Testo - Dipartimento di Scienze sociali e politiche

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Testo - Dipartimento di Scienze sociali e politiche
5. Operatori e beneficiari: sguardi incrociati
5.1. Le diverse categorie alla prova dei fatti
Il diritto definisce e definendo ritaglia delle figure distinte e riconoscibili, ma necessariamente astratte. Il compito di tradurre in pratica quanto previsto dalle leggi spetta ad attori reali che devono in qualche modo incarnare
le disposizioni e le categorie nelle persone che si trovano di fronte e che rivendicano a qualche titolo una forma di protezione da parte del paese in cui
hanno fatto ingresso. Le decisioni degli attori istituzionali e non, coinvolti
direttamente in questo processo, sono quindi cruciali sia per capire come
avviene l’effettiva applicazione delle categorie astratte, sia per individuare
tendenze e tensioni che il livello istituzionale tende necessariamente ad appiattire.
Da questo punto di vista il quadro che si delinea può risultare sicuramente più complesso, ma anche più ricco e stimolante. Si potrebbe anche
scoprire che i confini tra una categoria e un’altra non possono essere tracciati in modo netto e assoluto e che la frammentarietà della protezione è innanzitutto una risposta alla reale confusione tra percorsi migratori che oggi
più che mai sembrano sovrapporsi e intrecciarsi. La letteratura internazionale ha da tempo messo in evidenza il ruolo di quella che è stata chiamata,
a partire dal pioneristico lavoro di Lipsky (1980), street-level bureaucracy,
ovvero quella burocrazia e quelle istituzioni che non riguardano i piani alti,
i quadri decisionali, ma piuttosto il “livello della strada”, le microinterazioni tra soggetti portatori di interessi e di ruoli diversi, che agiscono
per lo più in una relazione asimmetrica.
Anche per quanto riguarda l’oggetto di analisi di questo capitolo, ovvero
le integrazioni tra operatori e beneficiari, si possono riscontrare dinamiche
leggibili sotto la lente della street-level bureaucracy. Gli studi sulle migrazioni forzate, d’altra parte, hanno da tempo messo in evidenza gli effetti di
un meccanismo di etichettamento (labelling) nei confronti di rifugiati e al-
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tre persone in cerca di protezione. La categoria del rifugiato, infatti, è caratterizzata da sempre da una decisiva componente di etichettamento, attraverso il quale si forma una nuova identità burocratica standardizzata. Questo
processo rappresenta lo strumento attraverso cui si decide l’inclusione, ma
anche l’esclusione, sia di chi viene scartato, che – più sottilmente – di chi
viene ammesso solo a particolari condizioni e solo a partire da uno stigma
che porta marchiato sulla sua identità. Come già sottolineato dallo studioso
inglese Roger Zetter nell’editoriale con cui veniva inaugurato il Journal of
Refugee Studies, “attualmente la parola «rifugiato» rappresenta una delle
etichette più potenti del repertorio dell’interesse umanitario, delle politiche
pubbliche nazionali e internazionali e della differenziazione sociale” (Zetter, 1988,1).
Seguendo le indicazioni di Zetter, si può considerare l’etichetta “rifugiato” come un marchio che produce allo stesso tempo stereotipizzazione e istituzionalizzazione di uno status. L’attenzione va posta quindi sul processo
di etichettamento, piuttosto che sulle etichette in sé. L’etichettamento va
inteso come un processo che produce disaggregazione e standardizzazione
di categorie ben definite: la stereotipizzazione che discende da questo processo porta con sé un elemento di controllo e implica giudizi e distinzioni
che non contemplano alcuna partecipazione diretta dei soggetti in causa.
Tuttavia, le etichette prodotte vanno intese non solo come politiche, ma anche come dinamiche, nella misura in cui possono costituire la causa di nuovi sviluppi politici, di attività istituzionali e di rivendicazioni da parte del
gruppo etichettato (Zetter, 1991).
È evidente che le etichette sono prodotte e nominate soprattutto dalle istituzioni, nazionali ed internazionali, e dai loro diretti rappresentanti; tuttavia, sarebbe ingenuo credere che siano gli unici soggetti a contribuire
all’assegnazione di un’identità burocratica alle persone in cerca di protezione. Esiste un’intera gamma di figure che a diverso titolo contribuiscono
a forgiare e ad attribuire le diverse etichette, e questo è tanto più vero oggi
che ci troviamo di fronte a una moltiplicazione delle figure della protezione
e a un parallelo restringimento del contenuto della protezione stessa. Attraverso la moltiplicazione delle etichette applicabili alle migrazioni forzate,
l’intenzione sembra infatti quella di svuotare di significato la figura del rifugiato, piuttosto che di aggiungere diritti sostanziali ad altre categorie di
migranti. Prova ne è il fatto che stiamo assistendo a un doppio processo: la
diminuzione dei diritti concessi ai rifugiati convenzionali e la comparsa di
istituti giuridici che pur portando il nome dell’asilo rappresentano un tentativo di deresponsabilizzazione da parte degli Stati che dovrebbero riconoscere la protezione. Parafrasando il titolo di un recente articolo, si potrebbe
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dire: “più etichette, meno rifugiati” ma anche “livelli più bassi di protezione” (Zetter, 2007).
Da un certo punto di vista si può quindi ipotizzare che nell’epoca contemporanea il mondo delle migrazioni forzate sia caratterizzato da un numero più elevato di etichette, ma che allo stesso tempo queste etichette siano meno “potenti”. Se in passato l’uso esclusivo della categoria del rifugiato aveva sì sacralizzato, in un certo senso, la figura della persona in cerca di
protezione, ma contemporaneamente legittimato azioni di controllo e di pesante ingerenza nella vita degli stessi rifugiati (l’etichetta di rifugiato come
stigma), al giorno d’oggi le numerose figure della protezione sono ciascuna, singolarmente presa, meno totalizzanti e quindi anche meno “violente”.
Tuttavia, il prezzo da pagare per questa maggiore flessibilità è, come abbiamo già detto, una restrizione dei diritti connessi alle diverse forme di
protezione. Ci si trova quindi oggi di fronte a uno scenario in mutazione,
nel quale aumenta il potere degli attori istituzionali (sono i governi nazionali o le istituzioni regionali, come l’Unione Europea, a creare e definire le
nuove etichette) e parallelamente si potenzia il ruolo dei tanti soggetti che,
a partire dai vertici e fino alla street-level bureaucracy, sono chiamati a dare senso e corpo a queste stesse categorie.
Ai fini di questo studio, quindi, non ci interessa tanto approfondire il
modo in cui si sono formate e continuano a formarsi nuove categorie, quanto piuttosto analizzare come vengono interpretate e applicate nei contesti da
noi studiati, che hanno per attori gli operatori dei servizi in favore dei titolari di protezione e per destinatari gli stessi beneficiari. Si tratta in particolare di ripercorrere attraverso le parole degli intervistati, ma anche a ritroso
fin dal momento dell’arrivo dei migranti nel nostro paese, il modo in cui
vengono percepite le differenze e le distinzioni che intercorrono tra le diverse categorie che compongono quel continuum che va dagli immigrati
economici, e ancor prima dagli immigrati irregolari, fino ai titolari di protezione umanitaria e dello status di rifugiato.
La prima distinzione cruciale che deve essere esplorata è quella tra gli
immigrati irregolari, quelli che in Italia vengono spesso chiamati in modo
dispregiativo clandestini, e i richiedenti asilo. Questa analisi si rivela particolarmente importante perché riguarda direttamente la possibilità di avere
accesso alla stessa procedura di asilo. La prima definizione che interviene
nel momento in cui un migrante cerca di fare ingresso in un paese
dell’Unione Europea è proprio quella tra migrante irregolare economico e
migrante irregolare che può quantomeno avviare una procedura di riconoscimento della sua necessità di protezione. La Convenzione di Ginevra infatti sancisce esplicitamente che un rifugiato non dovrebbe subire conse-
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guenze negative nel caso di ingresso non regolare nel paese in cui intende
richiedere asilo: “gli Stati Contraenti non prenderanno sanzioni penali, a
motivo della loro entrata o del loro soggiorno illegali, contro i rifugiati che
giungono direttamente da un territorio in cui la loro vita o la loro libertà erano minacciate nel senso dell’articolo 1, per quanto si presentino senza indugio alle autorità e giustifichino con motivi validi la loro entrata o il loro
soggiorno irregolari”1.
Tuttavia il paradosso è che se il migrante viene espulso o allontanato
ancor prima che riesca legittimamente a presentare la sua domanda di asilo
o addirittura ad esprimere la propria intenzione di farlo, allora nessuno potrà mai riconoscerlo come rifugiato indipendentemente dalle ragioni della
sua partenza. Ciascuno stato disciplina in modo almeno parzialmente diverso le modalità di accesso al territorio e di conseguenza di possibile accesso
alla procedura. Si può osservare che se l’attenzione viene posta innanzitutto
sulla regolarità del loro ingresso, conseguentemente il filtro all’entrata avverrà attraverso la lente dell’adeguatezza dei documenti, mentre
un’eventuale necessità di protezione verrà messa in secondo piano.
In Italia, risulta abbastanza evidente che il pregiudizio nei confronti degli immigrati irregolari può avere effetti pericolosi sulle vite dei migranti
forzati che prima ancora di rendersene conto possono essere rispediti al
mittente o in paese terzo con cui l’Italia ha stretto accordi di riammissione.
Un grave rischio corso dai migranti in cerca di protezione che fanno ingresso nel nostro paese consiste in una possibile deportazione verso paesi in cui
il diritto d’asilo non è rispettato, come ad esempio la Libia o altri paesi
dell’Africa settentrionale con cui il nostro paese collabora attivamente per
il contrasto all’immigrazione clandestina. Tra ottobre del 2004 e settembre
del 2005, per esempio, molti immigrati irregolari sono stati espulsi
dall’Italia e deportati in Libia, nel contesto di un accordo bilaterale di cooperazione. Secondo Amnesty International, tra i 2.778 migranti deportati
dall’isola di Lampedusa ci sarebbero potuti essere molti rifugiati che, una
volta in Libia, avrebbero subito la stesa sorte di tutti gli altri migranti, e
quindi detenuti e possibilmente allontanati verso il deserto o il paese di origine, in un pericolosissimo sistema di refoulement a cascata (Amnesty International, 2005, 23-42).
Anche la politica di detenzione nei confronti dei migranti irregolari può
essere letta nello stesso contesto. Oggi la percentuale di richiedenti asilo
confinati all’interno dei centri è molto alta. Si calcola che nel primo anno di
attività delle Commissioni Territoriali, ovvero tra il 21 aprile 2005 e il 27
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Conv. Ginevra, Art. 31, c. 1.
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aprile 2006, più del 62 % dei richiedenti asilo sia stato trattenuto all’interno
dei Centri di identificazione o dei CPTA (ICS, 2006,118). Sembra di conseguenza che la detenzione – come può essere chiamato il trattenimento,
conformemente alle definizioni in uso negli altri paesi europei - sia diventata la regola piuttosto che l’eccezione, come sarebbe dovuta essere. Questa
prassi contraddice anche quanto previsto dalla legge che stabilisce che “il
richiedente asilo non può essere trattenuto al solo fine di esaminare la domanda di asilo presentata”2. Un così diffuso ricorso al trattenimento finisce
per far quasi coincidere l’esame della domanda che lo stato di detenzione.
Certamente una prassi così comune mostra il pregiudizio che anima le
istituzioni del nostro paese: il presupposto che la maggior parte delle domande di asilo siano infondate e fraudolente e che l’obbiettivo principale
sia quello di facilitare un rapido allontanamento dei cosiddetti “falsi” rifugiati, insieme agli altri immigrati irregolari. La promiscuità fisica e giuridica tra i diversi centri – centri di identificazione e centri di permanenza temporanea e assistenza – rivela le vere priorità del paese, che non consistono
in un reale rispetto del diritto d’asilo ma piuttosto in una politica punitiva e
di deterrenza nei confronti di intere categorie di stranieri che cercano di entrare in Italia.
Prassi di questo genere possono essere lette come parte di un più vasto
programma che andrebbe sotto il nome di refoulement preventivo (Marchetti, 2006), per intendere che governi come quelli dei paesi dell’Unione Europea,sono sempre più inclini a prevenire l’accesso dei richiedenti asilo al
territorio e alla procedura di riconoscimento. Considerati i vincoli che impongono agli Stati un determinato comportamento nei confronti di potenziali rifugiati, risulta più conveniente agire a monte o sull’esatto limitare
dei confini della sovranità nazionale. Il tentativo quindi è quello di mantenere i migranti forzati sempre più vicino alle aree di crisi da cui fuggono,
conservando in questo modo un controllo diretto e indiretto sulla gestione
dei rifugiati. È chiaro che da questa prospettiva la differenza tra clandestini
e richiedenti asilo finisce col confondersi in un continuum segnato dalla
violenze dei confini.
In secondo luogo può essere interessante vagliare anche le conseguenze
dell’esistenza di quella forma di protezione complementare che in Italia ha
assunto il nome di protezione umanitaria e che d’ora in avanti sarà chiamata protezione sussidiaria. Abbiamo già osservato come il numero di riconoscimenti della protezione umanitaria in rapporto ai riconoscimenti dello status sia da subito risultato molto squilibrato. Nel 2006, per esempio, su
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Legge Bossi-FIni, Art. 1-bis, c. 1.
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9.260 domande esaminate, il 46,8 % ha ottenuto la protezione umanitaria a
fronte del 9,5 % che si è visto riconoscere lo status di rifugiato.
È già interessante rilevare che se si somma la cifra relativa alle protezioni umanitarie con quella riferita allo status si scopre che nello scorso
2006 più della metà delle domande (56,3 %) è stata considerata in qualche
misura positivamente, il che porta a considerare completamente infondata
l’enfasi ricorrente posta sulla strumentalità delle domande di asilo e su una
possibile invasione di falsi rifugiati.
Tuttavia resta da analizzare anche l’altro lato della medaglia. È davvero
positivo che il numero di rifugiati sia così basso rispetto a quello degli “umanitari”? E - ancora più importante – come viene stabilita questa distinzione? A questo livello, è di fondamentale importanza analizzare il comportamento delle Commissioni territoriali, che sono innanzitutto chiamate a
valutare la domanda di asilo sulla base dell’articolo 1 della Convenzione di
Ginevra. Solamente nel caso in cui la persona non soddisfi i requisiti espressi dalla Convenzione e le venga quindi negato lo status di rifugiato,
allora la Commissione è tenuta anche a considerare il riconoscimento della
protezione umanitaria. Come dichiara la rappresentante dell’UNHCR nella
Commissione territoriale di Milano:
Il principio è che tu devi prima di tutto valutare lo status, anche di fronte a un paese
in cui puoi dire c’è violenza generalizzata, c’è pericolo di tortura in caso di rimpatrio. Tu però devi partire dal presupposto della verifica dei presupposti dell’articolo
1 della Convenzione di Ginevra3.
Allo stesso tempo, la stessa commissaria sottolinea come la prassi vada
in una direzione almeno parzialmente diversa.
Questo concetto è chiaro, cioè non penso che nessuno lo metterebbe in dubbio. Che
poi, su determinati paesi, si sia più propensi a tagliar corto e a dare la protezione
umanitaria, sì, io non ti posso dire che è no: è sì la risposta. La fortuna è che comunque queste persone non vengono rimpatriate, l’errore è che noi sappiamo ci
sono delle grosse differenze tra protezione umanitaria, status B, e riconoscimento
dello status vero e proprio. Ci possono essere degli errori4.
Secondo la prassi qui descritta, sembra che il processo decisionale contraddica spesso i principi generali definiti dalla legge e dalle convenzioni
internazionali. Lo status umanitario diventa così comune anche perché vie-
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Intervista alla rappresentante dell’UNHCR nella Commissione Territoriale di Milano.
Intervista alla rappresentante dell’UNHCR nella Commissione Territoriale di Milano.
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ne offerto a persone che avrebbero il diritto di essere riconosciute come rifugiati strictu sensu.
Un approccio restrittivo all’interpretazione della Convenzione potrebbe
avere effetti negativi su un alto numero di richiedenti asilo. Paradossalmente i richiedenti asilo provenienti da paesi in cui conflitti e violenza sono
maggiormente diffusi e che quindi dovrebbero essere trattati con particolare
cura, sono al contrario più esposti al rischio di un esame sommario e di ricevere un verdetto che riflette il pregiudizio (positivo) di cui sono oggetto.
Migranti che dovrebbero ricevere almeno la protezione umanitaria ottengono per contro un diniego quasi automatico dello status di rifugiato e si vedono al massimo riconoscere lo status B umanitario.
Da questo punto di vista si può essere soddisfatti dell’alto numero di
protezioni umanitarie solamente se si pensa alle numerose situazioni di crisi
a causa delle quali le persone sono costrette a fuggire pur non corrispondendo alla classica figura del rifugiato e quindi non soddisfacendo i requisiti della Convenzione di Ginevra. Tuttavia questa tendenza è solo parzialmente positiva.
La questione principale in questo caso non riguarda distinguere le persone che meritano protezione internazionale da quelle che dovrebbero essere espulse ed allontanate. Un nuovo problema sorge nel momento in cui si è
chiamati a tracciare un confine tra persone titolari dello status di rifugiato e
altre che possono rivendicare solamente una forma di protezione complementare. Ai nostri giorni, in Italia, sembra che la protezione umanitaria risulti come una mera categoria residuale, data dall’esclusione dello status di
rifugiato e dalla contemporanea impossibilità di rimpatriare il migrante.
Tutti gli altri sono semplicemente umanitari (o in futuro: “sussidiari”). In
questo modo si evita di affrontare accuratamente l’esame dei profondi
cambiamenti attraversati dalle forme di violenza e di conflitto o gli effetti
di queste procedure di etichettamento sui corpi e le menti dei richiedenti
asilo.
Sia da un punto di vista simbolico che sostanziale, i due status non si
equivalgono. La stessa parola “umanitario” evoca una soluzione offerta a
persone che soffrono per crisi particolari, anche gravi, ma comunque una
protezione garantita su basi umanitarie e di compassione, non politiche. Lo
Stato – l’Italia in questo caso – garantisce solamente un permesso di soggiorno temporaneo fino al momento in cui il picco di violenza sia superato.
È chiaro che molto dipende da cosa si definisce come conflitto, crisi e violenza generalizzata. Il rischio è che, nonostante il presunto atteggiamento
non-politico di questa forma di protezione, le decisioni vengano preso in
conformità con valutazioni altamente politicizzate.
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È proprio ciò che è accaduto a interi gruppi di persone provenienti da
paesi come il Togo, la Turchia, lo Sri Lanka, il Kosovo e persino dall’Iraq.
Questi richiedenti asilo infatti si sono visti riconoscere la protezione – ovviamente umanitaria – solo fintanto che la situazione nel loro paese di origine è stata considerata sufficientemente pericolosa. Al contrario, si sono
visti negare ogni forma di protezione da un giorno all’altro, non appena le
condizioni e gli equilibri politici e strategici sono mutati.
Da questa prospettiva la vulnerabilità di interi gruppi di persone aumenta – anziché diminuire – nel momento in cui si vedono attribuita l’etichetta
di umanitari. Nello stesso modo in cui viene loro garantito lo status umanitario con un’intervista individuale che è in gran parte predeterminata e effettuata sulla base di considerazioni generali, così può essere loro negata
ogni forma di protezione, per il solo motivo che è cambiata l’atmosfera politica.
Si può poi considerare un terzo stadio di analisi, che pur non riguardando direttamente lo status giuridico dei migranti, porta comunque delle conseguenze importanti per la comprensione della percezione comune nei confronti delle migrazioni forzate, espressa in particolare dalle definizioni e dai
discorsi degli operatori sociali e dei volontari che si trovano ad affrontare
quotidianamente sul campo le diverse categorie di persone che abbiamo sin
qui presentato.
Innanzitutto, come riferito da molti intervistati, i rifugiati oggi non vengono più percepiti come appartenenti a una categoria chiara e coerente. La
mancanza di credibilità delle loro storie è un discorso ricorrente anche tra le
persone che lavorano con loro giorno per giorno. Come dichiarato da un
volontario, “non c’è mai da fidarsi per quello che ti raccontano”5. C’è anche una confusione diffusa per quanto riguarda lo status giuridico dei beneficiari dei servizi: la percezione di alcuni operatori è che un richiedente asilo, o persino un rifugiato, non sia realmente a posto con i documenti e che
quindi il suo soggiorno non sia del tutto regolare. Per esempio un altro volontario afferma, riferendosi indistintamente a richiedenti asilo e rifugiati:
“fino a poco tempo fa, se appena appena avevamo il sentore che non fossero regolari, e che comunque venivano qui a livello personale, cercavamo
francamente di non prenderle [queste persone]”6. Spesso si fa anche riferimento alla strumentalità delle domande, suggerendo che l’asilo sia l’unica
via legale per avere accesso al paese e che quindi venga frequentemente
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Operatore di un servizio di accoglienza del sistema Caritas Ambrosiana, Milano.
Operatore di un servizio di accoglienza del sistema Caritas Ambrosiana, Milano.
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utilizzato illegittimamente: “l’impressione è che adesso ci siano molti più
ingressi in cui l’unico modo in quel momento è: fai la domanda di asilo”7.
Persino la descrizione degli itinerari e delle condizioni di viaggio sembra congiungere l’esperienza dei rifugiati con quella dei migranti economici. Come raccontato da un operatore sociale che si occupa di famiglie rifugiate:
C’è diciamo minore improvvisazione anche da parte loro, cioè capita sempre meno
la fuga disperata ma più progetti pensati di immigrazione in Italia, causati anche da
buone ragioni, valide per il permesso di soggiorno, così, ma più pensate8.
L’impressione complessiva è che questi attori abbiano in mente la classica figura del rifugiato e che quindi confrontino automaticamente quella
tipologia con le persone in carne ed ossa che incontrano ogni giorno nei loro servizi. Da questo punto di vista, possiamo interpretare i loro commenti
come un tentativo di ridefinire gli attuali modelli di rifugiati. Di conseguenza, se pensano che il rifugiato classico sia l’unico rifugiato “vero” e
genuino, allora le persone che incontrano ogni giorno vengono percepite
come meno autentiche (nella loro qualità di rifugiato). Come afferma ancora un operatore volontario di un centro di seconda accoglienza:
Secondo me, qui non tutti sono in condizioni personali gravi da richiedere lo status
di rifugiato politico. È un escamotage. […] Ne abbiamo 3-4 veri, non di più: la differenza è che tu ti rendi conto che hai davanti veramente una persona – e lo si vede
subito - cha ha patito, che ha un grave problema al rientro nella sua nazione, che tra
l’altro dall’altre parte ha i famigliari, chi ha famiglia (non i genitori, ma la moglie,
figli). Si nota subito il vero rifugiato politico9.
Il “vero” rifugiato presenta domanda di asilo per ragioni politiche, mentre sembra che i migranti forzati di oggi si basino principalmente su motivazioni di ordine economico o umanitario per lasciare il proprio paese
d’origine. Da questo punto di vista è più facile capire il motivo per cui molti intervistati, nel confrontare i rifugiati del passato con quelli contemporanei, fanno riferimento a degli elementi che possono essere riassunti in quattro punti.
Credibilità: un tempo la storia personale narrata dal richiedente asilo faceva riferimento a un contesto internazionale più ampio e ben riconoscibile,
quale era quello della guerra fredda. In quella cornice, l’esperienza indivi7
Coordinatore strutture di accoglienza del territorio di Lecco.
Operatore di un servizio di accoglienza e assistenza per le famiglie, Milano.
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Operatore di un servizio di accoglienza del sistema Caritas Ambrosiana, Milano.
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duale trovava facilmente legittimità, in quanto parte di un disegno più ampio. La credibilità del richiedente asilo non era nemmeno messa in questione, purché fosse credibile, secondo i parametri del tempo, la posizione del
suo paese di riferimento e la contrapposizione ai regimi socialisti.
Regolarità: dal momento che nel passato i rifugiati rappresentavano una
eccezione piuttosto rara e alludevano a un concetto ben definito, era quasi
naturale persone a loro come una categoria speciale, a parte rispetto agli altri migranti. Di conseguenza l’attenzione veniva posta sulla loro testimonianza come “combattenti per la libertà” e non veniva in alcun modo sottolineato un loro eventuale ingresso irregolare. Da questo punto la legalità e
la regolarità del loro ingresso non era nemmeno messa in questione.
Strumentalità: le ragioni della fuga dal paese d’origine risultavano un
tempo praticamente auto evidenti. Un rifugiato proveniente dall’Europa orientale o i pochi che riuscivano ad arrivare da Asia e America Latina fuggivano per lo più da regimi esplicitamente socialisti o comunque regimi ritenuti contrapposti ai paesi europei e occidentali. Per questo la loro domanda non poteva essere strumentale o fraudolenta.
Improvvisazione: secondo un’opinione diffusa (e non del tutto a torto)
uno degli elementi che differenzierebbe un rifugiato da un migrante economico consisterebbe nel fatto che il rifugiato è stato costretto improvvisamente alla fuga, a causa del peggioramento della situazione interna o per
ragioni indipendenti dalla sua volontà. Di conseguenza il viaggio e il paese
di destinazione non potrebbero essere accuratamente preparati e pensati con
largo anticipo.
Se queste appena elencate vengono riconosciute come caratteristiche distintive del vero rifugiato, allora si comprende perché sorgano così tanti
dubbi circa la genuinità dei rifugiati contemporanei. Dal momento che
l’attuale esperienza dei rifugiati non appare così auto evidente come molti
intervistati credono fosse un tempo, di conseguenza anche i confini tra lo
status di rifugiato e quello umanitario appaiono più confusi:
Vengono da una situazione difficile, sicuramente; ma poi […] soprattutto ultimamente, avendo difficoltà ad entrare con altri canali, chiaramente per molti la richiesta d’asilo diventa una modalità per entrare nel territorio, cioè nazionalità che sicuramente hanno delle situazioni di difficoltà e anche di tensione interna, però poi se
io ragiono che il richiedente ha una situazione personale, non tutte queste persone
hanno una situazione personale, tant’è che poi molti sono motivi umanitari piuttosto che rifugiato vero e proprio10.
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Coordinatore strutture di accoglienza del territorio di Lecco.
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Dalle descrizioni fornite da alcuni operatori si capisce che anche la distinzione tra i rifugiati e i migranti economici sta diventando meno chiara.
Le caratteristiche condivise da entrambe le categorie risultano a molti osservatori maggiori e più rilevanti delle differenze che li dividono.
Non mi sembra che i loro problemi siano molto diversi dagli altri. Non hanno nessun tipo di trattamento privilegiato dal punto di visto della norma, sono assolutamente equiparati, quindi nessun aiuto particolare. Forse rispetto a quelli che ho conosciuto [rifugiati] una minore adattabilità alle situazioni di difficoltà e forse un
maggiore ricorso all’assistenza11.
Se una ragazza ha vent’anni, se ne ha vissuti di brutti non ne ha vissuti di brutti diversi da quelli della ragazza di vent’anni come lei dello stesso paese, che però è
entrata in modo diverso e ha un documento diverso. Io di questo sono convinto.
Primo. Secondo: se questa persona è qui ed è sola ed ha vent’anni ed è una donna
ed è sola, io ho bisogno che lei si confronti con alcune cose, non può vivere sulle
nuvole e pensare che siccome lei è richiedente asilo…12
Rispetto a richiedenti asilo e rifugiati sembra quindi che si sottolinei non
tanto una sostanziale differenza sul piano delle ragioni o delle modalità della fuga o sull’esperienza vissuta in patria, quanto piuttosto delle aspettative
più alte in termini di aiuto ed assistenza nel paese di accoglienza.
L’esperienza del migrante forzato appare quindi paradossalmente come una
“tara” che condiziona negativamente il percorso di integrazione in Italia:
rispetto ai normali migranti economici, queste persone tenderebbero a chiedere un’attenzione maggiore e a rivendicare diritti e benefici che né il servizio specifico né il paese in generale sembrano pronti è disposti a dare.
Come si può vedere, quindi, anche se è impossibile riassumere un resoconto esaustivo delle rappresentazioni fornite dai diversi attori presenti sul
campo da posizioni non istituzionali, è chiaro che si sta assistendo a un sostanziale – se pur sotterraneo - cambiamento. Gli strumenti legali offrono
delle definizioni fisse o per lo meno è necessario un tempo piuttosto lungo
e intense negoziazioni politiche prima che i cambiamenti in corso nella società trovino riconoscimento da parte delle istituzioni e dei legislatori. I
soggetti non istituzionali per contro godono di maggiore flessibilità e libertà e spesso adattano le categorie ufficiali alle esigenze e alla mission dei loro servizi. Ciò è reso possibile dal fatto che hanno a che fare con persone
reali con problemi e storie personali, e non con categorie astratte. Hanno
quindi bisogno di trovare il loro modo per definire e distinguere diverse ca11
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Operatore di un servizio di accoglienza e assistenza per le famiglie, Milano.
Coordinatore strutture di accoglienza del territorio di Lecco.
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tegorie di migranti, in modo da poter più facilmente orientare le loro scelte
e le loro azioni quotidiane.
Perciò, è necessario non sottovalutare l’ambiguità e la sovrapposizione
che si riscontrano nelle descrizioni e nelle etichette utilizzate dagli operatori sociali e dai volontari direttamente coinvolti in prima linea: potrebbero
infatti dirci qualcosa sulle attuali tendenze non solamente del sistema di asilo italiano ma anche della mutevole natura delle migrazioni forzate nel
mondo contemporaneo.
5.2. Assistenza, controllo, autonomia
Un interessante saggio della studiosa Vanessa Pupavac (2006) propone
di rileggere la figura del rifugiato dei nostri giorni alla luce di un paradigma
“medico” che interpreta questa particolare categoria di migranti come vittime e pazienti bisognosi di cure. Secondo Pupavac, questa lettura si discosta di molto da quella che poteva essere adottata nel corso della guerra
fredda, quando i rifugiati erano visti come eroi politici e coraggiosi difensori della libertà:
Le immagini iconografiche dei rifugiati in Occidente erano quelle di figure forti ed
eroiche, in lotta per la libertà e la giustizia sia politicamente che intellettualmente.
Erano figure che dovevamo ammirare per la loro posizione ardita e il loro sacrificio personale (Pupavac, 2006, 1).
Come segnala anche un funzionario della sede dell’UNHCR a Roma, “c’è
molta timidezza, molta diffidenza nei confronti dello status di rifugiato. Si
pensa sempre a personaggi tipo Mazzini, anche per questo si tende a usare
sempre la denominazione «rifugiato politico» che non esaurisce le tipologie
di rifugiato contemplate nella Convenzione.”
Ritroviamo in queste parole la polarità già mostrata dalle parole di altri
testimoni privilegiati. I rifugiati di un tempo erano riconoscibili e ammirabili. Come sottolinea lo stesso UNHCR, è possibile ricostruire una “galleria
dei rifugiati celebri” che appartengono di fatto per lo più al passato, a un
passato ben preciso; gli esempi più recenti non vanno comunque oltre
l’inizio degli anni ottanta. Vengono citati tra gli altri gli scrittori Milan
Kundera, fuggito dalla ex Cecoslovacchia e Isabel Allende, dal Cile di Pinochet; José Ramos Horta, Premio Nobel per la Pace nel 1996 che, con
Monsignor Carlos Belo, è stato protagonista della lotta per l’indipendenza
di Timor Est; Rigoberta Menchù, india guatemalteca Premio Nobel per la
Pace nel 1992. Oppure si fa il nome di altre personalità che hanno riscosso
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indubbio successo nel paese di asilo o addirittura nel paese di origine, una
volta resosi possibile il loro ritorno in patria: tra gli altri, al loro rientro
hanno assunto la più alta carica dello Stato - presidente della repubblica Vaira Vike-Friberga in Lettonia, Sam Nujoma in Namibia e Thabo Mbeki
in Sudafrica. Viene persino citata Madeleine Albright, fuggita ben due volte dalla Cecoslovacchia, prima a seguito dell’invasione nazista e poi del regime comunista, che fino al gennaio 2001 è stata Segretario di Stato degli
Stati Uniti d’America, dove si stabilì con la sua famiglia nel 1948.
Oggi invece l’iconografia dei rifugiati e dei migranti forzati si sta assestando su canoni completamente diversi. A livello internazionale, ci viene
sovente rimandata un’immagine di vittime traumatizzate, spesso nei volti di
donne e bambini impotenti e bisognosi di tutto, anche di cure mediche professionali per nuove malattie spesso “scoperte” o affermate proprio per
mezzo dell’esperienza dei rifugiati. Per esempio il cosiddetto Disordine da
stress post-traumatico (Post-Traumatic Stress Disorder, PTSD), diagnosi
medica originariamente utilizzata solo per i veterani del Vietnam, è diventato il modo più naturale con cui definire e curare le popolazioni che hanno
vissuto in zone di guerra e che sono state costrette alla fuga. Da disturbo
individuale ed eccezionale, è stato trasformato in epidemia, malattia di
massa, tanto che nel 1995 uno studio dell’UNHCR, della European
Community Task Force e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità stimava che un milione e quattrocentomila persone in Bosnia-Herzegovina e
Croazia soffrissero di traumi psicologici gravi, che li rendevano bisognosi
di urgenti trattamenti13. I migranti forzati che hanno popolato gli schermi
dei nostri televisori e le pagine dei nostri giornali negli anni novanta sono
stati innanzitutto rappresentati all’interno di questo paradigma che testimonia non solo il cambiamento della figura del rifugiato per se, ma anche la
variazione della cornice interpretativa all’interno della quale siamo disposti
a trattare questi temi e quindi, in ultima analisi, lo stato in cui versano le
nostre comunità politiche.
Dalla fine della guerra fredda in avanti, infatti, a un generale ottimismo
è ben presto subentrato un diffuso senso di paura e vulnerabilità; la speranza che il termine della mortifera contrapposizione tra i due blocchi potesse
portare a una stagione di tranquillità e aumento della fiducia è stata tradita.
A causa dell’atomizzazione e del disorientamento sociale, un crescente
numero di persone si sente sempre meno propenso a stringere legami di solidarietà con chi gli sta intorno. Come afferma la stessa Pupavac, “diverse
13
Per un’accorta ricostruzione degli effetti del paradigma psicosociale nelle zone di guerra
si veda Bazzocchi (2003), e in particolare il capitolo “La guerra? Una questione di terapia”,
pp. 51-64.
13
discipline hanno proclamato la morte del carattere, la morte del soggetto, la
morte dell’eroe, e la morte dell’uomo pubblico, insieme al declino della
comunità e della solidarietà sociale. Nel frattempo le politiche pubbliche si
sono ritirate dalle ambiziose trasformazioni strutturali associate al welfare
state in favore della micro-gestione del senso di benessere delle persone”.
In questa prospettiva, una ritirata di tale entità ha fatto sì che “le condizioni
sociali siano state patologizzate come problemi della personalità degli individui, degli stili di vita e delle relazioni personali” (Pupavac, 2006, 14).
Quindi, il trattamento che riserviamo ai rifugiati altro non è che lo specchio
delle nuove priorità politiche e sociali delle nostre società.
In linea con altri studiosi (Bonomi, 2001; Bazzocchi, 2003; Malkki,
1996; Mesnard, 2004; Nyers, 2006; Wright, 2000) che hanno giustamente
enfatizzato le contraddizioni di un’iconografia che dipinge i rifugiati come
vittime impotenti, l’analisi di Pupavac ci rammenta i rischi in cui incorrono
i migranti forzati nel momento in cui vengono interpretati come soggetti
depoliticizzati, incapaci di agire e di badare a se stessi. Anche se la sorte
dei rifugiati ai tempi della guerra fredda e dei dissidenti politici non è stata
sempre rosea e univoca, si può comunque rilevare una forte discontinuità
tra il trattamento di quei migranti che potevano facilmente dimostrare di
essere oggetto di persecuzione individuale in virtù delle loro più o meno
eroiche azioni nel paese di origine e il trattamento riservato a una massa più
anonima di persone in fuga, non facilmente individuabili come soggetti politici. Come sottolineava con amara ironia Hannah Arendt, “le probabilità
di sopravvivenza aumentano per il profugo famoso, come in fondo le probabilità di sopravvivenza del cane munito di un collare e di un nome rispetto al cane randagio che è soltanto un cane generico e nulla di più” (Arendt,
1996, 398).
Oggi, allora, la posizione del rifugiato generico, non famoso, non “politico” risulta essere la più precaria. Innanzitutto, perché gli Stati si dimostrano più generosi nel garantire l’asilo quando si tratta di diritti eccezionali per
categorie eccezionali di individui che non quando si trovano di fronte un
fenomeno potenzialmente di massa, dalle dimensione difficilmente controllabili (se non operativamente, sicuramente politicamente). Per questo si è
disposti a concedere qualche protezione ai migranti forzati solo fintanto che
sono percepiti come un fenomeno limitato ed eccezionale e non come il
primo rivoletto di una riserva inesauribile (ibidem, 391).
In secondo luogo, è più facile riconoscere al rifugiato che definiamo politico uno status per l’appunto politico, anche se in negativo, in quanto voce
dissidente e perseguitata, mentre la massa di rifugiati ordinari risulta ano-
14
nima e spogliata di ogni appartenenza politica e per questo più facilmente
calpestata e ignorata, o soggetta a un trattamento strettamente “umanitario”.
Qual è allora la forma di riconoscimento e di protezione che si è disposti
a concedere a questa “nuova” tipologia di migranti forzati? Pupavac (2006)
suggerisce di interpretare l’insieme delle politiche e delle pratiche dispiegate dai paesi occidentali nei confronti dei rifugiati a partire dalla definizione
del ruolo del malato (sick role) proposta da Talcott Parsons nel suo Il sistema sociale (1965): “il ruolo del malato in quanto ruolo istituzionalizzato
può essere definito come costitutivo di un complesso di condizioni necessarie per mettere il medico in grado di intervenire con la propria competenza
sulla situazione. Non si tratta soltanto del fatto che il paziente ha bisogno di
essere aiutato, ma anche del fatto che questo bisogno viene categorizzato
istituzionalmente, che la sua natura e le sue implicazioni sono riconosciute
socialmente e che viene definito il genere di auto, cioè il modello generale
di azione appropriato in relazione alla fonte di aiuto” (Parsons, 1965, 483).
Nella sua presentazione, Parsons arriva a individuare una serie di caratteristiche che permettono di dare maggiore spessore a questa particolare figura di malato (ibidem, 445 ss). Nello specifico, si legge che nel ruolo del
malato, la persona è esentata dalle responsabilità normali derivante dal precedente ruolo sociale, oltre che da ogni responsabilità in generale, dal momento che non ci si può attendere che la persona malata “si faccia coraggio” a guarire mediante un atto di decisione. Inoltre, lo stato del malato
viene interpretato come qualcosa di per sé indesiderabile, con la conseguente obbligazione di voler “stare bene” e a questo scopo l’obbligo si estende
alla necessità di cercare un aiuto tecnicamente competente, cioè, nel caso
più comune del medico, e di cooperare con lui nel processo mirante alla
guarigione.
Secondo dunque la descrizione fornita da Parsons, se interpretiamo il rifugiato contemporaneo attraverso la categoria del malato, assumiamo conseguentemente la necessità di un medico, ovvero di una figura professionale e istituzionalizzata che si ponga in una relazione di cura con il paziente
in questione. Da questo punto di vista, ci si troverebbe di fronte a quello
che viene definito come un comportamento deviante, pur non riconoscendo
al rifugiato la responsabilità di essere finito in quella specifica condizione:
“l’assunzione fondamentale in questa connessione è che la malattia deve
essere definita – in uno dei suoi aspetti principali – come una forma di
comportamento deviante, e che gli elementi di motivazione alla deviazione,
i quali si esprimono nel ruolo del malato, sono in rapporto di continuità con
quelli espressi attraverso una serie di altri canali, compresi i tipi di confor-
15
mità forzata che non sono socialmente definiti come devianti” (ibidem,
485).
Questa interpretazione del fenomeno dei migranti forzati e della sua gestione nei paesi occidentali – ma anche nelle regioni del sud del mondo attraverso l’intervento degli stessi paesi del nord - porta con sé delle conseguenze nella lettura delle attuali pratiche di assistenza nei confronti dei rifugiati e dei migranti forzati in generale. Certamente l’ambivalenza del ruolo del malato è molto pronunciata:
la presentazione del rifugiato come paziente è un’arma a doppio taglio. Da una parte il rifugiato potrebbe ricevere una maggiore protezione nel ruolo del malato ed
essere esonerato da certi obblighi sociali come il lavoro, ma dall’altra il rifugiato
nel ruolo del malato non è più visto come un soggetto politico con la capacità di
esercitare diritti di autodeterminazione, ma diventa un oggetto di intervento professionale. In breve l’empatia permissiva sviluppa una gestione professionale dei rifugiati, non un incremento dei diritti dei rifugiati (Pupavac, 2006, 22).
L’ambiguità del ruolo del malato e della sua depoliticizzazione porta
con sé un’altra conseguenza che possiamo direttamente collegare con la
difficoltà a stabilire confini stabili tra diverse categorie di migranti. Infatti,
una volta svanito il carattere distintivo del rifugiato politico per come era
inteso nel dopoguerra e di cui rimane traccia nelle convenzioni e nella legislazione nazionale in materia, diventa sempre più arduo legittimare la presenza di persone che mostrano solamente il volto del bisogno e della mancanza. In questo senso, assomigliano pericolosamente alla fisionomia del
migrante economico e perdono l’aura di sacralità che – almeno a parole – li
caratterizzava quasi romanticamente. Sempre nelle parole di Pupavac, “il
rifugiato come vittima traumatizzata, avendo perso il suo status politico eroico, non è più così facilmente distinguibile dall’immigrato illegale ed è
visto come alieno alla comunità politica e come un fardello sociale. Di conseguenza abbiamo l’aumento dell’oltraggiosa figura del falso richiedente
asilo” (Pupavac, 2006, 16).
Questo scivolamento verso una figura di rifugiato visto come potenziale
pericolo, proprio in virtù della sua eccessiva somiglianza con l’immigrato
economico e della fragilità del suo statuto politico, è facilmente riscontrabile sia nelle parole dei testimoni intervistati, che mostrano come il ricorso a
un paradigma assistenzialista finisca paradossalmente col delegittimare i
diritti dei rifugiati e con l’assimilarli alle altre figure di migranti, sia nella
retorica politica frequentemente mobilitata nei confronti di queste categorie
di persone. Negli ultimi anni, anche i rifugiati sono stati sempre più spesso
16
oggetto di quella politica dell’insicurezza (Huysmans, 2006) che condiziona così pesantemente le nostre comunità.
Esistono dunque due rischi simmetrici, che potremmo ricondurre a particolari contesti sociali e geopolitici come la guerra fredda e il post guerra
fredda, ma che sono riscontrabili se pure con proporzioni variabili in ogni
momento storico.
Da un lato, il rifugiato può essere dipinto sono un soggetto politico forte, portatore di ideali e di valori fino al punto di essere costretto a fuggire
dal proprio paese per aver salva la vita. Un rifugiato di questo genere, figura in qualche misura eccezionale, è facilmente riconoscibile e si differenzia,
per la realtà dei fatti o per l’interpretazione che viene loro data, dal resto dei
migranti. Anche per questa ragione può più facilmente vedersi riconoscere
un’alta forma di protezione, come quella garantita dallo status di rifugiato.
Questa tipologia non è tuttavia esente da rischi e pericoli. Ciò che a prima
vista sembra la sua salvezza e la sua carta vincente, può facilmente tramutarsi in una trappola. Innanzitutto perché proprio per la sua alta visibilità e
riconoscibilità si presta facilmente a un trattamento politico quando non ideologico. Tanto può essere bene accolto perché promotore degli stessi valori della società di accoglienza, quanto può essere ignorato o perseguitato
se si colloca in una diversa posizione. Sono queste stesse figure che spesso
sono più o meno esplicitamente accusate di terrorismo, di costituire un pericolo non solo per la società di origine ma anche e soprattutto per la società di accoglienza. È nei confronti di questa tipologia di migranti che vengono legittimate le forme di controllo e di repressione più spinte.
Dall’altro lato, come detto, troviamo una massa anonima e più difficilmente differenziabile dai migranti economici. Persone la cui necessità di
protezione va provata ma che sicuramente si presentano come bisognose di
aiuto e assistenza. Di questi soggetti enfatizziamo più che fierezza e il coraggio, gli aspetti mancanti: la paura, la povertà, la violenza generalizzata
di cui sono stati vittime, i traumi che hanno subito e le cure di cui hanno
bisogno. Sono quei migranti cui attribuiamo facilmente il ruolo di malato
con tutto l’apparato di gestione umanitaria e assistenziale ad esso connesso.
A una figura similmente tratteggiata corrisponde un rischio opposto eppure
altrettanto pericoloso. È facile che le caratteristiche di queste persone finiscano col confondersi strumentalmente con quelle dei migranti economici
irregolari, dei “clandestini”, verso i quali si può a certe condizioni provare
pietà ma non certo riconoscimento. L’essere dipinti come un’umanità bisognosa e ferita non permette a queste persone di muoversi con autonomia e
libertà. Paradossalmente si produce un apparato di controllo simmetrico a
quello dispiegato nei confronti della precedente tipologia: se lì si avvertiva
17
la necessità di controllare soggetti pericolosi per il loro eccesso di volontà
ed azione, qui si arriva a controllare per assistere, controllare assistendo,
soggetti pericolosi per la loro mancanza di volontà e di azione.
Per uscire da questo circolo vizioso è chiaro che diviene sempre più urgente immaginare una politica e una prassi diverse, che si sottraggano ai
rischi connessi alle due visioni sin qui presentate. I tentativi messi in atto da
molti degli operatori da noi intervistati sembrano andare proprio in questa
direzione. Lavorare sull’autonomia dei beneficiari, in un’ottica di cittadinanza, significa tentare una terza via, che prova ad interagire proficuamente
con le competenze e le aspettative dei migranti forzati, da un lato, e le opportunità e i vincoli posti dalla società italiana, dall’altro. Si tratta ovviamente di una strada tutta da esplorare, anche per gli enti del terzo settore, e
ancor più in un ambito come quello dei servizi rivolti a persone in cerca di
protezione. Sono già stati esposti nei capitoli precedenti i presupposti e le
intenzioni che stanno guidando l’azione delle realtà afferenti a Cittadini
possibili; in questa sede ci sembra più importante sottolineare la sfida che
sta alla base di un progetto come questo, proprio per il potenziale di cambiamento che porta con sé. Naturalmente il percorso è ancora lungo e perfettibile, ma la strada imboccata sembra quella giusta.
5.3. Tempi della procedura, tempi dell’assistenza, tempi
dell’integrazione
Quanto esposto sinora ha già in qualche misura messo in evidenza la
centralità della dimensione temporale nell’esperienza dei migranti forzati e
nel loro rapporto con i servizi a cui possono accedere. Già nei capitoli precedenti abbiamo visto come il tempo dell’integrazione può trasformarsi in
una sorta di eterno presente in cui si rimane intrappolati per chissà quanto.
È chiaro che il tempo rappresenta il crocevia di aspettative diverse da parte
dei diversi soggetti che ruotano intorno ai migranti forzati e che a partire da
queste diverse aspettative si possono creare dolorose tensioni e incomprensioni.
Per quanto riguarda i beneficiari dei servizi, possiamo dire innanzitutto
che la percezione del tempo vissuto non coincide con il semplice scorrere
del tempo cronologico. Le persone da noi incontrate hanno messo chiaramente in evidenza come sia cambiato durante il loro percorso migratorio il
loro rapporto con il tempo. Generalmente, il passato sembra dilatato ed espanso. Quando cominciano a parlare del paese di origine, della famiglia o
del lavoro, delle ragioni della partenza, il racconto si fa ricco di particolari,
18
accurato, denso. Anche i silenzi sono carichi: di dolore, di cose che non si
possono dire, di immagini che non si possono tradurre in parole. Così il
racconto può farsi rarefatto, esitante, teso, ma ancora più sentito, come mostrato dalla testimonianza di un rifugiato ivoriano.
Avevo già portato via la famiglia, ma io lavoravo a Bouaké, mentre la famiglia era
a Abidjan. E la guerra era ancora lì. E ho detto a Dio: perché tutte queste cose?
Quando sono rientrato a Abidjan, non potevo uscire perché il mio capo era implicato in questa cosa della ribellione. E abbiamo avuto la visita, così, una sera di quattro o cinque persone, non mi ricordo più bene… E sono entrato a casa… E mi hanno… non so… cose un po’… difficili da dire.
Il passato è soprattutto multidimensionale: ci sta dentro tutta una ricchezza e una varietà che disegna la naturale complessità della vita. Questo
non significa che venga proposta un’immagine idealizzata e falsata della
realtà; i ricordi possono essere terribili, il senso di sdegno, di incomprensione o di paura per quello che stava accadendo in patria può essere acutissimo, ma rimane l’impressione di una vita composita e ricca, se pure contraddittoria e pericolosa.
Gli stessi testimoni, che si dilungano in infiniti particolari nel descrivere
il tempo precedente alla partenza, danno un’immagine del presente completamente diversa. Si tratta di un presente per lo più ripetitivo, quasi ossessivo, in cui si è costretti a concentrarsi su un unico aspetto, come per esempio
la ricerca del lavoro. Le parole di un titolare di protezione umanitaria afghano danno evidenza di questa ripetitività.
Io cerco sempre lavoro. Girare, girare per Milano, sempre. Tutti i giorni ripeto, ripeto. Giro, giro. Vado per agenzie, per cooperative. E cerco lavoro.
Il presente sembra spesso schiacciato su una sola dimensione che monopolizza l’esistenza. E le giornate perdono quella ricchezza, fatta anche di
particolari banali e apparentemente insignificanti, che invece caratterizzava
il tempo passato. Si tratta di un presente in cui è meglio non pensare troppo
e andare avanti. O in cui, forse, non serve proprio pensare.
Qua in Italia non devi pensare. È già… i giorni sono già pensati, non è che devi
pensare. È come una routine, dicono così. La stessa cosa. Per esempio tu devi fare
colazione. Mezzogiorno fai il primo pasto, così, una fetta di carne. Continua questa
cosa. Anche il lavoro è così. Vai al lavoro alle otto, finisci alle cinque. Ritorni a
casa. Riposi un po’. Vai in bagno. Mangi. Guardi il telegiornale. Dormi. Domani è
lo stesso giorno. È così. Poi la domenica vai ai giardini, così (ride): questa è la vita
delle persone come me.
19
Se pensiamo ancora un attimo alla scala di Escher presentata nel capitolo precedente, vediamo un ulteriore paradosso. Un presente ossessivamente
impiegato per salire uno scalino che potenzialmente non porta da nessuna
parte, avendo tuttavia la netta sensazione che è un presente che va avanti da
solo, che basta seguire i binari di quello che “si deve fare” per rimanere a
galla. Spesso è anche per questo che il contrasto tra il passato, in cui le azioni avevano un senso e una precisa collocazione, e il presente, in cui si
partecipa a un gioco di cui non si conoscono tutte le regole ma che non si
può comunque abbandonare, diventa così doloroso e stridente.
E poi c’è il futuro. Le persone incontrate fanno molta fatica a parlare di
futuro, a immaginare il futuro. Come era logico immaginare, tutte le energie vengono catalizzate dal presente e non ci si può permettere di sognare,
di proiettarsi in avanti, di fantasticare su quello che sarà. Molti non azzardano nemmeno a pensare a quando e come avverrà il tanto agognato ricongiungimento con i figli, quasi che a pensarci o a parlarne il miraggio potesse svanire del tutto. Si fa fatica anche a nominare i propri desideri e i propri
sogni per il futuro, anche se svincolati da qualsiasi principio di realtà.
L’aspetto che emerge non maggiore chiarezza dalle interviste qui sotto riportate è quello dell’incertezza, quando non della sfiducia.
Non so, non lo so per il futuro. Non lo so, perché per esempio il governo congolese
precedente a quello di adesso ha fatto 35 anni. E questo qua non lo so quanti anni
farà. Quindi è lo stesso governo che ci ha forzato ad andare via. Finché lui è lì ,c'è
ancora poca speranza di tornare, di vivere ancora la vita come ci vuole. Loro hanno
sempre i modi per ricordare, per cercare… Non c'è sicurezza, ecco. Quello. Non c'è
sicurezza, non c'è proprio.
Domanda: Come ti immagini la vostra situazione fra cinque anni?
Risposta: Ma, si vedrà. Spero che presto andrà tutto bene, che gli altri figli saranno
qua, così, vediamo. Penso, Inshallah, che alcune cose cambieranno.
Con questi presupposti, si comprende bene come sia difficile far interagire proficuamente questa percezione del tempo biografico con i tanti altri
tempi che necessariamente si incarnano nella vita dei migranti forzati.
Fin qui abbiamo parlato di quello che potremmo chiamare il tempo
dell’integrazione. Questa dimensione è certamente molto personale e soggettiva, anche se è fortemente condizionata da elementi esterni. Da questo
punto di vista, è necessario soffermarsi su un insieme di pratiche quotidiane
che costellano l’esperienza del migrante forzato e che gli consentono o meno interazioni positive con l’ambiente circostante e con la comunità autoc-
20
tona. A questo contribuisce, in un senso o nell’altro, il successo nella ricerca di un lavoro più o meno stabile e di un alloggio al di fuori del circuito
dell’assistenza, ma anche altre dimensioni più informali, come la conoscenza della lingua e le occasioni di scambio e relazione con la comunità di accoglienza. In tutti i contesti analizzati e nelle parole di tutti i testimoni, questo tempo risulta di sicuro il più lungo in termini assoluti e il più variabile,
dipendente da molti fattori che si intrecciano in modo inatteso.
In secondo luogo c’è il tempo della procedura, dettato dai ritmi istituzionali. Quale che sia il tempo di evasione delle richieste di asilo e anche
quando questo viene il più possibile ridotto, in questa fase ci si trova a dipendere totalmente o quasi da un’assistenza esterna, istituzionale o meno.
Non è detto poi che i tempi più brevi siano sempre un vantaggio, dal momento che spesso si è riscontrato un parallelo inasprimento dei criteri di
ammissione e l’annullamento di garanzie giurisdizionali.
Valuto negativamente il fatto che a tempi brevi non corrispondano dei maggiori
diritti. E poi secondo me la prassi – ma questo forse non è un problema della legge,
anche se la legge lo lascia in dubbio – la prassi di alcune questure è di notificare
contestualmente il diniego e l’espulsione. Siccome lo straniero in 15 giorni fa tutto,
e normalmente non sa l’italiano e non sa neanche un inglese di Oxford, non sa neanche che può fare ricorso. Dà spazio agli abusi14.
D’altra parte, quando il tempo della procedura è davvero molto contratto, come nel caso delle risposte che giungono dalle Commissioni del sud
Italia attraverso la procedura semplificata, non necessariamente si riesce a
realizzare un più facile e migliore inserimento dei titolari di protezione che
si spingono generalmente nelle grandi città del nord come Milano, dove
spesso non trovano alcun sostegno15. Anzi, spesso un tempo troppo ridotto e
l’immediata immissione nei canali di inserimento, per lo più informale, non
fa che aumentare la vulnerabilità delle persone interessate.
Sempre per quanto riguarda il tempo della procedura, non bisogna poi
dimenticare i tanti di casi di ricorso, che in ogni caso implica un’ulteriore
attesa anche di diversi anni in condizioni di assoluta precarietà giuridica e
14
Operatrice del Servizio Accoglienza Immigrati (SAI) della Caritas Ambrosiana, Milano.
A Milano ha destato parecchio scalpore, anche a causa di un’insistente attenzione dei media, il caso degli stabili occupati prevalentemente da titolari di protezione umanitaria provenienti da Eritrea e Sudan. In diversi periodi, a cominciare soprattutto dal 2005, gli episodi
più eclatanti sono rimasti legati ai nomi delle vie in cui erano collocati gli stabili interessati
dall’occupazione: via Lecco, via Forlanini e oggi via Lodi. Per una parziale ricostruzione
critica degli eventi, si veda AA. VV. (2008).
15
21
materiale. Molti operatori segnalano il fenomeno dei ricorrenti come uno
dei più problematici nell’ambito dell’asilo.
Si va dall’avvocato, si va delle volte con un mediatore linguistico, però il procedimento a quanto pare è lungo, anche due o tre anni e noi non possiamo tenerli così
tanto, possiamo due anni. Però se almeno avessero un documento che gli permette
di lavorare, uno respira un attimino, trova una soluzione. Se no nessuno li prende
perché non hanno i documenti. Il problema dei ricorrenti… Gli avvocati fanno quel
che possono ma i tempi sono quelli, non è che telefonando all’avvocato risolvono il
problema16.
Quale che sia l’esito dei ricorso, per un lungo periodo le persone si trovano a vivere in una sorta di limbo giuridico, con la minaccia
dell’espulsione sempre pendente sulle loro teste: questo implica in molti
casi l’interruzione del percorso di inserimento lavorativo, alloggiativo e sociale e l’ingresso in una sospensione indefinita da cui sembra non esserci
uscita.
Un altro tempo che, come si è già intuito, interseca necessariamente gli
altri nei vissuti dei migranti forzati è il tempo dell’assistenza. Molto più che
per i comuni immigrati, i richiedenti e i titolari di protezione hanno un rapporto molto stretto con le possibili forme di assistenza erogate dallo Stato o
da enti del Terzo Settore. La dimensione dell’assistenza, con la sua deriva
negativa dell’assistenzialismo, rimane un sottofondo costante delle narrazioni di queste persone, sia quando ne usufruiscono, sia quando ne rimangono esclusi, sia quando infine, secondo la loro percezione, ne hanno goduto ma non a sufficienza. Parallelamente, i racconti degli operatori dei servizi danno evidenza della centralità che la dimensione temporale assume anche per questi soggetti che spesso si trovano a mediare tra aspettative dei
beneficiari, esigenze amministrative e finanziarie e desiderio di promuovere
l’autonomia delle persone con cui si entra in relazione.
Per quanto riguarda la specifica dimensione dei tempi, si deve osservare
che spesso i tempi imposti dall’assistenza sono di fatto sfasati rispetto alle
esigenze dei beneficiari. Accade che le regole dettate dai diversi soggetti
che possono offrire assistenza sul territorio prevedano tempi molto precisi e
scadenze incalzanti: i tempi degli alloggi comunali, i tempi delle mense, i
tempi dei sussidi economici. I tempi della prima e della seconda accoglienza. Gli stessi operatori sono consapevoli che quando si tratta di persone, e
ancora più di persone in cerca di protezione, può essere rischioso forzare i
tempi di uscita dal servizio, ma allo stesso tempo esistono vincoli di diversa
16
Operatore di un centro di seconda accoglienza del territorio di Milano.
22
natura, oltre che considerazioni di equità e promozione dell’autonomia, che
sconsigliano un eccessivo protrarsi delle condizioni di assistenza e di dipendenza. Quando invece vengono superati i tempi fissati dai servizi di accoglienza, subentra il disagio e lo scontento degli operatori.
Il problema si riflette negativamente anche al nostro interno, perché qui abbiamo
certe volte lavoratori, per non metterli fuori, che hanno superato già i ventiquattro
mesi di accoglienza. Siamo già a trentasei, e più di trentasei mesi17.
C’è chi invece stabilisce dei veri e propri “patti” al momento di ingresso
nel progetto. Talvolta questi patti vengono trasgrediti e la data di uscita dal
progetto viene spostata sempre più avanti, ma in altri numerosi casi si riscontra alla fine un diffuso rispetto dei tempi stabiliti sin dall’inizio.
Più o meno nei tempi previsti comunque dai patti che facciamo quando entrano
qui, quindi nell’arco dell’anno, anno e mezzo, sono tutte persone che si sono più o
meno gestite da sole, quindi hanno avuto poco bisogno del nostro aiuto. Più che
altro il nostro aiuto è subentrato nella ricerca della casa e quindi magari c’è stato
un input più per la parte abitativa18.
Come è prevedibile, in casi di distonia tra i tempi della procedura e
quelli dell’assistenza aumentano considerevolmente le probabilità di un
percorso di marginalizzazione e parallelamente diminuiscono le possibilità
di raggiungere una piena autonomia. Gli stessi operatori dei servizi hanno
la percezione di questo sfasamento tra i diversi tempi che attraversano la
vita dei migranti con cui lavorano.
E poi c’è questa cosa, che i tempi del Progetto non coincidono con i tempi della
burocrazia. Per cui interrompiamo, riprendiamo…19
Più in particolare, sembra chiara ad alcuni osservatori diretti la delicatezza di determinati passaggi cruciali dell’esperienza migratoria dei beneficiari. In alcuni casi, è stato addirittura evidenziato un possibile impatto di
ordine psicologico e traumatico.
Questa difficoltà, questi tempi così stretti, tre, sei mesi, in qualche modo sono un
continuo ritraumatizzare le persone, e quindi anche le abitudini e i legami che in un
centro di accoglienza, dopo un po’, qualche legame se lo costruiscono, dopo lo si
17
Operatore di un centro di seconda accoglienza del territorio di Milano.
Operatrice di un centro di seconda accoglienza del territorio di Milano.
19
Operatrice di un’organizzazione partner del Progetto Cittadini Possibili.
18
23
rompe un’altra volta. E questo richiama le rotture precedenti. E’ come se piovesse
sul bagnato. E il bagnato di prima ritorna attuale20.
A diventare problematici, allora, sono soprattutto i cambiamenti prematuri, le scadenze avvertite come perentorie e non negoziabili, le “tappe forzate” verso l’autonomia.
Diciamo che trascorsi i primi sei mesi, in cui appunto sono in questi centri gratuitamente, finire l’accoglienza in questi centri e poi entrare in strutture di accoglienza dove magari devono pagare un qualcosa spesso crea ansia, ansia proprio a livello economico. Cioè, sembra quasi che non abbiano più tempo21.
Anche gli stessi beneficiari sottolineano la difficoltà connessa
all’adattamento a cambiamenti repentini, tanto più quanto riguardano
l’abitare. Una rifugiata ivoriana, oggi stabilmente residente a Lecco in un
appartamento che riesce ad affittare da sola grazie al proprio lavoro, ricorda
bene il disagio e la sofferenza causata da numerosi trasferimenti a breve distanza l’uno dall’altro.
Non hai un posto fisso. Oggi sei qua, domani sei da un’altra parte. Questo a me
non mi è piaciuto. Ogni volta devi spostarti di qua e di là. […] Cioè se uno per esempio è stato messo lì, deve rimanere lì. Però ogni tanto deve essere spostato. E
poi all’improvviso. Non è che sei preparato in anticipo. Te lo dicono così, tu devi
sbrigarti per andare via. Questo secondo me non va bene.
Si rivela allora necessario da parte degli altri servizi, diversi cioè da
quelli interessati alla dimensione alloggiativa, proseguire il proprio lavoro
con quella persona per garantire una certa continuità, interrotta ad altri livelli. Per esempio, nel passaggio potenzialmente problematico tra un centro
di prima e di seconda accoglienza può diventare cruciale il ruolo di un servizio di orientamento e inserimento lavorativo che permette al migrante di
non troncare improvvisamente tutto il percorso avviato in precedenza e di
proseguire il rapporto con il servizio ben oltre i sei mesi previsti dalla prima
accoglienza.
Nei centri di seconda accoglienza, dove i tempi sono a volte un po’ più
dilatati, operatori e volontari si rendono conto di come la relazione abbia
bisogno di tempi lunghi per costruire una fiducia reciproca che spesso manca nelle fasi iniziali.
20
21
Responsabile di un servizio di tutela psicologica partner del Progetto Cittadini Possibili.
Operatrice servizio di orientamento e inserimento lavorativo.
24
Ci vuole quel tempo lì. Prima di arrivare alla confidenza, almeno a un certo livello,
prima che loro arrivino a fidarsi di te, che capiscano comunque che tu sei qui non
per fregarli, che la tua battuta non è per prenderli in giro, ma è per distendere le
cose… Ma ci vuole tempo, ci vuole tempo. Mediamente ho notato che ci vuole
quasi sempre un anno, prima di arrivare a un certo livello22.
In ogni caso, la combinazione delle tre diverse dimensioni temporali –
tempo dell’integrazione, della procedura e dell’assistenza - non disegna un
percorso omogeneo e lineare, anche perché si mescolano dimensioni soggettive, relative al vissuto personale di ciascuno, e dimensioni oggettive o
esterne, nei confronti delle quali il soggetto ha scarsa facoltà di incidere. A
seconda di variazioni anche di piccola entità su ciascuno di questi livelli, in
funzione di inceppi, ostacoli o sospensioni che riguardino di volta in volta
il tempo dell’autonomia, quello della procedura o quello dell’assistenza,
l’intera esperienza migratoria dei soggetti subirà delle interruzioni, delle
deviazioni, dei sussulti, quando non addirittura l’azzeramento dei progressi
raggiunti nelle fasi precedenti.
Il tempo dell’assistenza risulta essere, da un certo punto di vista, il necessario anello di congiunzione tra il tempo della procedura e il tempo
dell’integrazione. Proprio per questo aspetto di ponte, di auspicabile saldatura positiva tra le altre due dimensioni, diventa particolarmente delicato
gestire con equilibrio, oculatezza e sensibilità tutti i passaggi che segnano il
distacco dall’assistenza e l’acquisizione dell’autonomia. Se da un lato, infatti, la procedura manifesta le sue rigidità, i suoi ritmi burocratici per lo
più dilatati e troppo spesso arbitrari, d’altro lato il percorso biografico di
ogni migrante forzato presenta le sue peculiarità, i suoi ostacoli, possibili
interruzioni, apparenti retromarce e altrettanti rilanci verso il futuro. Interagire con queste due variabili non è sicuramente facile, tanto più se ci si trova di fronte ad altri vincoli di tipo economico, amministrativo, giuridico,
oltre che di gestione degli spazi spesso insufficienti a coprire le numerose
domande.
Per gestire il tempo dell’assistenza, gli operatori si trovano quindi talvolta di fronte a una sorta di doppio vincolo: promuovere l’uscita dal sistema di accoglienza e assistenza e spingere il beneficiario verso l’autonomia,
sia per motivi interni all’organizzazione che per favorire l’integrazione dello stesso interessato, e allo stesso tempo non recidere i legami, garantire la
continuità, evitare i traumi legati a una continua pressione a camminare con
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Operatore di un centro di seconda accoglienza del territorio di Milano.
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le proprie gambe anche quando non ci sono le condizioni oggettive per sostenere questo impegno. L’equilibrio tra queste spinte opposte ma compresenti va trovato con soluzioni il più possibile flessibili e personalizzate e
attraverso una sapiente capacità di ascolto e mediazione.
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