento delle attività operative e il costo del capitale complessivamente impiegato, ciò che per l’appunto viene chiamato “valore economico
aggiunto” o economic value added). Seguono vari corollari, tra cui il
fatto che il riacquisto delle proprie azioni sul mercato porta a sostenerne i corsi, i quali hanno una grande rilevanza nella valorizzazione delle
opzioni azionarie (stock options) che compongono una quota rilevante
della retribuzione degli stessi amministratori e dirigenti; parallelamente, gli investitori istituzionali possono guadagnare ricche plusvalenze
vendendo le azioni che le società si ricomperano a prezzi elevati e mettendo in evidenza rendimenti stellari nelle gestioni patrimoniali di cui
si occupano; alcune delle quali riguardano fondi pensione delle stesse
imprese la cui integrità viene dunque a essere garantita in parte da questo circolo che in molti chiamano “virtuoso”.
Le multinazionali non americane hanno messo in atto, soprattutto dopo la metà degli anni novanta, un comportamento parzialmente simile
a quello di cui s’è detto, ma assai meno intenso. Intanto, i minori profitti hanno generato un eccesso di finanza di minori dimensioni; il rapporto tra cash-flow e investimenti tecnici è stato di 1,9 volte per le multinazionali europee e 1,4 volte per quelle giapponesi, contro 3,1 volte
delle americane. In secondo luogo, i sistemi capitalistici erano (e sono)
meno basati su un mercato dominato dagli investitori istituzionali, anche se dalla seconda metà degli anni novanta vi sono stati notevoli impulsi verso tale direzione (come pure l’assunzione di strutture organizzative e di governance nelle quali i contributi delle varie aree vengono
misurati in termini di “valore economico aggiunto”). Il calcolo dei mezzi distribuiti dai gruppi europei (tra dividendi e riacquisti di azioni) dà
un totale di 334 miliardi di euro nel decennio 1995-2004, pari al 12% di
un cash-flow, che al netto della spesa per investimenti tecnici, è stato
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pari al 6% del fatturato, contro il corrispondente indice del 10% per le
americane.
I fenomeni indicati, nell’ambito del più generale contesto dei mercati
finanziari – che hanno visto la crescente presenza di liquidità e di investitori istituzionali alla ricerca di impieghi diversificati per i capitali avuti
in gestione – hanno portato ad una ridefinizione della struttura di finanziamento dei capitali investiti in Europa. Questo aggiustamento non ha
riguardato il rapporto di leverage (patrimonio/debito), ma la natura dei
finanziamenti onerosi, nei quali si è registrata una forte contrazione della quota di debito bancario (quasi il 50% in meno), bilanciata dallo sviluppo dei collocamenti di obbligazioni (la cui quota è aumentata del
74%); sicché, a fine 2004 le multinazionali europee viste nel loro insieme ricorrevano ai bond all’incirca nella stessa misura delle società nordamericane (25,6% del totale contro 26,7%) (Tabella 10). Questa attenuazione dell’impronta “bancocentrica” dei gruppi europei è anche il
derivato dei processi di acquisizione di aziende anglosassoni, le quali
hanno evidentemente portato con sé le specifiche politiche finanziarie.
Nel complesso, resta tuttavia una grande differenza nella struttura finanziaria: le imprese nordamericane continuano a trarre risorse prevalentemente dal mercato (dove collocano azioni e obbligazioni), mentre quelle europee (come le giapponesi) esibiscono un debito bancario importante che finanzia ancora oltre un decimo del capitale investito, avendo
per contro una buona quota di patrimonio conferito da azionisti stabili.
6. Le multinazionali italiane
Quale il comportamento dei gruppi italiani nel contesto descritto in
precedenza? Occorre, intanto, considerare che essi, nel 1990-92 e nel
1999-2001, hanno attraversato due dei ricorrenti periodi critici con evidenti ripercussioni nei flussi finanziari. Nel 1990-92, dopo un periodo
di forti e dispendiose acquisizioni26, la gestione non generava più risor26
Le più importanti riguardarono il Gruppo Montedison (nella seconda metà degli anni ottanta
aveva investito notevoli risorse per acquistare Bi-Invest, Fondiaria, Antibioticos, nonché per rilevare le quote di terzi in società controllate che aveva quotato in Borse statunitensi, Ausimont, Erbamont, Himont), la Pirelli (a fine anni ottanta acquistò l’americana Armstrong e nel 1990 tentò la
scalata alla concorrente tedesca Continental) e la RCS (nel 1990 rilevò dall’Ifi il controllo del Gruppo Fabbri, poi rivelatosi in dissesto).
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se adeguate; esse dovevano pertanto essere integrate con il debito che,
nella media del triennio, costituiva più della metà del totale (Tabella
11). Dal lato degli impieghi vi fu l’effetto della seconda grande ristrutturazione industriale italiana, che comportò uno sforzo d’investimento
significativo. Nel triennio più recente, il 1999-2001, la storia si è ripetuta
con una serie di costose acquisizioni a cui è nuovamente seguito un aumento di debito. L’effetto per l’insieme dei gruppi è stato qui più attenuato, ma essenzialmente per la grande generazione di cassa del gruppo Eni; considerando le sole manifatturiere, l’aumento di debito nel
triennio 1999-2001 ha nuovamente costituito intorno alla metà delle risorse e nel triennio successivo hanno ripreso vigore gli investimenti
tecnici in parallelo alla diminuzione di quelli finanziari.
L’aggregato italiano, come già detto, risente molto della presenza dei
due outsider Eni e Fiat, soprattutto del primo che beneficia di una posizione di mercato favorevole sia nel settore core (idrocarburi), sia nella
distribuzione energetica (specie del gas naturale)27. Il rendimento medio
del capitale (roi) dell’aggregato italiano è pari nel 2004 al 17,3%, ma
quando si esclude l’energia (il cui roi è al 25,6%), l’indice cade al 10,4%.
Lo stesso dicasi per il confronto nel triennio 1999-2001: l’aggregato complessivo esibiva un rendimento medio del 14,6%, la sola manifattura
l’8,4%. È l’effetto di scelte aziendali che portano a combinare bassi margini sulle vendite con un basso indice di rotazione (Tabella 7, già citata)
che a sua volta configura quindi un eccesso di capitale impiegato. Due
altri aspetti rivelano atipicità: a) la quota del roi attribuibile alle attività finanziarie è stata sempre elevata e nel 2004 doppia rispetto alla media
europea (nel manifatturiero, 24% contro 12%);b) l’organizzazione conglomerale e gli assetti proprietari piramidali. A fine 2004, i gruppi di comando privati controllavano un capitale investito pari a 135 miliardi di
euro con una dotazione patrimoniale di appena 16 miliardi, quindi con
un rapporto di 8 a 1 che saliva a 26:1 e a 16,5:1 per i due maggiori raggruppamenti (Pirelli/Telecom e Ifi/Fiat) (Tabella 12). Le maggiori multinazionali europee (quelle con oltre 30 miliardi di euro di totale attivo a
Il risultato operativo dell’Eni nel 2002 derivava per il 60% dalle attività di produzione di idrocarburi e per il 38% da quelle di distribuzione gas/energia. L’estrazione e le vendite di gas in Italia incidevano a loro volta per oltre il 40% degli utili netti della produzione di idrocarburi, dove i prezzi
di vendita sul mercato nazionale superavano quelli spuntati all’estero di una percentuale compresa tra il 30 e il 50% e i margini sulle vendite erano più che doppi (dati desunti dal bilancio Eni predisposto in formato 20F per la statunitense SEC).
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fine 2004) sono per circa i 6/10 a proprietà diffusa (public companies) e
per i restanti 4/10 a controllo più o meno stabilizzato. La leva di queste
ultime è elevata (Tabella 13) e vicina a quella media vista per i gruppi
italiani (8:1 se si fa riferimento al capitale bloccato dai soci di riferimento); la leva delle public companies tende invece ad essere inferiore: il
capitale raccolto a debito è 1,28 volte quello raccolto a titolo di patrimonio, contro le 2,2 volte dei gruppi ad azionariato stabilizzato28.
Non è semplice stabilire se gli assetti finanziari accennati abbiano influito sul declino delle multinazionali italiane. Di certo questo è accaduto, oltre che per le strategie industriali interne, per le vicende che
hanno riguardato sia le decisioni di crescita via acquisizioni, sia le dismissioni richieste nelle fasi di problematicità. Il più importante processo di acquisizione che ha interessato le multinazionali italiane ha coinvolto la Fiat, ma è stato “passivo”, avendo riguardato nel 2000 la presa
di partecipazioni in sue attività da parte della General Motors: 20% nella Fiat Auto (inizialmente, con opzione a cedere l’intero controllo a partire dal gennaio 2004) e 50% nelle attività di questa nella produzione di
motori e trasmissioni (Fiat-GM Powertrain); nel 1991-92 era stata ceduta la Telettra alla francese Alcatel. Le principali operazioni “attive” della
Fiat hanno riguardato nel 1991 la presa della spagnola Enasa (veicoli
industriali) e nel 1999 la costosa acquisizione (4,3 miliardi di dollari)
dell’americana Case (macchine agricole). Operazioni di importo rilevante hanno poi riguardato attività non direttamente connesse con il
core business, quali i riacquisti di azioni sul mercato che hanno portato
all’uscita di alcune controllate dal listino azionario (Comau, Fidis, Magneti Marelli, Toro Assicurazioni), per finire, con l’espansione nei servizi attraverso una complessa operazione che si è conclusa nel 2001 e
che ha dapprima comportato l’acquisto del controllo della Montedison
(poi ridenominata Edison) con esborsi di 7,7 miliardi di euro e con l’obiettivo di cedere tutti gli attivi non energetici di tale società29. A seguito
È nota la differente struttura degli assetti di controllo delle aziende dei capitalismi anglosassoni e
renani. Ad es., Becht e Mayer (in Barca-Becht, 2002, p. 19) elaborano alcuni dati che mettono in
evidenza come nelle imprese quotate americane e britanniche il valore mediano della percentuale di possesso del maggiore azionista o gruppo societario vari tra il 5% e il 10%, contro oltre il 50%
in Belgio, Germania e Italia, oltre il 40% in Olanda e il 35% in Spagna e Svezia (paese quest’ultimo
dove peraltro sono assai diffuse le azioni a voto plurimo).
29
L’acquisto è stato effettuato tramite una finanziaria di cui erano soci l’EdF, alcune banche italiane
(tra cui due legate alla Fiat da rapporti azionari) e la Tassara.
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di queste operazioni, nel 2003 la società ha dichiarato uno stato di crisi
finanziaria dal quale sta attualmente uscendo, dopo aver rinegoziato
con General Motors lo scioglimento dell’iniziale accordo su Fiat Auto,
aver ottenuto dalle banche finanziatrici il passaggio a capitale di un
prestito di 3 miliardi di euro e avendo alfine ceduto alla francese EdF il
possesso nell’ex Montedison.
Della Montedison (ridenominata Edison dopo il passaggio del controllo a mani Fiat) è da segnalare la progressiva smobilitazione di attivi
per la sistemazione della propria struttura finanziaria: quando la società era controllata dalla famiglia Ferruzzi le attività farmaceutiche
(Erbamont/Farmitalia) furono cedute a una multinazionale estera
(1993), successivamente – dopo la ristrutturazione ad opera del gruppo bancario coordinato da Mediobanca – sono state vendute le attività nel polipropilene (1995 e 1997), infine, dopo l’Opa promossa dalla Fiat, Cerestar/Cereol (2001), Eridania e Béghin Say (2001), Ausimont (2001), Antibioticos (2003).
Le principali acquisizioni dell’Eni hanno riguardato aziende titolari di
attività petrolifere ed energetiche; la maggiore è avvenuta nel 2000 ed
ha riguardato la britannica Lasmo con esborsi per 5,3 miliardi di euro.
L’altra società pubblica, Finmeccanica, ha perseguito una politica di acquisizioni all’interno e all’estero (tra queste, Agusta, Oto Melara, Breda,
joint-venture con la Westland negli elicotteri, Hartman & Braun) interrotta nel 1998 dalla cessione della controllata Elsag Bailey Process Automation all’ABB. Più di recente, la società ha acquisito la FiatAvio in compartecipazione con la Carlyle ed ha rilevato la quota Westland nella
joint-venture elicotteristica. Sono anche stati perfezionati accordi di
joint-venture nel settore difesa con l’Alcatel e la BaeSystems che hanno
condotto la Finmeccanica al secondo posto in Europa nell’elettronica
per la difesa.
Tra le altre multinazionali italiane, le operazioni di maggior rilievo hanno interessato Pirelli e Luxottica. La prima, specializzata nel settore gomma e cavi, aveva tentato nel 1990 l’acquisto della tedesca Continental con
un’operazione – messa a punto su consiglio di istituti esteri – che la portò
sull’orlo della bancarotta e che rese necessaria la vendita della divisione
dei prodotti diversificati. Dopo il risanamento, ha realizzato una singolare combinazione di transazioni: nel 2000 ha ceduto a gruppi americani
(Cisco e Corning) alcune aziende di alta tecnologia realizzando un incas-
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so record di oltre 5 miliardi di euro (che si è tradotto quasi totalmente in
utile, trattandosi di attività frutto di ricerca interna); l’anno successivo
queste liquidità sono state impiegate nell’acquisto del controllo della Olivetti a cui faceva capo la principale società italiana di telecomunicazioni
(Telecom Italia); l’acquisto ha comportato un indebitamento pari al 35%
circa del costo (8 miliardi di euro) e ha visto associati all’iniziativa il gruppo Edizione Holding (Benetton) e due banche italiane. Il risultato di questa operazione fu il mutamento di natura di uno dei principali gruppi manifatturieri italiani: da prevalentemente industriale a prevalentemente
terziario, da prevalentemente internazionale a prevalentemente domestico e, considerando i dati a livello di raggruppamento30, nel 2004 le telecomunicazioni rappresentavano l’82% del suo fatturato complessivo. Come già detto, una vicenda simile è stata quella della Montedison per la
quale la vendita di energia è passata dal 23% nel 2001 al 79% nel 2004, a
valere su un fatturato dimezzato. La Luxottica ha anch’essa realizzato acquisizioni, ma con obiettivi eminentemente industriali, diretti a rafforzare
la posizione di leader mondiale in alcuni segmenti dell’occhialeria.
Da ultimo, la scomparsa dell’Olivetti. L’abbandono dell’attività industriale elettronica è avvenuto nel 1997 con la cessione del ramo
personal computers (il prodotto che di fatto essa stessa aveva inventato31) a una società che farà bancarotta due anni dopo. La scomparsa
dell’Olivetti in quanto azienda si è invece consumata nel 2003, a seguito della fusione con la Telecom Italia che ne rappresentava ormai
di gran lunga l’attività prevalente. L’intervento dell’Olivetti nel comparto dei servizi – contrariamente a quanto visto per altri grandi
gruppi italiani i quali vi hanno semplicemente acquisito attività esistenti – era peraltro avvenuto in seguito a una scelta strategica rivelatasi corretta; essa aveva interpretato l’evoluzione del mercato delle
informazioni, che a partire dagli anni novanta poggiava sempre più
sulle reti e sulla connettività pervasiva e, quindi, sulla convergenza
tra informatica e telecomunicazioni32. Fu così che venne fondata una
compagnia telefonica specializzata nel mobile, la Omnitel, che nel
30
Nella definizione di R&S il raggruppamento è un insieme di gruppi controllati da un’unica mano,
compresi i casi nei quali la quota di possesso in società quotate non configura un controllo nominale.
31
L’Olivetti fu la prima ad ideare un calcolatore da tavolo, presentando nel 1965 il Programma 101,
prodotto che anticipava di 15 anni l’era del personal di massa.
32
Si veda l’audizone del Presidente onorario della società, Carlo De Benedetti, il 28 novembre
1996 alla Commissione attività produttive della Camera; Camera dei Deputati (1997), p. 285 e ss.
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•Le multinazionali europee e italiane: vizi e virtù dalla fine degli anni ottanta a oggi
1994 si aggiudicò una licenza come secondo operatore GSM33. L’anno successivo venne costituita l’Infostrada quale secondo operatore
italiano di reti fisse. Queste due società presero a crescere con un
certo successo e nel 1999 furono cedute alla Mannesmann (poi confluita nel gruppo Vodafone) e il ricavato (15 mila miliardi di lire) utilizzato per acquistare il controllo della Telecom Italia tramite un’Opa
le cui ragguardevoli proporzioni (61 mila miliardi di lire) richiesero
peraltro un forte indebitamento. Come già detto, questo copione è
stato replicato dalla Pirelli nel 2001, quando utilizzò il ricavato della
cessione di attivi industriali per acquistare il controllo della stessa
Olivetti, aumentando ulteriormente il carico debitorio sulla Telecom
Italia. Va anche ricordato che il Gruppo Vodafone rivendette poi all’Enel l’Infostrada per circa 14 mila miliardi di lire (ottenendo quindi
di mantenere il possesso dell’azienda più redditizia, l’Omnitel, ad un
costo irrisorio).
In conclusione, questa girandola di eventi ha condotto il cosiddetto “sistema Italia” a perdere un’azienda fortemente innovativa (Olivetti), a cedere a una società estera il più profittevole operatore nazionale di telefonia (Omnitel) e a rilasciare in capo al maggior fornitore di servizi pubblici (Telecom Italia) una massa debitoria di 50 mila miliardi di lire, pari a circa il quadruplo del suo margine operativo.
Si potrebbe tentare un parallelo con il ridimensionamento dell’IBM,
di cui in parte si è già parlato. Ma in quel caso si è trattato di un assottigliamento puramente finanziario che ha fatto seguito alla crisi tra fine anni novanta e primi anni novanta, prodotta dal mancato adeguamento a un mercato che presentava con crescente intensità alternative più economiche al mainframe a opera di competitori di nicchia e
a seguito dei mutati profili di domanda dei clienti. La società ha reagito promuovendo le attività di software e di servizi (passate dal 16%
del fatturato nel 1995 al 48% nel 2004), scorporando la produzione di
hardware (sono già state citate le vendite a Celestica e Lenovo) ad
esclusione delle piattaforme più evolute (server, supercomputer);
quindi, parlando in termini di “sistema paese”, da un lato l’IBM è riL’introduzione delle telecomunicazioni mobili in Italia avvenne all’inizio degli anni novanta a
opera della ex-Sip (società del Gruppo Iri) con la rete cellulare analogica Tacs nel 1990. La rete
GSM fu introdotta nel 1995 liberalizzando il mercato, con licenze alla TIM (società scissa dalla
Sip) e all’Omnitel.
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masta leader mondiale nelle sue attività, dall’altro i suoi errori hanno
favorito la nascita e lo sviluppo di altri produttori nazionali, tra cui
non trascurabile quello della Microsoft il cui valore di Borsa a fine
2004 era 1,8 volte il suo.
Nel loro complesso, nel periodo 1989-2004, le multinazionali italiane
hanno perso terreno rispetto ai gruppi europei: la loro quota sul valore
aggiunto è scesa – su base omogenea – dall’8,1% nel 1989 al 7,5% nel
1995 al 6,2% nel 2004; quella sul totale degli attivi, rispettivamente, dal
12% al 10,3% e al 7,5%. In definitiva, sembra che la posizione competitiva delle nostre multinazionali si sia indebolita essenzialmente per aver
puntato in prevalenza su produzioni di massa a basso contenuto innovativo e sullo sviluppo di un modello d’impresa, il conglomerato, che riduce l’efficienza complessiva, appesantendo i fabbisogni di capitale di
cui è stato poi fatto un cattivo uso. Le politiche descritte e i loro risultati
di gestione hanno anche portato a uno stato di forte fragilità finanziaria:
nella manifattura, il rapporto tra il patrimonio netto tangibile e i debiti finanziari a fine 1995 era pari al 73,3% contro la media europea del
111,2%, mentre a fine 2004 si era caduti al 31,9% (41 punti in meno, stessa variazione della media europea che però si attesta al 69,2%). La conclusione è dunque poco esaltante: le nostre multinazionali sono costituite da un’impresa pubblica dai risultati sfavillanti, determinati dalla
congiuntura energetica e dalla posizione quasi-monopolistica sul mercato interno, e da alcuni gruppi manifatturieri caratterizzati nella loro
media da produzioni a contenuto tecnologico povero che spuntano
bassi margini sui mercati, che vengono generati con un eccesso di capitale la cui struttura configura una grande instabilità finanziaria.
7. Alcune conclusioni
Le analisi svolte in questo scritto mettono in evidenza che le maggiori
multinazionali da un lato tendono a specializzarsi per paese preferendo specifici settori (energia, mezzi di trasporto, meccanica pesante,
elettronica, chimica, siderurgia), dall’altro hanno presentato un’evoluzione storica recente che le ha portate a ricentrare all’estero una quota
consistente della loro attività produttiva, col conseguente beneficio di
buoni risultati gestionali e abbondanti flussi di cassa. Ne è derivata una
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•Le multinazionali europee e italiane: vizi e virtù dalla fine degli anni ottanta a oggi
diminuzione d’interesse per i “luoghi” domestici; il contesto qui è rappresentato da un processo che non viene affidato agli automatismi del
mercato e della tecnologia, ma ad una sorta di “contrattazione” tra soggetti politici locali e manager delle transnazionali34. Tutto ciò fornisce
lo spunto per alcune prime riflessioni:
a) in primo luogo, le grandi multinazionali paiono avere attivato un circolo tra il virtuoso e il vizioso; da un lato, le favorevoli condizioni
gestionali hanno prodotto una ragguardevole generazione di cassa
che esse hanno preso a “restituire” al mercato (per lo più domestico), nel quale vi sarebbero dunque le condizioni ideali affinché
nuove iniziative (anche le più innovative) possano trovare un adeguato finanziamento; dall’altro lato, quei risultati gestionali derivano
in non poca misura dalla globalizzazione delle fabbriche – oltre che
dei mercati – e hanno prodotto una progressiva riduzione della quota di valore aggiunto distribuita al fattore lavoro; in altre parole –
quanto meno in parte – si ha l’impressione che queste imprese tolgano ai poveri per dare ai ricchi, laddove i poveri sono rappresentati dalle classi e dai paesi a bassi salari e i ricchi sono costituiti in massima parte dai loro azionisti35; ove non si tratti dello Stato, dobbiamo
immaginare prevalentemente investitori istituzionali (fondi, banche,
assicurazioni) i quali gestiscono capitali affidati in maggioranza dalle classi più agiate e dalle istituzioni; quando questo circolo degenera nei casi Enron e Parmalat non può che essere pericolosamente vizioso; quando agisce in un contesto di regole chiare e severe può
essere aiutato a tornare virtuoso; pare dunque che si debba fare
molta attenzione alla corporate governance, sia delle imprese e dei
grandi investitori, sia soprattutto delle stesse istituzioni;
Vaccà (2003), p. 12.
La delocalizzazione verso i paesi in via di sviluppo non va ovviamente giudicata in negativo (soprattutto dal loro punto di vista), dato che ne spinge la crescita utilizzando capitali esterni. D’altro
canto, i differenziali salariali tra paesi ricchi e paesi in via di sviluppo sono talmente ampi da togliere ogni possibile dubbio sul fatto che una quota consistente dell’attività manifatturiera che genera prodotti standard – prima o poi – debba necessariamente delocalizzarsi. Sulla base dell’indagine annuale dell’Unione Industriale Torino (2005), relativa a 65 multinazionali italiane operanti in
28 paesi esteri, fatto 100 il costo orario in euro degli operai tedeschi nel 2004 (il livello massimo) si
hanno i seguenti indici: Stati Uniti 81, media Eurozona 78, Italia 64, Turchia 29, Est europeo (Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Polonia, Croazia) 15, Brasile 14, Messico e Argentina 10-12,
Cina Bulgaria e Tunisia 5, India 3. In senso inverso le ore lavorate; nel settore metalmeccanico:
Germania 100, eurozona 103, Italia 104, Brasile 136, Cina 141, India 148.
34
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b) In secondo luogo, le grandi multinazionali rappresentano di fatto
“campioni nazionali” per così dire “naturali”; anzi, ormai bisognerebbe dire “campioni europei” e una politica industriale deve necessariamente tenerne conto; poiché gli obiettivi di una tale politica vanno a mio avviso visti dal lato degli effetti di benessere per i
cittadini, i risultati da ottenere riguardano un aumento del progresso tecnico che possa migliorare quel benessere36; solo così diventa
socialmente possibile accettare posizioni di mercato oligopolistiche (spesso confinanti col monopolio) in una comunità la cui governance dovrebbe rappresentare l’applicazione del trattato di
Maastricht per “un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”; pare che la politica corretta debba sfruttare l’apparente
contraddizione che sta nel combinare la salvaguardia del campione nazionale (o europeo) con la difesa della concorrenza alla quale i nuovi campioni sono (e debbono essere) inevitabilmente
esposti37; ma poiché imprese di questa dimensione sono altrettanto inevitabilmente dotate di grande potere di pressione (ad esempio sui, e tramite i, media)38 paiono opportune le iniziative che
combinano un indirizzo verso lo sviluppo di prodotti e tecnologie
36
Mosconi (2006) individua i nuovi campioni “europei” nelle aree dove è maggiore lo sforzo da produrre in ricerca e sviluppo e sono altresì importanti le economie di scala. L’Autore ricorda inoltre che
il contesto che generò i “vecchi” campioni nazionali era molto diverso da quello attuale: vi era un
forte intervento pubblico (poi sensibilmente ridotto da privatizzazioni e liberalizzazioni), vi era un
ruolo finanziario minore svolto dalle borse a favore di sistemi fortemente bancocentrici e infine, è intervenuta la globalizzazione che espone tutte le imprese domestiche al confronto internazionale.
Oggi una politica virtuosa per le multinazionali può peraltro cogliere l’occasione della cosiddetta
“strategia di Lisbona”, volta a favorire l’aumento di competitività dell’industria europea, che in Italia
si è tradotta nel cosiddetto piano “PICO” (Cfr. Review of Economic Conditions in Italy, no. 2, 2005).
37
Si vedano anche le considerazioni di Prosperetti-Macchiati (2006), i quali sottolineano i rischi
che il sostegno di un “campione” inefficiente, anche in presenza di un controllo inadeguato del
management, possano gravare la comunità nazionale di costi inusitati, come accaduto nei casi
delle “abissali incompetenze manageriali” verificatesi recentemente in multinazionali francesi che
avevano intrapreso campagne di internazionalizzazione.
38
I maggiori gruppi privati italiani (80% delle 12 grandi multinazionali in termini di fatturato) detengono posizioni di controllo dirette o indirette nei tre maggiori quotidiani nazionali (Corriere
della Sera, Repubblica e Stampa), mentre il quotidiano economico di gran lunga più diffuso (Il Sole 24 Ore) è controllato interamente dall’associazione degli industriali. Non esiste all’estero una situazione paragonabile, ma va ricordato che la pressione viene esercitata con modalità differenti
quali i budget pubblicitari da distribuire ai media, gli interventi attraverso potenti uffici stampa e
pubbliche relazioni e un’attività lobbistica assai intensa (l’Economist del gennaio 2002 ricordò che
la Enron aveva dato contributi bipartisan a tre quarti del senato americano, inclusi 19 dei 23 membri della Commissione energia, ed era anche stata il 12° contributore della campagna presidenziale di Bush).
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•Le multinazionali europee e italiane: vizi e virtù dalla fine degli anni ottanta a oggi
innovativi con un controllo accurato e costante delle azioni intraprese39;
c) Dai dati qui esaminati non pare verificata l’ipotesi di un capitalismo
che finisce per “autodistruggersi”40; tale autodistruzione verrebbe
dall’assenza di investimenti (e quindi di progetti) anche a seguito di
una visione di profitti di breve periodo in cui si inserisce un crescente divario di reddito tra le classi lavoratrici (si citano gli 800 euro
mensili di una cassiera del Carrefour e l’indennità di buonuscita con
tre anni di salario guadagnata dal suo presidente, pari a più di 9 milioni di euro); dal contesto di spinta finanziarizzazione, che distingue i mercati mondiali (che rende palese un’esigenza di elevati rendimenti del capitale, a costo di delocalizzazioni che consentono di
comprimere i salari) e che allontana la capacità di affrontare progetti
di lungo periodo finanziati dal risparmio delle famiglie (che per sua
natura avrebbe una visione pure di lungo periodo in ottica pensionistica). L’analisi svolta nei paragrafi precedenti mostra, invece, che le
multinazionali hanno mantenuto una buona attività di investimento
(quindi hanno avuto progetti da perseguire) e, sotto certi aspetti,
hanno anche avviato processi virtuosi; vale inoltre l’osservazione
che la globalizzazione comporta investimenti a lungo termine (si
muovono infatti imprese e non semplici capitali in prestito)41. A mio
avviso, non paiono quindi avviate verso l’autodistruzione, ma al
contrario verso il rafforzamento di un capitalismo che diviene semIn questo senso va ad esempio la recente iniziativa francese mossa dal Rapporto Beffa (2005).
L’intento è quello di promuovere innovazioni di portata tale da modificare la specializzazione dell’industria francese a favore di settori che applichino nuove e alte tecnologie. I progetti vengono
proposti da gruppi di imprese in filiera, capeggiate da leader, i quali partecipano al costo dell’iniziativa con un apporto pubblico al massimo pari al 50% in termini di contributi e finanziamenti rimborsabili. I lavori sono monitorati da un’agenzia specializzata (Agence de l’Innovation Industrielle),
ente di diritto pubblico organizzato privatisticamente, la quale da un lato favorisce i rapporti di filiera (una parte consistente dei fondi pubblici è destinata alle piccole e medie imprese che ne fanno
parte), dall’altro si affianca all’Oséo Anvar, agenzia operante anch’essa a progetto, che favorisce
l’innovazione e il trasferimento tecnologico alle PMI localizzate in poli di competitività.
40
Artus-Virard (2005).
41
Barba Navaretti-Venables (2004), p. 278. Peraltro, nonostante questi autori ritengano che la mobilità
delle multinazionali sia inferiore a quella delle imprese nazionali, è pur sempre vero che l’uscita da un
paese di un blocco di produttori importanti potrebbe mettere in seria difficoltà interi territori. Indicativa
pare l’esperienza del Galles, dove l’improvviso ritiro delle multinazionali estere (giapponesi, americane e tedesche), attratte da nuovi siti a più basso costo della manodopera, ha provocato nel 1998-2002
una perdita occupazionale di 44.000 unità, poi riassorbite nel settore pubblico. Cfr. Cooke (2004).
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pre più sovranazionale (che in ciò potrebbe anche considerare i
paesi in via di sviluppo a mò di fornitori di quell’esercito di riserva di
marxiana memoria), ma non per questo impossibile da regolare; in
presenza di beni inevitabilmente prodotti da imprese grandi, resta
l’esigenza di un orientamento “sociale” del loro operato che consenta di eliminare gli eccessi all’interno della loro organizzazione (agendo di nuovo sulla corporate governance) e quelli sulla società nella
quale esercitano i poteri oligopolistici (agendo sulle authorities di sistema); è sempre bene avere piena consapevolezza del rischio elevato che un’impresa dotata di grande potere di pressione sulla società possa coltivare “vizi” che si traducono poi addirittura in frodi
che una comunità finanziaria organizzata ingenuamente si ritrova a
subire, come accaduto nei casi Enron, Worldcom, Cirio e Parmalat42;
d) Molto si discute su quale genere di impresa occorra preferire per garantire uno sviluppo equilibrato ed un benessere diffuso; al di là dei
vizi e virtù delle varie categorie che abbiamo sottomano (piccole e
grandi, ovvero pigmei e vatussi)43, pare utile operare in modo che la
struttura industriale di un paese avanzato non poggi unicamente su
imprese sovranazionali, essendo – specie per le multinazionali di origine estera – elevati i rischi di delocalizzazioni e di conseguenti impoverimenti tecnologici, ma venga completata da una rete di imprese di
piccola e media dimensione che siano in grado di trasferire e mantenere le conoscenze radicate sul territorio; solo così è possibile diffondere il benessere che altrimenti resterebbe (rischiosamente) concentrato nei pochi siti che ospitano gli impianti di grande dimensione.
8. L’Italia in declino
Quanto detto nei paragrafi precedenti mette in evidenza uno stato di
Ceprini (2005), p. 6, citando questi casi di “mala finanza” ricorda come essi rappresentino un miscuglio di corruzione, frode, speculazione, incapacità manageriale e totale indifferenza ai sacrifici
fatti da milioni di risparmiatori che avevano creduto in queste imprese con alte aspettative.
43
Becattini-Bellandi (2002), p. 612, sottolineano che un sistema misto (distrettuale e di grande impresa) deve giocare su due tavoli, promuovendo su uno l’accumulazione e il progresso tecnico,
sull’altro la “cura” dei luoghi dove si vive e si lavora.
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•Le multinazionali europee e italiane: vizi e virtù dalla fine degli anni ottanta a oggi
forte declino della grande impresa italiana nei settori dell’industria pesante e tecnologicamente complessa, che non può essere compensata
dall’emergere di gruppi operanti nell’industria leggera e dall’avanzata
delle imprese di media dimensione44. Sui motivi del declino è da tempo
sorto un acceso dibattito. I dati qui presentati consentono forse di arricchire il quadro entro il quale si confrontano le diverse posizioni. Si può
cominciare con l’escludere alcune delle cause spesso richiamate per
spiegare lo stesso declino:
a) In primo luogo, la frammentazione: le considerazioni sulle grandi
imprese multinazionali italiane e quelle avanzate in altra sede per
illustrare il processo del nostro sviluppo industriale45 mostrano, in
tutta evidenza, che il declino non può essere attribuito alla parte
frammentata dell’industria (le cui difficoltà sono semmai assai recenti e circoscritte a determinati settori o aree), ma al contrario proprio a quelle grandi imprese tecnicamente complesse di cui non a
caso si evoca continuamente l’assenza; al pianto greco sul fatto che
i pigmei restino forti conviene dunque sostituire una riflessione
profonda sui motivi che rendono deboli i vatussi, una razza che rischia l’estinzione46;
b) In secondo luogo, la proprietà familiare: ferma restando la necessità di assetti organizzativi adeguati, le imprese che hanno maggiormente sostenuto l’economia nella presunta fase di declino sono proprio quelle a controllo familiare, di piccola e media dimensione, mentre i gruppi in ritirata comprendono, da un lato, l’industria a partecipazione statale (a seguito delle privatizzazioni degli
anni novanta, peraltro indotte in non piccola misura dalle difficoltà
gestionali) e, dall’altro, quelle imprese che hanno associato al controllo la vasta platea degli investitori istituzionali e cioè le società
quotate in Borsa; sulle modalità di esercizio di questo controllo v’è
molto da discutere, come pure sulle capacità del sistema di seleColtorti (2005).
Becattini-Coltorti (2004) e Becattini-Dei Ottati (2006).
46
Tra il 1991 e il 2001 (ultimo intervallo censuario per il quale si dispone dei dati Istat) le unità locali manifatturiere con 1.000 e più addetti sono diminuite di quasi un terzo e hanno ridotto gli occupati del 40%. Coltorti (2005), p. 31.
44
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zionare gli assetti proprietari più adeguati47; ma è innegabile che
sia venuta a mancare proprio la quota di industria che poteva trovare nella Borsa valori (italiana ed estera) il supporto finanziario al
suo sviluppo; una Borsa valori che in Italia è rimasta minuta in un
contesto nazionale paradossalmente ricco di capitali;
c) Un insieme di altre motivazioni, legate il più delle volte ai cosiddetti
costi del sistema paese; è indubbio che tali costi producano deterrenti allo sviluppo e che occorra far di tutto per ridurli o eliminarli;
ma ritengo impossibile valutarne con certezza la reale portata sia in
assoluto, sia in termini relativi rispetto ai paesi nostri competitor (ad
esempio, che effetti producono gli aiuti di Stato che nelle statistiche
dell’UE vedono l’Italia in testa?). Come breve e parziale casistica: i)
una presunta difficoltà di fare impresa in Italia, che pare fuori luogo
invocare in un paese che a fine 2004 contava oltre 5 milioni di aziende attive, tra le quali 643 mila manifatturiere48; ii) una presunta elevata tassazione, laddove quella effettiva sulle grandi imprese – quelle
in declino – è molto contenuta (oscillando tra il 30 e il 34%, sostanzialmente in linea con la media europea), e con la parte più dinamica delle imprese – quelle di media dimensione – al contrario fiscalmente vessata49; iii) una presunta incapacità “genetica” di gestire
aziende complesse in un paese che ha invece saputo dar vita ad
Alcuni – AA.VV. (2005), p. 35 – ritengono che una ripresa dello sviluppo italiano (che presuppone un’allocazione delle risorse verso soggetti in grado di gestire le tecnologie più moderne), sia
ostacolata dalla concentrazione e dalla stabilità degli assetti proprietari (il più delle volte familiari)
delle imprese, i quali impedirebbero che a capeggiarle fossero i manager più efficienti. Questa posizione, riferita alle imprese molto grandi, è più che condivisibile (compresi i corollari in tema di tutela degli interessi dei finanziatori di fronte all’eccesso di benefici tratti da chi detiene il controllo);
qui, infatti, le posizioni oligopolistiche tendono ad offuscare la capacità dei mercati (“dominati” da
pochi) di selezionare i migliori e ciò vale anche per il mercato borsistico, nel quale non è affatto dimostrato che siano le imprese inefficienti a cadere preda delle imprese efficienti. Al contrario, le
imprese industriali di piccola e media dimensione vengono implacabilmente giudicate dal mercato
dei beni che producono: una famiglia di imprenditori incapaci sarebbe punita da quello stesso
mercato che porterebbe la loro impresa al fallimento, essendo sopraffatta dalle (molte) altre che vi operano con efficienza. Vale l’ovvia considerazione che, sin tanto che l’impresa a controllo familiare realizza
profitti adeguati (è quindi efficiente), non esiste miglior manager di chi l’ha fondata. Ed il mercato dei
consumatori pare, in termini di benessere dei cittadini, un giudice assai più accettabile e severo di quello finanziario (dove l’interesse di quegli stessi cittadini viene mediato da broker, analisti, agenzie di rating, revisori i cui grandi limiti sono emersi in tutta evidenza nei già richiamati casi Enron e Parmalat).
48
Non deve sfuggire che queste aziende usano 590 mila unità locali, ovvero 1,7 volte le unità locali di tutta l’industria manifatturiera statunitense.
49
Mediobanca (2005), p. XVIII.
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•Le multinazionali europee e italiane: vizi e virtù dalla fine degli anni ottanta a oggi
esempi di assoluta leadership mondiale (Olivetti, Montecatini, Fiat);
iv) presunte difficoltà di individuare un management adeguato, ovvero un falso problema, essendo sempre possibile per una grande
azienda assumere dirigenti esteri.
Il problema viene dunque dalle modalità di uso del capitale, mentre gli
affanni sulla produttività del lavoro non sono che il riflesso delle politiche perseguite, le quali non hanno consentito di recuperare sui prezzi di
vendita (e quindi sui margini operativi) i costi dell’eccessiva dotazione di
quello stesso capitale. È mancata l’azione dal lato dei prodotti e dei mercati e soprattutto dal lato delle tecnologie che debbono sorreggere la
produzione di quei beni. La bassa intensità di ricerca e sviluppo (2,9%
del fatturato 2004 contro il 4,6% delle multinazionali giapponesi e tedesche, il 4% di quelle statunitensi, il 3,8% di quelle scandinave e il 3,3%
delle francesi) ha indotto una debole innovazione dei prodotti che sono
quindi risultati poco competitivi sui mercati. Quando queste pur scarse
spese hanno prodotto potenziali grandi risultati, l’assetto di comando
delle grandi imprese italiane non ha saputo elaborare un vantaggio competitivo, preferendo la miope via della cessione a quella dello sviluppo.
Non è agevole comprendere i motivi di comportamenti che sovente hanno poco a che fare con ragioni “economiche”; è stato argomentato che
mentre nel modello chandleriano le imprese crescono seguendo motivazioni economiche, l’esperienza storica italiana richiamerebbe ragioni di
natura “strategica” con lo scopo di influire sui pubblici poteri. Sicché, a
fronte di un capitalismo americano “manageriale”, uno britannico “personale” e uno tedesco “cooperativo”, vi sarebbe un capitalismo italiano
“politico”50. Si torna alla governance d’impresa e di sistema e alla capacità
del mercato e degli intermediari di selezionare le operazioni aziendali
più efficienti affinché i vizi non abbiano a prevalere sulle virtù.
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04 COLTORTI
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Pagina 126
04 COLTORTI
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Appendice
Le multinazionali europee e italiane:
vizi e virtù dalla fine degli anni ottanta a oggi
04 COLTORTI
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9:13
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Fulvio Coltorti
Fig. 1 - Fatturato delle multinazionali e PIL nel 2004
(verso destra in ordine decrescente di PIL)
Fatturato delle multinazionali in milioni di euro
2.000 -
- 60
1.800 - 50
1.600 1.400 -
- 40
1.000 -
% sul PIL
1.200 - 30
800 - 20
600 400 -
- 10
Danimarca
Finlandia
-
-0
-
-
Svezia
% sul PIL
Norvegia
-
-
Svizzera
-
Fatturato delle multinazionali
Belgio-Lux
-
Olanda
Italia
Spagna
-
Francia
Regno Unito
Germania
Giappone
USA
-
0-
-
200 -
Lineare (% sul PIL)
Fig. 2 - Fusioni e acquisizioni tra le maggiori multinazionali
(Totale attivo in milioni di euro)
773.395
506.018
459.148
319.167
128
1995
1996
67.330
1997
1998
1999
2000
2001
2002
-
-
-
-
-
-
-
-
-
-
1994
182.243
151.433
49.673
43.778
2003
-
10.543
294.385
2004
25-07-2006
9:13
Pagina 129
•Le multinazionali europee e italiane: vizi e virtù dalla fine degli anni ottanta a oggi
Fig. 3 - Rendimento reale del capitale investito dalle multinazionali (%)
23
21
19
17
15
13
11,6
10,3
11
9,8
9,2
8,1
8,9
8,0
9
8,3
7,9
7,3
7
1995
1996
1997
1998
tutte le multinazionali
1999
2000
energetiche
2001
2002
manifatturiere
2003
-
-
-
-
-
-
-
-
-
-
3
-
5
2004
manifatturiere europee
Fig. 4 - Spese di ricerca e sviluppo delle multinazionali europee (indici 1995 = 100)
160
145
130
115
100
-
-
-
-
-
-
-
-
-
-
-
-
-
-
-
70
-
85
-
04 COLTORTI
1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004
indice delle spese di R&D - Europa
tutte le imprese
Indice relativo R&D/fatturato
- tutte le imprese
Indice relativo R&D / fatturato - manifatturiere
129
04 COLTORTI
25-07-2006
9:13
Pagina 130
Fulvio Coltorti
Tab. 1 - Principali specializzazioni manifatturiere delle multinazionali:
quote sul fatturato
Area
EUROPA
I
II
III
% energia su manifatturiero
USA
I
II
III
% energia su manifatturiero
GIAPPONE
I
II
III
Settore
Mezzi trasporto
Chimica
Meccanica
altri (1)
Manifattura
Mezzi trasporto
Elettronica
Chimica
altri
Manifattura
Mezzi trasporto
Elettronica
Meccanica
altri (2)
Manifattura
% energia su manifatturiero
(1) Elettronica 9,3% (+0,9 punti rispetto al 1995).
(2) Chimica 6,2% (+0,8 punti rispetto al 1995).
Fonte: elaborazioni su dati R&S (multinationals).
130
2004
punti %
27,2
21,0
12,8
39,0
100,0
38,9
variazione 1995-04
punti %
6,2
-3,7
-1,5
-1,0
17,1
25,5
23,2
21,4
29,9
100,0
32,3
-5,4
3,4
1,5
0,5
37,7
35,5
7,9
18,9
100,0
2,5
4,2
0,1
-2,2
-2,1
7,2
-0,4
1995
43,7
84,3
84,2
33,2
27,7
10,4
28,5
36,1
30,0
28,8
55,8
81,1
119,1
86,2
48,0
48,3
56,1
61,5
51,4
32,2
142,1
130,2
115,1
108,0
89,0
75,2
70,7
64,6
62,4
61,9
Miliardi di euro
209,3
194,7
193,8
122,7
104,9
87,2
58,4
49,1
46,9
42,1
2004
154,7
60,5
-3,4
25,3
85,4
55,7
26,0
5,0
21,4
92,2
378,9
131,0
130,2
269,6
278,7
738,5
104,9
36,0
56,3
46,2
274,9
142,5
21,8
55,2
174,7
148,2
34,2
56,0
78,3
175,1
423,3
176,6
166,2
465,4
285,7
738,5
179,4
110,7
120,2
150,6
1989-2004
Variazione %
1995-2004
9:13
37,9
53,7
94,5
69,6
32,4
30,3
52,7
41,4
35,0
22,5
40,0
70,4
72,8
21,7
27,2
10,4
20,9
23,3
21,3
16,8
1989
25-07-2006
(1) Nel 1989 e nel 1995 dati riferiti alla sola Exxon.
(2) Nel 1989 e nel 1995 dati riferiti all'Elf Aquitaine.
(3) Nel 1989 e nel 1995 dati riferiti alla Texaco.
(4) Nel 1989 e nel 1995 dati riferiti alla Phillips Petroleum.
Fonte: elaborazioni su dati R&S (multinationals).
ENERGIA
1 BP (GB)
2 Royal Dutch Shell (GB)
3 ExxonMobil (US) (1)
4 Total (FR) (2)
5 Chevron (US) (3)
6 ConocoPhillips (US) (4)
7 ENI (IT)
8 E.ON (DE)
9 EDF (FR)
10 RWE (DE)
MANIFATTURA
1 DaimlerChrysler (DE)
2 Toyota (JP)
3 General Motors (US)
4 Ford (US)
5 Volkswagen (DE)
6 Siemens (DE)
7 IBM (US)
8 Hitachi (JP)
9 Matsushita El. (JP)
10 Honda (JP)
Prime dieci multinazionali
Tab. 2 - Le maggiori società industriali del mondo in base al fatturato 2004
04 COLTORTI
Pagina 131
•Le multinazionali europee e italiane: vizi e virtù dalla fine degli anni ottanta a oggi
131
132
Toyota (JP)
Royal Dutch Shell (GB)
ExxonMobil (US)
BP (GB)
General Motors (US)
Volkswagen (DE)
General Electric (US)
Ford (US)
Total (FR) (1)
IBM (US)
Siemens (DE)
Nissan (JP) (2)
Chevron (US)
Honda (JP)
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
66,7
68,4
70,5
70,5
72,7
84,5
88,4
100,1
119,5
130,6
131,4
137,6
138,0
174,3
178,0
mrd EUR
150,8
159,1
38,0
59,9
21,0
140,1
34,8
161,4
163,2
56,0
244,9
99,4
50,0
105,1
260,3
%
su 1995
301,8
141,7
116,9
115,6
16,9
208,4
106,1
222,9
313,5
72,8
225,2
101,5
81,3
254,3
466,9
%
su 1989
Variazione Variazione
Toshiba (JP)
Eni (IT)
Siemens (DE)
Volkswagen (DE)
Daimler Benz (DE)
Fiat (IT)
Nissan Motor (JP)
Matsushita El. (JP)
IBM (US)
Ford (US)
Exxon (US)
Hitachi (JP)
General Motors (US)
Toyota (JP)
Royal Dutch Shell (GB)
Società
42,1
42,7
44,1
45,4
49,4
49,6
51,1
56,3
60,1
65,6
69,0
72,1
83,7
85,0
92,0
mrd EUR
attivo
General Electric (US)
Daimler Benz (DE)
Mobil (US)
Nissan Motor (JP)
Siemens (DE)
Fiat (IT)
BP (GB)
Ford (US)
Matsushita El. (JP)
Hitachi (JP)
Toyota (JP)
IBM (US)
Exxon (US)
General Motors (US)
Royal Dutch Shell (GB)
Società
Nel 1989
31,0
31,4
32,1
32,5
32,7
35,4
40,4
42,9
44,2
44,3
49,2
62,2
68,3
75,6
76,1
mrd EUR
attivo
9:13
(1) Variazioni calcolate sul dato Elf Aquitaine.
(2) Il maggiore azionista è Renault con il 44%. Il totale attivo dell'aggregato Renault-Nissan è pari a 129,0 miliardi di euro.
Fonte: R&S (Multinationals). Il totale attivo esclude le attività immateriali.
DaimlerChrysler (DE)
attivo
Nel 1995
25-07-2006
1
Società
Nel 2004
Tab. 3 – Le 15 maggiori società industriali del mondo in base al totale attivo
04 COLTORTI
Pagina 132
Fulvio Coltorti
56,6
58,4
37,1
38,6
Italia
Regno Unito
Europa
Nord America
Giappone
38,4
44,5
66,9
75,1
55,5
56,6
65,2
* Dati rettificati per renderli omogenei alla serie successiva.
^ 46% considerando i soli Paesi extraeuropei.
Fonte: R&S (Multinationals).
54,1
47,9
Germania
51,9
%
%
51,3
47,4
77,4^
81,7
58,5
75,6
76,0
%
2004
12,7
10,3
19,0
25,1
10,6
21,5
24,1
punti
1989-04
Variazione
n.d.
35,6
47,9
53,9
34,1
26,1
46,9
%
1989*
n.d.
36,2
49,6
63,0
37,5
34,7
43,9
%
1995
n.d.
55,2
64,0
74,9
53,8
54,0
57,9
%
2004
Quota estera degli occupati
19,6
16,1
21,0
19,7
27,9
11,0
punti
1989-04
Variazione
9:13
Francia
1995
1989*
Quota estera del fatturato
25-07-2006
Paese
Tab. 4 – Multinazionali industriali: quota estera sul fatturato e sugli occupati
04 COLTORTI
Pagina 133
•Le multinazionali europee e italiane: vizi e virtù dalla fine degli anni ottanta a oggi
133
134
nel 2004
Fonte: elaborazioni su dati R&S (Multinationals).
94,9
Svizzera
Italia
89,8
61,5
Germania
108,7
82,2
Francia
Scandinavia
67,5
Benelux
Regno Unito
90,9
75,6
USA
81,2
Europa
MANIFATTURA:
92,3
92,3
USA
45,5
39,8
40,6
90,6
37,6
31,5
24,7
56,9
48,0
40,3
42,9
...
...
...
...
...
...
...
...
...
29,7
34,8
1989-95
...
...
...
...
...
...
...
...
...
85,3
96,1
1989-04
variazione % sui dati in euro
1995-04
nel 2004
48,6
47,4
50,6
38,3
54,8
41,8
45,2
55,6
48,2
55,4
47,8
migliaia di euro
21,9
25,4
33,6
74,8
26,3
13,8
11,4
47,2
40,8
24,8
38,8
...
...
...
...
...
...
...
...
...
26,1
36,3
1989-95
...
...
...
...
...
...
...
...
...
75,0
66,1
1989-04
variazione % sui dati in euro
1995-04
9:13
Europa
migliaia di euro
Costo del lavoro per dipendente
25-07-2006
TUTTI I SETTORI:
Paese
Valore aggiunto per dipendente
Tab. 5 – Multinazionali industriali: Valore aggiunto e Costo del lavoro per dipendente
04 COLTORTI
Pagina 134
Fulvio Coltorti
65,8
Europa
57,8
52,8
59,8
46,5
50,0
62,3
66,7
57,3
2004
Fonte: elaborazioni su dati R&S (Multinationals).
63,8
Regno Unito
55,6
50,7
Svizzera
Scandinavia
54,0
Italia
Benelux
77,1
67,9
Germania
67,3
1995
-8,0
-2,8
-4,0
-4,2
-4,0
-5,6
-10,4
-10,0
-0,5
-1,3
-2,5
1,6
-0,8
-3,2
2,0
-3,6
-1,1
0,3
-0,4
-1,6
0,4
-7,4
-1,3
-1,1
-0,6
1,6
2,1
-3,2
1,2
-4,2
-3,3
2,5
in % sul valore aggiunto complessivo
Saldo oneri (-) e proventi finanziari
Variaz.
Variaz.
1995
2004
punti
punti
33,7
43,1
33,7
50,9
45,2
28,9
24,9
29,1
1995
41,1
47,5
39,8
51,9
50,4
30,3
32,0
41,6
2004
Profitti lordi
7,4
4,4
6,1
1,0
5,2
1,4
7,1
12,5
Variaz.
punti
34,8
35,2
32,8
38,5
33,7
31,2
37,1
32,2
1995
33,6
33,9
34,0
41,7
38,2
26,0
32,4
32,1
2004
Valore aggiunto in %
del fatturato
9:13
Francia
Paese
Lavoro
25-07-2006
Tab. 6 – Ripartizione del valore aggiunto delle multinazionali manifatturiere
04 COLTORTI
Pagina 135
•Le multinazionali europee e italiane: vizi e virtù dalla fine degli anni ottanta a oggi
135
136
15,6
Multinazionali manifatturiere
6,2
Giappone
10,0
18,9
14,1
17,3
18,4
23,7
10,4
9,1
11,0
19,5
14,7
7,7
3,8
11,1
7,1
11,3
11,3
15,3
5,2
2,9
5,8
8,0
7,7
7,8
9,6
6,1
11,1
9,2
14,7
10,9
18,2
5,4
5,4
8,3
10,6
9,0
11,5
167,0
131,2
200,7
170,4
128,6
157,1
124,9
130,4
263,6
143,0
197,4
167,1
166,8
153,8
149,1
148,6
134,7
103,6
146,5
120,2
146,7
147,7
115,5
161,2
142,7
210,1
58,8
47,7
65,4
57,9
64,1
63,2
61,5
46,8
58,5
50,3
63,5
56,9
66,7
62,8
56,6
67,5
56,1
69,1
68,8
61,5
42,0
47,1
52,6
66,2
59,9
77,4
9,9
3,1
19,8
11,2
8,5
7,5
14,0
7,7
8,7
20,9
3,2
11,1
4,6
(a) Calcolato come rapporto tra MON (margine operativo netto) aumentato dei proventi finanziari (incluso il risultato di società valutate all'equity) e capitale investito.
(b) Rotazione = apporto tra fatturato e capitale investito. Vale la relazione: roi = (MON+proventi finanziari) / Fatturato x Fatturato / Capitale investito.
Fonte: elaborazioni su dati R&S (Multinationals).
16,2
24,8
18,5
Svizzera
Stati Uniti
21,3
Scandinavia
Totale Europa
13,2
23,0
14,0
Germania
Regno Unito
10,4
Francia
Italia
17,9
Benelux
16,8
27,5
5,3
35,6
25,7
27,6
13,7
35,6
23,5
16,0
40,8
25,3
24,7
9,0
22,1
9:13
Europa:
15,7
16,2
Multinazionali energetiche
25-07-2006
Tutte le multinazionali
Rendimento del capitale investito
Capitale netto in % Attivi immateriali
Margine operativo
Rotazione
del
capitale investito in % del capitale
netto in %
roi (a)
b
)
complessivo
investito
del
capitale
(
del fatturato (b)
1995
2004
1995
2004
1995
2004
1995
2004
1995
2004
Categorie di
multinazionali
nei diversi Paesi
Tab. 7 – Indicatori di rendimento delle multinazionali (1995-2004)
04 COLTORTI
Pagina 136
Fulvio Coltorti
5,5
4,9
4,3
3,7
2,5
1,5
3,8
Elettronica
Aerospazio e difesa
Autoveicoli e parti
Chimica
Engineering e macchine
Telecomunicazioni
Totale 1000 società
a
( ) Spese non inferiori a 100 milioni di sterline (tra parentesi le prime società europee nel caso non siano tra le prime tre). In grassetto le società comprese nell'indagine R&S.
Fonte: elaborazioni su dati DTI (2005).
6,6
Salute
9:13
8,6
10,7
Software e servizi informatici
Millennium Pharm., US (59,4%); Biogen Idec, US (30,6%); Medimmune, US (28,7%) [Serono,
CH (24,9%); Schwarz Pharma, DE (20,9%); Schering, DE (19%)]
Cadence Design Systems, US (31,1%); Mentor Graphics, US (28,5%); Dassault Systèmes, FR
(27,9%) [SAP, DE (13,6%)]
Ciena, US (68,8%), Cypress Semiconductor, US (27,6%), Conexant, US (26,6%) [Infineon Tech,
DE (16,9%); ST, NL (16,5%); ASML, NL (13,4%)]
Guidant, US (13,7%); St Jude Medical, US (12,3%); Boston Scientific, US (10,1%) [Carl Zeiss,
DE (9,8%); Agfa-Gevaert, BE (5,1%)]
Agilent Technologies, US (13%), Philips, NL (8,4%), Harman, US (8%) [Siemens, DE (6,7%);
Schneider, FR (5,2%)]
Finmeccanica, IT (19,3%) - BAE Systems, UK (12,2%) - Snecma/Safran, FR (11,1%)
Denso, JP (8,4%), Delphi, US (7,3%), Robert Bosch, DE (7,2%) [BMW, DE (6,4%), Behr, DE
(6,4%)]
Syngenta, CH (11,1%), Monsanto, US (9,4%), Bayer, DE (8,1%) [Akzo-Nobel, NL (6,5%)]
Heidelberger Druckmaschinen, DE (7,3%), Volvo, SE (4,3%), Danaher, US (4,3%) [Scania, SE
(4%)]
TeliaSonera, SE (3,4%); NTT, JP (2,9%); SK Telecom, KR (2,6%) [Deutsche Telekom, DE (1,6%);
Telefonica, SP (1,5%)]
Prime società per intensità di ricerca (a)
25-07-2006
IT hardware
15,0
Spese
R&D in %
del fatturato
Farmaceutici e biotecnologie
Settori
Tab. 8 – Spese di ricerca e sviluppo nel 2004: campione di 1.000 società
04 COLTORTI
Pagina 137
•Le multinazionali europee e italiane: vizi e virtù dalla fine degli anni ottanta a oggi
137
138
25-07-2006
9:13
(a) Saldo tra mezzi versati per aumenti di capitale e riacquisti di azioni sul mercato da parte delle stesse società emittenti.
Fonte: elaborazioni su dati R&S (Multinationals).
Risorse
Impieghi
Variazione
Investi- InvestiVariazione
Cash-flow Apportia
debiti Totale menti
menti Dividendi Variazione capitale Totale
dei soci( ) finanziari
liquidità circolante
tecnici finanziari pagati
EUROPA
miliardi di euro
Tutte le multinazionali
2.621
117
315
3.053 1.404
1.089
437
79
44
3.053
in %
Tutte le multinazionali
85,9
3,8
10,3
100,0
46,0
35,7
14,3
2,6
1,4
100,0
Multinazionali energetiche
96,4
1,9
1,7
100,0
46,5
38,3
17,3
-2,2
0,1
100,0
MULTINAZIONALI MANIFATTURIERE:
Benelux
88,9
2,8
8,3
100,0
43,9
30,2
16,2
9,0
0,7
100,0
Francia
70,0
16,3
13,7
100,0
34,4
54,0
8,0
3,3
0,3
100,0
Germania
72,4
2,5
25,1
100,0
66,0
14,7
8,9
3,7
6,7
100,0
Italia
78,9
9,3
11,8
100,0
57,6
25,8
7,0
7,1
2,5
100,0
Regno Unito
96,3
-2,2
5,9
100,0
28,3
43,7
28,1
3,3
-3,4
100,0
Scandinavia
92,7
1,6
5,7
100,0
56,6
22,5
13,4
6,1
1,4
100,0
Svizzera
95,1
-0,4
5,3
100,0
26,9
54,5
14,2
3,7
0,7
100,0
Totale
81,6
4,6
13,8
100,0
45,8
34,6
13,1
4,5
2,0
100,0
STATI UNITI
Multinazionali manifatturiere 101,3
-10,0
8,7
100,0
33,1
44,4
19,5
7,5
-4,5
100,0
GIAPPONE
Multinazionali manifatturiere
98,6
2,2
-0,8
100,0
69,6
22,5
4,5
-2,8
6,2
100,0
Categorie di
multinazionali
nei diversi Paesi
Tab. 9 – Impieghi e risorse delle multinazionali nel periodo 1996-2004
04 COLTORTI
Pagina 138
Fulvio Coltorti
Fonte: R&S (Multinationals).
Regno Unito
Svizzera
Scandinavia
Italia
Germania
Francia
Benelux
69,9
66,3
56,5
43,0
59,3
61,6
66,3
69,8
55,7
53,9
47,1
61,7
54,3
49,8
68,3
62,6
69,1
63,3
71,6
69,7
Obbligazioni
26,7
27,8
23,4
27,0
25,6
14,7
21,0
12,8
26,9
20,3
35,5
12,6
20,4
8,0
16,7
12,7
21,6
15,9
21,8
17,3
Debiti finanziari
Debiti verso banche
Altri debiti
2,4
1,0
3,2
2,7
18,1
2,0
29,2
0,8
10,6
4,5
19,2
4,5
8,0
4,7
14,3
3,1
13,6
3,8
17,3
8,5
12,1
5,3
22,7
3,0
20,4
4,9
36,5
5,7
8,3
6,7
21,0
3,7
5,5
3,8
17,1
3,7
5,1
1,5
9,5
3,5
Totale debiti
30,1
33,7
43,5
57,0
40,7
38,4
33,7
30,2
44,3
46,1
52,9
38,3
45,7
50,2
31,7
37,4
30,9
36,7
28,4
30,3
9:13
Europa
Giappone
2004
1997
2004
1997
2004
1997
2004
1997
2004
1997
2004
1997
2004
1997
2004
1997
2004
1997
2004
1997
Capitale netto
Capitale investito
25-07-2006
Nord America
Area e Paese
Tab. 10 – Finanziamento del capitale investito delle multinazionali industriali nel 1997 e nel 2004 (% del capitale complessivo)
04 COLTORTI
Pagina 139
•Le multinazionali europee e italiane: vizi e virtù dalla fine degli anni ottanta a oggi
139
140
Fonte: elaborazioni su dati R&S (Multinationals, edizioni 1997 e 2005).
9:13
1996-98
1999-01
2002-04
Risorse
Impieghi
Variazione
Investi- InvestiVariazione
Cash-flow Apportia
debiti Totale menti
menti Dividendi Variazione capitale Totale
dei soci( ) finanziari
liquidità circolante
tecnici finanziari pagati
Tutte le multinazionali
46,0
2,6
51,4
100,0
63,1
28,5
5,1
2,5
0,8
100,0
115,3
31,0
-46,3
100,0 100,3
-8,9
3,4
-11,8
17,0
100,0
106,6
4,9
-11,5
100,0
57,0
27,7
10,2
10,1
-5,0
100,0
71,5
-2,5
31,0
100,0
39,0
43,5
7,8
8,3
1,4
100,0
119,8
12,6
-32,4
100,0
66,3
24,6
18,5
-14,2
4,8
100,0
Multinazionali manifatturiere
84,4
6,3
9,3
100,0
53,4
37,1
6,0
16,3
-12,8
100,0
51,3
-0,2
48,9
100,0
41,4
35,1
5,5
20,0
-2,0
100,0
168,7
50,9
-119,6
100,0 126,0
-32,5
14,8
-60,2
51,9
100,0
25-07-2006
1990-92
1993-95
1996-98
1999-01
2002-04
Periodo
Tab. 11 – Impieghi e risorse delle multinazionali italiane nel periodo 1996-2004 (in %)
04 COLTORTI
Pagina 140
Fulvio Coltorti
12.557
43.601
19.981
2.222
27.318
16.203
4.644
19.123
16.970
2.128
20
5
2.153
6.648
528
351
2.144
332
366
1.067
686
24
42
31
107
12.326
19.423 34.263
90.042 55.365
53.154 49.389
4.418
42.229
32.070
32.466 4.671
8.235
3.722 1.305
1.683
700
241
36.888 5.976 10.159
8.847 7.057 14.165
5.939 2.630
1.434
4.082 1.150
1.402
3.877
542
2.072
2.687
185
2.735
2.055
986
734
1.527 1.195
949
1.465
885
1.174
1.520
222
1.751
986
315
574
274
253
172
668
33.731 15.126 27.652
38.681
97.594
81.459
12.906
2.988
241
16.135
21.222
4.064
2.552
2.614
2.920
1.720
2.144
2.059
1.973
315
527
668
42.778
58.104
187.636
134.613
45.372
6.710
941
53.023
30.069
10.003
6.634
6.491
5.607
3.775
3.671
3.524
3.493
1.301
1.101
840
76.509
26,15
6,87
8,31
4,93
5,33
1,42
4,77
25,83
2,33
3,91
7,77
2,38
5,09
19,32
4,52
3,38
2,47
3,38
23,33
5,47
(d/a)
Leva
2,99
2,08
2,53
1,40
1,80
1,34
1,44
3,40
1,68
1,63
1,67
2,09
1,84
2,40
2,41
2,30
1,32
1,92
4,88
2,27
(d/b)
9:13
(a) Saldo tra mezzi versati per aumenti di capitale e riacquisti di azioni sul mercato da parte delle stesse società emittenti.
Fonte: elaborazioni su dati R&S (Multinationals).
21.143
2.444
33
23.620
1.035
1.113
2.033
898
948
270
464
417
217
29
7.424
9.195
1.258
662
11.115
1.164
4.298
1.698
835
2.355
741
190
779
1.032
527
326
36
13.981
(d) = (b+c)
Totale
25-07-2006
INDUSTRIALI:
ENI
Finmeccanica
Fincantieri
Totale gruppi pubblici (a)
Ifi / Fiat
Edison
Pirelli & C. (**)
Italmobiliare / Italcementi
Riva Fire
Buzzi Unicem
Cofide
Barilla Holding
Luxottica Group
Rcs Mediagroup
Indesit
GIM
Totale gruppi privati (b)
TELECOMUNICAZIONI:
Telecom Italia (c)
Totale (a+b+c)
Totale gruppi privati (b+c)
Multinazionali
Capitale degli azionisti
Debiti finanziari
Minoranze
Gruppo
Minoranze
Obbliga- Banche Totale
di comando nella
nelle
Totale
ed altri
casa
*
zioni
()
altre
finanziamadre
tori
società
(a)
(b)
(c)
Tab. 12 – Ripartizione del capitale impiegato dalle maggiori multinazionali italiane a fine 2004 (milioni di euro)
04 COLTORTI
Pagina 141
•Le multinazionali europee e italiane: vizi e virtù dalla fine degli anni ottanta a oggi
141
142
1.864
54.711
54.711
-
12
142.854
6.244
13.671
530.828
130.450
400.378
29.181
19.569
9.284
25.244
12.268
15.433
31.260
6.983
57.620
65.584
18.894
9.505
5.941
11.072
25.419
24.802
368.059
3.997
71
3.776
28.856
14.507
14.349
909
92
529
111
332
445
776
659
986
3.897
3.393
1.415
2.370
4.312
685
101
21.012
146.851 14.566
6.315 15.847
19.311 12.572
614.395 227.886
199.668 152.738
414.727 75.148
34.450 51.865
23.957 41.696
17.517 16.507
27.384
8.966
12.379
7.858
15.765
2.525
13.130
1.407
32.036
9.641
13.356 13.856
58.606
…
69.481
6.509
22.287
2.882
12.340
4.198
19.343
1.671
18.880
…
26.104 12.709
24.903
2.611
441.918 184.901
Obbligazioni
2.462 17.028
2.010 17.857
11.982 24.554
138.634 366.520
95.626 248.364
43.008 118.156
24.755 76.620
19.387 61.083
8.892 25.399
2.253 11.219
1.864
9.722
778
3.303
1.578
2.985
3.616 13.257
11.435 25.291
16.953 16.953
4.081 10.590
5.034
7.916
2.443
6.641
3.455
5.126
9.446
9.446
3.788 16.497
2.422
5.033
122.180 307.081
(c)
Totale
163.879
24.172
43.865
980.915
448.032
532.883
111.070
85.040
42.916
38.603
22.101
19.068
16.115
45.293
38.647
75.559
80.071
30.203
18.981
24.469
28.326
42.601
29.936
748.999
(d) = (b+c)
Totale
n.c.
n.c.
23,53
17,93
8,19
n.c.
25,47
19,80
5,21
23,96
n.c.
n.c.
1,27
n.c.
6,76
n.c.
n.c.
n.c.
13,37
2,22
8,10
n.c.
n.c.
n.c.
(d/a)
Leva
1,12
3,83
2,27
1,60
2,24
1,28
3,22
3,55
2,45
1,41
1,79
1,21
1,23
1,41
2,89
1,29
1,15
1,36
1,54
1,27
1,50
1,63
1,20
1,69
(d/b)
9:13
(*) Alla data più recente disponibile (rilevazione del febbraio 2006).
(**) Calcolato sulla base della quota dell'azionista di comando o stabile (sul capitale al netto delle azioni proprie).
Fonte: bilanci e documenti societari. Sono state considerate le multinazionali dell'indagine R&S con più di 30 miliardi di euro di attivi, escludendo quelle a controllo statale.
4.360
4.296
8.233
1.611
12.685
5.714
1.420
11.032
3.496
52.847
13
18
47
6
100
45
...
13
65
24
-
(b)
Totale
Banche
ed altri
finanziatori
Debiti finanziari
25-07-2006
INDUSTRIALI:
Daimler Chrysler (DE)
48
Volkswagen (DE)
...
BMW (DE)
...
Siemens (DE)
43
Bayer (DE)
58
Basf (DE)
48
Robert Bosch (DE)
100
Total (FR)
33
Peugeot (FR)
...
BP (GB)
...
Royal Dutch Shell (GB)
...
Anglo-American (GB)
...
Arcelor (BE)
...
EADS (NL)
...
Repsol (SP)
28
Nestlé (CH)
36
Novartis (CH)
53
Totale gruppi industriali
TELECOMUNICAZIONI:
Vodafone (GB)
52
BT Group (GB)
...
Telefonica (SP)
...
Totale industria e telecomunicazioni
di cui con assetto proprietario stabile
di cui con assetto proprietario diffuso
Multinazionali
Capitale degli azionisti
Gruppo
Azionisti Azionisti
di
Minoranze Minoranze
residenti
di
nella casa nelle altre
nel Paese comando comando
(**)
madre
società
di origine o stabili
(a)
Quota %
di partecipazione (*)
Tab. 13 – Ripartizione del capitale impiegato dalle maggiori multinazionali europee a fine 2004 (milioni di euro)
04 COLTORTI
Pagina 142
Fulvio Coltorti