Sul diritto di morire e sul divieto di uccidere

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Sul diritto di morire e sul divieto di uccidere
SEMINARIO DI DIRITTO PENALE II PARTE – PROF.SSA SILVIA LARIZZA – A.A. 2007/2008
“Sul diritto di morire e sul divieto di uccidere” – Dott.ssa Laura Mandelli – 17 aprile 2008
III.1. “Sul diritto di morire e sul divieto di uccidere”: evoluzione giurisprudenziale.
III.1.1. Cass. pen., Sez. I, 11 luglio 2002, n. 26446.
Il consenso dell'avente diritto, quale causa di giustificazione (art. 50 c.p.) è efficace se riguarda diritti dei
quali la persona consenziente può disporre. Deve essere considerato indisponibile il diritto alla vita, posto
che l'art. 579 c.p. dispone nel senso della illiceità penale dell'omicidio del consenziente ; d'altra parte l'uomo
non "dominus membrorum quorum", come si desume dall'art. 5 c.c., per cui è proibita qualsiasi alterazione
del corpo incidente in modo apprezzabile, temporaneamente o definitivamente sul valore dell'individuo,
impedendogli di adempiere i suoi doveri e di esercitare i suoi diritti.
*** *** ***
III.1.2. Trib. Roma, G.U.P., 23 luglio 2007, n. 2049
∗
(Omissis) R.M., imputato del reato di cui all’art. 579, co. 1, c.p., perché svolgendo l’attività professionale di
medico anestesista (Omissis), cagionava la morte di P.W., persona affetta da distrofia muscolare scapolo
omerale in forma progressiva, malattia che ormai da anni lo aveva messo in condizioni di non potersi
muovere e che era mantenuto in vita con il collegamento ad un apparato di ventilazione meccanica;
(Omissis). Risulta dagli atti che perveniva presso la Procura della Repubblica di Roma la comunicazione (…)
riguardante il decesso di P.W. per “arresto cardiocircolatorio secondario a grave insufficienza respiratoria
in portatore di distrofia scapolo-omerale progressiva dal 1962”.
A P.W. nel 1963, all’età di 18 anni, veniva diagnosticata una distrofia fascio-scapolo-omerale. (Omissis). Di
come, poi, le fasi della malattia e la sua inevitabile progressione si siano manifestate in concreto nella vita di
P.W. non vi può essere, naturalmente, descrizione più puntuale e più autentica di quella effettuata da chi ha
vissuto tale esperienza. (Omissis). Allora W. (…) si rivolge all’associazione “L.C.” (…) perchè gli venga
fornito il nominativo di un anestesista cui potersi rivolgere. (Omissis) Gli chiede (…) “espressamente di
avere un’anestesia terminale per poter avere staccato il respiratore e poter morire senza soffrire”.
La morte di P.W. veniva constatata essere avvenuta (…) per “arresto cardio-respiratorio, secondario a
grave insufficienza respiratoria”. (Omissis).
L’accertamento medico-legale e chimico disposto dal PM sulla salma della vittima si concludeva nel senso di
fornire ulteriori alla ricostruzione dei fatti sopra riportata, in quanto (…) le sostanze sedative somministrate
dal dottor R., ovvero il Propofol ed il Midazolan, non hanno inibito la funzione respiratoria, poiché la
quantità somministrata di Propofol “può essere considerata inefficace a produrre depressione respiratoria”
e per quanto riguarda “il Midazolan a dosaggio ipnotico è senza effetto sulla respirazione nel soggetto
normale. Pertanto le concentrazioni dei farmaci somministrati sono risultate tali da non poter loro attribuire
un qualsivoglia ruolo causale o concausale di rilevanza penale nel determinismo del decesso”. (Omissis)
“E’ possibile affermare che l’irreversibile insufficienza respiratoria sia da attribuire unicamente
all’impossibilità dell’uomo di ventilare meccanicamente in maniera spontanea a causa della gravissima
distrofia muscolare da cui lo stesso era affetto”.
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In considerazione dell’ampio e articolato iter motivazionale della sentenza, viene qui riportato solo un estratto – liberamente
operato – che restringe l’analisi ai passaggi argomentativi di maggiore interesse. Si consiglia, tuttavia, la lettura del testo completo
della pronuncia, rinvenibile sul sito internet www.lucacoscioni.it.
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(Omissis) Tali conclusioni inducono a fare alcune considerazioni: la prima è che quando si riconosce
l’esistenza di un diritto di rango costituzionale, quale quello all’ “autodeterminazione individuale e
consapevole” in materia di trattamento sanitario, non è, poi, consentito lasciarlo senza tutela, rilevandone, in
assenza di una normativa secondaria di specifico riferimento, la sua concreta inattuabilità sulla scorta
dell’esistenza di disposizioni normative di fonte gerarchica inferiore a contenuto contrario, quali “gli artt. 5
c.c., che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo tali da determinare un danno permanente e 576, 577,
577 n. 3, 579 e 580 c.p., che puniscono, in particolare, l’omicidio del consenziente e l’aiuto al suicidio” ,
nonché quali gli artt. 35 e 37 del codice di deontologia medica. In realtà, se si accogliesse una tale
conclusione, potremmo incorrere in una palese violazione dei principi che presiedono alla disciplina della
gerarchia delle fonti, in quanto non è consentito disattendere l’applicazione di una norma costituzionale sulla
scorta dell’esistenza di norme contrastanti di valore formale inferiore.
(Omissis). Inoltre, identificare il contenuto del diritto all’autodeterminazione informata del malato come
diritto a far cessare l’accanimento terapeutico appare un modo di procedere non condivisibile. (Omissis).
Infatti, (…) allo stato della legislazione, nessuno è in grado di dare una definizione di accanimento
terapeutico e descrivere in cosa consista. (Omissis). Invece la previsione costituzionale appare godere di una
sua precisa autonomia concettuale, in quanto in essa non si rinviene alcun riferimento letterale o
interpretativo che possa rimandare al cosiddetto “accanimento terapeutico” (…), non avendo il legislatore
costituzionale (direttamente o indirettamente) posto limiti all’esercizio del riconosciuto diritto soggettivo che
possano passare attraverso un tale concetto.
(Omissis). In verità l’assenza, nel caso in esame, di un’ipotesi riconducibile alla nozione di accanimento
terapeutico non sposta minimamente i termini della questione, poiché non è l’esistenza dell’accadimento
terapeutico a connotare di legittimità la condotta del medico che lo faccia cessare; bensì è la volontà espressa
dal paziente di voler interrompere la terapia ad escludere la rilevanza penale della condotta del medico che
interrompa il trattamento.
(Omissis). L’affermazione nella Carta costituzionale del principio che sancisce l’esclusione della coazione in
termini di trattamenti sanitari (e quindi della necessità del consenso del malato) ha come necessaria
consecuzione il riconoscimento anche della facoltà di rifiutare le cure o di interromperle, che, a sua volta,
non può voler significare l’implicito riconoscimento di un diritto al suicidio, bensì soltanto l’inesistenza di
un obbligo a curarsi a carico del soggetto. Infatti la salute dei cittadini non può essere oggetto di imposizione
da parte dello Stato, tranne nei casi in cui l’imposizione del trattamento sanitario è determinato per legge
(…), in conseguenza della coincidenza tra la salvaguardia della salute collettiva e della salute individuale,
come avviene, per esempio, nel caso delle vaccinazioni obbligatorie.
Il diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari fa parte dei diritti inviolabili della persona, di cui all’art. 2 Cost., e
si collega strettamente al principio di libertà di autodeterminarsi riconosciuto all’individuo dall’art. 13 Cost.
Esso risulta inoltre confermato, nella sua portata di diritto della persona, anche a livello internazionale nella
convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina.
(Omissis). Tutto ciò certamente non potrà essere vanificato dalla sistematica applicazione della scriminante
di cui all’art. 54 c.p., che potrà essere operativa, ma solo laddove non sia stata espressa alcuna volontà da
parte del paziente oppure nel caso in cui il consenso, il rifiuto o la richiesta di interruzione di una terapia non
siano stati esercitati liberamente ed alla presenza di una adeguata informazione, o che non abbiano le qualità
della personalità, attualità, autenticità e della attinenza alla realtà.
(Omissis). È importante, a questo punto, definire con rigore l’ambito entro il quale può essere
esercitato il diritto di autodeterminazione in materia di trattamento sanitario (…).(Omissis). L’ambito
entro il quale l’individuo può autorizzare anche condotte direttamente causative della sua morte viene
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stabilito chiaramente dallo stesso legislatore costituzionale, quando afferma che “nessuno può essere
obbligato a un determinato trattamento sanitario”. Pertanto, tutto ciò che discende da tale principio in
termini di necessario consenso o di possibile dissenso deve essere esercitato con riferimento ad un
“trattamento sanitario”, ovvero l’adesione o il rifiuto può riguardare solo una condotta che ha come
contenuto competenze di carattere medico e che può essere posta unicamente da un soggetto
professionalmente qualificato, come è, appunto, il medico, e sempre all’interno di un rapporto di
natura contrattuale a contenuto sanitario instaurato tra quest’ultimo ed il paziente.
Pertanto rientrerà, ad esempio, nella previsione dell’art. 32, comma 2, Cost. l’ipotesi, volendo
rimanere in tema, del distacco dal respiratore artificiale effettuato da un medico e non da un familiare
o da un altro soggetto, poiché l’interruzione di una terapia, consentita dalla norma costituzionale, è
quella che si pone all’interno di un rapporto terapeutico o comunque in stretta relazione con un
trattamento sanitario. In ragione di ciò, gli attori del rapporto terapeutico instaurato sono, quindi,
unicamente il medico ed il paziente.
(Omissis). È evidente che il rifiuto delle terapie rappresenta, nell’esperienza comune, soprattutto se
causativo della morte, un fatto eccezionale, in quanto è ben radicato nell’uomo istinto di conservazione e che
in ogni caso la relativa manifestazione di volontà per essere valida deve possedere una serie di requisiti non
sempre presenti. (Omissis). Tali requisiti si evincono, secondo la giurisprudenza e la dottrina, dalla
Costituzione e dai principi dell’ordinamento giuridico e sono identificabili nel fatto che il rifiuto di una
terapia o il rifiuto di continuarla deve innanzitutto essere personale, ovvero deve promanare dal titolare
stesso del diritto alla vita che potrebbe essere pregiudicata o che sarà pregiudicata (…). Pertanto, non
potranno esercitare tale diritto per conto del malato il rappresentante legale del minore o dell’infermo di
mente, in quanto egli ha titolo solo per effettuare interventi a favore e non in pregiudizio della vita del
rappresentato, né hanno giuridicamente potere di rappresentanza in materia i familiari dell’interessato. Altro
requisito del consenso o del dissenso è che per essere valido deve essere consapevole ovvero informato
(Omissis). Inoltre, il rifiuto deve essere autentico ovvero non apparente. (Omissis). È necessario, altresì, che
il rifiuto sia reale e, segnatamente, sia compiutamente e chiaramente espresso e non sia semplicemente
desumibile dalle condizioni di sofferenza o dalla gravità del male. Altro importante requisito (…) è costituito
dall’attualità del rifiuto, non essendo sufficiente che la persona abbia espresso precedentemente la sua
volontà in tal senso, in quanto, attesi l’essenzialità dei diritti sui quali è destinato ad incidere ed il
collegamento di tali decisioni a condizioni, anche interiori, mutevoli, il rifiuto di una terapia salvavita può
essere revocato in qualsiasi momento e quindi deve persistere nel momento in cui il medico si accinge ad
attuare la volontà del malato.
(Omissis). In conclusione, è evidente che il rifiuto di una terapia, anche se già iniziata, ove venga esercitato
nell’ambito sopra descritto ed alle condizioni precedentemente illustrate, costituisce un diritto
costituzionalmente garantito e già perfetto, rispetto al quale sul medico incombe (…) il dovere giuridico di
consentirne l’esercizio, con la conseguenza che, se il medico in ottemperanza a tale dovere, contribuisse a
determinare la morte del paziente per l’interruzione della terapia salvavita, egli non risponderebbe
penalmente del delitto di omicidio del consenziente, in quanto avrebbe operato alla presenza di una causa di
esclusione del reato e segnatamente dell’art. 51 c.p.
(Omissis). Certamente la condotta posta in essere dall’imputato integra l’elemento materiale del reato di
omicidio del consenziente, in quanto, oltre all’effettiva sussistenza del dato estrinseco del consenso della
vittima, il distacco di quest’ultima dal respiratore artificiale effettuato dal predetto determinava il suo
decesso poco dopo.
Né vale al riguardo sostenere che, invece, il medico si limitava a non proseguire la terapia in ottemperanza
della volontà espressa del paziente, ponendo in essere una condotta semplicemente omissiva (omissis). È,
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invece, ravvisabile nell’atto del distacco del respiratore una innegabile condotta interventista, che non può
essere assimilata (…) alla condotta (…) omissiva del medico che si limiti a non iniziare una terapia non
voluta dal paziente.
(Omissis). Del reato contestato sussiste anche l’elemento psicologico, perché il dottor R. ben sapeva che
l’interruzione della terapia di ventilazione assistita avrebbe comportato il decesso del paziente.
(Omissis). Peraltro, se è vero che esistono del reato contestato tutti gli elementi costitutivi, nel caso concreto
appare sussistere anche la scriminante dell’art. 51 c.p. (omissis). La richiesta di interruzione della terapia
formulata da P.W. aveva tutti i requisiti di validità in precedenza evidenziati ovvero era personale, autentica,
informata, reale ed attuale. Infatti sono riscontrabili nella decisione del malato la piena consapevolezza e la
determinazione tenuta ferma fino all’ultimo.
(Omissis). Da tutto ciò appare evidente come nel malato il consenso al distacco dall’apparecchiatura di
ventilazione meccanica sia stato mantenuto fino all’ultimo e come tale decisione sia stata caratterizzata da
una conoscenza approfondita di ogni aspetto riguardante la sua malattia, lo stadio in cui essa era ormai
pervenuta e gli esiti che sarebbero scaturiti dalla cessazione della ventilazione polmonare.
(Omissis). Si rinvengono pertanto nel caso in esame tutti gli elementi in precedenza enucleati per la
sussistenza della scriminante di cui all’art. 51 c.p., con conseguente liceità della condotta posta in essere
dall’imputato.
(Omissis).
P.Q.M.
Visto l’art. 425 c.p.p., dichiara non luogo a procedere nei confronti di M.R. perché non punibile per la
sussistenza dell’esimente dell’adempimento di un dovere.
Roma, 23 luglio 2007.
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III.1.3. Procura Repubblica Sassari, 23 gennaio 2008.
Non integra il reato di omicidio del consenziente il comportamento del medico che lascia morire di inedia un
paziente affetto da una grave patologia invalidante, senza imporgli quella nutrizione ed idratazione da questi
consapevolmente rifiutate; tale rifiuto è giuridicamente efficace, perché rientrante nell’art. 32, comma 2,
cost., per il quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non nei casi
previsti dalla legge. Pertanto, quando viene opposto un rifiuto ad un trattamento sanitario, la relativa
omissione del medico non è tipica e non è penalmente rilevante: viene infatti meno l’obbligo giuridico ex art.
40, comma 2, c.p., anzi scatta per il medico il precipuo dovere di rispettare la volontà del paziente.
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III.2. Problematiche connesse alla incapacità di prestare il consenso.
III.3.1. Corte d’assise di Roma, 10 dicembre 1983, Papini
L'uccisione del figlio adottivo handicappato grave in quanto affetto da idrocefalo congenito, per motivi di
pietà, con un colpo di arma da fuoco, integra gli estremi non già del reato di omicidio comune, bensì quelli
del reato di omicidio del consenziente, ove risulti validamente manifestato il consenso della vittima alla
propria uccisione (nella specie, si è affermato che non essendo la insufficienza mentale di grado tale da
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escludere del tutto la capacità di intendere della vittima, non ne è risultata compromessa la validità del
consenso manifestato).
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III.2.1. App. Milano, 24 aprile 2002, A.
Interrompere le cure che mantengano vitale una persona in stato vegetativo permanente concreta l’ipotesi di
“omicidio impossibile” ex art. 49 comma 2 e 575 c.p., qualora risulti insufficiente o contraddittoria la prova
dell’esistenza in vita della persona al momento della supposta interruzione.
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III.2.2.Cass. Civ., Sez. I, 4 ottobre 2007, n. 21748 ∗
Con ricorso ex art. 732 cod. proc. civ., B.E., quale tutore della figlia interdetta E.E., ha chiesto al Tribunale
di Lecco (…) l’emanazione di un ordine di interruzione della alimentazione forzata mediante sondino
nasogastrico che tiene in vita la tutelata, in stato di coma vegetativo irreversibile dal 1992.
(Omissis). Il Tribunale di Lecco (…) ha dichiarato inammissibile il ricorso.
(Omissis). Né il tutore né il curatore – hanno statuito i primi giudici – hanno la rappresentanza sostanziale, e
quindi processuale, dell’interdetta con riferimento alla domanda dedotta in giudizio, involgendo essa la sfera
dei diritti personalissimi, per i quali il nostro ordinamento giuridico non ammette la rappresentanza, se non
in ipotesi tassative previste dalla legge, nella specie non ricorrenti.
(Omissis). Peraltro, anche ove il curatore o il tutore fossero investiti di tale potere, la domanda – ad avviso
dei primi giudici – dovrebbe essere rigettata, perché il suo accoglimento contrasterebbe con i principi
espressi dall’ordinamento costituzionale. Infatti, ai sensi degli artt. 2 e 32 Cost., un trattamento terapeutico o
di alimentazione, anche invasivo, indispensabile a tenere in vita una persona non capace di prestarvi il
consenso, non solo è lecito, ma dovuto (omissis). In base agli artt. 13 e 32 Cost. ogni persona, se pienamente
capace di intendere e di volere, può rifiutare qualsiasi trattamento terapeutico o nutrizionale fortemente
invasivo, anche se necessario alla sua sopravvivenza, laddove se la persona non è capace di intendere e di
volere il conflitto tra il diritto alla vita è solo ipotetico e deve risolversi a favore di quest’ultimo, in quanto,
non potendo la persona esprimere alcuna volontà, non vi è alcun profilo di autodeterminazione o di libertà da
tutelare (omissis).
Avverso tale decreto ha proposto reclamo alla Corte d’Appello di Milano il tutore (omissis).
La corte d’Appello di Milano, con decreto in data 16 dicembre 2006, in riforma del provvedimento
impugnato, ha dichiarato ammissibile il ricorso e lo ha rigettato nel merito.
(Omissis). La Corte d’appello non condivide la tesi – sostenuta dal tutore ed avallata dal curatore speciale –
secondo cui, di fronte ad un trattamento medico – l’alimentazione forzata mediante sondino nasogastrico –
che mantiene in vita E. esclusivamente da un punto di vista biologico, senza alcuna speranza di
miglioramento, solo l’accertamento di una precisa volontà, espressa da E. quando era cosciente, favorevole
alla prosecuzione della vita ad ogni costo, potrebbe indurre a valutare come non degradante e non contrario
alla dignità umana il trattamento che oggi le viene imposto.
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Si propone un estratto della sentenza, liberamente operato, che limita l’indagine ai principi generali affermati dalla Suprema Corte.
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Innanzitutto perché, in base alla vigente normativa, E. è viva, posto che la morte si ha con la cessazione
irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo. In secondo luogo perché (…), è indiscutibile che, non essendo
E. in grado di alimentarsi altrimenti ed essendo la nutrizione con sondino nasogastrico l’unico modo di
alimentarla, la sua sospensione condurrebbe l’incapace a morte certa nel volgere di pochi giorni:
equivarrebbe, quindi, ad una eutanasia indiretta omissiva.
(Omissis). Per la cassazione del decreto della Corte d’appello il tutore B.E. (…) ha interposto ricorso
(omissis).
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con l’unico mezzo illustrato con memoria (…) il tutore (…) chiede alla Corte di affermare, con principio di
diritto, “il divieto di accanimento terapeutico, e cioè che nessuno debba subire trattamenti invasivi della
propria persona, ancorché finalizzati al prolungamento artificiale della vita, senza che ne sia concretamente
ed effettivamente verificata l’utilità ed il beneficio”.
(Omissis). Secondo il ricorrente, la Corte d’appello di Milano avrebbe frainteso e travisato completamente il
significato da attribuirsi alla indisponibilità ed irrinunciabilità del diritto alla vita. (Omissis).
L’indisponibilità ed irrinunciabilità del diritto alla vita è garantita per evitare che soggetti diversi da quello
che deve vivere, il quale potrebbe versare in stato di debolezza e minorità, si arroghino arbitrariamente il
diritto di interrompere la vita altrui; ma sarebbe errato costruire l’indisponibilità della vita in ossequio ad un
interesse altrui, pubblico o collettivo, sopraordinato e distinto da quello della persona che vive.
(Omissis). Ciò che la Corte ambrosiana avrebbe trascurato è che, nel caso di E.E. come in qualunque altro
caso di trattamenti praticati dal medico o da altri sulla persona per mantenerla in vita, a venire in rilevo non è
il diritto alla vita, ma “solo ed esclusivamente la legittimità della decisione di un uomo, che solitamente e per
fortuna nel caso nostro è un medico professionalmente competente, di intervenire sul corpo di una persona
per prolungarne la vita”.
Ad avviso del ricorrente, la garanzia del diritto alla vita è più complessa per soggetti incapaci di intendere e
di volere, come E.E., che non per chi abbia coscienza e volontà. Per chi sia cosciente e capace di volere,
invero, la prima garanzia del proprio diritto alla vita risiede nella libertà di autodeterminazione rispetto
all’ingerenza altrui, ove pure consista in una cura da erogarsi in nome del mantenimento in vita.
Lo stesso tipo di garanzia non è sostenibile per chi sia in stato di incapacità.
(Omissis). Occorre premettere che il consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento
del trattamento sanitario: senza il consenso informato l’intervento del medico è sicuramente illecito, anche
quando è nell’interesse del paziente. (Omissis) il principio del consenso informato (…) ha un sicuro
fondamento nelle norme della Costituzione: nell’art. 2, che tutela e promuove i diritti della persona umana,
della sua identità e dignità; nell’art. 13, che proclama l’inviolabilità della libertà personal (…); e nell’art. 32,
che tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo, oltre che come interesse della collettività, e
prevede la possibilità di trattamenti sanitari obbligatori, ma li assoggetta ad una riserva di legge, qualificata
dal necessario rispetto della persona umana e ulteriormente specificata con l’esigenza che si prevedano ad
opera del legislatore tutte le cautele preventive possibili, atte ad evitare il rischio di complicanze.
(Omissis). Il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di
trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di
interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale.
Ciò è conforme al principio personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona
umana un valore etico in sé, vieta ogni strumentalizzazione della medesima per alcun fine eteronomo ed
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assorbente, concepisce l’intervento solidaristico e sociale in funzione della persona e del suo sviluppo e non
viceversa, e guarda al limite del “rispetto della persona umana” in riferimento al singolo individuo (omissis).
Deve escludersi che il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da
esso consegua il sacrificio del bene della vita.
(Omissis). Di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato, c’è spazio – nel quadro dell’
“alleanza terapeutica” che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene
rispettando i percorsi culturali di ciascuno – per una strategia della persuasione, perché il compito
dell’ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle
situazioni di debolezza e di sofferenza; e c’è, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia
informato, autentico ed attuale. Ma allorché il rifiuto abbia tali connotati non c’è possibilità di
disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico.
Lo si ricava dallo stesso testo dell’art. 32 della Costituzione, per il quale i trattamenti sanitari sono
obbligatori nei soli casi espressamente previsti dalla legge, sempre che il provvedimento che li impone
sia volto ad impedire che la salute del singolo possa arrecare danno alla salute degli altri e che
l’intervento previsto non danneggi, ma sia anzi utile alla salute di ci vi è sottoposto (Corte cost.,
sentenze n. 258 del 1994 e n. 118 del 1996).
Soltanto in questi limiti è costituzionalmente corretto ammettere limitazioni al diritto del singolo alla
salute, il quale, come tutti i diritti di libertà, implica la tutela del suo risvolto negativo: il diritto di
perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi (…), finanche di lasciarsi morire.
Il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere
scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita,
causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte
del malato, che la malattia segua il suo corso naturale. E d’altra parte occorre ribadire che la
responsabilità del medico per omessa cura sussiste in quanto esista per il medesimo l’obbligo giuridico
di praticare o continuare la terapia e cessa quando tale obbligo viene meno: e l’obbligo, fondandosi sul
consenso del malato, cessa – insorgendo il dovere giuridico del medico di rispettare la volontà del
paziente contraria alle cure – quando il consenso viene meno in seguito al rifiuto delle terapie da parte
di costui.
(Omissis). Il quadro compositivo dei valori in gioco fin qui descritto, essenzialmente fondato sulla libera
disponibilità del bene salute da parte del diretto interessato nel possesso delle sue capacità di intendere e di
volere, si presenta in modo diverso quando il soggetto adulto non è in grado di manifestare la propria volontà
a causa del suo stato di totale incapacità e non abbia, prima di cadere in tale condizione, allorché era nel
pieno possesso delle sue facoltà mentali, specificamente indicato, attraverso dichiarazioni di volontà
anticipate, quali terapie egli avrebbe desiderato ricevere e quali invece avrebbe inteso rifiutare nel caso in cui
fosse venuto a trovarsi in uno stato di incoscienza.
Anche in tale situazione, pur a fronte dell’attuale carenza di una specifica disciplina legislativa, il valore
primario ed assoluto dei diritti coinvolti esige una loro immediata tutela ed impone al giudice una delicata
opera di ricostruzione della regola di giudizio nel quadro dei principi costituzionali (…). Risulta
pacificamente dagli atti di causa che nella indicata situazione si trova E.E., la quale giace in stato vegetativo
persistente e permanente a seguito si un grave trauma cranico-encefalico riportato a seguito di un incidente
stradale (…), e non ha predisposto, quando era in possesso della capacità di intendere e di volere, alcuna
dichiarazione anticipata di trattamento. Questa condizione clinica perdura invariata dal 1992.
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(Omissis). La sopravvivenza fisica di E., che versa in uno stato stabile ma non progressivo, è assicurata
attraverso l’alimentazione e l’idratazione artificiali somministratale attraverso un sondino nasogastrico.
E. è stata interdetta ed il padre è stato nominato tutore.
In caso di incapacità del paziente, la doverosità medica trova il proprio fondamento legittimante nei
principi costituzionali di ispirazione solidaristica, che consentono ed impongono l’effettuazione di
quegli interventi urgenti che risultino nel miglior interesse terapeutico del paziente.
E tuttavia, anche in siffatte evenienze, superata l’urgenza dell’interevento derivante dallo stato di
necessità, l’istanza personalistica alla base del principio del consenso informato ed il principio di
parità di trattamento tra gli individui, a prescindere dal loro stato di capacità, impongono di ricreare
il dualismo dei soggetti nel processo di elaborazione della decisione medica: tra medico che deve
informare in ordine alla diagnosi e alle possibilità terapeutiche, e paziente che, attraverso il legale
rappresentante, possa accettare o rifiutare i trattamenti prospettati.
(Omissis). Ad avviso del Collegio, il carattere personalissimo del diritto alla salute dell’incapace comporta
che il riferimento all’istituto della rappresentanza legale, non trasferisce sul tutore, il quale è investito di una
funzione di diritto privato, un potere incondizionato di disporre della salute della persona in stato di totale e
permanente incoscienza. Nel consentire al trattamento medico o nel dissentire dalla prosecuzione dello stesso
sulla persona dell’incapace, la rappresentanza del tutore è sottoposta a un duplice ordine di vincoli: egli deve,
innanzitutto, agire nell’esclusivo interesse dell’incapace; e, nella ricerca del best interest, deve decidere non
“al posto” dell’incapace né “per” l’incapace, ma “con” l’incapace: quindi, ricostruendo la presunta volontà
del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi
prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di
vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimenti e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e
filosofiche.
(Omissis). Non v’è dubbio che la scelta del tutore deve essere a garanzia del soggetto incapace, e quindi
rivolta, oggettivamente, a preservarne e a tutelarne la vita.
Ma, al contempo, il tutore non può nemmeno trascurare l’idea di dignità della persona dallo stesso
rappresentato manifestata, prima di cadere in stato di incapacità, dinanzi ai problemi della vita e della morte.
(Omissis). Ad avviso del Collegio, la funzionalizzazione del potere di rappresentanza, dovendo esso
essere orientato alla tutela del diritto alla vita del rappresentato, consente di giungere ad una
interruzione delle cure soltanto in casi estremi: quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad
un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi si alcun fondamento medico, secondo gli
standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre che la persona abbia la
benché minima di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una vita fatta
anche di percezione del mondo esterno; e sempre che tale condizione – tenendo conto della volontà
espressa dall’interessato prima di cadere in tale stato ovvero dei valori di riferimento e delle
convinzioni dello stesso – sia incompatibile con la rappresentazione di sé sulla quale egli aveva
costruito la sua vita fino a quel momento e sia contraria al di lui modo di intendere la dignità della
persona.
Per altro verso, la ricerca della presunta volontà della persona in stato di incoscienza – ricostruita, alla
stregua di chiari, univoci e convincenti elementi di prova (…) – assicura che la scelta in questione non sia
espressione del giudizio sulla qualità della vita proprio del rappresentante (…), ma sia rivolta,
esclusivamente, a dare sostanza e coerenza all’identità complessiva del paziente e al suo modo di concepire,
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SEMINARIO DI DIRITTO PENALE II PARTE – PROF.SSA SILVIA LARIZZA – A.A. 2007/2008
“Sul diritto di morire e sul divieto di uccidere” – Dott.ssa Laura Mandelli – 17 aprile 2008
prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona. Il tutore ha quindi il compito di
completare questa identità complessiva della vita del paziente.
(Omissis). Diversamente da quanto mostrano di ritenere i ricorrenti, al giudice non può essere richiesto di
ordinare il distacco del sondino nasogastrico: una pretesa di tal fatta non è configurabile di fronte ad un
trattamento sanitario, come quello di specie, che, in sé, non costituisce oggettivamente una forma di
accanimento terapeutico, e che rappresenta, piuttosto, un presidio proporzionato rivolto al mantenimento del
soffio vitale (omissis).
Piuttosto, l’intervento del giudice esprime una forma di controllo della legittimità della scelta nell’interesse
dell’incapace (omissis).
Sulla base delle considerazioni che precedono, la decisione del giudice, dato il coinvolgimento nella vicenda
del diritto alla vita come bene supremo, può essere nel senso dell’autorizzazione soltanto a) quando la
condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia
alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionali, che lasci
supporre che la persona abbia la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della
coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e b) sempre che tale istanza sia realmente
espressiva, in base ad elementi di prova chiari, concordanti e convincenti, della voce del rappresentato, tratta
dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire,
prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona.
Allorché l’una o l’altra condizione manchi, il giudice deve negare l’autorizzazione, dovendo allora essere
data incondizionata prevalenza al diritto alla vita (omissis).
Nei limiti appena tratteggiati, il decreto impugnato non si sottrae alle censure dei ricorrenti.
Esso ha omesso di ricostruire la presunta volontà di E. e di dare rilievo ai desideri da lei precedentemente
espressi, alla sua personalità, al suo stile di vita e ai suoi più intimi convincimenti.
(Omissis). Ne segue la cassazione del decreto impugnato e il rinvio della causa ad una diversa Sezione della
Corte d’appello di Milano.
Detta Corte deciderà adeguandosi al seguente principio di diritto:
“ove il malato giaccia da moltissimi anni (…) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale
incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino
nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo
rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice può autorizzare la disattivazione
di tale presidio sanitario (…) unicamente in presenza dei seguenti presupposti: a) quando la
condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi
sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che
lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, pur flebile, recupero della coscienza e di
ritorno ad una percezione del mondo esterno; e b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in
base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle
sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti,
corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di
dignità della persona. Ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, il giudice deve negare
l’autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita,
indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto
interessato e dalla percezione, che altri possono avere, della qualità della vita stessa”.
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P.Q.M.
La Corte, riuniti i ricorsi, li accoglie nei sensi e nei limiti di cui in motivazione; cassa il decreto impugnato e
rinvia la causa a diversa Sezione della Corte d’appello di Milano,
(omissis). Così deciso in Roma (…), il 4 ottobre 2007.
*** *** ***
III.3. Il discrimen tra le diverse figure: omicidio del consenziente e aiuto/istigazione al suicidio.
Cass. pen., Sez. I, 6 febbraio 1998, n. 3147
Fatto
Con sentenza del 17.5.1997 la Corte di Assise di Messina assolveva <M. M.> dalla imputazione di omicidio
di
persona
consenziente
con
la
formula
"perché
il
fatto
non
sussiste".
Attraverso la ricostruzione operata dai giudici di merito emergeva che i fatti si erano svolti come segue:
<M. M.> (l'imputato) e <A. C.> (la vittima) erano due giovani studenti, fra i quali ad un certo punto era nata
una
fortissima
ed
intensa
amicizia.
Tale amicizia si era sviluppata in un periodo di particolare prostrazione psicologica per il <C.>, causata da
una cocente delusione amorosa ad lui subita, coincidente con una condizione di forte disagio esistenziale del
<M.>, dovuto a difficoltà di rapporto con i coetanei e a ripetuti insuccessi scolastici.
Secondo il racconto di quest'ultimo, fu l'amico a maturare per primo, verso la metà del novembre del 1994, il
proposito suicidiario, ma tale proposito divenne ben presto comune ad entrambi e decisero di attuarlo a
distanza
di
poco
più
di
un
mese.
Il 1 gennaio 1995, come da accordi presi, il <C.> si recò infatti a casa del <M.> ed insieme, a bordo del
ciclomotore del primo, si recarono a Portorosa di Furnari, ove la famiglia del <M.> aveva una villetta,
dicendo che dovevano recarsi a Taormina per partecipare ad una festa in casa di amici. In tale immobile
avevano
invece
deciso
di
togliersi
la
vita
insieme,
utilizzando
il
gas.
Ivi giunti, spezzarono la chiave dentro la serratura della porta di ingresso per evitare che qualcuno potesse
entrare, staccarono la bombola del gas dalla cucina e la sistemarono in camera da letto. Quindi, dopo avere
chiuso le imposte, si misero a fumare degli "spinelli", a bere alcool e ad ingerire delle compresse che
ciascuno di loro aveva portato con sé; dopo di che, aprirono la bombola avendo cura di neutralizzare il
"salvavita"
e
si
addormentarono
convinti
che
sarebbero
morti.
Sennonché l'indomani mattina si svegliarono entrambi e, constatato l'insuccesso di tale tentativo e decisi ad
attuare comunque il loro proposito, andarono a comprare due bombole di gas presso un rivenditore, in
maniera tale da avere a disposizione una bombola ciascuno. Quindi le collocarono in camera da letto,
richiusero le imposte, aprirono le bombole eludendo ancora una volta il salvavita e si stesero sul letto.
Nell'occasione il <C.> prese il tubo di gomma che era rimasto collegato alla cucina e, dopo averlo innestato
in una delle due bombole, introdusse l'altra estremità nella propria bocca. Dopo qualche tempo il <C.> casse
a terra privo di sensi e su di lui cadde, di lì a poco, il <M.>, stordito, ma ancora cosciente, il quale a quel
punto decise di non proseguire nel tentativo di suicidio. Chiuse le bombole, aprì la finestra della camera e
cercò di trascinare fuori dalla stanza l'amico, che era già morto, senza però riuscirvi.
Si recò quindi nel salone cercando di aprirne le finestre, ma perse i sensi. Si riprese dopo qualche tempo e,
senza riflettere, cercò istintivamente di accendersi una sigaretta, provocando in tal modo una forte
esplosione, che danneggiò gravemente la villetta e gli procurò delle gravi ustioni in tutto il corpo, lasciandolo
tuttavia
in
vita.
Dalla perizia necroscopica risulterà poi che la morte del <C.> era stata causata da insufficienza cardiorespiratoria, con quadro terminale di edema polmonare emorragico, dovuto a inalazione di una miscela di gas
propano, isobutano e butano, e risaliva a circa dieci ore prima della esplosione.
Sulla
base
di
tali
elementi
fattuali,
la
Corte
ha
osservato:
che l'imputazione, formulata dalla pubblica accusa nei confronti del <M.>, di avere cagionato la morte del
<C.> con il consenso di costui, era infondata perché frutto di un ingiustificato ampliamento della portata
della
norma
di
cui
all'art.
579
c.p.;
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che, dopo la introduzione della norma suddetta, andava nettamente ribadita la distinzione tra omicidio, sia
esso
consensuale
o
volontario,
e
istigazione
o
aiuto
al
suicidio;
che tale distinzione emergeva anche dalla norma di cui all'art. 580 c.p., che prevede una ipotesi di
partecipazione all'altrui suicidio anche nel fatto di chi, in qualsiasi modo, abbia posto in essere una attività
agevolatrice
della
esecuzione
di
esso;
che, nella specie, contrariamente a quanto sostenuto dall'accusa, l'evento morte, a lungo e tenacemente
perseguito dal <C.>, non era cessato di appartenere alla sfera psichica della vittima anche se posto in
relazione all'attività materiale realizzata dal <M.>, anch'egli intenzionato al suicidio, nelle ore che
precedettero
il
suddetto
evento;
che, conseguentemente, non essendo la condotta dell'imputato inquadrabile nella fattispecie delineata dall'art.
579
c.p.,
egli
andava
assolto
per
insussistenza
del
fatto;
che nella condotta del <M.> non era ravvisabile neanche il diverso reato di istigazione o aiuto al suicidio di
cui
all'art.
580
c.p.
in
quanto:
a) non vi erano elementi per sostenere che la condotta spiegata dall'imputato nelle settimane antecedenti
avesse influito, con efficacia causale decisiva ed assorbente, sulla determinazione volitiva del <C.>;
b) nonostante la condotta di partecipazione, nella ipotesi di agevolazione al suicidio, si esplichi
apparentemente sul solo piano materiale, anche tale fattispecie andava in realtà ricondotta al fenomeno
istigativo, dovendosi, in virtù del principio di offensività, circoscrivere le condotte punibili a quelle nelle
quali l'aiuto al suicidio abbia comunque esercitato un'apprezzabile influenza nel processo formativo della
volontà
della
vittima;
c) in considerazione dell'altissima intenzionalità al suicidio presente nella vittima, non paragonabile a quella
presente nell'imputato, non poteva ravvisarsi alcun rapporto di derivazione causale e psicologica tra la
condotta del <M.> e la morte del <C.>, autonomamente determinatosi al suicidio.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso immediato in cassazione, ai sensi dell'art. 569 c.p.p., il Procuratore
della Repubblica presso il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, lamentando erronea applicazione degli
artt. 579 e 580 c.p. (Omissis)
Diritto
Il
ricorso
è
fondato
nei
sensi
di
cui
appresso.
1. Va subito chiarito che, a parere di questa Corte, la sentenza impugnata, che ha affrontato un tema di
indubbia delicatezza non sufficientemente approfondito dalla giurisprudenza, ha correttamente escluso che
nella fattispecie in esame si possano ravvisare gli estremi del reato di omicidio del consenziente di cui all'art.
579
c.p.
Una attenta disamina della norma suddetta e il confronto fra essa e la condotta dell'imputato, così come è
emersa dalla ricostruzione come sopra effettuata, non può infatti che portare alla conclusione cui è pervenuto
il
giudice
di
merito.
La presenza, nel codice penale, a fianco della disposizione di cui all'art. 579, di un'altra norma come quella di
cui all'art. 580, che punisce l'istigazione (o l'aiuto) al suicidio, costituisce indubbiamente un elemento che
deve indurre l'interprete a restringere l'ambito di applicazione della prima se si vuole evitare che la seconda
perda
qualsiasi
significato.
Ed invero, la determinazione o il rafforzamento dell'altrui proposito o l'agevolazione di altra persona
nel porre in essere le sue scelte, ove si tratti di scelte e di propositi criminosi, dovendo applicare i
principi sul concorso nel reato, costituiscono in maniera chiara la condotta di chi, concorrendo con chi
realizza la fattispecie tipica del reato, è dalla legge considerato responsabile del fatto criminoso posto
in essere da quest'ultimo al pari del medesimo. Volendo applicare i medesimi principi alla situazione in
esame e volendo meglio precisare, tra l'istigatore al suicidio e colui che materialmente si suicida vi è, in
astratto, lo stesso rapporto esistente fra colui che istiga taluno ad uccidere una persona e chi materialmente
ne cagiona la morte. Entrambi, in quest'ultimo caso, dovranno rispondere di omicidio volontario.
Da tale punto di vista e utilizzando il medesimo schema argomentativo, chi istiga al suicidio, o comunque
agevola il proposito suicida di altri, ne "cagiona" la morte, dovendosi sempre ed in ogni caso ravvisare un
rapporto causale tra l'azione dell'istigatore o dell'agevolatore e quella di colui che materialmente causa la
propria
morte.
Ovviamente non è questa la volontà della legge perché, come si è sopra osservato, se così fosse, la norma di
cui all'art. 580 c.p. non avrebbe alcun significato e non potrebbe mai trovare pratica applicazione.
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Sotto tale profilo, quindi, la distinzione tra omicidio e suicidio, cui ha fatto riferimento la sentenza
impugnata, è in un certo senso imposta dalla legge perché, altrimenti, si rischierebbe di ampliare l'ambito di
applicazione della norma di cui all'art. 579 c.p. al di là di quella che è invece la reale voluntas della legge
stessa.
Il discrimine tra il reato di omicidio del consenziente e quello di istigazione o aiuto al suicidio non può
quindi essere, come assume il Procuratore ricorrente, quello della esistenza o meno di una efficienza causale
della condotta dell'agente che si esplichi sul piano materiale, così come non si può condividere
l'affermazione dello stesso ricorrente secondo cui la formula contenuta nell'art. 579 ("chiunque cagiona la
morte di un uomo") "comprende nello schema tipico qualsiasi comportamento umano da cui derivi, come
conseguenza,
la
soppressione
fisica
di
un
altro
uomo".
Ciò perché, come si è visto, così opinando, si dovrebbe qualificare come omicidio qualsiasi azione che abbia
una qualunque efficienza causale rispetto all'evento e, quindi, anche l'ipotesi della agevolazione del suicidio
altrui, che implica inevitabilmente una forma di partecipazione materiale ad esso, e che invece, per una
precisa scelta legislativa, è considerata come una diversa fattispecie di delitto, punibile ai sensi dell'art. 580
c.p.
Il discrimine va quindi più correttamente individuato nel modo in cui viene ad atteggiarsi la condotta e
la
volontà
della
vittima
in
rapporto
alla
condotta
del
soggetto
agente.
Si avrà omicidio del consenziente nel caso in cui colui che provoca la morte si sostituisca in pratica
all'aspirante suicida, pur se con il consenso di questi, assumendone in proprio l'iniziativa, oltre che sul
piano della causazione materiale, anche su quello della generica determinazione volitiva; mentre si
avrà istigazione o agevolazione al suicidio tutte le volte in cui la vittima abbia conservato il dominio
della propria azione, nonostante la presenza di una condotta estranea di determinazione o di aiuto alla
realizzazione del suo proposito, e lo abbia realizzato, anche materialmente, di mano propria.
Esempi di scuola: si ha omicidio del consenziente quando l'agente, con il consenso della vittima, esplode
contro quest'ultima un colpo di pistola uccidendola, mentre si avrà agevolazione al suicidio se l'agente si
limita a fornire alla vittima, su richiesta di quest'ultima e conoscendo l'uso che ne farà, l'arma che poi essa
utilizzerà contro se stessa. O ancora, commette omicidio ex art. 579 c.p. l'infermiere che inietta al paziente,
affetto a una malattia incurabile che gli provoca dolori atroci, con il di lui consenso, una dose mortale di
veleno, mentre è responsabile di istigazione al suicidio lo stesso infermiere che, prendendo lo spunto dalle
condizioni di sofferenza del paziente, lo determini a porre fine alle sue sofferenze suicidandosi, o ne agevoli
il
proposito
suicida,
ponendogli
a
disposizione
i
mezzi
per
farlo.
Con riguardo alla fattispecie in esame, è emerso dalla ricostruzione fatta dai giudici di merito, non contestata
dal ricorrente, che il povero <A. C.> volle portare caparbiamente a termine il suo proposito suicida dopo il
fallimento del primo tentativo, utilizzando esso stesso lo strumento scelto per provocare la propria morte (la
bombola di gas). Sicché, dovendosi escludere che il <M.> si sia sostituito all'amico nella realizzazione, con il
consenso dell'altro, del proposito di uccidersi, se ne deve dedurre che la Corte di Assise di Messina ha fatto
corretta applicazione dei principi come sopra affermati e se ne devono, pertanto, condividere le conclusioni,
secondo cui nella specie è da escludere la sussistenza del delitto di omicidio del consenziente,
originariamente ascritto all'imputato, potendosi invece la sua condotta essere inquadrata nella meno grave
fattispecie
criminosa
di
cui
all'art.
580
c.p.
2. A diverse determinazioni devesi invece giungere a proposito della pronuncia della Corte di assiste di
Messina, laddove la stessa ha ritenuto di dovere escludere, nel caso in esame, anche la sussistenza della
ipotesi incriminata dall'art. 580 c.p. sulla base della asserzione che, nonostante la condotta di partecipazione
si esplichi apparentemente, nel caso della agevolazione al suicidio, sul solo piano materiale, anche questa
fattispecie
vada
in
realtà,
ricondotta
al
fenomeno
istigativo.
Tale conclusione si basa sulla osservazione che una interpretazione che tenga conto del principio
costituzionale di offensività consentirebbe "di affermare che la condotta punibile, sia nella forma della
istigazione al suicidio che in quella dell'aiuto al suicidio, deve essere contraddistinta dalla sua idoneità a
ledere il bene giuridico tutelato" e che le condotte punibili vadano circoscritte a quelle "nelle quali l'aiuto al
suicidio abbia esercitato un'apprezzabile influenza nel processo formativo della volontà della vittima, che ha
trovato nella collaborazione dell'estraneo incentivo e stimolo a togliersi la vita".
Così facendo, la Corte di Messina ha affermato, implicitamente, che l'art. 580 c.p. punisce la condotta
agevolatrice al suicidio soltanto quando questa si risolva, in qualche modo, in una forma di istigazione
al suicidio, e che, al contrario, non possa ravvisarsi alcun illecito penalmente rilevante nella condotta
di colui che si limiti ad agevolare il proprio suicida di altri, senza minimamente influire sul processo
formativo
della
volontà
di
questi
di
porre
fine
alla
propria
esistenza.
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“Sul diritto di morire e sul divieto di uccidere” – Dott.ssa Laura Mandelli – 17 aprile 2008
Si tratta di affermazioni chiaramente contrarie alla lettera e allo spirito della norma in esame e
violatorie della volontà del legislatore di punire la condotta di chi, in qualsiasi modo, agevoli
l'esecuzione
del
suicidio.
È più che evidente, infatti, che il nostro ordinamento, pur avendo scelto, da un lato, la soluzione della
non punibilità del suicidio e quindi anche della non punibilità del suicidio mancato o tentato, ha,
dall'altro, inteso comunque tutelare il bene supremo della vita, sanzionando penalmente qualsiasi
interferenza o partecipazione, sia di natura psichica o morale che di natura fisica o materiale, non
soltanto nella ideazione, ma anche nella realizzazione del proposito suicida espresso da altri.
La legge, nel prevedere, all'art. 580 c.p., tre forme di realizzazione della condotta penalmente illecita
(quella della determinazione del proposito suicida prima inesistente, quella del rafforzamento del proposito
già esistente e quella consistente nel rendere in qualsiasi modo più facile la realizzazione di tale proposito)
ha voluto quindi punire sia la condotta di chi determini altri al suicidio o ne rafforzi il proposito, sia
qualsiasi forma di aiuto o di agevolazione di altri del proposito di togliersi la vita, agevolazione che può
realizzarsi in qualsiasi modo: ad esempio, fornendo i mezzi per il suicidio, offrendo istruzioni sull'uso degli
stessi, rimuovendo ostacoli o difficoltà che si frappongono alla realizzazione del proposito ecc., o anche
omettendo di intervenire, qualora si abbia l'obbligo di impedire la realizzazione dell'evento.
L'ipotesi della agevolazione al suicidio prescinde totalmente dalla esistenza di qualsiasi intenzione,
manifesta o latente, di suscitare o rafforzare il proposito suicida altrui. Anzi presuppone che
l'intenzione di autosopprimersi sia stata autonomamente e liberamente presa dalla vittima, altrimenti
vengono
in
applicazione
le
altre
ipotesi
previste
dal
medesimo
art.
580.
È sufficiente che l'agente abbia posto in essere, volontariamente e consapevolmente, un qualsiasi
comportamento che abbia reso più agevole la realizzazione del suicidio perché si realizzi l'ipotesi criminosa
di
cui
all'art.
580
c.p.
I termini della questione non cambiano quando, come nel caso in esame, si sia trattato di un doppio suicidio
con
sopravvivenza
di
uno
dei
soggetti.
Si tratta di verificare quale ruolo abbia svolto nella vicenda in esame il sopravvissuto e, avuto riguardo agli
elementi fattuali emersi, quale condotta eventualmente agevolatrice del suicidio egli abbia posto in essere.
Decidendo come ha deciso (omissis) i giudici di merito hanno escluso che il <M.> abbia agevolato il <C.>
nel suo proposito di suicidarsi perché era da escludere che egli avesse messo in atto nei confronti dell'amico
una qualsiasi azione di istigazione al suicidio, laddove, all'evidenza, si sarebbe dovuto prima verificare se
l'imputato aveva o meno aiutato l'amico a suicidarsi e solo in un secondo tempo, constatato l'esito negativo di
tale
indagine,
assolvere
il
medesimo
anche
dalla
contestazione
succedanea.
Non è chi non veda come, adottando l'iter argomentativo e motivazionale sopra specificato, la Corte di
merito ha, da un canto, palesemente violato la legge e, dall'altro, ha, di conseguenza, omesso di motivare il
proprio convincimento in ordine alla assenza di qualsiasi attività di agevolazione nella condotta del <M.>.
Alla stregua delle considerazioni che precedono e in parziale accoglimento del ricorso, l'originaria
imputazione di omicidio del consenziente, ascritta all'imputato, va pertanto qualificata come fattispecie di cui
all'art. 580 c.p., sicché la sentenza impugnata, in conformità alle richieste del Procuratore Generale, va
annullata per nuovo esame in ordine alla sussistenza di tale ultimo reato, con conseguente rinvio, per il
giudizio, alla Corte di Assise di Appello di Messina ai sensi del quarto comma dell'art. 569 c.p.p.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata per nuovo esame in ordine al reato previsto dall'art. 580 C.P., così qualificata
l'imputazione, e rinvia alla Corte di Assise di Appello di Messina per il giudizio.
Così deciso in Roma, il 6 febbraio 1998.
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