Il medico non rileva la sindrome di Down No al risarcimento per la
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Il medico non rileva la sindrome di Down No al risarcimento per la
GDME6014 del 05-04_GDME_05042016_22.pdf - GDME - Stampato da: [email protected] - 02/04/201 A norma di legge MARTEDÌ 5 APRILE 2016 Giornale di Merate A cura di Publi(iN) Tel. 039.9989.1 22 SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE SU UN DELICATO CASO DI COSCIENZA (afm) Un argomento molto controverso sul quale si è interrogata spesso la giurisprudenza (ed anche la coscienza dei Giudici chiamati a decidere in proposito) riguarda l’esistenza di un «diritto a non nascere se non sani». Un tema scottante, sul quale si sono pronunciate le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza numero 25767/2015. La controversia sulla quale la Suprema Corte si è pronunciata è la seguente: «Una donna aveva partorito una bambina affetta da sindrome di Down, sebbene pochi mesi prima del parto si fosse sottoposta ad esami specifici proprio al fine di identificare l’eventuale presenza di tale patologia. A seguito della nascita della figlia, i genitori hanno citato in giudizio il ginecologo, il primario del laboratorio che aveva eseguito le analisi di cui sopra e la struttura sanitaria presso la quale questi ultimi svolgevano la propria attività lavorativa». In primo grado e in appello la domanda avanzata dai genitori è stata rigettata. In particolare, la Corte d’Appello ha affermato che il risarcimento del danno non è sempre e comunque conseguenza immediata e diretta del mancato rispetto dell’obbligo di informazione sussistente in capo al sanitario. Per vedersi riconosciuto il danno, quindi, sarebbe stato necessario dimostrare la sussistenza delle condizioni previste dalla Legge 22 maggio 1978, n.194 («Norme per la tutela sociale della ma- Il medico non rileva la sindrome di Down No al risarcimento per la bimba nata «non sana» ternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza»). Tale normativa, all’art. 4 prevede che, entro i primi novanta giorni, la gravidanza possa essere interrotta qualora la donna «…accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali, o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito…». Il successivo art. 6 stabilisce invece che la gravidanza possa essere interrotta decorsi i primi novanta giorni: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. In assenza dei requisiti previsti dalla legge ora citata, l’aborto costituirebbe reato, ed il sanitario che lo impedisse non potrebbe essere in alcun modo sanzionato né a livello civile, né a livello penale in quanto la sua condotta sarebbe diretta ad impedire il compimento di un illecito penale. La seconda questione su cui la Corte d’Appello si è pronunciata negativamente è stata la legittimazione della figlia appena venuta alla luce ad ottenere un risarcimento del danno per essere nata affetta dalla sindrome di Down. Il rigetto veniva motivato dal fatto che nel nostro ordinamento non sussiste un diritto a non nascere. Visti i primi due gradi di giudizio i genitori della bimba hanno presentato ricorso in Cassazione: nel contributo che pubblichiamo a lato l’avvocato Martina Bolis (nella foto) dello Studio Notaro e Associati di Merate illustra le motivazioni della sentenza (ancora negativa) delle Sezioni Unite della Suprema Corte. (ces)Il ricorso è stato attribuito alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, affinché si pronunciassero in ordine al contrasto insorto su due tematiche fondamentali: l’onere probatorio nell’ambito della cosiddetta nascita indesiderata e la legittimazione del figlio appena nato a richiedere il risarcimento del danno per essere nato affetto da gravi patologie. Innanzitutto si conferma che, in presenza delle condizioni previste dalla legge 194/1978, qualora la madre si trovi nell’impossibilità di esercitare una scelta consapevole per quanto attiene l’interruzione della gravidanza, e ciò a causa di una negligente o carente informativa da parte del medico, sussiste in capo al medico una responsabilità civile. L’informativa data dal medico è fondamentale in quanto solitamente la madre ed il padre non possiedono conoscenze tali da permettere una comprensione delle dinamiche della gravidanza e delle possibili complicanze per il feto. Per questo essi si affidano alla competenza e alla professionalità di un medico. La Corte Suprema ribadisce che si può astrattamente configurare una responsabilità del medico e della struttura sanitaria in cui lo stesso è inserito solo qualora ci si trovi in uno dei casi in cui l’interruzione della gravidanza sia legalmente consentita. Ma, oltre a questo, è necessario che sia provata anche la volontà della madre di interrompere la gravidanza. Qui sorgono le maggiori problematiche, poiché risulta particolarmente arduo provare un atteggiamento interno non suscettibile di rappresentazione immediata e diretta; esso potrà tutt’al più essere provato mediante indizi, dai quali si possa dedurre la volontà della donna. Ebbene, la Suprema Corte concordava con quanto affermato dalla Corte d’Appello confermando l’applicazione del principio in base al quale l’onere di provare un diritto è posto in capo a chi vuol far valere il diritto stesso (art. 2697 c.c.) ovvero alla madre. Tuttavia, censura il fatto che il Giudicante di secondo grado avesse sì correttamente enunciato il principio generale attinente al riparto dell’onere della prova, ma avesse omesso di valutare l’idoneità di una prova indiziaria, ricavabile da tutte le circostanze allegate dai genitori della bambina. La sentenza su tale punto viene quindi cassata, lasciando impregiudicato l’accertamento dell’eventuale danno derivante L’Avvocato Martina Bolis illustra le ragioni del rifiuto dall’impossibilità di esercitare per la madre il proprio diritto di scelta. La seconda questione giuridica controversa sulla quale le Sezioni Unite si sono pronunciate è la sussistenza o meno della legittimazione in capo al figlio nato con con gravi patologie o malformazioni, al risarcimento del danno consistente nell’impossibilità di condurre una vita sana e dignitosa. Ciò che la Corte è chiamata a chiarire è se possa sussistere la legittimazione ad agire in capo ad un soggetto che, nel momento in cui è stata posta in essere dal medico la condotta in ipotesi antigiuridica, non poteva essere considerato soggetto di diritto (in quanto in base all’art.1 c.c. “La capacità giuridica si acquista al momento della nascita”). Tuttavia, per riconoscere il diritto del nascituro al risarcimento del danno i cui presupposti siano collocabili anteriormente alla sua nascita, non è necessario considerarlo come soggetto di diritto dotato di personalità giuridica. Alla tutela del nascituro si può pervenire per un’altra strada, ossia considerandolo non come soggetto da tutelare ma come oggetto di tutela; principio che tra l’altro si ritrova in alcune norme presenti nel nostro ordinamento. Tra esse, l’art. 1, comma 1 della Legge n.40/2004 («Norme in materia di procreazione medicalmente assistita») prevede che il concepito sia un soggetto meritevole di tutela. Ancora, l’art.1 della Legge n.194/1978 già citata prevede la tutela della vita umana anteriormente alla nascita. Alla luce di quanto sopra, la Cassazione ritiene astrattamente ammissibile l’azione del figlio per ottenere il risarcimento del danno ingiusto causato durante la gestazione. La distanza temporale tra la causa dell’evento lesivo e l’evento lesivo stesso non è d’ostacolo al configurarsi del nesso di causalità. Una volta affermata l’astratta legittimazione del nascituro a richiedere ed ottenere il risarcimento del danno, le Sezioni Unite approfondiscono il contenuto del diritto che si assume leso. E per fare ciò partono dal concetto di danno come lucro cessante e danno emergente fissato dall’art. 1223 c.c. Seguendo tale ricostruzione, il danno si concretizzerebbe nella stessa nascita del bam- bino e l’assenza di danno nella morte (o non nascita) dello stesso. Ma nel nostro ordinamento non vi è tutela per la non nascita, o meglio per la morte; a essere tutelato è il diritto alla vita e alla salute. Il contratto tra la madre e il medico si configura come contratto avente effetti protettivi nei confronti di terzi. Il danno cagionato dalla nascita del figlio non sano si estende invece al padre ed ai fratelli germani, poiché per essi può essere operato un raffronto tra due situazioni positive: la vita di tali soggetti prima della nascita del figlio (o del fratello) non sano, e la vita dopo tale evento. Per entrambi si potrà configurare un danno non patrimoniale, costituito dall’intima sofferenza patita a causa della condizione del nuovo nato. Il padre dovrà convivere con il dolore di non poter assicurare al figlio le stesse opportunità e la stessa qualità di vita che lo stesso avrebbe se fosse nato sano; i fratelli dovranno convivere con la diminuzione di attenzioni dei genitori e con l’atmosfera familiare non così distesa. Quindi solo per la madre, il padre ed i fratelli germani si configurerà, in caso di figlio o fratello nato con patologie gravi un danno-conseguenza, per le motivazioni anzidette. La Cassazione esprime un ragionamento ulteriore, inaccettabile: se si ammettesse la responsabilità del medico verso il nato, si dovrebbe affermare una responsabilità della madre stessa che abbia deciso di portare a termine la gravidanza sebbene correttamente informata della condizioni del nascituro. Ella sarebbe infatti responsabile di aver condannato il nascituro ad una vita gravata dalla malattia: si configurerebbe in capo alla madre un obbligo di abortire per rispettare il diritto a non nascere se non sano nei confronti del nascituro. Non vi è bisogno di scomodare precedenti storici infausti per capire a cosa potrebbe portare la deriva di tale «orientamento»… La Suprema Corte nega quindi la legittimazione ad azionare il diritto al risarcimento del danno da parte del nascituro, anche a seguito della sua nascita, non esistendo nel nostro ordinamento un diritto a non nascere se non sano. Avv. Martina Bolis Studio Notaro e Associati