Mauro Caselli, “«Bisogna isolare una cosa perché

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Mauro Caselli, “«Bisogna isolare una cosa perché
Mauro Caselli
”Bisogna isolare una cosa perché diventi una cosa sola”.
Saggio sull’ontologia di Svevo
Dovetti ripetermi, ciò ch'è noioso perché si ripete male.
La scrittura di Italo Svevo, nel suo stile piano, si mostra particolarmente aliena dal
coagularsi in frasi isolate, apoftegmi, aforismi, difficile trovare punti ben definiti nei
quali il pensiero possa trovare compiuta dimora. A tutto ciò è forse legata la ben nota
diffidenza di questo scrittore sia nei confronti della speculazione sistematica, di ogni
processo di teorizzazione - la filosofia tradizionalmente intesa - che nei confronti di
tutta quella espressività che opera nell’opacità della parola - in termini, certo generali ed
imprecisi, verso la poesia. Si tratta di quella riluttanza da parte di Svevo verso gli
”istinti predicatori e didascalici” già notata da Montale (1925, 73). Questo assestamento
su di un linguaggio di basso impatto, ad un’attenta analisi appare tutt’altro che
concettualmente neutro, soprattutto se l’opera di questo autore viene posta in relazione
con quel sentimento di crisi di pensiero che, emerso negli ultimi decenni del XIX
secolo, ha condizionato in maniera decisiva la riflessione filosofica successiva, con tale
forza da non avere ancora, ai nostri giorni, esaurito il proprio effetto.
Nello Svevo dei primi due romanzi, Una vita e Senilità, la struttura speculativa è
dominata dalla metafisica, modello radicato di spiegazione del mondo in cui una ferma
presenza del soggetto viene posta di fronte ad un mondo da lui nettamente distinto.
L’insuccesso di critica di queste due opere induce Svevo a vietarsi alla letteratura. È
noto che non si tratta di un silenzio totale. Lo scrittore continua in tutti questi anni
saltuariamente a scrivere, ma tanto l’angustia della forma racconto, quanto il bisogno di
catarsi, ne condizionano la qualità espressiva. Sono le opere del cosiddetto periodo di
silenzio, dove non v’è quasi traccia del rivolgimento sostanziale che in quel torno di
tempo avviene effettivamente nell’autore. Infatti, ne La coscienza di Zeno, il terzo
romanzo con il quale Svevo riattiva il proprio rapporto con la letteratura, la forma del
testo appare decisamente cambiata. Essa è ora governata da una legge che segue una
verità plurima, modificabile, molto differente da quella dei due romanzi precedenti.
Tutto ciò è reso possibile dal peculiare, straordinariamente profondo, rapporto di Svevo
con la parola, con la parola in quanto scrittura. Nel suo terzo romanzo, Svevo si mostra
in grado di articolare significativamente quella componente di sfuggimento propria del
segno linguistico, che Jacques Derrida definisce ”forza di dislocazione”, capace di
sommuovere la Setzung metafisica e mantenere l’apertura del linguaggio (Derrida
1997a, 5 – 6; 2002b, 36). Si tratta di una tendenza decostruttiva che in questo romanzo
attiva l’espressione attraverso ”l’impossibilità del sistema”, nella spinta cioè di un
superamento che richiama comunque ciò che viene oltrepassato.1 È paradigmatico qui
1
L’indizio di un’apertura connaturata alla struttura della parola sveviana potrebbe essere visto nella
problematicità di soluzione narrativa dei suoi tre romanzi. Si tratta di un punto nodale, sviluppato ogni
volta differentemente. Il finale di Una vita appare con ogni evidenza affrettato, dove la vicenda precipita
improvvisamente, in pochissimi tratti. In Senilità la misura perfetta è raggiunta, la curva conclusiva segue
senza scarti quella dell’intero romanzo. Con La coscienza di Zeno si dà l’attraversamento di questo
equilibrio, con l’aggiunta fattizia di diverse pagine – si tratta di quasi tutto l’intero ultimo capitolo – ad un
testo che presentava invero di per sé un esito letterariamente soddisfacente.
l’atteggiamento eversivo nei confronti della psicoanalisi il quale, nel suo evitamento,
nella sua critica, mobilizza lo studio nella psiche proprio a partire, e quindi grazie, alla
teorizzazione freudiana.
Si cercheranno ora di indicare quali sono le soluzioni stilistiche che vengono
adottate da Svevo nel procedere sopra indicato.
I. Una delle caratteristiche più evidenti dell’opera di Svevo è il tratto di spaesamento dei
personaggi attorno ai quali si sviluppano le vicende. La figura è sempre fuori contesto,
l’ambiente che lo circonda non gli perviene compiutamente. L’effetto è quello di un
accentuarsi della diastasi fra soggetto e mondo. Non c’è relazione comprensibile fra
l’uomo e il suo contesto, l’abisso è profondo e - in quella che possiamo definire la prima
fase dell’opera di Svevo e che si conclude grosso modo col secolo - il linguaggio non si
presenta nella condizione di superare, di eccepire questa distonia. La manifestazione
forse più superficiale e vistosa di tutto ciò, può essere vista in una tematica
apparentemente anodina e pure molto presente in Svevo, quella del tradimento. Esso
viene inteso sostanzialmente come la disattenzione nei confronti di una norma di
condotta, come una variazione imprevista e non condivisa della rete relazionale, che si
dà in quella zona trascendente tra gli enti, in quel ”non luogo” che li separa. Da qui
nelle pagine sveviane la presenza sovrabbondante, di peso non puramente fenomenico,
del tema dell’adulterio:
Non solo ti tradisco ma ti tradisco con la tua sarta. Tu non ti degnasti di
guardare ma ti degni di condannare, di uccidere. Oh! Avessi tu guardato!
Avresti visto che quella donna non era e non poteva essere la tua sarta. Né
magra, né alta, né elegante. Un piccolo elefante. E non bionda… (La verità,
Svevo 2004c, 386)
In Svevo tutto questo si compone ontologicamente in una tensione fra qualità
differenti, senza che l’intervento di una qualche misura consenta il passaggio da un
elemento all’altro. Il suo è un mondo composito, un mosaico, dove il fenomeno
relazionale si configura come soluzione aporetica, inspiegata, della continuità, come
attraversamento inopinato.
II. Nel primo romanzo di Svevo, Una vita, la linea di separazione tra gli enti è molto
pronunciata. Lo sviluppo della vicenda va a compiersi in linea con le conseguenze di un
autismo esistenziale, con l’invalicabilità della divisione. In Senilità il fronte si fa
interno, e va a segnare una partizione nel soggetto stesso. Il passaggio da un ente
all’altro è più agevole che nel romanzo precedente, ed anzi viene a porsi come il tema
speculativo della vicenda.2 In questo romanzo i collegamenti fra autore ed opera
risultano più profondi, il vissuto penetra nella pagina e va a decantarsi lungo le linee di
confine tra gli enti, formando un certo chiaroscuro del senso che va a stemperare la
freddezza della prospettiva quantizzante.
Nella prima fase dell’opera di Svevo, l’uomo si pone quindi come soggetto e
oggetto di una impossibilia, dove gli estremi vengono posti in una coniugazione tensiva,
e in cui dissidio e distanza, differenza e assenza divengono poli di un dinamismo
esistenziale omeostatico. Da un punto di vista speculativo, il rapporto tra essere e
significato perde la sua ovvietà e si mostra piuttosto come il manifestarsi di una
2
A questo proposito, forse è l’esatta sovrapposizione di struttura espressiva e senso comune che ha
potuto spingere la critica più avveduta nel vedere in questo testo una certa perfezione formale.
situazione liminare, l’indicazione di una distanza nella quale, con Nietzsche, si può
identificare l’epicentro di un certo pathos (Nietzsche 1992, 112). Il termine ”malattia”
viene impiegato dall’autore - in maniera invero alquanto incostante e con eccesso di
simbolismo - proprio per definire questa situazione di impasse ontologica, determinata
dall’incapacità di risolvere la separazione degli enti, dalla conseguente reclusione in sé
del soggetto.
III. Nella scrittura, questa percezione desultoria della realtà assume rilievo ontologico
per un’attenzione verso l’imminenza, intesa nel suo significato relazionale - che tiene
insieme e collega le cose. Ciò che importa è pertanto lo spazio interstiziale e il suo
superamento, perché ”la vita non può essere che sforzo, risentimento e attesa di gioia!”
(Corto viaggio sentimentale, Svevo 2004b, 505). Questo luogo è ”interesse” - ciò che
sta in mezzo - che separa e allo stesso tempo unisce forma e contenuto, ad un livello più
concreto, ciò che consente la relazionalità dei qualia. Se è vero che ”tante cose a questo
mondo accumulandosi mutano d’aspetto” (Corto viaggio sentimentale, Svevo 2004b,
589) è qui che si mostra ciò che può essere considerata la trascendenza di Svevo, che si
espone come mistero, come una forma resistente di inconoscibilità determinante. Da
tutto questo procede l’attenzione per la parola, intesa come ente tra gli enti del mondo,
”avvenimento che si riallaccia agli avvenimenti” (La coscienza di Zeno, Svevo 2004a,
987), ”l’esperienza stessa della possibilità (impossibile) dell’impossibile” (Derrida
2005, 137), come scrive Derrida, per la capacità illocutiva che la lega al referente e la
mobilità del senso che questo spazio consente, all’origine d’ogni fenomeno di
connotazione.
In seno a tale dinamica ha buon aggio la deviazione della componente dialettale
nella lingua di Svevo, tema critico importante e che certo inopportunamente ha tanto
angustiato l’autore.3 Tuttavia, se alla consapevolezza di una reale possibilità di
rivelazione del linguaggio nel mondo, del suo ingombro, Svevo giunge subito, devono
passare degli anni perché egli sia in grado di padroneggiare la potenzialità eversiva che
vi si collega.
Nell’onomastica di Svevo si segnala il movimento di cui si è detto. A ragione,
Roland Barthes sostiene che ”il nome proprio è un nome che rinvia all’incomparabile”
(2002, 142). In Svevo è significativo che si verifichi una tendenza contraria, in direzione
della contestualizzazione. Basti pensare ai collegamenti che in questo modo vengono
costruiti fra alcuni personaggi (Emilio e Amalia), fra un nome e un specifico ruolo
(Angiolina, Samigli, Achille, Bianca), o i casi di omonimia tra personaggi di differenti
opere, per non citare tutto il complesso lavorio di dissimulazione dell’autore nei propri
personaggi. Ma certo questa erotica della distanza fra nome proprio e mondo in Svevo è
maggiormente visibile nell’uso dello pseudonimo, su cui non è necessario soffermarsi,
data l’evidenza.4
IV. Nella pagina del primo periodo il senso ineffabile, la trascendenza immanente
costituita dalla distinzione degli enti, viene resa da Svevo attraverso un uso inflativo
3
“Il romanzo raggiunge la pienezza della propria coscienza creatrice solo nelle condizioni di un
plurilinguismo attivo”. (Bachtin 1979, 431). Montale, per questo, parla di “imperfezione positiva”
(Montale 1961, 2513). Da parte sua, per questa scrittura, Giacomo Debenedetti parla di “un utensile
efficace, per quanto inelegante”.
4
Va ricordato che il nom de plume Italo Svevo fu preceduto da Erode, Ettore Samigli, Ettore Muranese.
Jean Starobinski scrive che scegliere uno pseudonimo al posto del nome anagrafico “equivale
all’assassinio del padre ed è la forma meno crudele dell’uccisione in effigie” (Starobinski 1975, 161).
della negazione. I linguisti Chaïm Perelman e Lucie Olbrecths-Tyteca ne hanno
sottolineato la funzione argomentativa, dialettica (2001, 163). L’impiego che il nostro
autore fa di essa, si mostra funzionale a quella percezione del mondo di cui si è detto. Il
suo è un tentativo di superamento dell’espressione antitetica, in cui una buona parte
della forza significativa viene assorbita dalla contrapposizione. Ben lontana dalla teoresi
hegeliana, la negazione pare qui avvertire la funzione devastante che presenta in
Nietzsche, il quale individua il punto in cui essa diviene permutabile con il suo
contrario, con l’affermazione, delineando così - ma in Svevo rimanendone al di qua l’orizzonte mobile e paradossale del nichilismo.
Il compito della negazione in Svevo è quindi di indebolire l’affermazione, in un
costante formarsi d’una distinzione, di un’obiezione al senso alternativa all’antitesi.
Ecco alcuni esempi, desunti da un elenco molto ampio:
Non s'era ancora risolto per uno o l'altro motivo di cui avrebbe potuto
indicare parecchi, ma nessuno tanto verosimile da venir creduto senza
esitazioni. (Una vita, Svevo 2004a, 247 - 8)
Non era il dolore per la morte della madre che lo faceva barcollare e che gli
offuscava la vista. Egli non vedeva dinanzi a sé il volto della defunta ora
illividito, o non richiamava alla mente la voce che non doveva udire più mai,
o il gesto che tanto spesso era stato affettuoso per lui. (L’assassinio di via
Belpoggio, Svevo 2004b, 43)
ed infatti egli non aveva creduto in nessuna delle felicità che gli erano state
offerte; non ci aveva creduto e veramente non aveva mai cercato la felicità.
(Senilità, Svevo 2004a, 502)
Verrà il momento in cui egli non ci sarà ed allora non gl’importerà come non
gl’importa mai quando non c’è. (Argo e il suo padrone, Svevo 2004b, 106)
Non si era né buoni né cattivi come non si era tante altre cose ancora. (La
coscienza di Zeno, Svevo, 2004a, 976)
La miglior prova ch’io non ho avuta quella malattia risulta dal fatto che non
ne sono guarito. (La coscienza di Zeno, 2004a, 1049)
Avevo detto di stimare mia moglie, ma non avevo mica ancora detto di non
amarla. Non avevo detto che mi piacesse, ma neppure che non potesse
piacermi. (La coscienza di Zeno, 2004a, 836 - 837)
Tuttavia non seppe cambiar discorso e non solo perché i vecchi sono un po'
come i coccodrilli che non cambiano facilmente direzione, ma anche perché
oramai con la giovinetta egli non aveva che un legame. In fondo piú di uno
con lei non aveva mai avuto, solo che non era piú lo stesso. (La novella del
buon vecchio e della bella fanciulla, Svevo 2004b, 477)
Il ladro poteva essere preso in flagrante, ma non c'era una prova così
risolutiva per il non ladro. Era come la prova Wassermann. La negativa non
era mai sicura.5 (Corto viaggio sentimentale Svevo 2004b, 543)
5
A questo proposito, la prova Wassermann non è un test della verità come qualche critico l’ha definita,
ma un test per l’identificazione del morbo della sifilide.
Come si vede, si tratta di un modello argomentativo distribuito lungo l’intera opera di
Svevo.6 È il fulcro d’una negazione senza replica, un rapporto fondato sulla qualità.
Quella di questo autore si pone infatti come l’attivazione di un movimento differenziale
rispetto alla Aufhebung hegeliana, che agisce su quella stessa speculazione e la
modifica, in ciò per nulla distinguendosi dalla différance di Jacques Derrida. D’altro
canto, l’opera di Svevo è orientata su ciò che può essere definito come il resto della
misura hegeliana, per il quale l’Anerkennung, il riconoscimento, rimane sempre al di là
del compimento, e proprio per questo importa, per questa funzione di apertura.7 Dando
un più ampio respiro alla questione, questa peculiarità di negazione consente di porre
Svevo all’interno di quel movimento di pensiero che nei primi decenni del secolo si era
assunto un compito che a buon diritto può essere definito epocale. Definita, con
Nietzsche, la morte di dio, accertata la porosità del senso della metafisica, che da
Platone in poi aveva dettato i fondamenti dell’esistenza, il compito è ora quello di
rintracciare le articolazioni esistenziali di questo nuovo scenario, indicare le linee di
svezzamento dai vecchi valori. Martin Heidegger è il filosofo che affronta la questione
nella maniera più convincente.8 E proprio con questo pensatore, la componente
speculativa dell’opera di Svevo mostra sensibili analogie. Basti pensare all’idea,
fondativa del pensiero del filosofo, di ”differenza ontologica”, per cui l’essere non è
l’ente e può apparire solo nella forma della negazione. Più nei particolari, quella
negazione non relazionata, che si è visto stabilirsi come sostrato della sua visione del
mondo, si trova declinata in maniera decisiva in Heidegger, nella sua idea del Dasein,
dell’esserci, come privo di fondamento, come Ab-grund (Heidegger 1952, 77). Anche la
posizione particolare del linguaggio per Svevo, quel suo porsi come ente di rivelazione,
trova rispondenza nel filosofo tedesco, per il quale esso è ”un utilizzabile ontico (...) che
manifesta la struttura ontologica dell’utilizzabilità” (Heidegger 1969, 159).
Determinante per entrambi è il tema del raccoglimento, la sospensione dell’assenso agli
interessi intramondani in funzione di recupero rispetto a quella parcellizzazione degli
enti di cui si è detto, in un movimento di com-prensione, in cui l’ascoltare diventa
essenziale quanto il parlare, tema quest’ultimo dell’Erörterung heideggeriana
(Heidegger 2010). Il raccoglimento, inteso come Versammlung, è, in questo filosofo,
peculiare della memoria – secondo il quale è “il raccogliersi del pensiero” (Heidegger,
1996, 37) - ma soprattutto del logos.9 Similmente accade in Svevo, per il quale è
fortemente sentita l’importanza di ciò che Heidegger chiama la Zusammengehörigkeit,
6
In realtà, a partire da un uso molto frequente della negazione, si nota una sua sensibile diminuzione già
con Senilità, con un suo netto recupero nelle opere prossime alla Coscienza. Va ricordato che in queste
domina la narrazione in prima persona, con una lingua più vicina al parlato, più predisposta ad accogliere
le modalità di manifestazione indiretta della realtà.
7
È qui opinione che l’interese di Svevo per il pensiero di Schopenhauer vada essere visto anche come
presa di distanza - nella forma di una Verwindung - da quella struttura speculativa a forma chiusa
costituita dalla dialettica hegeliana, che aveva decisamente condizionato la cultura ottocentesca, ed anche
oltre. Del resto, Fabio Vittorini osserva che “la Coscienza sembra fornire una personalissima versione
della dialettica signore-servo teorizzata da Hegel” (Svevo 2004a, 1571).
8
Va ricordato che si tratta di un impulso di uscita che prima di Heidegger era stato del suo maestro,
Edmund Husserl, nei due movimenti di Abbau e Aufbau del suo lavoro fenomenologico. Derrida ne
riconosce la fondamentale importanza in (2004a, 89 – 90 ; 2002c, 199 – 218).
9
Si veda (Derrida 2010). Il filosofo francese qui in realtà non risolve chiaramente l’opposizione tra la sua
idea del pensiero come dispersione e la Versammlung heideggeriana.
l'appartenenza di cose diverse ad uno stesso ambito, elaborato nella considerazione del
rapporto tra identità e differenza (Heidegger 2009).
La permanenza di questa struttura diviene chiara se si considerano le due
redazioni di Senilità. Il romanzo, pubblicato nel 1898, nel 1926 viene riveduto da Svevo
in vista di una nuova edizione, realizzata l’anno successivo. Nonostante l’autore parli di
”qualche ritocco meramente formale”, l’emendamento in realtà è piuttosto importante,
pur non andando ad intaccare il tessuto espressivo di fondo. Per i dati che qui
interessano, conta rilevare come l’intervento sia da considerarsi tuttavia trascurabile. Le
costruzioni negative vengono solo leggermente ridotte, e i casi di emendamento in esse
riguardano la variazione del verbo ausiliare – Svevo impiega di preferenza ”avere” - e
della declinazione dall’indicativo al congiuntivo (Cernecca 1961). È significativo che
Svevo mantenga invariate quelle strutture che si costituiscono nelle sue pagine quale
significante ontologico. Tutto ciò, inoltre, avvalora l’idea di chi vede nell’italiano di
Svevo un caso psicologico, più che letterario, dove la maturazione della lingua non
avviene attraverso una militanza letteraria, ma sia piuttosto un prodotto esistenziale
(Luti 1961).
Oltre al diniego assoluto di questa negazione, privo di alternativa, la scrittura
sveviana trova una sua articolazione importante in un movimento del senso, meno
rilevante ma comunque significativo, imperniato sull’effetto straniante degli avversativi:
L'altro fu gentile ma distrattamente. (Una vita, Svevo 2004a, 310)
Rideva molto, ma ubbidiva. (Senilità, Svevo 2004a, 450)
Non era più abbandonata senza parole; era vilipesa. Ma la forza non era fatta
per lei, e durò poco. Emilio giurò: il Balli non gli aveva mai parlato di
Amalia in modo da far capire che credesse d'esserne amato. Ella non gli
credette, ma il debolissimo dubbio ch'egli le aveva messo nell'animo le tolse
la forza, e si mise a piangere: - Perché non viene più in casa nostra?
(Senilità, Svevo 2004a, 516)
A livello di contenuto, la percezione del mondo sveviana salta all’evidenza nelle
sue considerazioni estetiche:
Aveva quattordici anni, ma la sua carne abbondante bianca e rosea da
bambino e la statura bassotta gli davano l'aspetto di decenne appena. (Una
vita, Svevo 2004a, 13)
lo si diceva cinquantenne, ma, con la sua figura magra e slanciata, la pelle
asciutta e senza rughe, non mostrava di avere più di trent'anni. (Una vita,
Svevo 2004a, 64)
di qualche anno più giovane di lui, ma più vecchia per carattere o forse per
destino. (Senilità, Svevo 2004a, 403)
mi ripugnava con quel suo aspetto da vecchia e gli occhi giovanili e mobili
come quelli di tutti gli animali deboli. (La coscienza di Zeno, Svevo 2004a,
645)
In questo autore, il senso del bello, il sorprendente nell’aspetto,
scaturisce attraverso la catalisi di un elemento scoordinante, Unheimlich - ciò
che ”copre e altera la forma“ (La coscienza di Zeno, Svevo 2004a, 804) percepito non tanto nelle sue caratteristiche proprie, quanto per la relazione che
instaura con l’ambiente che lo contiene, in una misura del rapporto fra
l’oggetto e il contesto, nella ricerca della sua delineazione.
l'originalità di quella figura e la sua bellezza erano precisamente formate da
ciò ch'egli aveva qualificato per difetti. (Una vita, Svevo 2004a, 123)
e tale percezione è resa possibile dalla visione parcellizzata del reale di cui si è
parlato:
La donna a me non piaceva intera, ma... a pezzi! (La coscienza di Zeno,
Svevo 2004a, 638)
Si tratta di un procedimento che, seguendo Derrida, può essere definito “per innesto”, di
disseminazione, dove un elemento disarticolato viene messo in condizione di modificare
il contesto (Derrida 1989a).
È proprio questa componente merologica - declinazione ontologica di quel tratto
peculiare della triestinità che Claudio Magris e Claudio Ara hanno riassunto nel termine
nebeneinander (1984) - che sta alla base della visione del mondo sconnesso di Svevo, e
che induce all’uso della negazione intransitiva come forma primaria di espressione.
V. Nei suoi primi due romanzi, Svevo stilisticamente segue un impianto in cui la parola
scorre nella stessa direzione del mondo, e la sua funzione si limita alla resa passiva della
”differenza ontica”, dell’infrazione endemica dell’insieme:
Io e le cose e le persone che mi circondano siamo il vero presente (Il mio
ozio, Svevo, 2004a, 1197).
È una specie, se si vuole, di naturalismo trasversale, questo, che accorda mondo e
parola a livello formale. Ma si tratta di un tempo presente già indebolito da una
tendenza protenzionale e insieme ritenzionale, tendente all’uscita dalla pura
soggettività, a beneficio dell’idea di ulteriorità implicita nell’ex-sistere, nello star
fuori.10
Senilità - che raffina lo stile di Una vita, in direzione di una maggiore pulizia
strutturale – si orienta quindi verso il superamento della neutra narratività ottocentesca,
attestandosi però al compimento di quel modello. Ma la scarsa, quasi inesistente,
attenzione del mondo letterario per la sua opera, induce Svevo ad una scelta importante,
quella di interrompere l’attività letteraria. Passano poco più di vent’anni di relativo
silenzio, in cui l’autore torna a più riprese a scrivere, ma con un’intenzione di corto
10
Svevo fra scrivere a Zeno di sua moglie, Augusta: “il presente per lei era una verità tangibile in cui si
poteva segregarsi e starci caldi” (La coscienza di Zeno, Svevo 2004a, 787). E poi anche: “il tempo, per
me, non è quella cosa impensabile che non s'arresta mai. Da me, solo da me, ritorna.” (La coscienza di
Zeno, Svevo 2004a, 635).
respiro, che rende gli esiti solo in parte significativi.11 Tuttavia non è questo un periodo
che passa invano, perché in quella quiete viene a maturazione in Svevo ciò che nelle
opere precedenti si era fermato al solo annuncio. Con La coscienza di Zeno, con il quale
lo scrittore torna alla propria intonazione letteraria tipica, si dà la risoluzione. Le parole
diventano il luogo del loro effetto, l’evidenza del confine, il mezzo e il messaggio, - per
sua natura traditore - della discrezione del reale. Uno dei temi dominanti del romanzo, la
psicoanalisi, che all’apparenza funge da schema di contrasto, in realtà rappresenta
l’occasione di riportare allo scoperto il rapporto problematico fra la teoria e il bios, ciò
che Svevo chiama la ”vita orrida vera” (Le confessioni del vegliardo, Svevo 2004a
1116). Zeno, il protagonista del romanzo, è il soggetto che “si sa composto”, ed è con
questa consapevolezza che elabora la propria coscienza. Anche tra autore ed opera si
gioca con l’effetto di promiscuità, eppure mai si avverte nella pagina una catarsi, mai lo
Svevo si riduce all’idioletto. L’importanza della Coscienza, la sua permanente vitalità,
sta in questa ”imminenza” della parola letteraria sul mondo, in uno sbilanciamento della
compostezza di Senilità ai fini d’un affondo nel piano del referente. Il linguaggio non si
limita più a descrivere i chiaroscuri, le forti opposizioni che hanno contrassegnato il
gusto culturale del secolo precedente, ma anzi abbandona il ruolo di semplice medium
per farsi parte in causa. La scrittura viene qui a porsi in un deciso tentativo di oltranza,
di superare l’assoluta alterità nel mondo, la paradossalità d’essere nella verità solo fra
sconosciuti - come scrive lo stesso Svevo (Corto viaggio sentimentale, Svevo 2004b
526). La parola si rapporta ora al referente in maniera differenziale, con un movimento
di scarto che è declinazione sveviana dello Schritt zurück heideggeriano (Heidegger
2009, 64). Si riduce così l’imminenza trascendente della negazione e compare un
elaborato impiego delle figure del discorso, al fine di attraversare la vertenza tra gli enti
e dare effetto alla loro relazione. Si tratta di modelli spontanei, legati prevalentemente al
parlato, ma consaputi nella loro potenzialità espressiva.
Ciò che più importa sottolineare di questa nuova modalità in Svevo è che si
tratta sostanzialmente dell’impiego di figure di ripetizione. Gabriel Tarde, intellettuale
di ampio respiro vissuto al tempo di Svevo, scrive che la ripetizione
È un procedimento di stile ben altrimenti energico e meno faticoso
dell’antitesi, ed anche più adatto ad innovare il soggetto (Tarde 1897, 69).
La ripetizione può essere vista, in effetti, come il fenomeno differenziale
minimo, ed anzi fondativo, laddove l’opposizione diviene il movimento della differenza
più completa, come scrive Gilles Deleuze (1997).12 Certo, a questo discorso non sono
estranee le considerazioni di Freud sulla coazione a ripetere quale carattere generale
delle pulsioni che, nelle sue elaborazioni iniziali, potevano essere in qualche misura
note a Svevo (Freud 1975). Con la ripetizione ci si situa all’origine del movimento di
11
La tracciatura di questo sviluppo attribuisce secondaria importanza alle opere composte durante il
“periodo di latenza” in Svevo. A differenza dell’analisi psicanalitica, l’indagine ontologica è orientata allo
studio del lavorio cosciente dell’autore, nella sua contesa con il principio di realtà, in cui lo sforzo
espressivo viene sottoposto alla legge della forma. Elio Gioanola ha giustamente sottolineato il tenore
catartico, libero da costrizioni, della produzione sveviana del periodo in questione (1979). In effetti, la
confessione non coordinata da una prospettiva di fruizione pubblica, induce la pagina al farsi più
inventiva, più variegata, ma alla fin fine anche confusa, risultato di spinte pulsionali, piuttosto che di una
loro consapevole “messa in forma” letteraria.
12
Anche Eduardo Saccone ha posto in relazione Svevo e Deleuze, ma su un altro piano, accostando il
movimento di differenza e ripetizione di questi al gioco sveviano di verità e menzogna (Saccone 1973).
pensiero, nel carattere ricorsivo della parola che si manifesta concettualmente. A livello
di contenuto, la ripetizione inerisce al tema della memoria, che in Svevo assume
importanza crescente nel tempo. Ne La coscienza di Zeno, il suo porsi come
autobiografia, come rimemorazione di sé, ricalca l’idea di scrittura come ripetizione, ma
anche come differenza, come lavorio espressivo in absentia (Derrida 2002d). Sempre
Derrida osserva opportunamente che iterazione deriva da iter, ”nuovamente”, ma anche
dal sanscrito itara, che sta per “altro” (1997b, 403 – 404).
La pagina di Svevo segue questa traccia e, ponendosi nella prospettiva
dell’espressione, declina la ripetizione come forma minima negativa. Essa va inoltre ad
assumere qui anche il ruolo di assorbire la componente di trascendenza che prima aveva
espresso lo iato ontologico fra gli enti. 13
Anche l’ironia di Svevo può essere collegata al fenomeno di reiterazione, perché
la ripetizione appartiene allo humor e all’ironia; essa è per sua natura
trasgressione, eccezione, poiché esibisce sempre una singolarità contro i
particolari sottomessi alla legge, un universale contro le generalità che fanno
legge (Deleuze 1997, 12).14
Svevo quindi ora procede verso una contesa con il reale attuata attraverso lo
stemperarsi della contesa stessa. Come accennato, in lui il discorso rimane al di qua di
ogni consapevolezza concettuale, e la sua rimane una ripetizione “vestita”, elaborata
attraverso un uso irriflesso delle forme retoriche.
Anafora:
assentí alla prima malsicura promessa, assentí riconoscente alla seconda e
assentí anche al mio terzo proposito, sempre sorridendo. (La coscienza di
Zeno, Svevo 2004a, 824).
Epifora:
Avevo perduto un momento favorevole e sapevo benissimo che certe donne
ne hanno per una volta sola. A me sarebbe bastata quella sola volta. (La
coscienza di Zeno, Svevo 2004a, 904).
Il vecchio sorrise, con un poco d'amarezza, ma sorrise (La novella del buon
vecchio (…), Svevo 2004b, 479).
Epanadiplosi:
Il vino preso come cura era già di troppo o volevo oramai tutt'altro vino. (La
coscienza di Zeno, Svevo 2004a, 870)
13
Si ricorda ancora Deleuze, quando scrive che “se la ripetizione è possibile essa inerisce al miracolo
piuttosto che alla legge” (Deleuze 1997, 9).
14
Riguardo alla scrittura, va ricordato che “l’origine di una sequenza non è l’osservazione della realtà,
ma la necessità di variare e di superare la prima forma che si sia presentata all’uomo, cioè la ripetizione”
(Barthes, 1991, 121 - 122). A ciò va aggiunto quanto scrive Eduardo Saccone, il quale sottolinea che per
Svevo “l’arte, la letteratura sembra consistere non in una imitazione o un’invenzione, ma in una
ripetizione” (Saccone, 38).
Anadiplosi:
Io rimasi apparentemente lieto anche quando la malattia mi riprese intero.
Lieto come se il mio dolore fosse stato sentito da me quale un solletico. (La
coscienza di Zeno, Svevo 2004a,790).
Epanadiplosi e anadiplosi:
Avevo presa e violentemente abbandonata per ben due volte una donna ed
ero ritornato due volte a mia moglie per rinnegare anche lei per due volte.
(La coscienza di Zeno, Svevo 2004a, 861).
Polittoto:
Quando si muore si ha ben altro da fare che di pensare alla morte. (La
coscienza di Zeno, cit., p. 678).
Epanortosi:
Io sapevo, io credevo di sapere. (La coscienza di Zeno, Svevo 2004a, 726).
Antimetabole:
La parola aveva rilevato l'atto e l'atto la parola. (La coscienza di Zeno, Svevo
2004a, 866).
Sillessi:
Mio padre, a quell'ora, era piú vicino alla morte che a me. (La coscienza di
Zeno, Svevo 2004a, 667).
È chiaro che un eccesso di anni è piú pericoloso che un eccesso di vino, di
cibo e anche di amore (La novella del buon vecchio (…), Svevo 2004b, 457).
Polittoto e antitesi:
Per la brutta fanciulla che m'amava, avevo tutto il disdegno che non
ammettevo avesse per me la sua bella sorella, che io amavo. (La coscienza di
Zeno, Svevo 2004a, 724).
L’”indirezione” del discorso negativo viene mantenuta e il suo impiego si fa più
raffinato:
A me pareva doloroso, ma molto logico. Perciò non protestai, ma finsi di
non sentire. (Vino generoso, Svevo 2004b, 143).
Egli credeva d'essere un uomo che desiderava tante cose non permesse e che
- visto che non erano permesse - le proibiva a se stesso, lasciandone però
vivere intatto il desiderio. Egli poi non ne parlava neppure e stava facendo
delle asserzioni che dovevano celare meglio - negandoli - quei desiderii.
(Corto viaggio sentimentale, Svevo 2004b, 549 -550).
Verrà il momento in cui egli non ci sarà ed allora non gl'importerà come non
gl'importa mai quando non c'è. (Argo e il suo padrone, Svevo 2004b, 106)
Da me la virtù non fu grande, ma il desiderio ne fu eccessivo. (Confessioni
del vegliardo 2004a, 1147)
Ciò che pare porsi al centro dell’interesse di Svevo è ora una produzione di
senso intesa eminentemente come transazione di fase, come movimento di discontinuità.
È questo che, ad esempio, fornisce il fondale di molte scene sveviane, dove a un interno
immobile, anche doloroso, si contrappone un mondo che fuori continua ad essere vitale,
se non proprio festoso – come nelle ben note scene d’agonia. È anche ciò che dà
particolare risalto ai passaggi dal sonno alla veglia, dalla fantasticheria alla realtà di
molti personaggi, e che giustifica la frequente riflessione sul rapporto fra parole e cose.
E, a ben pensare, lo stesso interesse per la psicanalisi può rientrare in questa attenzione
per la comunicazione tra sistemi chiusi, da parte di Svevo.
Da un punto di vista ontologico, l’attenzione è ancora rivolta al bordo, al limite.
Essa però ora diviene manifestazione dell’aporia, vale a dire di un’impossibilità di
passaggio che è condizione stessa di quel movimento. Emerge pertanto in Svevo la
situazione derridiana di double bind, che compare non tanto come tensione antitetica fra
due opposti, quanto come loro compresenza, se non proprio complicità. Attraverso un
significato, Svevo allude ad un altro, il che ha come effetto quello di attivare entrambi.
Conta il movimento, la considerazione di un passaggio, di una transazione qualitativa, e
quindi la statuizione di quel luogo paradossale che è il confine. Il vuoto, la mancata
trasmissione di senso, lascia il posto ad un’azione non oppositiva, quanto piuttosto di
temperamento. È questa la base su cui poggia la tonalità ironica di Svevo, molto
presente nelle ultime opere. La quale può essere vista come un’eversione misurata, un
movimento che prende la strada del nichilismo per attestarsi però alla decostruzione.
Con il padroneggiamento del piano inclinato costituito dall’ironia, la “doppiezza” di
Svevo si trasforma in atteggiamento idiorritmico, in un rapporto paradossale con la
propria opera, di distanziamento e al contempo di prossimità, distacco ed adesione, che
consente di mantenere la tensione d’indecidibilità fra due posizioni. In Svevo il cerchio
del reale viene così a chiudersi proprio grazie al lavoro di creazione letteraria, grazie
alla “possibilità esistentiva” che la scrittura presenta per lui, e che egli stesso identifica
nel simulacro della letteraturizzazione.
VI. Nell’ironia - si ricorda che in essa György Lukács vede il principio formale del
romanzo tout court - si può evidenziare come il linguaggio contenga già in sé una certa
teatralità, una finzionalità scoperta, atta a veicolare un senso intenzionalmente
malcelato15.
non potevo lasciare la città quando non ero ancora certo che nessuno sarebbe
venuto a cercarmi. Quale sventura se fossero venuti e non m'avessero
trovato! (La coscienza di Zeno, Svevo 2004a, 728)
Del resto si tratta di un effetto, come è già stato detto, che viene ad esaltarsi
nell’oralità, nella pronuntiatio (Lausberg 2001, 107),16 che agisce a livello relazionale
15
Alla luce di tutto ciò andrebbe indagato il motivo per il quale il teatro di Svevo non sia stato
in grado di raggiungere il livello delle opere narrative. Va anche ricordato che per un esploratore
dell’io come Svevo il fatto che “solo la scrittura è in grado di raccogliere l’estrema soggettività,
in quanto nella scrittura si trova l’accordo tra l’indiretto dell’espressione e la verità del
soggetto” (Barthes 2002, 178). Del resto, in Svevo è possibile rilevare finanche una distanza
ontologica dal teatro. In quanto espressione peculiare della phoné, seguendo Derrida (1989),
esso risulta maggiormente legato alla Vorhandenheit
heideggeriana, espressione del
logocentrismo, e quindi da quella metafisica da cui Svevo si avvia a prendere congedo.
16
Va detto che nel teatro di Svevo questo particolare uso della negazione è poco presente.
dell’implicito (Anolli, Ciceri, Giaele Infantino 1999, 97). Anche questa è una
caratteristica presente sin dai primi lavori in Svevo, e che nel tempo viene ad assumere
sempre più importanza:
usciva non appena deposto il libro e dopo quell’ora passata con gl’idealisti
tedeschi, gli sembrava che le cose lo salutassero. (Una vita, Svevo 2004a,
71)
L’ironia nello scrittore triestino non si presenta mai nel suo aspetto classico,
quello d’inversione semantica, essa assume piuttosto il compito di indicare una
differenza dal senso proprio, più che un’opposizione ad esso. In questo manifesta un
forte carattere dialogico, in una semantizzazione che rimane nella parola stessa, come
sottolineato da Marina Mizzau (1984, 68).17 Ed è questa studiosa a dare una definizione
del tropo che molto si avvicina al suo uso in Svevo:
L’ironia sopperisce alla finitezza qualitativa del repertorio di parole e frasi a
nostra disposizione, alle restrizioni orizzontali della lingua, introducendo le
variazioni verticali date dalla stratificazione delle intenzioni (Mizzau 1984,
10).
Il suo essere in Svevo sostanzialmente un effetto diminuito, attenuato, indebolisce
un’altra caratteristica dell’ironia, la sua potenzialità illocutiva, mirando essa piuttosto ad
attestare l’uomo in una “zona d’incertezza psicologica” (Almansi, 1984, 22). Ciò
consente di vedere nella scelta della prima persona ne La coscienza una declinazione
ulteriore della differenzialità di cui si è detto. Il soggetto subisce qui una fortissima
delocalizzazione, in quanto vi si trova l’autore e il narratore, il quale a sua volta rivede
se stesso, e nel rivedersi si inventa. 18 È il movimento frattale indicato da Svevo stesso
quando, per questo romanzo, parla di “un’autobiografia e non la mia”. Non ci sono
significati assoluti, il senso certo si pone stabilmente per un tempo determinato, ma
prima o poi rovina. E in questo ricomporre la realtà passata si nota quanto l’idea di
verità, tema che per Svevo meriterebbe una trattazione a parte, tenda ora a distanziarsi
dalla adequatio, dalla conformazione alla cosa, in direzione della heideggeriana
aletheia, disvelamento, il cui alfa privativo greco rimanda ancora una volta al valore
sorgivo della negazione. Di essa fa parte quella negative capability che John Keats
aveva visto come caratteristica suprema in Shakespeare, l’essere in grado di vivere nel
caos del reale senza farne una ragione, e che non è più una qualità elettiva per Svevo,
ma destino.
VII. Per quanto riguarda le opere successive alla Coscienza si nota un sensibile
cambiamento di registro. Lo stato d’incompiutezza di questi testi, peraltro non
omogenei nel risultato e probabilmente diversi per intenzione, obbligano ad una loro
considerazione solo accessoria al fine di rintracciare le linee di tessitura del mondo
sveviano. Qui la pagina si fa più sciolta, il periodare si sviluppa in un gioco espressivo
in cui un indubbio compiacimento consuma parte della forza della parola. Nei contenuti
17
18
Sull’ironia da un punto di vista retorico si veda (Lausberg 2001, 128 – 129 e 237 – 240).
Svevo indica il valore generale di questa impostura nel comportamento di Ada, nel suo ricordo del
marito: “Stava ricostruendo la sua relazione col povero morto. Non doveva somigliare affatto a quella
ch'essa aveva avuta col vivo.” (La coscienza di Zeno, Svevo 2004a, 1032).
c’è un’insistenza rilassata nella autodecostruzione, in contrasto con quell’affanno per
l’unità dell’opera precedente, e soprattutto in attrito con l’idea di morte, tipicamente
associata in Svevo al concetto di “dissoluzione”. Tuttavia, pur mancando il lavorio di
revisione, la sanzione della ragione letteraria - che sola consente all’autore di ottenere la
propria forma espressiva tipica - vi si possono individuare alcune peculiarità rispetto al
tema in questione. La negazione viene a perdere di peso, mentre si raffinano alcune
modalità differenziali d’espressione. Interessante è l’uso delle congiunzioni avversative,
attenuate sensibilmente della loro funzione, con importante compito proprio
dell’epanortosi:
Avevo fatto bene baciando la mano di Ada o avevo fatto male di non
baciarla anche sulle labbra? (La coscienza di Zeno, Svevo 2004a, 715).
Presto m’accorsi che con lui non dovevo parlare ma che di lui potevo fidarmi
(Un contratto, Svevo 2004a, 1092).
Non è indiscreto ma intelligente per cui gli fu possibile di un mio lieve
cenno per intendere tutto (Umbertino, Svevo 2004a, 1186).
Non si poteva dire ch'egli amasse qualcuno, ma egli amava intensamente
tutta la vita, gli uomini le bestie e le piante, tutta roba anonima e perciò tanto
amabile (Corto viaggio sentimentale, Svevo 2004b, 530).
Anche i fenomeni iterativi vengono ulteriormente elaborati. Le figure retoriche relative
tendono nelle ultime opere a svilupparsi al di là del livello di frase, andando a strutturare
la pagina in un orizzonte macrostrutturale:
Ogni malessere che sentisse il signor Aghios lo diceva vecchiaia, ma
pensava che una parte di tale malessere gli venisse dalla famiglia. Sta bene
che vecchio come ora non era mai stato, ma mai s'era sentito, oltre che
vecchio, anche tanto ruggine. E la ruggine proveniva sicuramente dalla
famiglia, l'ambiente chiuso ove c'è muffa e ruggine (Corto viaggio (…),
Svevo 2004b, 504).
Pare che ricordare non sia una vera azione. Il ricordo lo si subisce immobile.
Chi ricorda e chi è ricordato s'immobilizzano (Corto viaggio (…), Svevo
2004b, 535)
Di questo ampliamento d’orizzonte risente anche la negazione:
La chiamai ed essa venne fino alla porta per dirmi a bassa voce due volte:
“No! No!”. Dovetti retrocedere ed i cani ringhiarono perché, non aspettando
di vedermi tanto presto, credettero non fossi io. Mi coricai, ma non seppi
dormire e alla mattina mi domandai: “Perché non la truffai ancora? Perché
non le promisi di sposarla purché mi aprisse quella porta?”. Così m'avviai
alla decisione nuova senza saperlo (Corto viaggio (…), Svevo 2004b, 588).
In questi ultimi testi, assumono forte rilevanza le costruzioni chiasmatiche, già
presenti invero ne la Coscienza, ma ancora non debitamente perfezionate. La funzione è
quella di temperare il contrappunto antitetico, la statuizione della separatezza, nel
compito di differenziale proprio, di equilibrio semantico degli enti separati, se non
proprio degli opposti:
Quando a qualcuno è tolta la possibilità di fare all’amore per proprio conto è
costretto dall’istinto imperioso a farlo per conto altrui (Umbertino, Svevo
2004a, 1181).
Mi pareva insomma ch’egli parlasse ma non ascoltasse se stesso. Era come
me che non l’ascoltavo affatto e invece lo guardavo tentando d’intendere
proprio quello ch’egli non diceva (Il mio ozio, Svevo, 2004a, 1210).
Era abituato da lungo tempo al rimorso dei buoni affari che faceva ed egli
continuava a farne ad onta del rimorso (La novella del buon vecchio (…),
2004b, 451).
“Io sono un vecchio che non amerebbe nessuno e da nessuno sarebbe amato
se non ci fossi io stesso che amo e da cui sono amato” (Corto viaggio (…),
Svevo 2004b, 529).
Poteva essere che, come essa non l'indovinava in lui, così lui non lo
scoprisse da lei (Corto viaggio (…), Svevo 2004b, 523).
Corto viaggio sentimentale, fra gli ultimi testi sveviani, è quello che mostra gli sviluppi
più interessanti. Il viaggio è qui la metafora di ogni transazione, di ogni azione di
legame:
Con dolce violenza il signor Aghios si staccò dalla moglie e a passo celere
tentò di perdersi nella folla che s'addensava all'ingresso della stazione (Corto
viaggio (…), Svevo 2004b, 501).19
Il gioco ironico – certo mai banale in Svevo, ma a volte troppo compiaciuto – fa qui
posto a un’elaborazione speculativa di cui la morte improvvisa dell’autore ha lasciato a
livello di abbozzo.
Rimane inteso che La coscienza di Zeno è l’ultima opera di Svevo in cui possiamo
rintracciare interamente la forma primaria del suo mondo, i principi con i quali la sua
parola lo abita. Essa è, per la sua pervasiva differenzialità, legata alla scena della
scrittura. In questo, e proprio per questo, Svevo è essenzialmente scrittore.
VIII. Queste considerazioni consentono di mettere in evidenza quanto l’opinione di
Joyce, diventata canonica, di una fondamentale costanza nell’opera di Svevo, l’aver cioè
lui scritto tre volte il medesimo romanzo, sia vera solo in parte. Dell’ipotizzata
evoluzione dello scrittore da una fase romantica ad una naturalistica rimane solo il
movimento, attraverso una decostruzione sul piano dei rapporti formali degli enti. Se la
forte coesione del tessuto testuale, contrappunta ad una narrazione di fatti scarsamente
incisi, se la ricorrenza di ben precise situazioni rende ragione di una componente
invariabile a livello macrostrutturale, il testo sveviano si mostra invero incentrato su di
un “soggetto processuale”, attraverso una linea di sviluppo sensibile, e anzi ripida e
importante, non solo per l’autore. In effetti, gli oltre due decenni che separano la
19
Si tratta dell’incipit del racconto.
composizione di Senilità da La coscienza di Zeno segnano una decisa trasformazione
della narratività. La sostanziale differenza tra queste opere mostra una capacità di agire
in profondità sull’intero orizzonte del lavoro letterario, dal livello lessicale fino
all’architettura del testo. È proprio questo che ha consentito a Svevo sia di portare a
compimento la struttura chiusa del romanzo ottocentesco, che garantisce la nondispersione del soggetto che scrive (Morpurgo, 1988, 156), che d’inaugurare poi quello
stile d’infrazione che caratterizzerà la gran parte della produzione letteraria del
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