La vita sarà letteraturizzata. Ovvero, oggi Zeno Cosini

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La vita sarà letteraturizzata. Ovvero, oggi Zeno Cosini
Alice Flemrová
La vita sarà letteraturizzata.
Ovvero, oggi Zeno Cosini avrebbe un suo blog?
Il 4 aprile del 1928 doveva cominciare per il vegliardo Zeno Cosini un’era novella.
Un’era dedicata al raccoglimento. Zeno Cosini ha trovato nel raccoglimento e nella scrittura
la sua pacifica protesta contro il tempo che passa lasciando dietro di sé giorni, anni, decenni,
tutti uguali, senza importanza. Ed è stata anche la protesta di un uomo che “nacque a
sproposito”, perché nella sua giovinezza si rispettavano solo i vecchi e nella sua vecchiaia
tutto il rispetto spettava invece ai giovani, e così lui è passato per la vita senza essere
rispettato mai. Il vecchio Zeno vedeva nella scrittura soprattutto l’unica possibilità di
riaffermare la propria esistenza, di ritrovare il suo posto “al sole”. Poter “brontolare sulla
carta” è stata una vera e propria salvezza per il personaggio che già alla fine della Coscienza
si è trovato nell’ombra: “Il sole non illuminò me! Quando si è vecchi si resta all’ombra anche
avendo dello spirito” (Svevo 1962, 942). Le sue ultime pagine, infatti, ci parlano piuttosto del
suo presente, quello che è stato viene sempre messo in confronto con quello che è e a volte le
dimensioni temporali si confondono, si mescolano nel “tempo misto” della coscienza. Così
succede che Zeno scambia una giovane ragazza per “la figlia di vecchio Dondi”, una sua
coetanea, e Augusta deve “metterlo a posto nel tempo”: “La figlia del vecchio Dondi a
quest’ora ha la tua età. Chi dunque salutasti tu? La Dondi era di sei anni più vecchia di me.
Ah! Ah! Ah!” (Svevo 1968, 134). Nei frammenti del quarto romanzo perciò Zeno non si
avventura troppo nel passato, non va a correggere le tappe della vita che aveva già descritte.
Non c’è un perché. Zeno non esita a riconoscere la vita descritta, fissata, raccontata, come più
vera di quella vissuta.
E ora che cosa sono io? Non colui che visse ma colui che descrissi. Oh! L’unica
parte importante della vita è il raccoglimento. Quando tutti lo comprenderanno con
la chiarezza ch’io ho tutti scriveranno. La vita sarà letteraturizzata. Metà
dell’umanità sarà dedicata a leggere e studiare quello che l’altra metà avrà
annotato. E il raccoglimento occuperà il massimo tempo che così sarà sottratto alla
vita orrida vera. E se una parte dell’umanità si ribellerà e rifiuterà di leggere le
elucubrazioni dell’altra, tanto meglio. Ognuno leggerà se stesso. E la propria vita
risulterà più chiara o più oscura, ma si ripeterà, si correggerà, si cristallizzerà.
(Svevo 1968, 372)1
Partendo quindi da questa nota citazione tratta dal testo che doveva essere il seguito
della Coscienza di Zeno2 (rimasto purtroppo in forma di frammento perché, a distanza di
cinque mesi dall’inizio della stesura, il 13 settembre 1928, l’autore muore) cercheremo di
1
Citazioni tratte dall’edizione di Opera Omnia curata da Bruno Maier sono lasciate anche con eventuali errori di
ortografia così come appaiono nei volumi.
2
Il fatto è dimostrato non solo dalla accurata analisi filologica dell’intero testo (cfr. p. es. Contini 1980) ma
anche dalla notizia che dà Svevo stesso nella lettera del 16 maggio 1928 a Benjamin Crémieux quando scrive: “
...mi sono messo a fare un altro romanzo, Il Vecchione, una continuazione di Zeno. Ne scrissi una ventina di
pagine e mi diverto un mondo. Non ci sarà niente di male se non arriverò a terminarlo. Intanto avrò riso di gusto
una volta di più nella mia vita”. (Svevo, 1966, 876-877)
1
esplorare il rapporto tra la vita e la letteratura nell’opera di Svevo. Dal brano citato risulta
evidente ciò che abbiamo appena accennato: Zeno Cosini ha scoperto il piacere del
“raccoglimento”, ha trovato il gusto di registrare e organizzare la propria vita, guardata
attraverso il prisma del presente non guastato, a sua volta, dalle ansie e dalle preoccupazioni
per il futuro. Tale scoperta del personaggio letterario va però collegata alla definitiva
riconciliazione dell’autore con quella “ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura”
(Svevo 1968, 818), eliminata dalla sua vita, almeno a detta di lui stesso, nel dicembre del
1902. Che questa rottura non sia stata definitiva, visto che l’industriale Schmitz continua a
scribacchiare anche durante il cosiddetto periodo del silenzio, che si prolunga fino al 1919 –
l’anno in cui Svevo comincia a scrivere Zeno –, lo hanno già segnalato nei loro studi critici
Renato Barilli (2003 [1972]), Mario Lavagetto (1975) e Giancarlo Mazzacurati (1982).
Sappiamo quindi che Svevo abbandona la letteratura, cioè la scrittura istituzionalizzata, per
entrare in clandestinità e dedicarsi ad essa in forma privata. Quando però, dopo circa
vent’anni, vediamo il sessantaduenne Ettore Schmitz “correre di nuovo in cerca di un editore”
(Svevo 1968, 689), è chiaro che Italo Svevo esce dall’illegalità. Concentriamoci allora su
questo binario Svevo-Schmitz e letteratura-scrittura sul quale si muove la vita e l’opera
dell’originale autore triestino, perché questa binarietà risulta fondamentale per capire come e
per quali strade l’empiria della vita quotidiana entra nell’immaginario dell’autore e di seguito
nell’espressione letteraria. Sono del parere che proprio questo complesso processo, che non va
assolutamente liquidato in nome di una casualità autobiografica, sia uno dei principali e
costanti temi dell’opera sveviana, sicuramente alla pari con il tema della malattia con cui, tra
l’altro, è in uno strettissimo legame: disagio-malattia è il motivo per il quale Schmitz-Svevo
scrive, per il quale risulta così morbosamente attaccato alla penna, fuori della quale, a suo
dire, “non c’è salvezza” (ibidem, 808). L’opinione secondo cui la produzione letteraria di
Svevo abbia quasi sin dall’inizio un carattere metaletterario e sia estremamente attenta al
rapporto tra la “vita orrida vera” e la sua versione “letteraturizzata” – che possiamo intendere
anche nel senso di trascritta in lettere – si basa sui seguenti fatti. In primis: Ettore Schmitz
sceglie sin dall’inizio uno pseudonimo (Samigli, Svevo) nel tentativo di separare l’io privato
dall’io pubblico. E come vedremo la differenza tra la parola di Schmitz e quella di Svevo, così
marcante all’inizio, cioè ai tempi dei primi due romanzi, pian piano scomparirà del tutto. In
secundis: molti dei suoi personaggi si dedicano alla letteratura (Arturo, Alfonso, Emilio) o
alla scrittura (Zeno) e, ovviamente, ne parlano. A tale scopo possiamo ricordare per esempio
la scrittura a quattro mani raccontata nel primo romanzo di Svevo. Il fatto che Alfonso e
Annetta tentino di scrivere un romanzo viene presentato come una riflessione sul tema “come
nasce il testo letterario” che ci informa anche sulle mode, sui gusti e sulle convinzioni
letterarie dell’epoca, in questo caso rappresentate da Annetta. La ragazza si dimostra un
critico severo nei confronti del capitolo scritto da Alfonso: “È però grigio, molto grigio. Chi
vuole che legga volentieri queste filze di pensieri senza interruzione e senza ornamento? E poi
ella racconta troppo poco; descrive continuamente anche quando crede di raccontare.” (Svevo
1962, 237) Renato Barilli fa osservare che la superficiale figlia del banchiere non ha tutti i
torti:
...Annetta non era poi del tutto stupida: i suoi giudizi saranno ripetuti da molti altri
lettori, e non sempre dei più sprovveduti: i pretesi romanzi di Svevo (e di Musil,
Proust, Broch ecc.) sono “troppo grevi” perché in essi l’ethos, la descrizione
psicologica supera di troppo il mythos, l’intreccio, tradendo il significato originario
del romanzo...”. (2003, 66)
Vediamo quindi che Svevo inserisce già nel suo primo romanzo quella che potremmo
chiamare la dichiarazione della propria poetica. Inoltre va ricordato che mentre i personaggi
2
sveviani con ambizioni letterarie di solito falliscono sia nella vita, sia come letterati, Zeno
troverà nella scrittura, alla quale si accosta per motivi terapeutici, il modo per realizzare se
stesso.
I dati e gli scritti che ci permettono di associarci al parere di Carlo Mazzacurati e degli
altri critici citati e di considerare il periodo del silenzio di Svevo quale periodo in cui l’autore
resuscita dalle ceneri della nociva letteratura la benefica scrittura terapeutica, alla quale
ricorre per poter esercitare una sorta di igiene mentale, sono parecchi. Li troviamo soprattutto
frugando tra le pagine del diario e nell’epistolario. Vediamo ora almeno gli esempi più
lampanti.
Il due ottobre del 1899, prima della rottura del 1902, e comunque già dopo la tiepida
accoglienza del romanzo Senilità, lo scrittore esprime la propria fede nello scribacchiare
quotidiano:
Io credo, sinceramente credo, che non c’è miglior via per arrivare a scrivere sul
serio che di scribacchiare giornalmente. Si deve tentar di portare a galla dall’imo
del proprio essere, ogni giorno un suono, un accento, un residuo fossile o vegetale
di qualche cosa che non sia puro pensiero, che sia o non sia sentimento, ma
bizzarria, rimpianto, un dolore, qualche cosa di sincero, anatomizzato, e tutto e non
di più. Altrimenti facilmente si cade, – il giorno in cui si crede d’esser autorizzati
di prender la penna – in luoghi comuni e si travia quel luogo proprio che non fu a
sufficienza disaminato. Insomma fuori della penna non c’è salvezza. Chi crede di
poter fare il romanzetto facendone la mezza pagina al giorno e null’altro, si
inganna a partito.” (Svevo 1968, 816)
Un anno più tardi, il 6 giugno 1900, confessa in una lettera alla moglie Livia la propria
recidiva letteraria: “Deve esserci nel mio cervello una ruota che non sa cessare di fare romanzi
che nessuno volle leggere e si ribella e gira vertiginosamente te presente e te assente” (Svevo
1966,196).
Nel 1906, quando “quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura” doveva
essere già abbandonata o addirittura dimenticata, Ettore sembra attratto dall’idea di fissare la
vita in parole, anche se ancora non gli piace l’immagine di una umanità inondata dalle
autobiografie:“Non rimpiango di non aver goduto abbastanza ma sinceramente rimpiango di
non aver fissato tutto questo periodo di tempo. Del resto, guai se ci fossero molti altri che
sentissero come me! Povera umanità! Quante autobiografie!” (Svevo 1968, 822).
Per non perdere di vista la binarietà, va segnalato che l’autore delle precedenti
citazioni è Ettore Schmitz che scrive lettere, che annota nei diari. Ma anche Italo Svevo dà in
questo periodo segni di vita. Anche se la datazione precisa non è sempre certa sappiamo che
tra il 1899 e il 1919 sono nate alcune delle opere sveviane: per esempio le commedie Il
marito, Il terzetto spezzato, i racconti Lo specifico del dottor Menghi, Marianno, Cimutti, In
Serenella oppure Ombre notturne che poi diventerà Il vino generoso3. È vero che molti dei
lavori sono rimasti incompiuti, ma se ci atteniamo alle informazioni forniteci nel Diario di
Elio Schmitz da suo fratello Elio, scomparso già nel 1886, vediamo che Ettore era solito, sin
dall’inizio della sua carriera letteraria, non portare a termine i propri scritti: “Come si vede,
Ettore non la lasciava finire mai un discorso. E come al solito – lo fa con tutto, con le sue
commedie come coi suoi articoli di giornale – non finì di scrivere neppure questo dialogo...”
(Maier 1973, 220).
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Cfr. la lettera a B. Crémieux del 15 marzo 1922: “Invece Vino generoso è una roba molto vecchia. Io credo
persino che Joyce l’abbia letta nel 1914” ( Svevo 1966, 839). Se è così abbiamo un motivo in più per sostenere
che il personaggio di Zeno (ancora con nomi diversi) è maturato nel suo autore per molto tempo.
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Dunque la frammentarietà e l’incompiutezza non vanno ascritte alla crisi creativa di
Svevo né alla sua rottura con la letteratura. Non ci sono dubbi però che Schmitz-Svevo
attraversava in quel periodo una crisi e nutriva in sé notevoli dubbi sulla propria vena artistica
e prima di tutto sul senso dell’attività letteraria. Come esempio basta citare la famosa lettera
alla figlia Letizia, scritta a Murano il 10 aprile 1908 (Svevo 1966, 473-474) in cui le racconta
la favola di due falegnami, uno che lavorava dalla mattina alla sera e faceva dei bellissimi
armadi che piacevano a tutti e l’altro che considerava troppo faticoso il mestiere tradizionale e
così s’era messo a descrivere gli armadi, ascoltato e pagato da tutti. Per divertire ancora di più
la gente cominciò ad allontanarsi nelle sue descrizioni dalla realtà, dall’immagine reale degli
armadi veri. Alla fine pretendeva di aver conosciuto degli armadi vivi; la gente, ovviamente,
voleva averli e per questo andava a chiederli al vero falegname. “Abbasso i poeti!” (ibidem)
grida Ettore Schmitz nella speranza di spiegare alla figlia l’antipatia verso i descrittori degli
armadi sapendo però che tra loro deve inevitabilmente inserire anche se stesso. Solo che Italo
Svevo pian piano prende in lui il sopravvento, come un Mr. Hyde del crimine letterario, e
Schmitz non solo impara ad apprezzare gli armadi descritti, ma dalle pagine citate all’inizio
possiamo dedurre che finirà col preferirli a quelli reali, a patto che siano descritti in modo
sincero.
Ed eccoci di nuovo negli anni Venti, da dove siamo partiti. Ora però bisogna spingerci
oltre la frontiera del 1899 per ritrovare il cosiddetto “primo Svevo”, scoprire il suo rapporto
con “il secondo Svevo”, cioè quello degli anni Venti, e verificare se il primo Svevo veramente
doveva morire perché potesse nascere il secondo. Riteniamo ora inutile comparare i primi due
romanzi con il terzo. Questo lavoro è già stato affrontato molte volte e la critica sveviana è
più o meno concorde nel ritenere che lo scrittore non abbia cambiato la sostanza (temi, motivi,
personaggi), bensì il modo di raccontarla. Ed è Ettore Schmitz a scrivere il 13 giugno 1917
nel suo diario:
Morirono definitivamente tante cose e persone che furono sì importanti per me, che
me ne rammarico intensamente. Come sono pallide quelle cose e quelle persone!
Son ridotte a concetti astratti e forse sbagliati. Io stesso finirei col credere di essere
stato sempre come sono oggi, mentre pur ricordo degli odii e degli amori che non
ho più. Ho il dubbio però che mutando di desideri non mi muto essenzialmente.
Forse l’essenziale è il modo. Ma avendo annotato tanto poco, non posso verificarlo.
(Svevo 1968, 828)
Sempre fedeli alla nostra idea binaria, proviamo quindi a collegare il primo ed il secondo
Svevo con l’aiuto di Ettore Schmitz: guarderemo gli scritti del periodo prima del 1899 firmati
da lui. Tra quelli che si sono conservati risulta molto interessante il Diario per la fidanzata,
scritto da Ettore nel 1896 per la futura moglie Livia Veneziani. In questo libriccino egli non fa
altro che “scribacchiare giornalmente e portare a galla dall’imo del proprio essere” bizzarrie,
rimpianti, dolori, qualche cosa di sincero... In queste pagine, piene di ultime sigarette e di
rigurgiti di gelosia, in queste pagine, dove la macchina introspettiva dello scrivente va a pieno
ritmo dall’inizio fino all’ultima riga, ritroviamo una voce familiare, una voce che ci fa subito
pensare a Zeno Cosini, cioè a un personaggio che ha tutti i numeri per essere antipatico –
infatti, leggendo il diario apprezziamo il coraggio che ha la futura sposa nel legarsi a un uomo
che dimostra coerenza soltanto nel manifestare buoni propositi destinati ad essere
regolarmente disattesi – e che, invece, riesce a conquistarci con la sua sincerità che non va
giudicata secondo i criteri della verità dei fatti narrati. Così Ettore un giorno (2. 1. 1896)
rivela “ho un desiderio di fumare, di bere, di dedicarmi a tutti i vizii per punire te [Livia]...
che finora non hai colpa” (Svevo 1968, 768); due giorni dopo esprime il ferreo proposito di
sacrificare a Livia il vizio del fumo, ma il giorno seguente scrive: “Nella gioia di saperti tanto
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mia, definitivamente mia dovetti fare qualche cosa e mi misi a fumare non appena
abbandonato il telefono” (ibidem, 769). Inoltre dichiara la propria indifferenza per tutto meno
che per la sigaretta:
La mia indifferenza per la vita sussiste sempre: anche quando godo della vita te da
canto, mi resta nell’anima qualche cosa che non gode con te a che m’avverte: Bada
non è tutto come a te sembra e tutto resta comedia perché calerà presto il sipario.
Di più l’indifferenza per la vita è l’essenza della mia vita intellettuale. In quanto è
spirito o forza, la mia parola non è altro che ironia ed io ho paura che il giorno in
cui a te riuscisse di farmi credere nella vita (è cosa impossibile) io mi troverei
grandemente sminuito. [...] Ho un grande timore che essendo felice diverrei stupido
e, viceversa poi, son felice (quale compassione ti faccio) soltanto quando sento
movermi nella grossa testa delle idee che credo non si movano in molte altre teste.
(Ibidem, 772-773)4
ed anche la propria inettitudine che si manifesta nel desiderio spontaneo di togliersi dalla lotta
per la vita:
Io non sono buono di conquistare nulla. Io non voglio conquistare nulla. Io voglio
avere e tenere senza sforzo. Altrimenti la vita diventa per me disaggradevole, piena
di responsabilità e di minaccie. Se non posso avere e tenere senza sforzo, io
volentieri rinunzio, senza esitazione rinunzio. (Ibidem, 776)
Un altro testo dove troviamo l’autoritratto di Ettore Schmitz (che non prende nulla sul serio) e
il ritratto di sua moglie (che invece prende sul serio tutto) e dove troviamo soprattutto il tono
autoironico e allo stesso tempo permaloso dello scrivente che ci fa subito pensare a una
datazione non troppo lontana dalla nascita ufficiale di Zeno Cosini, ma che è invece del 1897,
si intitola Cronaca della famiglia. In questo breve scritto, dedicato “Alla moglie”, Ettore
Schmitz analizza la sua sposa mettendola a confronto con se stesso. Con tono lievemente
altezzoso e lievemente invidioso parla del mondo di lei che è pieno di certezze, diritti e
obblighi, che è concentrato sul presente e non conosce la nostalgia per il passato, che le dà
molta felicità e infelicità e che, anzitutto, riesce a stupirla, meravigliarla; parla, insomma, del
mondo della salute non molto diverso da quello di Augusta, la moglie di Zeno. Parlando di sé
Schmitz di nuovo sottolinea la propria indifferenza, i suoi perenni dubbi:
A me il dubbio perenne non solo sull’essere o non essere ma anche sul mio e tuo dà
tanta mortale indifferenza che tutto quanto mi può succedere potrà addolorarmi,
irritarmi, anche farmi piangere ma non stupirmi! [...] Ella invece ode ogni giorno
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Walter Pedullà a proposito di questo testo scrive: “Si dice che, qualunque cosa tocchi, Svevo la trasformi in
racconto. Ebbene, ce n’è uno (un racconto psicologico) anche in questa lettera che contiene un autoritratto (visto
dall’interno) e una vicenda: che procede attraverso sorprese, colpi di scena, paradossi, imprevista conclusione. In
mezza pagina c’è un tipico racconto sveviano [...] che stavolta va a finire bene per il personaggio: un intellettuale
– sempre lui – indifferente e ironico che cerca e trova nella propria testa la felicità, sia pure precaria” (2001, 2122). Pedullà compara la pagina del diario privato firmato da Schmitz con la narrativa di Svevo senza fare
differenza tra la fiction (la letteratura) e la non-fiction (la scrittura). È infatti nelle intenzioni della nostra idea
binaria dimostrare quanto sia fragile e osmotica la frontiera tra le due dimensioni e che i testi privati di Schmitz
vanno considerati un indubbio laboratorio della scrittura sveviana. Per trovare un personaggio sveviano che
scopre la felicità nella propria testa, basta leggere la commedia La rigenerazione, in cui il vecchio Giovanni
Chierici dice alla cameriera Rita: “Tu non la sai, ma si può pensare tutto a questo mondo. Basta volere e si può
credere che il polo nord sia andato al polo sud. Poi resta tutto come prima ma si è pensata una cosa straordinaria
e perciò si diventa forti e veri padroni di se stessi e del mondo. Intendi?” (Svevo 1986, 413).
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delle cose nuove che la stupiscono e la rendono pensierosa. Non dubbi, veh! Per
quelli non c’è posto. La preghiera a tempo debito è ascoltata lassù, molto spesso
non è esaudita ma allora l’uomo ha la coscienza d’aver fatto tutto quello che
doveva e può stare tranquillo. (Ibidem, 67)
L’unica cosa che suscita in lui stupore è il fatto che due persone così differenti possano stare
insieme. Confessa di essersi sposato quasi per fare un esperimento sociologico, di essere stato
convinto che chi tra loro due avrebbe dovuto cambiare non era certo lui. E si rende conto che
la moglie è invece immune ai suoi tentativi di cambiarla, di convincerla delle sue idee. La
moglie apparentemente non vuole convincere nessuno, comunque con il suo modo di prendere
tutto e tutti sul serio riesce a far fare al marito – che tra l’altro ammette “la mia casa
assomiglia più a lei che a me” (ibidem, 68) – quello che vuole lei. E il marito Ettore non si
ribella, accetta il ruolo di buon marito così come l’accetterà il marito Zeno: “Insomma mia
moglie, i miei suoceri, le cugine, i cugini dicono ch’io sono un buon marito e il peggio si è
che quando me lo dicono io non mi adiro” (ibidem).
Se poi aggiungiamo alcune informazioni trovate nelle lettere inviate a Livia nei primi
anni del matrimonio (1897-1898), come per esempio quelle che riguardano notevoli somme di
denaro perse in Borsa: “Tutti mi picchiano, tutti mi pestano: Io poi faccio delle bestialità,
perdo dei denari in borsa – fumo, mi rovino insomma in salute, borse, come marito, padre,
impiegato e letterato” (ibidem, 72-73), possiamo comporre un profilo psicologico di Zeno
Cosini più o meno completo. E non ci riferiamo solo alle coincidenze dei fatti o alla presenza
dei nuclei narrativi ellaborati poi nel terzo romanzo ma anche e in primo luogo allo specifico
stile e al tono autoironico degli scritti che risalgono al periodo in cui nasceva Senilità, il
secondo romanzo del nostro autore. Va ricordato che Senilità, così come del resto quasi tutta
l’opera di Svevo, ha uno sfondo autobiografico. Solo che in quel periodo Svevo ancora
considerava la letteratura un territorio sacrosanto dove regnano delle regole prestabilite e delle
strutture ufficiali, un territorio vietato alla voce narrante di un Io inaffidabile. Allora,
prendendo atto del fatto che l’autore del Diario per la fidanzata e della Cronaca di famiglia è
Ettore Schmitz e che i testi vanno letti come scritture private, dobbiamo dubitare delle parole
dello stesso Ettore Schmitz il quale, trent’anni più tardi, scrive a Eugenio Montale a proposito
della Coscienza: “...è un’autobiografia e non la mia” (ibidem, 779). O per essere più precisi,
siamo d’accordo: l’autobiografia non è la sua, però Zeno Cosini è lui e non solo nel senso del
bovarismo di Flaubert. Nella lettera citata lo scrittore spiega che ha cercato di convincere se
stesso di essere Zeno così come ha cercato di “cacciare nel proprio passato tutte le sue
avventure che possono somigliare alle mie solo perché la rievocazione di una propria
avventura è una ricostruzione che facilmente diventa una costruzione nuova del tutto quando
si riesce a porla in un’atmosfera nuova”(ibidem). Ora, se leggiamo questa dichiarazione di
metodo nell’ottica del famoso scritto del 5 giugno 1927 in cui Svevo a proposito della verità
romanzesca dice:
Chi legge un romanzo deve avere il senso di sentirsi raccontare una cosa veramente
avvenuta. Ma chi lo scrive maggiormente deve crederci anche se sa che in realtà
mai si svolse così. L’immaginazione è una vera avventura. Guardati dall’annotarla
troppo presto perché la rendi quadrata e poco adattabile al tuo quadro. Deve restare
fluida come la vita stessa che è e diviene. Quando è, non sa come diverrà, ma
quando è divenuta ricorda come è stata, ma non col medesimo sentimento di
quando fu. Allora appena si crea l’intonazione, e l’immaginazione e la vita
egualmente si fanno armoniche ricordando. [...] L’immaginazione è meno
monotona della realtà solo perché vi si muovono le creature che dalla realtà
nacquero ma isolate dal nostro desiderio, dalla nostra passione.” (Svevo 1968, 831)
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possiamo sostenere che il binario Schmitz-Svevo confluisce felicemente nel personaggio di
Zeno Cosini che si è definitivamente appropriato della parola in cui ha saputo far combaciare
la scrittura privata e la letteratura. Questo perché, nonostante il fatto che Zeno sia entrato nella
storia letteraria con l’etichetta di bugiardo, la sua parola è diventata sincera (poiché si è nutrita
dell’empiria del quotidiano) e nello stesso tempo originale (l’empiria veniva infatti
costantemente elaborata dall’immaginazione).
E poiché mi sento in dovere di rispondere alla domanda posta nel titolo della mia
relazione, torniamo ancora un attimo alla citazione da cui siamo partiti. Certo che leggendo
l’idea della futura letteraturizzazione della vita dobbiamo riconoscere a Svevo indubbie doti
di chiaroveggenza e, nello stesso tempo, dobbiamo smascherare il suo proclamato
pessimismo. Almeno in questo caso si è dimostrato un grande ottimista. Come sappiamo, il
suo progetto di letteraturizzazione della vita considerava il raccoglimento il suo postulato
imprescindibile. La letteraturizzazione in corso oggigiorno purtroppo spesso sembra essere
una parodia dell’idea sveviana.Tutti scrivono, annotano, si confessano, senza però aver capito
che “l’unica parte importante della vita è il raccoglimento”. La fase del raccoglimento viene
di frequente “bypassata”: chi non vuole perder tempo, chi non sa che cosa sia, chi non ha la
minima idea di come si debba fare. Nonostante ciò mi sembra che la possibilità di una
scrittura semiprivata pubblicabile senza la necessità di cercare un editore sarebbe per Svevo,
probabilmente celato dietro l’identità di Zeno Cosini, davvero seducente. E poi, non
dimentichiamo che il vegliardo Zeno è spinto allo scrivere della sua vita non tanto dalla voglia
di evocare, di raccontare, di rivivere, quanto dall’imperioso bisogno di lasciare un segno, di
farsi valere, quindi dalla paura esistenziale del nulla. Perciò l’ipotesi del blog mi sembra
abbastanza probabile. In ogni caso sono convinta che il karma del blogger sarebbe alto.
Bibliografia
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