La pagina de L`espresso con il testo integrale degli articoli

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L'espresso
CULTURA
Beautiful City
di ALESSANDRA MAMMÌ
Nelle metropoli si vive rinchiusi in ghetti dorati o emarginati nelle periferie. Assediati dalla violenza
e dalla paura. Solo la bellezza può ridarci la sicurezza perduta. Grazie al lavoro di architetti e artisti
Una ventina di anni fa, due criminologi americani, James Wilson e George Kelling, lanciano una tesi
che passò alla storia come teoria delle 'Broken windows'. Scrissero che, se in un condominio si rompe
una finestra e nessuno l'accomoda, presto ci saranno altri vetri rotti, e ancor più presto tutto il
quartiere diventerà un luogo a rischio. Questo uovo di colombo scatena un dibattito su fini e destini
della città tardo moderna. Siamo davvero in equilibrio così precario che basta un vetro a scatenare la
catastrofe? Il punto è che la teoria dei vetri si sposa con un'altra grande malattia: il senso di pericolo
che circonda metropoli, megalopoli e città europee. A poco valgono le verità statistiche e i dati che
raccontano come in realtà le città dell'Ottocento erano più criminose delle nostre e che spesso i più
efferati delitti avvengono in centri piccoli. La città fa paura e la prima cura della paura è la richiesta di
controllo. Che qualcuno ci protegga. E se non c'è più Dio e i poliziotti non bastano, allora siano gli
occhi elettronici a sorvegliare l'uscio di casa e la strada che porta a scuola. Negli Stati Uniti ce ne sono
circa 30 milioni, in Gran Bretagna cinque, 10 mila sono quelle che controllano l'Mgm, il più grande
hotel di Las Vegas. Fornite ormai non solo di pupilla ma anche di cervello, l'ultima generazione di
questo angelo pagano sa anche percepire il pericolo, l'insolito e lanciare l'allarme di fronte a un
bagaglio abbandonato. Il business vola nonostante sia ormai certo che nessuna telecamera ha mai
fermato un crimine, ma al massimo lo registra.
E poi, ad essere onesti, non era esattamente questa la soluzione suggerita dalla teoria dei vetri rotti. In
fondo invocava solo che ci fosse un sano corpo sociale in grado di ripararli e un po' di bellezza per
evitare che venissero rotti. "I segnali di inciviltà e degrado portano a un allontanamento affettivo dei
cittadini nei confronti dei luoghi di appartenza. Non li sentono come propri e non li difendono", scrive
la criminologa Isabella Merzagora Betsos sull'inserto di 'Domus' dedicato all'insicurezza urbana. Gli
spazi brutti e trascurati provocano disaffezione e la disaffezione è il primo passo verso la vertigine di
degrado sociale e morale. Non c'è occhio elettronico che equivalga quello umano. E d'istinto, l'occhio
umano evita il brutto.
Il diritto alla bellezza equivale quindi al diritto alla sicurezza. Tanto che l'architetto-urbanista-filosofo
Jorge Mario Jáuregui, che ha rappresentato il Brasile sia a Kassel che a Venezia, ne ha fatto una
missione. Studiando le degenerazioni della metropoli, Jáuregui individua due forme di opposta follia:
le favelas, slums o suburbia, dove vivono i disperati, e i condominios fechados, barrios privados o
gated community: enclave di lusso dove vivono gli ultra-privilegiati. Due mostri urbanistici speculari e
opposti: gli uni privati di bellezza, gli altri ossessionati dalla sicurezza. È la città che esplode e si
radicalizza schizofrenica nei suoi opposti di città formale e informale. Jáuregui allora abbandona gli
strumenti tradizionali del progetto e della pianificazione e si concentra sulla favela per inventarne di
nuovi. "Cos'è in fondo una favela?", si chiede: "È la pura espressione di uno spazio dove ogni
centimetro è usato per esigenze primarie: mangiare, dormire, fare sesso, evacuare. Non c'è posto per
piazze o strade, non ci sono luoghi comuni, non c'è vita sociale, ma al tempo stesso non siamo di
fronte solamente a un'anti-città". La favela è più simile a un organismo che vive di risonanze e
improvvisazione a cui si può e si deve restituire un sistema linfatico. Ed è così che lui opera:
ricucendo, ricollegando, costruendo strade-passerella che si insinuano fra le baracche come i ponti di
Peter Pan, individuando miracolosamente spazi liberi persino sui tetti dove fondare panoramiche e
leggere piazze-zattera con alberi, lasciando insomma che grazie alla sua agopuntura, quell'organismo
guarisca, cresca e da bidonville si trasformi in civitas, e che abbia elementi forti di estetica.
Perché là dove la polizia non basta o addirittura non entra, è sulle spalle degli architetti o degli artisti
il compito di aggiustare gli animi, i vetri e dare sicurezza. Succede a New York, dove ad esempio il
Lower East Side e Tompkins Square da quartiere di spaccio e dropout è diventato un luogo di mamme,
nannies e pupetti, grazie alla bonifica del parco, ma soprattutto agli interventi di artisti. Succede da
noi, dove Alberto Garutti porta in periferia il suo museo itinerante, un cubo trasparente con opere
della galleria civica di Bolzano. O ancora, nell'East End di Londra, intorno a Brick Lane, che da luogo di
crimine è diventato un quartiere delle gallerie e del design. Ma succede anche in posti più pericolosi
come Medellín, la capitale dei narcos colombiani dove il sindaco Fajardo ha scommesso più sulla
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riqualificazione della città e sulla bellezza che sulla repressione del crimine. E ha vinto, come racconta
Stefano Boeri che lo ha invitato a un convegno a Firenze promosso dalla fondazione Targetti e dalla
rivista 'Abitare'. Le favelas di Medellín, grazie alla creazione di luoghi di cultura, biblioteche e scuole,
giardini abbelliti di statue, in dieci anni hanno visto passare l'indice di criminalità da 381 omicidi ogni
100 mila abitanti a 29. "Se mandiamo la polizia a ripulire un quartiere e nello stesso giorno apriamo
una biblioteca, un'agenzia di microcredito per dimostrare che un'alternativa esiste, diamo fiducia e
affezione al luogo", ha detto il sindaco. E affezione, dignità, orgoglio, creano quel circolo virtuoso che
produce controllo e che gli americani, grandi inventori di formule, chiamano 'social efficacy'. Ma che
noi secoli fa, con una sola parola, chiamammo 'civitas'. Luogo che sposa un'estetica e un'etica, dove
l'intera comunità si rispecchia, "perché il problema non è solamente la bellezza dei luoghi, ma il
messaggio che quella bellezza manda", spiega Boeri, "altrimenti non capiremmo perché le opere di
artisti nella metropolitana di Napoli restano intatte nonostante il degrado della città, mentre Corso
Como a Milano, strada del lusso è in uno stato di trascuratezza totale. Il luogo artefatto, ovunque,
'messo a bello', specchio di ricchezza ottusa, senz'anima e senza messaggio, è vissuto con disagio
quanto quello degradato".
E qui siamo all'altra faccia del degrado, al bello artefatto, alla perfezione imposta, alla risposta
paranoica alla paura metropolitana a quella che potremmo chiamare la 'fobia dei vetri rotti'. Ovvero,
quei condomini di lusso, enclave di una borghesia agiata che nascono come cloni degenerati di città
ideali dove le parole d'ordine non sono più la rinascimentale armonia ed equilibrio della differenza,
ma l'ordine e la sicurezza fra simili e soprattutto l'esclusione del diverso. Il Pangbourne Village, come
tutti i complessi residenziali per dirigenti, non aveva alcun rapporto sociale, storico o civico con la
cittadina da cui aveva preso il nome. Difeso dal muro di cinta e da telecamere di controllo, era un
esempio tra i più ricchi dei tanti complessi residenziali che costituiscono una catena di comunità
chiuse e, fino al giorno del massacro, era considerato luogo di massima sicurezza. Poi
misteriosamente tutti gli abitanti vengono trucidati in modi orribili, i loro figli scompaiono e non resta
traccia degli assassinii nei nastri dei sofisticati occhi elettronici. Il massacro di Pangbourne, per
fortuna non appartiene al mondo della cronaca, ma a quello della letteratura. È frutto
dell'immaginazione allucinata (ma non troppo) di James G. Ballard ed è mirabilmente descritto in ogni
suo mattone e alberello nelle pagine dell'agghiacciante racconto 'Un gioco da bambini' (Feltrinelli).
Così come la spietata caccia all'uomo (che è solo un ladruncolo di 16 anni) nella residenziale Zona,
barrio privato messicano, è vera per ora solo sullo schermo grazie al film di Rodrigo Plá (Leone del
futuro a Venezia, e dal 4 aprile nella sale). Ma sia Ballard che Plá sposano la stessa tesi. I responsabili
di tanto efferati delitti sono questi luoghi anonimi, uguali nel mondo, dove ogni differenza sociale e
culturale è cancellata, dove la vita stessa è negata in nome del controllo, dove il sistema immunitario è
impazzito fino a provocare le più mostruose malattie autoimmuni. In fondo la teoria dei vetri rotti dice
anche questo: non bisogna escludere chi può rompere un vetro, bisogna semplicemente sostituire il
vetro con uno più bello, perché non se ne rompa un altro. n
Ma la bellezza si paga
di Innocenzo Cipolletta
I servizi, la sicurezza, la bellezza dei luoghi dove viviamo costano e si devono pagare: una cosa
difficile da capire per noi italiani che non siamo avvezzi a valutare costi e benefici del luogo dove
abitiamo. In effetti, non è facile per un italiano capire quello che paga ai comuni per l'uso dei servizi
(buoni o cattivi) di cui dispone. Certo c'è l'Ici, che è la tassa comunale sulla proprietà della casa, ma
essa è decisa in larga parte a livello nazionale e poi è pagata dal proprietario della casa e quindi non
necessariamente da chi ci abita (se si è in affitto). Abbiamo la tassa sui rifiuti che è decisa dal comune,
poi paghiamo (a volte) i parcheggi delle auto e altri servizi: ma spesso il prezzo dei servizi è solo una
minima parte del loro costo reale, come nel caso del trasporto urbano, sicché non c'è un rapporto
trasparente tra quanto si paga e quanto si riceve. E questo inquina i rapporti tra cittadini e
amministratori di una città, perché il cittadino crede di avere diritto a tutti i servizi, sulla base delle
tasse pagate allo Stato e l'amministrazione locale non lo vuole tassare direttamente per paura di
perderne il consenso. Invece un rapporto diretto tra pagamento di imposte locali e servizi prestati
dall'amministrazione della città possono consentire al cittadino una più serena valutazione, molto utile
per quando va a votare. Ciò renderebbe più responsabile anche le amministrazioni, che potrebbero
avviare una migliore politica dello sviluppo urbano.
La via per raggiungere questo obiettivo è la casa, che in molti paesi rappresenta lo strumento per
tassare localmente i cittadini sulla base della loro capacità di reddito e del loro beneficio in termini di
servizi. So di toccare un tasto scabroso, perché gli italiani pensano di pagare già troppe tasse sulla
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casa (ma non è affatto vero) e molti politici hanno fatto dell'abolizione dell'Ici sulla prima casa una loro
bandiera. Eppure l'abitazione è la via più agevole per distinguere il contributo dei cittadini ai servizi
della città e per favorire una certa perequazione dei redditi. Ad esempio, chi abita al centro di
importanti città storiche beneficia non solo delle bellezze della città, ma anche di un sistema di
trasporti spesso studiato per convergere al centro, di un insieme di controlli e di sicurezza più forte
per la presenza di vigili e polizia, può usufruire più facilmente di musei, esposizioni e iniziative
artistiche e così via.
E questo è anche un motivo per cui le case al centro costano di più di quelle nelle periferie. Per questo
è giusto che ci sia una imposta più elevata per chi abita in centro rispetto a chi abita in periferia e
usufruisce di minori servizi. Poi il comune potrà graduare le differenze per tenere conto di diversi
fattori (numerosità del nucleo familiare, redditi, condizioni di salute, ecc.) e per perseguire specifici
obiettivi di insediamento (attrazione o allentamento di attività economiche, di specifiche
professionalità, come artisti o quant'altro), ma resta il fatto che l'abitazione e la sua collocazione nel
tessuto urbano rappresentano un elemento rilevante per una politica della tassazione locale e dello
sviluppo del territorio.
*economista, presidente delle Ferrovie dello Stato