Recensione del film Mare Dentro a cura di alcuni

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Recensione del film Mare Dentro a cura di alcuni
Mare dentro (Mar adentro)
Mare dentro, in alto mare – dentro senza peso
nel fondo, dove si avvera il sogno: due volontà
che fanno vero un desiderio nell’incontro.
Un bacio accende la vita con il fragore luminoso di una
saetta, il mio corpo cambiato non è
più il mio corpo, è come penetrare al centro
dell’universo.
L’abbraccio più infantile, e il più duro dei
baci fino a vederci trasformati in
un unico desiderio.
Il tuo sguardo il mio sguardo, come un eco
che va ripetendo, senza parole: più dentro,
più dentro, fino al di là del tutto, attraverso
il sangue e il midollo.
Però sempre mi sveglio, mentre sempre io voglio
essere morto, perché io con la mia bocca
resti sempre dentro la rete dei tuoi capelli.
Mare dentro (Mar adentro) è un film del 2004 di produzione spagnola diretto da Alejandro Amenábar,
presentato con successo alla 61ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, che vede fra gli
intepreti Javier Barde, vincitore proprio a Venezia della Coppa Volpi per la migliore interpretazione
maschile, e Belen Rueda.
La scena iniziale del film si apre su un mare dalle onde leggermente mosse, che richiama una condizione
di pace. Tuttavia proprio quel mare è la ragione della frattura che dà il via allo svolgimento drammatico
della produzione filmica.
Il film è tratto dalla storia vera di Ramón Sampedro che, a diciannove anni, si imbarca su una nave
norvegese con l'intenzione di girare il mondo. All'età di venticinque anni resta, però, vittima di un
gravissimo incidente: tuffandosi in acqua da uno scoglio, in un giorno di risacca, resta paralizzato dal
collo in giù. Le immagini iniziali indicano quella ragione di fondo dell’opera su cui si innestano le altre,
ovvero sia il contrasto tra presunta immediatezza delle “cose” e il volto nuovo che assumono di fronte a
uno sguardo differente. Il rapporto tra Ramon e la vita viene giocato, appunto, dentro una serie continua
di contrasti tra il senso comune e il senso individuale delle cose.
Ramón viene accudito amorevolmente dalla sua famiglia, ma nonostante questo non accetta di vivere da
paraplegico, condizione definita da lui stesso “poco dignitosa”. Passa il tempo a guardare fuori dalla
finestra, a scrivere poesie e desidera che qualcuno lo aiuti a morire.
Ramon vuole la propria morte perché della morte non ha paura, ma non avere paura della morte non
significa qui desiderarla per nichilismo esistenziale quanto affermare con più forza la relazione tra dignità
umana e capacità di affrontare la vita fino in fondo. L’assenza di paura della morte corrisponde a una
capacità di vita non ristretta dentro paletti ed è la decisione maturata da un uomo che è vissuto libero e
libero vuole morire.
Dopo 28 anni trascorsi in questa dolente situazione, decide di far ricorso all'eutanasia per porre
consapevolmente fine alla sua esistenza. Per raggiungere il suo scopo avvia una “battaglia” legale,
andata avanti per alcuni anni, nei confronti del governo spagnolo per ottenere il diritto all’eutanasia e,
nonostante il clamore suscitato nell'opinione pubblica spagnola, non ha avuto buon esito, soprattutto per
l'arretratezza degli ambienti religiosi e culturali di certa parte della Spagna. Viene così a trovarsi al centro
di un caso mediatico, che divampa fra quanti sono favorevoli alla sua richiesta e quanti la osteggiano, per
motivi etici. Sostiene, fra l'altro, una discussione - in circostanze alquanto grottesche – con un prete
anch'egli tetraplegico venuto in casa sua per parlargli e convincerlo a desistere dai suoi propositi; fra i
dialoghi fra i due, vi è il botta e risposta per cui mentre il religioso sostiene che "una libertà che elimina la
vita non è una libertà", per Ramon "una vita che elimina la libertà non è vita".
Ramon rappresenta la modernità che non cerca padroni, la sua stessa identificazione professionale
precedente l’incidente – marinaio imbarcatosi per girare il mondo – riflette questa condizione. Una
modernità in questo caso costretta fuori dalla propria condizione di appartenenza, spinta fuori dal
contesto – che è il viaggiare, il muoversi, il non avere riferimenti – dentro una campagna lontana dal
mare e dalla pluralità delle metropoli. La razionalità del protagonista riflette questa formazione maturata
“girando il mondo a partire dall’età di diciannove anni”, perché tenta sempre di essere comprensiva,
aperta alle ragioni degli altri senza con ciò essere indulgente verso la fragilità delle stesse. Quando
Ramon si rivolge al nipote dicendo “sai che se mi vuoi convincere devi dare una ragione valida”, egli
esprime al tempo stesso il suo status di uomo consapevole della propria condizione e isolato dalla
mancata volontà di dialogo delle istituzioni circostanti. A volte sembrerebbe quasi che non sia tanto
l’eutanasia il centro tematico del film quanto, semmai, l’impossibilità di risolvere le controversie
attraverso il confronto tra argomentazioni. La parte svolta dal padre gesuita riassume questa chiusura tra
chi esprime delle ragioni a sostegno delle proprie scelte e chi a queste ragioni antepone un elemento
astorico, quale la divinità, che annulla il discorso a prescindere dalla sua pregnanza.
La differenza fondamentale tra il padre gesuita e le altre persone che nel film vorrebbero convincere
Ramon a non uccidersi è dovuta al fatto che per il primo la vita degli uomini non appartiene loro, mentre
per i secondi quella vita non appartiene solo a loro. Il padre gesuita e le istituzioni in genere
rappresentano così un elemento arretrato rispetto al confronto tra esseri umani legati principalmente da
vincoli affettivi. Sono questi ultimi che introducono le riflessioni più profonde del film, rimettendo in causa
o magari anche generando dubbi nella scelta del protagonista. Ramon ha gioco facile nel dissacrare
l’ignoranza della Chiesa o quella del fratello, meno semplice invece è il tentativo di far passare per diritto
esclusivamente privato quello che è il diritto maturato da una persona cresciuta dentro una società. La
problematicità dell’eutanasia sta nel fatto che a essere ucciso è un uomo che tronca delle relazioni
causando un danno ad altri uomini, ossia nel fatto che un uomo prende una scelta che non ha effetto solo
sulla sua di vita. Questa contrapposizione tra ragioni dal peso diverso ma egualmente argomentabili
svolge nel film un ruolo importante anche se a volte non viene trattato in modo del tutto soddisfacente in
virtù, fra l’altro, del carattere della patologia di cui soffre il protagonista.
Nel 1996 Ramón pubblica i suoi scritti raggruppati nel libro Cartas desde el infierno, a cui seguirà nel
1998 il postumo Cando eu caia. Proprio in quest'anno riesce a portare a termine un piano per morire,
senza incriminare nessuno dei suoi parenti.
La descrizione artistica diventa così atto originario, un punto di rottura in cui l’essere reinvesta un
passato che nutre un avvenire favoloso, in cui l’uomo si rifugia. L’introspezione, unita alle sue creazioni,
come un tentativo di negazione del reale: così l’arte diventa “espressione del disagio”. Anche Nietzsche
considerava la malattia una preziosa occasione di salute mentale: “Avvalendosi di un’ottica binoculare, il
malato osserva ciò che è apparentemente sano con il suo sguardo corrosivo per poi considerare ciò che è
malato con l’occhio rigenerato della ‘grande salute’, quella che non può fare a meno della malattia come
mezzo”. Ramon afferma: “I miei pensieri sono diventati i miei avvenimenti, il resto non è che la storia
della mia malattia” .
Amanábar non aggiunge una virgola alla vicenda da rappresentare, eppure il materiale narrativo, che
farebbe presupporre un film dal forte impianto realista, riesce spesso a trasformarsi - grazie ad un
sapiente lavoro di regia - in una fuga verso l'onirico in cui si condensano forse i migliori momenti del
racconto. Esso si struttura, a livello drammaturgico, principalmente su tre nuclei: Ramón (interpretato da
un superlativo Javier Bardem), i suoi familiari (padre, fratello, cognata e nipote), le due donne che si
innamorano di lui e cioè l'avvocatessa claudicante Julia (Belén Rueda), e Rosa (Lola Dueñas), giovane
sempliciotta di paese.
Nella sua vicenda, Ramón viene assistito dalla famiglia del fratello, che dal giorno dell'incidente si prende
cura di lui, e da Julia, una avvocatessa affetta da una malattia neurodegenerativa (la CASADIL) e quindi
compartecipe della sua situazione. I due finiscono per innamorarsi l'uno dell'altro e, quando il processo
volge al peggio, con i giudici decisi a negare l'eutanasia, meditano il suicidio insieme. All'ultimo momento,
tuttavia, la donna si rifiuta di compiere il gesto, lasciando Ramón solo e sempre più afflitto.
Interviene però a questo punto una seconda donna, Rosa, giovane madre divorziata ed amica dell'uomo,
di cui aveva però sempre criticato il desiderio suicida. Per amore di Ramón, la donna acconsente infine ad
aiutarlo nei suoi propositi, porgendogli un bicchiere in cui era stata sciolta una dose letale di cianuro di
potassio consentendogli infine di liberarsi di quella vita che da anni non sopportava più, non prima di aver
registrato il suo ultimo accorato appello al diritto all'eutanasia volontaria per quanti soffrono.
Il polo motore della vicenda è la personalità di Ramón, che fin dall'inizio viene presentato come una
figura profondamente contraddittoria: un uomo ricco di umorismo, creatività, pieno di vita, che però ha
nella mente un unico obbiettivo: morire. Questo doppio registro del carattere riesce a catturare da subito
l'attenzione. Non siamo di fronte ad un personaggio monolitico, tutt'altro. E' però, quella di Ramón, una
dimensione estrema, radicale, perché si sviluppa completamente tra due poli opposti: la carica vitale che
infonde a tutto ciò che lo circonda e l'estremo atto da compiere. Pian piano questa dualità irreversibile
risucchia, come in un imbuto, tutti i caratteri degli altri personaggi, confondendo le pulsioni emotive di
ognuno di loro. In un certo senso, più riesce ad apparire una fonte inesauribile di sentimenti genuini e
vitali, più ogni personaggio (ad eccezione del fratello) tende a condividere la sua strada verso la morte.
Ramón è un concentrato di lirismo e cinismo, determinazione e sofferenza, vitalità e rassegnazione.
Mar adentro evita molto abilmente di confondersi con una gigantesca soggettiva di Ramón. I personaggi
delle due donne, Julia e Rosa, che da due prospettive opposte si innamorano di lui, sono funzionali a far
conoscere Ramón dall'esterno. L'amore che provano per lui si accompagna alla promessa di aiutarlo ad
affrontare il suo ultimo viaggio. Ramón con loro non parla mai di amore, se non legando questo
sentimento a quello della morte. Resta allora di questo personaggio una zona oscura e misteriosa, che
non è dato conoscere, malgrado le due donne lo investano di una responsabilità così forte.
Un altro elemento forte di oggettività è costituito dalla finestra della sua stanza, che è l'unico sguardo sul
mondo del malato. Ma questo sguardo non è altro che un occhio sul vuoto, su un'amplissima zona di
confine: la casa infatti è immersa nella campagna, fuori dalla civiltà cittadina, come la spiaggia, che è
investita di uno status liminale proprio in virtù della deflagrazione dello spazio-tempo.
L'unico elemento di unione che resta tra questa serie infinita di opposti inconciliabili è proprio il mare, che
diventa il fluido incessante fra vita e morte - Mar adentro è uno dei versi di una poesia di Ramón. Egli
stesso, verso la fine del film, rivela che il mare gli ha dato la vita e il mare se l'è ripresa. Il mare allora,
proprio alla fine, riacquista quel significato mitico-simbolico a lungo inseguito da Ramón: una linea
dell'orizzonte che non finisce mai, che si protrae all'infinito, trasformandosi in un tentativo di fuga, di
viaggio. In Mar adentro tutta l'esperienza cinematografica diventa un viaggio emotivo, una lunga linea
d'orizzonte che ci astrae dalla realtà per condurci verso un'altra. Come per Ramón. Come dalla vita alla
morte. E viceversa.
Prendiamo, come esempio, il desiderio di morire. Ramon vuole la propria morte perché della morte non
ha paura, ma non avere paura della morte non significa qui desiderarla per nichilismo esistenziale quanto
affermare con più forza la relazione tra dignità umana e capacità di affrontare la vita fino in fondo.
L’assenza di paura della morte corrisponde a una capacità di vita non ristretta dentro paletti ed è la
decisione maturata da un uomo che è vissuto libero e libero vuole morire. Ramon è appunto la modernità
che non cerca padroni, la sua stessa identificazione professionale precedente l’incidente – marinaio
imbarcatosi per girare il mondo – riflette questa condizione. Una modernità in questo caso costretta fuori
dalla propria condizione di appartenenza, spinta fuori dal contesto – che è il viaggiare, il muoversi, il non
avere riferimenti – dentro una campagna lontana dal mare e dalla pluralità delle metropoli. La razionalità
del protagonista riflette questa formazione maturata “girando il mondo a partire dall’età di diciannove
anni” perché tenta sempre di essere comprensiva, aperta alle ragioni degli altri senza con ciò essere
indulgente verso la fragilità delle stesse. Quando Ramon si rivolge al nipote dicendo “sai che se mi vuoi
convincere devi dare una ragione valida” egli esprime al tempo stesso il suo status di uomo consapevole
della propria condizione e isolato dalla mancata volontà di dialogo delle istituzioni circostanti. A volte
sembrerebbe quasi che non sia tanto l’eutanasia il centro tematico del film quanto, semmai,
l’impossibilità di risolvere le controversie attraverso il confronto tra argomentazioni. La parte svolta dal
padre gesuita riassume questa chiusura tra chi esprime delle ragioni a sostegno delle proprie scelte e chi
a queste ragioni antepone un elemento astorico, quale la divinità, che annulla il discorso a prescindere
dalla sua pregnanza.
Mare dentro è un film sull' eutanasia che merita veramente di essere visto e sul quale si può riflettere
profondamente. Il tema dell' eutanasia è molto complesso, dove intervengono vari fattori metafisici
come le credenze personali, religiose e sociali, un tema molto ostico che dovrebbe essere preso in esame
seriamente anche dalle forze politiche. Vi sono tantissime persone anche in Italia come Ramón,
sarebbe, quindi, un buon passo avanti avere se non altro il diritto di poter scegliere se morire o meno,
diritto che tutti gli umani normalmente abili dispongono pienamente.
Certamente è molto difficile giudicare un tema del genere però ci sarebbe bisogno di leggi più puntuali e
forse la necessità di uno stato più laico.
La notizia che il parlamento olandese ha autorizzato l'eutanasia ha rinfocolato anche da noi il dibattito
sulla "buona morte", radicalizzando vieppiù le posizioni dei favorevoli e dei contrari. Crediamo si tratti di
un problema bioetico di notevole complessità, poco adatto ai ferrei e irrinunciabili convincimenti e che dà
adito, invece, sempre secondo la mia modesta opinione, a dubbi personali, ripensamenti, perplessità. Da
un lato, la nostra coscienza di individui moderni, laici e illuministi, sensibili in sommo grado ai diritti
umani, ci porta a pensare che siamo legittimi proprietari della nostra vita, liberi di condurla come ci piace
e perciò anche di interromperla quando l'esistenza ci appare troppo dolorosa o priva di significato.
Dall'altro, la nostra anima cristiana, cattolica, romantica, che sopravvive persino in quest'epoca di
sbadata secolarizzazione, magari in forma larvata e inconscia, ma vigorosa, ci avverte che la sfera del
razionale non spiega tutto, che la vita umana possiede un valore incommensurabile che nessun dolore
può scalfire e un'aura misteriosa, ineffabile, sacra, di cui magari ci sfugge il senso, che soltanto
oscuramente intuiamo.
In alcuni momenti ci scopriamo a pensare, insomma, che non possiamo escludere l'esistenza di un Dio cui
dobbiamo rendere conto e a cui dobbiamo la vita. Sentiamo il suicidio (e l'eutanasia è una forma di
suicidio) come peccato. Conciliare e armonizzare questi due poli dialettici all'interno della nostra
coscienza non è compito facile. Spesso la sintesi e l'equilibrio raggiunti sono provvisori e soggetti a
ripensamenti. Il dolore e la morte, poi, sono temi con cui l'uomo contemporaneo non ama intrattenersi e
preferisce rimuovere ed esorcizzare, stordendosi nell'attivismo e nel divertimento. Paradossalmente ciò
rende il nostro approccio a queste esperienze rudimentale e immaturo. Ripetute ricerche confermano, ad
esempio, che i medici, in Italia in particolare, tendono a trattare il dolore fisico dovuto alle malattie in
maniera inadeguata, irrazionale, "sottodosata". Altri studi sottolineano come l'esperienza della morte,
sempre più spesso relegata nell'indifferenza di una corsia di ospedale, non sia mai stata così negata,
respinta, impoverita come nelle moderne società affluenti. Ecco, forse essere a favore dell'eutanasia,
della "buona morte", significa oggi principalmente ridare significato e dignità ad esperienze come il
dolore, la morte, la solidarietà fra gli uomini. Significa farsi responsabile carico dei problemi generati dalla
sofferenza dei malati terminali di cancro o di qualche altra grave patologia, di chi è costretto a condurre
un'esistenza ai limiti dell'umano. Ma i distinguo da operare sono tanti e difficilissimo è generalizzare. Alla
società vengono richiesti sensibilità e un diffuso e sviluppato senso di responsabilità. Per esempio: se la
persona è incosciente, chi decide? E qual è il confine preciso fra il legittimo intervento sanitario per
salvare
una
vita
e
quello
che
viene
definito
accanimento
terapeutico?
Certo che no, a nostro giudizio, a un'eutanasia affidata alla discrezione di un comitato di medici e
infermieri, ai calcoli economici degli amministratori, agli interessi egoistici dei familiari. Sì, forse, a
un'eutanasia voluta in modo inequivoco e reciso dalla persona sofferente, allo stremo, senza più alcuna
speranza, in grado di esprimere (o che aveva già espresso) una ferma e meditata volontà di porre fine
alla propria esistenza, date determinate drammatiche condizioni. Può succedere, più di frequente di
quanto si pensi, che chi soffre, anche intensamente, sia ancora fortemente attaccato alla vita. In questo
caso, pensiamo che chi decidesse al suo posto, che è giunto per lui il momento di lasciare questa terra,
non gli darebbe una "buona morte", ma commetterebbe un'ingiustificabile omicidio. Il pericolo cui ci
espone l'ideologia occidentale contemporanea è di considerare umano soltanto chi è giovane, sano e
produttivo.
La malattia e la morte appartengono alla sfera dell'umano come la buona salute. Sono esperienze dense
di significato, non pesi che ci impediscono di consumare e divertirci, costi sociali da abbattere, inevitabili
“scorie” di cui disfarsi al più presto.
Ma non è sull'aspetto politico sociale - peraltro il meno riuscito e sviluppato - sul quale Amenabar vuole
porre l'accento. Il regista cileno punta ad illustrare il lato umano di chi ha deciso di farla finita ("Quando
non c'è via di scampo, si impara a piangere con il sorriso sul volto”), di chi, impossibilitato anche a
prepararsi un letale composto è sempre più deciso a darsi una morte dignitosa.
Amenabar - che gira questo film quasi fosse un thriller data l'attesa che riesce a creare su come andrà a
finire - non disdegna anche di fare un po' di filosofia offrendoci riflessioni sul concetto di morte e di vita,
sul senso dell'esistenza e sull'assenza di essa. Ma Amenabar è anche, e soprattutto, un grande regista
capace di muovere la macchina con ampie e veloci riprese aree a riprendere i campi ed il mare della
Galizia, quel mare dentro al quale Ramon vuole con tutto se stesso ritornare. Capace di smuovere le
emozioni con la forza della musica e delle immagini, capace di raccontare un dialogo con movimenti
avvolgenti e coinvolgenti.
Il problema dell’eutanasia non investe soltanto l’aspetto etico, morale e filosofico del singolo ammalato,
proprietario o usufruttuario del proprio corpo (diritto o no all’autodeterminazione, diritto o meno ad una
morte dignitosa), o degli operatori sanitari (rispondere o meno alla disperata invocazione d’aiuto da parte
dei sofferenti), ma riveste anche un aspetto giuridico che riguarda sia il legislatore (punibilità o meno di
chi presta la propria opera per l’eutanasia) che i responsabili delle varie categorie professionali, nonché le
commissioni nazionali o sovranazionali per i diritti dell’uomo e dell’ammalato. Fin d'ora tutti gli Organi
competenti si sono espressi contro l’eutanasia, consentendo soltanto la sospensione del cosiddetto
accanimento terapeutico, misura con la quale si intende la messa in atto di provvedimenti assistenziali,
strumentali e medicamentosi, tendenti a prolungare artificialmente la vita, anche in assenza di qualsiasi
speranza di guarigione o sopravvivenza.
La dottrina della Chiesa muove da punti fermi quali:
a.
b.
c.
il riconoscimento del carattere sacro della vita dell’uomo in quanto creatura;
il primato della persona sulla società;
il dovere dell’autorità di rispettare la vita innocente.
Pio XII ebbe a dire: "Per quanto concerne il paziente, egli non è padrone assoluto di se stesso, del proprio
corpo, del proprio spirito. Non può dunque disporne liberamente. Per quanto riguarda i medici, nessuno al
mondo, nessuna persona privata, nessuna umana pietà, può autorizzare il medico alla diretta distruzione
della vita; il suo ufficio non è di distruggere la vita ma è di salvarla".
La Dichiarazione della S. Congregazione per la Dottrina della Fede (1974) così si pronuncia: "Il diritto alla
vita resta intatto in un vegliardo, anche molto debilitato; un malato incurabile non l’ha perduto".
Sul concetto di dignità della morte Paolo VI afferma: "Tenendo presente il valore di ogni persona umana,
vorremmo ricordare che spetta al medico essere sempre al servizio della vita ed assisterla fino alla fine,
senza mai accettare l’eutanasia, né rinunciare a quel dovere squisitamente umano di aiutarla a compiere
con dignità il suo corso terreno". Lo stesso Paolo VI si pronuncia contro l’accanimento terapeutico
affermando: "In tanti casi non sarebbe una tortura inutile imporre la rianimazione vegetativa nell’ultima
fase di una malattia incurabile? Il dovere del medico consiste piuttosto nell’adoperarsi a calmare la
sofferenza, invece di prolungare più a lungo possibile con qualunque mezzo e a qualunque condizione una
vita che va naturalmente verso la sua conclusione".
Anche altre confessioni religiose si esprimono contro l’accanimento terapeutico facendo spesso
riferimento alla non esistenza de: "l’obbligo di mantenere in vita una persona con mezzi straordinari
quando non c’è nessuna speranza di guarigione (lettera dei Vescovi d’Inghilterra e del Galles).
Contro la liceità dell’eutanasia si sono espresse anche Organizzazioni sanitarie internazionali, e perfino
l’Assemblea del Consiglio d’Europa con la raccomandazione 779/1976 sui diritti dei malati e dei morenti.
Precisamente l’articolo 7 esclude l’eutanasia attiva con queste parole: "Il medico deve sforzarsi di placare
la sofferenza e non ha il diritto, anche nei casi che sembrano disperati, di affrettare intenzionalmente il
processo naturale della morte". Analoga posizione è espressa dal Codice Italiano di Deontologia Medica,
che all’articolo 40 recita: "In nessun caso, anche se richiesto dal paziente o dai suoi familiari, il medico
deve attivare mezzi tesi ad abbreviare la vita di un ammalato. Tuttavia, nel caso di malattia a prognosi
sicuramente infausta, il medico può limitare la propria opera all’assistenza morale ed alla prescrizione ed
esecuzione della terapia atta a risparmiare al malato inutili sofferenze".
Dal punto di vista legislativo, in Italia l’eutanasia, specie quell’attiva è considerata alla stregua di un
omicidio volontario anche se con le attenuanti. L'articolo 579 del codice penale afferma " chiunque causi
la morte di un uomo con il consenso di lui, é punito con la reclusione da 6 a 15 anni". La stessa pena é
prevista per il suicidio assistito con la seguente formula" se si fornisce ad un ammalato un veleno che il
paziente ingerisce da solo, si commette omicidio del consenziente". Sanzioni penali sono previste anche
dall'art. 580 (istigazione ed aiuto al suicidio).
Alessandro, Anna, Giulia, Mario
VB, Liceo Tito Lucrezio Caro