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David Duchovny PORCA VACCA DAVID DUCHOVNY PORCA VACCA BOMPIANI NARRATORI STRANIERI DAVID DUCHOVNY PORCA VACCA! Traduzione di Sara Sedehi ROMANZO BOMPIANI Duchovny, DaviD, Holy Cow Copyright © 2015 by King Baby, Inc. Published by arrangement with Farrar, Strauss and Giroux, LLC, New York and The Italian Literary Agency Revisione della traduzione: Martina Testa Realizzazione editoriale: Fregi e Majuscole, Torino © 2016 Bompiani / RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-452-8150-1 Prima edizione Bompiani maggio 2016 Per West e Miller E Blue e George e Black e Joe e Patty e Delilah La differenza mentale tra l’uomo e gli animali superiori, per quanto sia grande, è certamente di grado e non di genere. Charles Darwin 1. LASCIATE CHE MI PRESENTI Tanta gente crede che le mucche non sappiano pensare. Pronto? C’è nessuno in casa? Anzi, permettetemi di riformulare: tanta gente crede che le mucche non sappiano pensare e che non provino emozioni. Ari-pronto? Io sono una mucca, e mi chiamo Elsie. È tutto vero, altro che bufale. Visto? Anche noi pensiamo, proviamo emozioni e facciamo battute di spirito, almeno molte di noi. La mia prozia Elsie, dalla quale ho ereditato il nome, non ha alcun senso dell’umorismo. Ma per niente. Zero spaccato. Non le piacciono nemmeno le barzellette con gli umani che fanno cose stupide. Tipo quella che fa: un italiano, un tedesco e un americano entrano in una stalla... Fermi tutti, il tempo stringe e non posso perdermi in chiacchiere! Vorrei solo chiarire alcune cose. Vediamo... Ah, sì: forse vi chiederete come faccio a scrivere se non ho le dita. Non riesco a tenere in mano una penna. Credetemi, ci ho provato. Uno spettacolo orribile. Non che ci siano più tante penne in giro, ormai, con tutti questi computer. E anche se noi mucche siamo in grado di pensare, provare emozioni e far ridere, non possiamo parlare. Almeno non con gli umani. Ma abbiamo quella che voi uomini un tempo definivate “tradizione orale”. Le storie e la saggezza popolare vengono tramandate di generazione in generazione, di madre-vacca in figlia-vitella. Più o meno come 9 fate voi con l’Iliade e l’Odissea. Cantando, addirittura. Perdonate lo sfoggio di erudizione. Omero. Tie’. Fatevi servire! Tutti gli animali parlano tra loro in una sorta di esperanto animalesco fatto di grugniti, fischi, latrati e squittii: il leone parla con l’agnello, l’uccellino con il cane, l’alce con il gatto – anche se, siamo seri, a chi va di conversare più di tanto con un gatto? Sono così egocentrici! Ma noi del regno animale le parole proprio non ce le abbiamo, e nemmeno ciò che voi umani chiamate linguaggio. Lo so, la sintassi di questa frase è un po’ sconnessa, l’ho scritta così di proposito, tanto per rafforzare il concetto. Non sono mica un marsupiale. I marsupiali sono noti per la loro totale incapacità di comprendere le regole della sintassi. (Avete mai provato a farvi due chiacchiere con un canguro? Be’, amici, anche se riusciste a decifrarne l’impenetrabile accento, non ci capireste niente comunque.) E va’ a sapere di che diavolo parlano i pesci! Ma sto divagando. Divagare è molto bovino. Divagare e digerire. Non facciamo altro. Mettiamola così, noi vacche abbiamo un sacco di tempo a disposizione per ruminare. Di base ce ne stiamo lì, mangiamo, chiacchieriamo, ogni tanto troviamo un blocco di sale da leccare... E va bene così. O quantomeno andava bene così. Fino a un paio di anni fa, cioè quando è iniziata la storia che sto per raccontare. Prima di allora la mia vita era un idillio. Sono nata in una piccola fattoria nel Nord dello stato di New York, negli Stati Uniti. I Bovary hanno sempre vissuto lì, fin dalla notte dei tempi. Mia madre e la madre di mia madre e la madre della madre di mia madre e così via. Nelle famiglie bovine i padri sono sostanzialmente assenti. Mio padre Ferdinando (lo so, il fattore ha sempre avuto un debole per i vecchi film della Disney) si faceva vivo ogni tanto, e credo sia così che sono arrivati tutti i miei fratelli e le mie sorelle. Ma, qui da noi, i maschi sono tenuti separati dalle femmine per quasi tutto il tempo. A loro piace fissarci con insistenza da dietro lo steccato. A dirla tutta, certe volte è pure un 10 po’ inquietante. È come se i maschi fossero una specie a parte... ma non sta a me giudicare. Se ho imparato qualcosa negli ultimi due anni, è che non si deve mai giudicare. Questo per dire che, se fin dagli albori della civiltà i maschi sono sempre stati tenuti separati dalle femmine, non ci aspettiamo di certo che le cose cambino. Sono abituata così, quindi non sto lì a rimpiangere di non avere mio padre vicino. Gli umani ci amano. O almeno è ciò che pensavo anch’io, come tutte. Gli uomini amano il nostro latte. Ora, personalmente credo che bere il latte di un altro animale sia quantomeno strano. Non mi vedrete mai andare da una qualsiasi donna umana che ha appena partorito e chiederle: “Yo, zia, che me ne daresti un goccio?” Sarebbe strano, no? Tanto non succederà mai. Mi fa un po’ schifo. Ma è per quello che ci amate: il caro vecchio latte. Milk. Leche. Che vi devo dire, i gusti sono gusti. E ogni vitella, fin da piccola, sa che quando sarà grande, ogni mattina arriverà il fattore a mungerla. Il che per certi versi è anche un sollievo, visto che noi vacche tendiamo a gonfiarci velocemente, ed è piacevole sentirsi di nuovo magre e slanciate dopo una sana mungitura. Ebbene sì, anche noi teniamo all’aspetto fisico. E non apprezziamo affatto che voi umani, quando pensate che una donna sia grassa, le diate della vacca. Fra l’altro, i maiali non hanno mai preso bene tutta la faccenda dei “porci” e delle “scrofe”, così come i polli detestano essere considerati dei sempliciotti (cosa che però, detto fra noi, mi diverte parecchio, visto che i galli sono tra le peggiori rotture di mammelle che Dio abbia creato). Oh sì, anche noi crediamo in Dio. In un dio dalle fattezze bovine. No, scherzo. Vi ho spaventato, eh? In realtà crediamo che qualcosa abbia creato tutti i qualcosa del mondo: gli animali, i microorganismi, le piante, le rocce e le persone. E se questo Creatore abbia le sembianze di una vacca o di un maiale o di una persona o di un’ameba oppure di Jerry Garcia, questo non 11 lo sappiamo con precisione, e comunque non ci importa. Crediamo solo che da qualche parte nell’universo esista una forza cui dobbiamo la vita e la creazione. Qualcosa di simile a ciò che gli uomini chiamano “Madre Natura”, ma solo a grandi linee. E per noi non è un atto di fede, noi certe cose le sappiamo e basta. Sono dentro di noi, nelle nostre ossa e in quelle dei nostri antenati che riposano laggiù, chissà dove, nei campi della Vecchia Fattoria ia-ia-o. Accidenti, sono partita di nuovo per la tangente! Vi conviene farci l’abitudine. Del resto, anche Omero di digressioni ne faceva parecchie, no? Quindi i precedenti illustri non mi mancano. Ma prima di spiegarvi ciò che è successo due anni fa, vorrei soffermarmi ancora un po’ sugli antefatti, raccontarvi com’era la mia vita prima dell’Evento. Perché è così che lo chiamo: l’Evento, o la Rivelazione, o Il giorno dell’uragano di sterco. Permettetemi di descrivere un po’ il contesto, così da farvene un’idea. La vita in fattoria è abbastanza rilassante. Si passa molto tempo nei prati con le amichette, sotto gli sguardi virili dei tori. La nostra erba è sempre la più verde, diceva mia madre. Era una mamma fantastica, anche se un bel giorno è sparita, come del resto tutte le mamme. Ci hanno insegnato che dobbiamo accettarlo e basta. Che una mamma non è per sempre, e che se un giorno, dopo averti cresciuto, ti abbandona senza dirti una parola, non è perché non ti vuole bene. So che le cose “vanno così” e che “sono sempre andate così”, eppure quando ripenso alla mamma faccio ancora fatica a trattenere le lacrime. Era bellissima: grandi occhi marroni, spiccato senso dell’umorismo. Stava sempre con me, finché un giorno non c’è stata più. Ma di questo parlerò poi. Concedetemi ancora un attimo per pensare alla mamma. I sentimenti vanno e vengono, ma solo se uno non li prova fino in fondo. In quel caso rimangono, e fanno male, e assumono forme strane e spaventose. Insomma, 12