parte quarta - Dal rifugio all`inganno

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parte quarta - Dal rifugio all`inganno
PARTE QUARTA
L’Emergency Shelter Refugee di Fort Ontario
1. “Fort Ontario è il mio campo”
Le pressioni interne e la situazione relativa alla guerra in Europa, con particolare riferimento
all’emergenza che si era creata nel Sud Italia per l’arrivo di migliaia di profughi, avevano spinto
Roosevelt ad aprire le porte degli Stati Uniti.
Il 1° giugno 1944 Roosevelt vide Morgenthau e Pehle per discutere nuovamente della situazione e
in quell’occasione concordarono l’arrivo dei mille rifugiati dall’Italia. Il giorno dopo, durante una
conferenza stampa, il presidente degli Stati Uniti disse che Pehle stava cercando di capire se era
possibile utilizzare un campo lasciato vacante dall’esercito. La stampa non si lasciò perdere
l’occasione di pungolare Roosevelt sulla questione del mancato rispetto delle quote riservate agli
immigrati. Il presidente rispose: “Se avete delle persone affamate e senza nessun aiuto - dopo tutto,
sono esseri umani e siamo in grado di dare loro la certezza della vita da qualche altra parte sembra che sia la cosa più umana da fare.” 292
Quello stesso giorno Pehle era stato informato dal Dipartimento di Guerra che erano disponibili due
campi dell’esercito, uno ad Oswego e uno vicino a Watertown, sempre nello Stato di New York.
L’8 giugno, Morgenthau e Pehle incontrarono ancora il presidente per metterlo al corrente delle
ultime novità sui due campi. La scelta di Roosevelt cadde su quello di Oswego: “Fort Ontario è il
mio campo. Conosco il forte molto bene. Risale al periodo prima della guerra civile ed è un posto
eccellente.” 293 Il 9 giugno, nel corso di una nuova conferenza stampa, Roosevelt annunciò la
creazione di un campo profughi a Fort Ontario, Oswego.
L’entusiasmo manifestato nell’occasione da Roosevelt e la soddisfazione per essere riuscito a
trovare una simile soluzione non possono far dimenticare che Fort Ontario fu il primo e unico
campo per rifugiati messo a disposizione dagli Stati Uniti. Mille profughi in fuga dallo sterminio a
fronte di 55 mila posti inutilizzati in base al sistema delle quote. Come ricorda Wyman, il 91% delle
quote riservate ai paesi europei occupati rimase vacante. “Otto mesi prima, la Svezia aveva accolto
8 mila ebrei dalla Danimarca. La popolazione e il territorio svedese rappresentavano ciascuno circa
un ventesimo degli Stati Uniti. Un giornalista, I. F. Stone, descrisse il contributo americano come
‘una sorta di pagamento simbolico alla decenza, un affare da banco fiorito in umanitarismo’.” 294
Se non bastasse, la reazione della stampa e dell’opinione pubblica non fu sempre morbida con la
decisione di Roosevelt. Se una parte riconobbe la necessità della scelta compiuta e, anzi, sottolineò
la limitatezza dell’operazione raffrontata con le reali necessità dei profughi, invitando il presidente a
fare di più e ad aprire ulteriori porti franchi, dall’altro canto ci si scagliò contro Roosevelt che aveva
osato violare i limiti invalicabili delle leggi sull’immigrazione. Molti restrizionisti e antisemiti si
rivolsero al presidente, ai membri del Congresso e ai giornali per esprimere tutta la propria rabbia
nei confronti del provvedimento. Nessuno di loro credeva che i rifugiati sarebbero tornati in Europa,
una volta finita la guerra, e molti pensarono che i primi mille profughi sarebbero serviti come
precedente per consentire nuovi ingressi. Lettere di semplici cittadini, editoralisti dei giornali più
diffusi, membri del Congresso tennero alta la polemica per lungo tempo, anche dopo l’arrivo a Fort
Ontario dei 982 profughi.
292
Wyman, D., The abandonment of the Jews, cit., p. 65.
Si veda anche http://www.american-buddha.com/lit.abandonjew.4.14.htm.
293
Ibidem.
294
Ivi, p. 266.
2. La storia del forte
Fort Ontario è un forte
storico situato presso la
Città di Oswego in
Oswego County, nello
stato di New York.
L’attuale forte si trova
su un sito occupato in
precedenza da altre
fortezze.
Gli inglesi costruirono
un forte, in quella zona,
già nel 1755, nel
contesto delle guerre
franco-indiane per il
controllo dei territori
americani. Conosciuto
come Forte delle Sei
Nazioni o semplicemnte
come Fort Ontario,
aveva una struttura ad
otto punte collegate da
palizzate in legno ed era
fornito di un cannone
girevole che poteva
fronteggiare
solo
attacchi
di
piccole
truppe. Non a caso, i
francesi
distrussero
questa fortezza nel 1756
(battaglia
di
Fort
Oswego
del
10-14
agosto 1756), insieme
con quella di Fort
Oswego (costruita nel
1727) sulla riva opposta
del fiume Oswego, e di
Fort George (costruita
nel 1755) su un’altura
dietro Fort Oswego.
Gli inglesi ricostruirono
Fort Ontario nel 1759
(al contrario di quanto
La mappa del 1757 mostra le strutture di difesa intorno al fiume Oswego e al lago Ontario.
fecero
con Fort Oswego)
Fort Ontario è contraddistinto dalla lettera B.
secondo la più recente
tecnologia militare europea. Progettato per ospitare 500 uomini, conteneva delle basse caserme con
casematte, caserme singole di legno, un fossato asciutto e un ampio spazio esterno per i movimenti
di terra. Piccole fortezze quadrate o triangolari chiamate “ridotte” si trovavano strategicamente su
delle alture a diverse centinaia di metri di distanza dalla fortificazione principale.
Durante la Rivoluzione Americana, dopo le battaglie di Saratoga, Oriskany e l’assedio di Fort
Stanwix nel 1777, gli inglesi abbandonarono Fort Ontario lasciandolo in balia degli attacchi nemici.
Un anno dopo, il secondo Fort Ontario subì lo stesso destino del primo: fu distrutto dalle truppe
americane stanziate a Fort Stanwix.
I britannici, alla ricerca di una base sicura e solida da cui partire per colpire i ribelli dello stato di
New York, rioccuparono Oswego nel 1782 e ricostruirono Fort Ontario per la terza volta.
Nel 1796 il forte passò sotto il controllo degli Stati Uniti che apportarono alcune modifiche prima e
durante la guerra americano-britannica del 1812. Non essendo ben equipaggiato, il forte fu attaccato
e distrutto dalle superiori forze navali e terrestri dei britannici nel maggio del 1814.
La minaccia di una nuova guerra con la Gran Bretagna e una possibile invasione degli inglesi,
convinsero gli Stati Uniti, nel 1838, a risistemare per l’ennesima volta il forte.
Tra il 1839 e il 1844, l’attuale Fort Ontario fu progettato per ospitare 120 uomini e comprendeva
una polveriera, una caserma per i soldati semplici, due alloggi per gli ufficiali e un magazzino.
Il periodo della guerra civile e quello subito dopo portarono alla necessità di rimodellare e
ammodernare il forte, cosa che però non fu possibile a causa dei mancati accordi sui fondi
all’interno del Congresso. Da quel momento iniziò il lento declino di Fort Ontario fino al suo
abbandono avvenuto nel 1901. Passati due anni, il Forte tornò al centro dell’attenzione. Tra il 1903
e il 1905 gli Stati Uniti rimisero mano agli interventi di miglioramento del forte che avrebbe
ospitato un centro di formazione per la fanteria, nel quadro della riorganizzazione dell’esercito
voluta da Elihu Root, già Ministro della Guerra e, dal 1904 al 1909, Segretario di Stato sotto la
presidenza di Theodore Roosevelt.
Più di due dozzine di edifici in mattoni e
legno furono costruiti al di fuori del
vecchio forte per ospitare un maggior
numero di truppe e i servizi di supporto.
Nonostante tutto ciò, il forte fu
abbandonato fino al 1928, quando le
caserme dei soldati semplici furono
trasformate per ospitare il circolo degli
ufficiali e gli altri edifici furono convertiti
in appartamenti per gli ufficiali subalterni.
Nel 1939 il forte ospitò delle truppe di
soldati afro-americani, cosa che non fu
ben vista dai residenti. La stessa Ruth
Franklin D. Roosevelt a Fort Ontario nel 1929
Gruber riportò che molti abitanti di
(fonte: http://history1900s.about.com/library/photos/blyfdr91.htm)
Oswego erano “convinti che il presidente
F. D. Roosevelt fosse arrabbiato con loro
perché erano repubblicani” 295 . Alla fine la
scelta portò comunque benefici economici
alla città e l’anno dopo Roosevelt raccolse
più di 1100 voti.
Il forte continuò a crescere e nel 1941 si
potevano contare 125 edifici.
295
Lowenstein, S. R., cit., p. 40.
Un ennesimo cambiamento portò scompiglio nella comunità di Oswego, quando, partite le truppe, il
forte fu utilizzato per accogliere un campo educativo per analfabeti provenienti per la maggior parte
dagli Stati del Sud. Gli affari non peggiorarono, anzi, ma per Oswego arrivò di lì a poco la notizia
che il campo sarebbe stato chiuso, come infatti fu, a partire dal 15 marzo 1944. Gli abitanti della
piccola cittadina protestarono subito nei confronti della Casa Bianca chiedendo che il forte fosse
riaperto ed utilizzato, onde evitare la perdita di un’importante fonte di sostentamento.
Probabilmnete fu anche per questo che la scelta cadde su Fort Ontario e non su Watertown.
Pochi mesi ancora e Fort Ontario avrebbe visto l’arrivo dei 982 profughi arrivati dal Sud Italia.
Inizialmente la decisione lasciò costernati i cittadini di Oswego, propensi a pensare che dei profughi
non avrebbero potuto partecipare in nessun modo a mantenere stabili le loro sorti economiche.
Subito dopo la guerra e la partenza dei profughi, il forte fu trasferito allo Stato di New York.
Inizialmente utilizzato per ospitare i veterani di guerra e le loro famiglie durante il periodo postbellico, la zona divenne sito storico di Stato già nel 1949. In questa nuova veste, fu restaurato e
riportato all’aspetto che aveva nel 1868.
Una vista aerea di Fort Ontario nel 1946
(http://www.geocities.com/lakeforts/Fort_Ontario.html)
3. L’arrivo negli Stati Uniti e il trasporto a Fort Ontario
La Henry Gibbins approdò sotto il cielo
grigio e piovoso di Manhattan, al molo
84, nel tardo pomeriggio del 3 agosto
1944.
Nel momento in cui passarono vicino
alla
Statua
della
Libertà,
il
trentasettenne
rabbino
Mosco
Tzechoval 296 chiese a Ruth Gruber di
condurre una preghiera. Tutti gli si
fecero intorno e il silenzio scese sulla
nave. Le labbra del rabbino si mossero
e lo Shehecheyanu si stese come un
velo sulle teste di chi aveva conosciuto
l’indescrivibile dolore della Shoah e
che ora era a un passo dalla terra dei
sogni e delle possibilità:
Vista aerea di Manhattan, 1944. Office of War Information
(Museum of the City of New York)
“Non dobbiamo mai dimenticare le cose che i nazisti
hanno detto di noi – che noi abbiam portato il male
sulla Terra. Noi non abbiamo portato il male sulla
Terra. Ovunque abbiamo vagato, abbiamo portato la
benedizione della Torah e abbiamo portato la Verità.
I Paesi che hanno tentato di distruggerci hanno
portato il male su se stessi. Ora che entriamo in
America, ricordiamoci che siamo un popolo solo.
Dobbiamo parlare con un’unica voce, con un cuore.
Non dobbiamo vivere con odio. Dobbiamo vivere con
amore. Che Dio vi benedica e vi custodisca e faccia
splendere il suo volto su di voi e vi porti la pace. E
che Dio benedica questa nuova terra.” 297
Nulla di più vicino alle parole di Emma Lazarus
scolpite sulla base della Statua della Libertà:
A me sol date
Le masse antiche e povere e assetate
Di libertà! A me l’umil rifiuto
D’ogni lido, i reietti, i vinti! A loro
La luce accendo su la porta d’oro 298 .
I rifugiati esultano e salutano la Statua della Libertà
(foto di Ruth Gruber, in Gruber, R., cit.)
296
Rabbi Mosco Tzechoval (conosciuto anche come Moses Checkoval o Czechoval) era un leader spirituale all’interno
di Fort Ontario. In precedenza era stato il direttore dello Yeshivath Etz Chaim Talmudical Seminary ad Heide-Antwerp,
Belgio.
297
Gruber, R., cit., p. 120.
298
Il sonetto, The New Colossus (Il Nuovo Colosso), fu composto da Emma Lazarus nel 1883. Soltanto nel 1903, per
opera di Georgiana Schuyler, ammiratrice della giovane poetessa, fu inciso su una lapide affissa al piedistallo della
Statua della Libertà. La traduzione qui riportata è del poeta Joseph Tusiani.
I passeggeri passarono la notte sulla nave perché per il mattino seguente era previsto il necessario
trattamento sanitario, cosa che puntualmente avvenne con il risultato, per molti di loro, di non poter
più utilizzare i propri vestiti, troppo logori per resistere al processo di disinfestazione che utilizzava
prodotti chimici. Anche per questi motivi, i rifugiati erano combattuti tra umori ambivalenti. Molti
di loro, come Zlatko Hirschler, erano ammaliati dalla bellezza dello skyline di New York e dalle
infinite luci che erano altrettanti porti di approdo per i pensieri e le speranze dopo anni in fuga:
“Sono stato sveglio tutto la notte e semplicemente ho passato il tempo a guardare le luci. Sai cosa vuol
dire vedere una città illuminata quando hai vissuto per più di tre anni nel blackout? Sapere che gli
aereoplani non vogliono bombardarti. Sapere che non sarai arrestato dalle pattuglie naziste perché
cammini per le strade di notte. Meritava stare sveglio tutta la notte, solo per sentire tutto questo.” 299
Dall’altra parte, i rifugiati furono colpiti negativamente dal trattamento sanitario che dovettero
subire in condizioni che ricordavano i metodi utilizzati dai nazisti nei campi di concentramento.
Nelle prime ore del mattino, furono portati lungo il molo in un capanno Quonset 300 dove gli uomini
furono separati dalle donne. Margareta Spitzer, diciotto anni all’epoca dei fatti, ricorda le fasi del
processo:
“Abbiamo dovuto spogliarci completamente e rimanere nudi. Dovevamo marciare davanti ai soldati che
poi cominciarono a riempire tutto il nostro corpo di DDT. Misero i nostri indumenti in una camera a gas
per disinfestarli. Molti dei vestiti messi in quel vapore sono rovinati o bruciati o si sono ristretti o sono
diventati pieni di buchi. Qualsiasi cosa fatta di pelle è andata distrutta.” 301
Non dissimile la decrizione che ne dà David Hendel:
“La mattina presto siamo stati disinfestati. In gruppi di dieci o giù di lì, siamo stati portati in una parte
della nave, denudati, e i nostri abiti furono portati via. I soldati ci spruzzarono i capelli, le ascelle e
l’inguine con il DDT, noi facemmo una doccia e poi ci sarebbro stati restituiti i nostri vestiti. Purtroppo
erano stati sterilizzati e si erano ridotti di almeno due taglie. Le cinture in pelle erano completamente
distrutte e ci diedero dei pezzi di corda per mantenere i nostri pantaloni. Il nostro abbigliamento era già
piuttosto squallido, dopo quattordici giorni di permanenza sulla nave. Ora, sembravamo davvero come se
fossimo appena usciti da un campo di concentramento”. 302
Alla fine di tutto il processo, dopo l’ingresso nel campo di Fort Ontario, a ciascun rifugiato fu
assegnato un cartellino da appendere al collo o intorno a un bottone dei vestiti. In grassetto c’era
299
Gruber, R., cit., p. 124.
Ibidem. Da Wikipedia: “Un capanno Quonset (in inglese Quonset hut) è una struttura prefabbricata leggera realizzata
con lamiera zincata ondulata, a sezione semicircolare. Il nome deriva dal primo sito di fabbricazione, Quonset Point, al
Davisville Naval Construction Battalion Center (North Kingstown, Rhode Island). Nel 1941 gli Stati Uniti avevano la
necessità di un fabbricato leggero e multiuso, che potesse essere spedito ovunque e montato da personale non
specializzato. La compagnia di costruzioni George A. Fuller fu selezionata per la fabbricazione, e il primo capanno
venne prodotto 60 giorni dopo l’ottenimento del contratto. (…). I fianchi erano in lamiera zincata ondulata, mentre le
due testate erano realizzate con compensato nel quale erano ricavate porte e finestre. L’interno era isolato, con un
pavimento in legno e privo di separazioni, per rendere l’impiego più flessibile. (…). Il modello più comune aveva
dimensioni di 6 × 15 m, con un raggio di 3 m, ottenendo una superficie utilizzabile di 67 m², (…). Durante la Seconda
guerra mondiale furono costruiti tra i 150mila ed i 170mila capanni Quonset. Al termine della guerra, i capanni in
eccedenza furono venduti dalle autorità militari a mille dollari ognuno.
301
Gruber, R., cit., p. 124.
302
Hendl, D., cit., p. 64.
300
scritto: “U.S. ARMY CASUAL BAGGAGE”. Bagaglio casuale. Una scritta rivelatrice. Ogni etichetta,
inoltre, aveva un numero: la nuova carta d’identità dei rifugiati.
L’identità, tutta una vita, legata ancora una volta ad un numero. L’unico modo, in questo caso, per
entrare nella Terra delle promesse e delle opportunità.
I rifugiati con il cartellino al collo (http://waa.uwalumni.com/onwisconsin/spring02/harbor4.html)
Una volta saliti sui traghetti già predisposti nel North River (fiume Hudson), si diressero verso
Hoboken e lì rimasero fino alla sera, ascoltando la musica della band dell’esercito. Da quel
momento i rifugiati passarono proprio sotto il controllo dell’esercito, in particolare del Second
Service Command, il cui quartier generale si trovava e si trova tuttora sulla Governors Island.
Nel frattempo, Dillon Meyer aveva mandato a New York il suo responsabile per le relazioni,
Morrill Tozier, affinchè incontrasse la stampa. Nonostante l’esercito fosse contrario ad un incontro
tra i rifugiati e i giornalisti, dovette fare marcia indietro davanti alle pressanti richieste delle varie
testate. Ruth Gruber incontrò Tozier all’Empire State Building e lì stabilirono che lei avrebbe scelto
dieci rifugiati che avrebbe poi presentato alla stampa.
David Hendel riassume così quel primo giorno sul suolo americano:
“Quello che seguì fu un susseguirsi di eventi che si confondono l’uno nell’altro. C’era una banda
dell’esercito che suonava. Giornalisti. Fotografi. Tutti a spingere. La Croce Rossa con Coca-Cola, caffè,
latte, panini e ciambelle. Etichette sulle valigie. Etichette gialle sulle persone. Un tragitto in traghetto per
Weehawken e l’imbarco sul treno. Soldati con i fucili. Un viaggio lungo e caldo fino ad un raccordo per
Fort Ontario. Campo militare, caserme e recinto di filo spinato tutto intorno. Persone in fila. Funzionari
che assegnavano gli alloggi. Raccogliere le valigie dai mucchi. Un recinto di filo spinato? Mi gira la
testa. Che diavolo è questa storia?” 303
303
Hendell, D., cit., p. 64.
L’etichetta del bagaglio della famiglia Hendell.
L’assegnazione dell’alloggio alla famiglia Hendell.
A Hoboken i soldati aiutarono i
rifugiati a scendere dai traghetti
sulla banchina terminale della
vecchia Stazione Delaware,
Lackawanna
&
Western
Railroad (accanto nella foto).
Cento poliziotti militari in
uniforme da battaglia, e molte
giovani Ausiliari Femminili
dell’Esercito, si allinearono
sull’attenti. Dodici ambulanze
dell’esercito portarono via i
malati e i più vecchi, mentre
molte donne in stato d’attesa
furono portate sulla carrozza
ospedale. Il resto fu accompagnato in una scura e vuota sala d’attesa.
Il treno sarebbe partito alle 21.30 e la stampa aveva solo trenta minuti per incontrare i dieci rifugiati
scelti. La conferenza fu aperta da Tozier che riportò tutti i dati statistici sul gruppo e spiegò che ad
Oswego il WRA sarebbe subentrato all’esercito e avrebbe amministrato l’Emergency Refugee
Shelter di Fort Ontario. Tra le cose che mise subito in evidenza ci fu quella della permanenza nel
campo fino alla fine della guerra, dopo di che i rifugiati sarebbero tornati nei loro paesi di origine,
così come sottoscritto prima della partenza in Italia, e non ci sarebbe stata nessuna deroga a quella
decisione.
Le domande si susseguirono. I giornalisti volevano sapere se sarebbero stati aperti altri luoghi per
portare negli Stati Uniti ulteriori rifugiati, ma le risposte furono secche e negative. Ruth Gruber non
rubò altro tempo e passò subito la parola a uno dei dieci rifugiati, il dott. Rafailo Margulis, che
cominciò a leggere alcune note che si era preparato. I giornalisti lo bloccarono, chiedendogli di
andare al sodo e soprattutto di raccontare cos’era successo in Yugoslavia, la sua terra d’origine:
“È difficile raccontarvi ciò che i tedeschi hanno fatto in Yugoslavia. Penso che, in proporzione, di tutti gli
Stati invasi da Hitler noi siamo tra quelli che hanno perso di più. Dei 70 mila ebrei della Yugoslavia,
finora meno di 4 mila sono sopravvissuti - la maggior parte di loro scappando dal Paese.
Nella mia città di Belgrado, c’erano 12 mila ebrei prima della guerra. Non appena i tedeschi sono
arrivati, hanno radunato tutti gli ebrei, li hanno messi nello zoo della città e poi li hanno portati fuori,
centinaia alla volta, e li hanno uccisi. Dei 12 mila, meno di novecento sono stati risparmiati.” 304
Le lancette corsero velocemente e già alla fine della seconda storia, quella di Serafina Poljakan e di
suo figlio Milan, il colonnello Shaw avvertì che il tempo per le interviste era scaduto. Fu concesso
appena qualche istante per sentire alcune battute della storia di Mathilda Nitsch e di Hans
Goldberger e la conferenza stampa fu dichiarata conclusa. I giornalisti inviati dal Daily News, dal
The New York Times, dal New York Herald Tribune e da altri giornali dovettero accontentarsi del
resoconto scritto fornito da Ruth Gruber. Subito dopo, il gruppo dei rifugiati salì a bordo del treno
pronto a partire.
304
Gruber, R., cit., p. 129. Per un riscontro storico delle parole del dott. Margulis si veda “Il campo della Fiera di
Belgrado” di Milovan Pisarri in http://www.unive.it/nqcontent.cfm?a_id=21713.
I rifugiati viaggiarono tutta la notte, in vagoni destinati agli spostamenti diurni, sul treno diretto
prima a Syracuse e poi, seguendo una diramazione verso nord, ad Oswego. Arrivarono a Fort
Ontario, dopo circa 640 km, alle 7.30 del mattino. Furono fatti scendere in una stazione
direttamente adiacente al forte.
Era il 5 agosto 1944. In quegli stessi giorni, in Europa, drammatici eventi si susseguivano.
Ventiquatto ore prima dell’arrivo dei rifugiati ad Oswego, la famiglia di Anne Frank fu tradita da un
informatore olandese e consegnata alla Gestapo che fece irruzione nel nascondiglio segreto.
Dall’altra parte dell’Europa, quello stesso 5 agosto, un gruppo di insorti polacchi occupava il campo
di Gęsiówka (Varsavia) liberando circa 348 persone, un atto di resistenza che avrebbero pagato a
caro prezzo.
Come detto, alcuni dei rifugiati non erano in buone condizioni di salute. Una donna aveva contratto
una strana febbre e prima di essere trasportata nella carrozza ospedale, venne condotta per ulteriori
accertamenti all’Halloran Hospital sulla Staten Island. Non fu l’unica: l’Oswego Palladium Times
riporta, nel corposo articolo a 4 colonne di pagina 12 del 5 agosto, la cifra di 27 persone trasportate
nella carrozza ospedale.
Nelle stesse ore in cui i sentimenti prevalenti dovevano essere quelli dettati dalla stanchezza e dal
disorientamento, ma soprattutto dalla speranza e dalla voglia di sapere quale sarebbe stato il proprio
destino, il direttore esecutivo, John W. Pehle, e altri membri del WRB decidevano che nessun
rifugiato avrebbe potuto oltrepassare i limiti della città di Oswego, se non per speciali cure mediche.
Articolo del 5 agosto 1944 pubblicato sull’Oswego Palladium Times. Fonte: http://fultonhistory.com/Fulton.html.
4. L’inganno e la speranza
“Un recinto! Un altro recinto!”, fu la prima esclamazione di un uomo, mentre il treno si avvicinava
al forte. In effetti, un reticolato provvisto di tre file di ferro spinato si presentava agli occhi dei
rifugiati come l’esatto contrario di quello che avevano sperato.
Uno di loro, Artur Hirt, corse da Ruth
Gruber gridando: “Come potete farci
questo? Nella libera America? È un altro
campo di concentramento!” 305
Il rifugiato Walter Greenberg, all’epoca
dei fatti un ragazzo di 11 anni, commentò
anni dopo: “Mi sentivo ingannato. Sentivo
che avrei dovuto essere libero. Voglio
dire, mi sentivo meravigliosamente. Avevo
dottori. Avevo le cure necessarie. Avevo
cibo. Andavo a scuola. Gli abitanti di
Oswego erano molto gentili. Che felicità
c’è nell’avere tutte le comodità se una
persona non è libera?” 306
Walter Greenberg
(Foto di Walter Greenberg)
http://www.scoutingmagazine.org/issues/0410/
d-wwas.html#sbara
Fort Ontario, Oswego, NY, 5 agosto 1944, AP Photo
(da http://www.state.gov/s/d/rm/rls/perfrpt/2005/html/56380.htm)
305
306
Gruber, R., cit., p. 133.
http://www.safehavenmuseum.com/story3.html
I rifugiati entrarono nel
campo attraversando un
cancello laterale posto
vicino alla diramazione
ferroviaria su cui il treno si
era fermato. Davanti a loro
si estendeva il campo con i
suoi 32 ettari.
Al centro la zona ovale per
le parate, su un lato
baracche bianche di legno
per i rifugiati, dall’altro la
zona dedicata al direttore e
al suo staff, caratterizzata
da case a schiera di
mattone rosso poste su una
piccola collina.
Appena
arrivati,
gli
ufficiali
dell’Intelligence militare, affiancati
da traduttori multilingue inviati da
agenzie private ebraiche e cristiane,
invitarono i rifugiati a disporsi in fila
per completare la loro registrazione e
la loro identificazione. Come afferma
Ruth Gruber:
“Erano stati controllati quando
furono selezionati per la prima volta
in Italia, per tenere fuori giornalisti e
spie. Furono selezionati di nuovo ad
Aversa, l’insano rifugio. Qualcuno si
era ritirato durante la selezione (uno
dei motivi per cui eravamo 982 e non
mille). Ora li stavano selezionando
una terza volta.” 307
Le richieste riguardavano:
- il nome,
- la nazionalità,
- il paese d’origine,
- il nome della sposa – se c’era,
- il nome dei bambini – se c’erano,
- la professione – se ne avevano una.
Fonte:
http://www.ushmm.org/research/library/bibliography/?content=fort_
ontario
http://fcit.usf.edu/holocaust/GALL31R/89380.htm
A molti fu chiesto se avevano informazioni
di prima mano, foto, documenti che
avrebbero potuto aiutare più velocemente
l’esercito nella conduzione della guerra.
Fonte:
http://usnatarchives.tumblr.com/post/30724242448/
refugees-registering-at-the-fort-ontario-emergency
307
Gruber. R., cit., p. 134.
Tutto avvenne sotto lo sguardo di giornalisti, fotografi e abitanti di Oswego la cui curiosità fu
irrefrenabile. Davanti ai loro occhi si presentavano persone sfiancate da anni di fuga e privazioni,
stanche per il viaggio in nave e per quello notturno in treno. Molti dei rifugiati apparivano smunti e
sciatti. La mancanza di scarpe era una delle cose che saltava principalmente agli occhi. Un gran
numero di bambini era scalzo e molti adulti indossavano dei semplici sandali. Certo, la stagione
aiutava, ma la scena dovette colpire gli abitanti che si adoperarono subito per aiutare i rifugiati
portando ciò che avevano in casa: vestiti, scarpe per bambini, perfino dolciumi. I cittadini di
Oswego lanciavano i loro
doni sopra il reticolato o
li passavano attraverso la
rete. Una bambina di
nove
anni,
Susan
Saunders, portò la sua
bambola
di
Shirley
Temple e la regalò ad una
bambina della sua stessa
età. Non mancò chi fece
passare all’interno del
campo anche sigarette e
birre.
Gli abitanti e i rifugiati
cominciarono a parlarsi, a
conoscersi, a raccontarsi
le proprie storie anche se
spesso
a
fatica,
utilizzando quel po’ di
lingua inglese che i
rifugiati
conoscevano.
Allo stesso modo i
bambini fecero amicizia e
cominciarono a giocare,
seppur divisi da un
reticolato.
Ciononostante non va
dimenticato che sul treno
che portò i rifugiati a Fort
Ontario c’era anche una
Fonte: http://benatlas.com/2009/08/life-%E2%80%93-the-portraits-of-fortdozzina
di
ispettori
ontario/
doganali. Subito dopo
l’arrivo,
cominciarono
un’ispezione approfondita dei bagagli a mano e più tardi di tutti gli altri bagagli. Non trovarono
nulla che violasse le leggi americane, anzi furono talmente colpiti che corsero a comprare un
corredo completo e giocattoli per un ragazzo di nove anni particolarmente malridotto.
A questo va aggiunto un ennesimo e accurato controllo degli ufficiali dell’Intelligence. Tutti gli
adulti furono interrogati, anche per rivelare, come detto, ciò che poteva essere utile all’esercito
americano, e dovettero lasciare le proprie impronte digitali.
Inoltre, venne instaurato un periodo di quarantena durante il quale a nessuno fu permesso di uscire
dal campo, mentre poteva entrarci solo chi era in possesso di un documento ufficiale rilasciato per
motivi legati alle attività del campo stesso. Da questo punto di vista, la pratica non era molto
diversa da quella utilizzata con gli altri tipi di immigrati e serviva ad evitare il diffondersi di
malattie ritenute particolarmente gravi.
Il controllo focalizzò la sua attenzione anche su tutta la posta in entrata e in uscita dal campo che fu
setacciata dall’Ufficio della Censura 308 . Tale procedura non fu applicata alle telefonate e dopo circa
due mesi la presa si allentò anche sulla posta.
Se si pensa che la notizia del loro arrivo fu ampiamente diffusa e che i nomi dei 982 rifugiati furono
pubblicati su vari giornali dando così la possibilità a parenti e amici residenti negli Stati Uniti di
conoscere la loro sorte, si può immaginare quanto fossero intasate le linee telefoniche fino a tarda
ora, per permettere a tutti di risentire voci amiche e di riallacciare i contatti.
Il pomeriggio successivo all’arrivo, domenica 6 agosto, fu programmata una cerimonia di
benvenuto a cui parteciparono Dillon S. Meyer, direttore del WRA dal 17 giugno 1942 309 ,
proveniente da Washington con alcuni ufficiali giovernativi, e il direttore del campo, Smart.
Dopo il rituale ascolto dell’inno americano, Meyer lesse un messaggio del Ministro degli Interni,
Harold L. Ickes:
“Spero che questo campo, che è un rifugio dall’intolleranza, dalla sofferenza e dalla persecuzione a cui
siete stati sottoposti, possa in qualche misura attenuare i vostri tragici ricordi. (…).
Spero con tutto il mio cuore che il tempo che passerete qui vi porti forza e fiducia con le quali
fronteggiare un futuro in cui la dignità delle singole persone sarà riconosciuta e assicurata in ogni
luogo.” 310
Seguirono i discorsi del sindaco di Oswego, Joseph T. McCaffrey, di Anne Laughlin del W.R.B.,
del reverendo A. S. Lowrie della Chiesa Battista dell’Ovest, di Rabbi Sidney Bialik, rabbino della
sinagoga Adath Israel di Oswego. I rifugiati si affidarono alle parole del dott. Juda Levi che ricordò
a tutti i presenti che tra i 982 approdati negli Stati Uniti non c’era nemmeno un rifugiati che non
avesse avuto dei parenti deportati e uccisi dai nazisti.
Va evidenziato il fatto che Meyer non si limitò a riportare i saluti di Ickes o ad introdurre in
generale le regole del campo, ma scese nei dettagli, su alcuni dei quali val la pena di soffermarsi.
All’interno di un discorso pieno di ringraziamenti e di sottolineature relative al grande lavoro svolto
dalla comunità di Oswego, dal WRA e così via, Meyer inserì frasi come questa:
“Fino a quando la guerra non sarà finita e voi non potrete ritornare nei vostri paesi di origine, Fort Ontario
sarà la vostra casa.” 311
Parole normali se non fosse ben presente l’equivoco su cui si basava l’accettazione del progetto di
Roosevelt da parte dei rifugiati e la firma del documento su cui ci si è già soffermati. Sembra che
308
Nei primi tre mesi arrivarono nel campo 28.000 lettere e 10.500 pacchi. Si veda Lowenstein, S. R., cit. p. 68.
Già il 29 agosto il direttore Smart scrisse a Meyer, direttore del WRA, protestando contro la censura. Si veda
Greenberg, Karen J., cit., p. 190.
309
Meyer subentrò alla guida del War Relocation Authority dopo le dimissioni di Milton S. Eisenhower (15.09.189902.05.1985) che si era occupato dell’agenzia dal momento della sua costituzione, l’8 marzo 1942, ma che si era opposto
all’incarcerazione di massa dei giapponesi americani sulla costa ovest, arrivando per l’appunto a dimettersi
dall’incarico.
310
Greenberg, Karen J., cit., p. 173. Si veda anche Gruber, R., cit., p. 143.
311
Greenberg, K. J., cit., p. 174.
ogni occasione fosse propensa per ricordare ai rifugiati che sarebbero stati solo ospiti temporanei e
che in nessun modo sarebbe stata data loro la possibilità di rimanere sul suolo americano.
Successivamente Meyer illustrò alcuni aspetti pratici.
La ferrea organizzazione americana si dovette comunque confrontare con richieste ed avvenimenti a
cui non erano preparati, o almeno che cozzavano contro le immutabili decisioni prese riguardo ai
rifugiati e a Fort Ontario. Ad esempio il Dipartimento di Guerra aveva indicato che i rifugiati
avrebbero dovuto essere registrati tenendo conto della Alien Registration Law. Il WRA girò la
questione al Ministero della Giustizia che però non aveva intenzione di percorrere questa strada,
dato che i rifugiati erano stati fatti entrare al di fuori delle quote e delle leggi sull’immigrazione.
Il termine “alien” era attribuibile ai cosiddetti POW, i prigionieri di guerra, ma i 982 rifugiati erano
realmente in un luogo sospeso, in una sorta di limbo, sottratti all’inferno della guerra ma non ancora
pronti per il “paradiso” americano. Erano ospiti di Roosevelt e questo doveva bastare. Avevano la
vita e una speranza, anche se erano senza documenti, senza uno Stato, senza una vera casa.
La soluzione statunitense alla crisi dei profughi in Italia cominciava a scricchiolare e fu solo l’inizio
di una serie di incomprensioni, di mancate decisioni, di rinvii che si protrassero ben oltre la fine
della seconda guerra mondiale.
Anche normali richieste come
quella di sposarsi non erano di
facile soluzione. In un caso, fu
permesso a Manya Hartmeyer
e ad Ernst Breuer di lasciare il
campo,
nonostante
la
quarantena,
affinchè
il
matrimonio potesse avere un
valore legale. Fu organizzata
una semplice cerimonia nella
città di Oswego e il tutto fu
registrato dagli uffici dello
Stato di New York. In effetti la
questione prese non poco
tempo e fu necessario passare
attraverso
una
procedura
studiata da più enti ed agenzie
per arrivare a celebrare il
matrimonio. La stessa Ruth Gruber dovette intercedere e seguire il caso, convinta, se ce ne fosse
stato bisogno, dalle parole che le rivolse Manya:
“Ero come una persona caduta in una grande caverna oscura, più profonda, sempre più profonda;
nessuno si curava di me, nessuno mi aiutava. Poi ci hanno portato sulla nave e una porta si è aperta, una
luce è filtrata e quella luce eri tu. Abbiamo guardato a te con così tanta speranza e felicità. Tu
rappresentavi l’America per noi – la terra che ci stava accogliendo e che ci stava proteggendo dal male.
È quella l’America in cui credo. Per favore, Ruthie. Ernst è mio padre, mia madre, mio fratello. (…).” 312
312
Gruber, R., cit., pp. 146-147. Sul matrimonio si veda tutto il cap. 16. La foto, scattata da Leni Sonnenfeld, è tratta da
Lowenstein, S. R., cit., p. 93. Da sinistra a destra Rabbi Sidney Bialik di Oswego, Gussie Gruber (la madre di Ruth),
Marianna Hartmeyer, Fradl Munz (la madre di Adam), Ernst Breuer, Rabbi Mosco Tzechoval.
Alla fine, dopo diversi giorni, il 17 agosto 1944, Manya ed Ernst si sposarono. Mentre Ernst
attendeva Manya sotto la chupa, lei veniva accompagnata dalla madre di Ruth Gruber e da Fradl, la
madre di Adam Munz. La cerimonia fu condotta dal rabbino di Oswego, Rabbi Bialik 313 .
I problemi si ripresentarono un mese e mezzo dopo. Il 29 settembre 1944, nacque il terzo figlio di
Victor e Lidia Franco, Miriam Mary. Si trattò della prima nascita all’interno del campo e non fu di
certo l’ultima. I genitori chiesero se, tenuto conto delle leggi statunitensi, la piccola Miriam dovesse
essere considerata americana a tutti gli effetti. Il WRA passò la questione al Dipartimento di
Giustizia, ma non arrivò nessuna risposta. Il WRA registrò questa, così come le altre nascite, ad
Albany e lo Stato di New York procurò comunque i certificati di nascita, ma senza che fosse giunta
(non sarebbe arrivata che diversi mesi dopo) nessuna delucidazione sulla cittadinanza dei nuovi
nati.
Un altro scoglio fu rappresentato dalla richiesta avanzata da alcuni rifugiati che avevano l’età per il
servizio di leva. Sin dai primi giorni ci si chiese se i maschi tra i 18 e i 65 anni 314 avrebbero dovuto
iscriversi nelle liste rispettando le leggi sul servizio selettivo. Bisognò aspettare il 6 novembre 1944
per ricevere un ordine che esentava i rifugiati fintanto che erano residenti a Fort Ontario. Ancora il
9 dicembre, il Ministero della guerra rispondeva ad Ickes, ministro degli Interni, evidenziando che
lo status dei rifugiati era incompatibile con la normativa e quindi non era possibile farli entrare nelle
fila dell’esercito. In questo modo, fu respinta la richiesta avanzata da 29 uomini (solo 5 erano sotto
la soglia dei 41 anni) e da 12 donne di entrare nelle forze armate come volontari. Tutte le donne
avrebbero potuto far parte del WAC (Women’s Army Corps), ma, così come per gli uomini, non
c’era nessun posto che potessero occupare nell’esercito, tenuto conto del loro status.
È interessante notare, al di là del fatto che i numeri possano corrispondere o meno in proporzione al
totale dei rifugiati presenti per ciascuna nazionalità, che gli Jugoslavi risultano il gruppo più
numeroso tra coloro che richiesero di entrare nell’esercito, con una notevole richiesta anche da parte
delle donne, probabilmente in considerazione del fatto che avevano vissuto l’aggressione più
ravvicinata nel tempo (nel 1941) da parte dei nazi-fascisti e che erano più vicini ai sentimenti e alle
posizioni del movimento di resistenza. Diversi di loro, inoltre, avevano parenti che combattevano
nelle fila della resistenza jugoslava.
Se per gli Jugoslavi viene mantenuta una proporzione sul totale degli iscritti come volontari per
l’esercito simile a quella che avevano sul totale della popolazione del campo e se per i polacchi e
per i cecoslovacchi è inferiore, anche se non di molto, salta all’occhio il forte interesse dei russi,
anche loro probabilmente vicini alle posizioni della propria madrepatria, e la notevole differenza di
partecipazione, rispetto appunto alle presenze nel campo, dei tedeschi e degli austiaci.
Va segnalato, a questo proposito, che il 93% dei tedeschi e degli austriaci presenti a Fort Ontario
era apolide, avendo subito l’esclusione e la perdita di tutti i diritti. Anche se si sta ragionando su
piccoli numeri e senza conoscere tutti i retroscena, forse tedeschi e austriaci si muovevano in una
sorta di “identità sospesa” che non aveva il potere di trasmettere quell’unità di intenti e quella
vicinanza al proprio popolo, tipica del gruppo jugoslavo.
313
Nello stesso periodo ci fu anche il matrimonio tra Margarete Frank e Paul Aufricht.
All’interno del campo c’erano 366 rifugiati uomini e 344 donne tra i 20 e i 64 anni. Di conseguenza volevano entrare
nell’esercito meno dell’8% tra i rifugiati e meno del 3,5% tra le rifugiate. Per ulteriori dati si rimanda alle tabelle 3 e 5
del capitolo 1 della Parte terza, La preparazione della missione.
314
Tabella 1 - Volontari di Fort Ontario per le forze armate americane. 315
Nome
Età
Maschi
Aladjem Avram
57
Albrecht Herbert
40
Antic Josip
57
Auerbach Jakob
44
Aufricht Paul
46
Beer Osias
45
Bogdanic Leo
52
Charasch Jakob
56
Cohen Richard
46
Drahline Abraham
42
Finger Oskar
46
Finzi Moso
38
Fischer Oskar
53
Flatau Ernst
59
Joachim Fritz
47
Kraus Alfred
57
Krauthamer Naftali
42
Maurer Leon
17
Merksamer Max
43
Merzer Jakob
40
Munz Pesach
46
Ouroussof Peter
45
Pillersdof Josef
67
Ruchvarger Abraham
32
Schwarzenberg Ziga
39
Singer Robert
68
Strichewsky Vladimir
52
Weiss Otto
48
Zalc Srul
48
315
Lowenstein, S. R., cit. pp. 196-197
Cittadinanza
Jugoslava
Apolide (austriaca)
Jugoslava
Jugoslava
Apolide (austriaca)
Polacca
Jugoslava
Polacca
Spagnola
Apolide (russa)
Cecoslovacca
Jugoslava
Jugoslava
Apolide (tedesca)
Apolide (austriaca)
Apolide (austriaca)
Apolide (russa)
Apolide (austriaca)
Apolide (austriaca)
Polacca
Polacca
Apolide (russa)
Apolide (austriaca)
Jugoslava
Jugoslava
Apolide (austriaca)
Apolide (russa)
Jugoslava
Polacca
Nome
Età
Cittadinanza
Femmine
Altaras Renee
24
Jugoslava
Auerbach Eva
41
Jugoslava
Aufricht Margarete
36
Apolide (tedesca)
Baruch Anita
22
Jugoslava
Baruch Jenny
18
Jugoslava
Hanf Lea
19
Jugoslava
Lederer Mira
20
Jugoslava
Milinovic Gordana
22
Jugoslava
Montiljo Relly
31
Jugoslava
Ruchvarger Zdenka 19
Jugoslava
Semjen Edith
21
Jugoslava
Weiss Edith
20
Jugoslava
Iscritti
Jugoslavi
Austriaci
Polacchi
Russi
Tedeschi
Cecoslovacchi
Spagnoli
TOTALE
41
20
8
5
4
2
1
1
29 M, 12 F
9 M, 11 F
8M
5M
4M
1 M, 1 F
1M
1M
In
questo
clima
di
restrizioni e divieti, fu
salutata con entusiasmo la
fine del periodo di
quarantena.
I cittadini di Oswego e altri
visitatori furono invitati al
forte. Quella che fu
chiamata open house,
permise di favorire la
conoscenza tra rifugiati e
abitanti del posto, ma
anche di far vedere da
vicino il modo in cui si
viveva all’interno del
campo,
onde
evitare
l’ulteriore diffusione di
dicerie sulla vita che lì si
conduceva, di certo non
improntata al lusso, ma
che, nell’ottica di qualche
antisemita,
invitava a
ricamare storie su storie,
come quella che diceva che
tutti i rifugiati avevano
delle vasche da bagno
private
o
che
ogni
appartamento aveva un
frigorifero
riccamente
fornito. Il tutto alle spalle
dei contribuenti.
L’organizzazione
della
“casa aperta” fu una
risposta a quelle voci ed
ebbe un certo successo, se si considera che i partecipanti furono 5 mila su una popolazione, come
quella di Oswego, che contava circa 22 mila abitanti.
Tra i visitatori, c’erano anche parenti e amici che, per la prima volta, riabbracciarono i rifugiati di
cui avevano solo potuto leggere le notizie sui giornali o che avevano sentito al telefono. D’altronde
l’articolo della rivista Life del 21 agosto 1944 aveva lasciato il segno, soprattutto grazie alle foto di
Alfred Eisenstaedt che scatenarono centinaia di lettori che presero carta e penna per scrivere
direttamente al campo, spesso, come nel caso di alcuni soldati, anche solo per esprimere la propria
felicità nel vedere la foto di Edith Semjen.
La notizia dell’arrivo dei rifugiati a Fort Ontario fu messa in evidenza all’interno di un numero dal
titolo “Landing alligators” che mostrava in copertina dei carri armati anfibi americani.
Il reportage si apriva a pagina 25 con una foto che ritraeva Eva Bass e suo figlio. Subito sotto
l’articolo recitava:
“Una volta la signora Eva Bass era una cantante in un nightclub di Parigi. Prima della guerra viveva
felicemente a Milano con suo marito e suo figlio. Quando arrivò la guerra lei e suo figlio furono gettati in
prigione perché erano ebrei svizzeri. Più tardi furono mandati in un campo di concentramento e poi a
Potenza, in ‘libero internamento’. Lì diede alla luce sua figlia. Quando gli Alleati sbarcarono in Italia, lei
si mise in viaggio con i suoi due bambini, camminando per oltre 60 km attraverso le linee nemiche. (…).
A volte per giorni non avevano cibo. Il 3 agosto Eva Bass e altri 982 rifugiati provenienti da tutta Europa,
sono arrivati negli USA, un eterogeneo malandato gruppo di uomini, donne e bambini di 17 paesi diversi.
(…). Rimarranno a Fort Ontario per la durata della guerra (…) sotto la supervisione del WRA. Dato che
sono entrati negli USA al di fuori delle quote per gli immigrati, dovranno ripartire quando la guerra sarà
finita.” 316
Il giorno della “casa aperta”, il 1° settembre 1944, segnò l’inizio di un nuovo periodo: i rifugiati
potevano ricevere visite o andare in paese per fare delle compere, anche se sempre dopo aver
ricevuto un permesso. Sicuramente non erano stati risolti tutti i problemi, ma si usciva da una fase
di emergenza per entrare, se così si può dire, nella “normale” amministrazione di un campo di
rifugiati 317 .
316
Life, Vol. 17, n° 8, August 21, 1944, p. 25. Si veda
http://books.google.it/books?id=9lAEAAAAMBAJ&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad=0#v
=onepage&q&f=false.
317
Nell’immagine, tratta da Greenberg, K. J., cit., p. 186, è riportata una pianta del campo in cui si vedono, oltre al
forte, gli edifici che ospitavano la sala per le esposizioni, quella per il tempo libero, per la biblioteca e così via.
Le altre pagine dedicate ai rifugiati tratte dal numero del 21 agosto 1944 di Life.
In quei primi giorni di settembre, mentre i rifugiati preparavano un programma di massima per
accogliere i visitatori 318 , Smart indirizzò a questi ultimi un messaggio 319 , dando loro il benvenuto ed
evidenziando per l’ennesima volta che i rifugiati si trovavano negli Stati Uniti al di fuori delle leggi
sull’immigrazione e che sarebbero stati rimpatriati alla fine della guerra. Dopo aver ricordato i
limiti e le restrizioni proprie del campo, Smart si soffermò in una serie di raccomandazioni e
consigli, tra i quali risalta il punto 5, in cui chiede espressamente di non porre domande sulla
possibilità da parte dei residenti di uscire da Oswego o di andare a vivere con i parenti. Si trattava
sicuramente di questioni sulle quali Smart non aveva nessun potere e su cui non avrebbe potuto che
opporre il suo rifiuto, in base alla politica adottata dal governo e dal WRA.
Il caso del signor Hoefler è emblematico. Chiese di poter risiedere fuori dal campo, dato che
avrebbe potuto vivere con alcuni familiari che non vedeva da più di cinque anni. Meyer rispose
ufficialmente ad Hoefler, richiamando la direttiva di Roosevelt ed in particolare il fatto che i
rifugiati dovevano rimanere a Fort Ontario per tutta la durata della guerra. Il WRA non ebbe
ripensamenti nemmeno davanti alla possibilità che qualcuno potesse prendersi cura dei rifugiati nel
più breve tempo possibile. 320
318
Nell’immagine il programma della visita del 3 settembre 1944. In Greenberg, Karen J., cit., p. 194.
Ivi, p. 193.
320
Ivi, p. 192.
319
5. La vita interna al campo
Il campo fu affidato al War Relocation Authority (WRA) diretto da Dillon Meyer 321 . Circa un mese
prima dell’apertura di Fort Ontario, Meyer chiamò Joseph H. Smart 322 e gli affidò l’incarico di
dirigere il campo. In quel periodo, Smart stava lavorando a Lima come capo ufficiale del
programma agricolo dell’Ufficio Affari Interamericani. Ad affiancarlo fu chiamato Edward B.
Marks con il compito di coordinare le attività del campo e di curare le relazioni tra il direttore del
WRA e il direttore di Fort Ontario. Marks conosceva molto bene l’ambiente del WRA dato che vi
aveva lavorato sin dalla nascita dell’Authority. Inoltre aveva fatto esperienze per tre anni in una
delle agenzie nazionali private, proprio nell’assistenza di rifugiati.
Il lavoro di preparazione ed organizzazione del forte fu condotto dal WRA anche in accordo con il
Dipartimento di Guerra ed in particolare con il capo dello Staff for Service Commands di
Washington. Il compito da portare a termine non era dei più semplici: bisognava inventariare tutto
ciò che c’era al forte, coordinare gli spostamenti del personale dell’esercito ancora presente a Fort
Ontario e preparare tutto l’occorrente per rendere fruibile per dei rifugiati civili ciò che prima era un
campo dell’esercito. Il WRA subentrò nel controllo del forte il 28 luglio 1944.
Nel frattempo il WRA e il Second Service Command stavano lavorando sul trasporto dei rifugiati
ad Oswego e sui rapporti con la stampa.
La macchina dell’organizzazione non poteva certo dimenticare di coinvolgere l’area di Oswego.
Così, accanto allo staff del WRA proveniente da Washington, furono impiegati diversi abitanti di
Oswego per il mantenimento del campo, per la protezione antincendio, per il lavoro nelle cucine,
nell’ospedale, nei magazzini, ecc. L’idea era di affidare questi lavori ad esterni solo nella fase
iniziale della vita nel campo, per poi dare direttamente ai rifugiati il compito di farlo funzionare al
meglio. Tra le figure lavorative ovviamente non mancarono gli interpreti, presenze indispensabili in
un luogo in cui convivevano persone di 18 nazionalità diverse alle prese con il regolamento interno
del campo.
5.1 Aspetti organizzativi
5.1.1 La sicurezza
Sin dall’inizio il WRA, al fine di garantire la sicurezza interna al campo, mostrò l’intenzione di
utilizzare del personale civile piuttosto che quello dell’esercito. Ciò trovò d’accordo il War
Department, a patto che le misure fossero adeguate. Lo stesso Dipartimento si adoperò per
l’ispezione iniziale del forte subito dopo la sua apertura e, in diverse occasioni, anche in seguito.
I compiti del personale di sicurezza interna non furono pienamente definiti se non dopo l’arrivo dei
rifugiati. Ci si rese conto, dopo un periodo di osservazione, che non c’era nessun problema relativo
ad un’eventuale fuga dei profughi. Pertanto, il lavoro del personale di sicurezza interna consisteva
principalmente nel controllo sia dei residenti sia dei visitatori che entravano e uscivano dal forte, nel
pattugliamento atto ad evitare la perdita e la distruzione dei beni presenti nel campo, nel mantenere
l’ordine e nel far rispettare le regole.
321
In una lettera del 4 luglio 1944, John J. McCloy, viceministro della guerra, descrisse e spiegò al viceministro
dell’interno, Abe Fortas, il passaggio del forte al WRA e le procedure iniziali per l’organizzazione del campo, per la
sicurezza, per la registrazione dei rifugiati e così via. Si veda Greenberg, Karen J., editor. Columbia University Library,
New York: The Varian Fry Papers: The Fort Ontario Emergency Refugee Shelter Papers. New York: Garland, 1990.
Volume 5 della serie Archives of the Holocaust: An International Collection of Selected Documents, pp. 161-163.
Ancor più importante il documento del 2 agosto 1944 riportante le “politiche preliminari per l’Emergency Refugee
Shelter”. Greenberg, Karen J., cit., pp. 164-170. In questo capitolo ci si soffermerà sui singoli aspetti richiamati da quel
documento.
322
Si veda la nota 197.
Il personale si occupò, inoltre, del servizio di emergenza, scortando i pazienti da e per l’ospedale,
smistando i telegrammi e le chiamate telefoniche a lunga distanza.
Una volta concluso il periodo di quarantena, fu istituito un sistema ad hoc per i residenti del forte
che uscivano dal campo per visitare la città di Oswego. All’inizio si stabilì che non più di un certo
numero di persone poteva avere il permesso di uscire. I residenti erano tenuti ad indicare i motivi
della loro uscita, non era consentito loro andare oltre i confini di Oswego e dovevano rientrare entro
un tempo stabilito 323 . Tutto ciò non poteva non ricordare le modalità tipiche dell’internamento
libero nei comuni italiani nei primi anni di guerra.
Con il passare dei giorni e con lo scemare della curiosità nei confronti dei dintorni di Fort Ontario,
le richieste per uscire dal campo diminuirono e si decise che non sarebbe stata più necessaria
nessuna particolare restrizione. Tuttavia, di solito, ai profughi veniva concesso un permesso per un
periodo massimo di sei ore ed il rientro doveva comunque avvenire prima di mezzanotte.
Inizialmente il coprifuoco era stato fissato alle 23.30, ma poi fu prorogato di 15 minuti per dare il
tempo ai profughi di partecipare all’ultimo spettacolo del cinema locale. Per i bambini in età scolare
furono rilasciati dei pass speciali per le ore diurne.
È interessante notare come molte delle politiche adottate nell’organizzazione del campo, frutto di
precedenti esperienze in altri campi, corrispondessero ai consigli sulla gestione dei rifugiati ricevuti
da Edward Marks da parte di Paul Tremblay dell’Ambasciata canadese 324 . Secondo quel documento
gli internati avrebbero dovuto essere tenuti in un’area ben definita senza ricevere permessi di uscita;
le coppie sposate avrebbero dovuto vivere insieme; sarebbe stato necessario tenere impegnate le
loro menti per evitare che pensassero alla loro situazione di rifugiati e ciò doveva essere
accompagnato da una disciplina ferrea; la posta andava censurata in considerazione del fatto che
sarebbero stati liberi di scrivere a chiunque, senatori e membri del Congresso compresi; le visiste
andavano fissate solo su appuntamento e solo per brevi periodi di tempo (evitando di far entrare
quei visitatori che, pur pieni di buone intenzioni, mancavano di conoscenze pratiche relative
all’organizzazione del campo); ogni problema pratico doveva essere risolvibile all’interno del
campo stesso; si poteva favorire lo studio e la frequenza delle scuole così come la visita di religiosi
(da tenere comunque sotto controllo); sarebbe stato desiderabile organizzare degli intrattenimenti
una o due volte alla settimana per evitare la monotonia della vita nel campo, prestando attenzione
alle necessità degli anziani che avrebbero avuto bisogno di zone più tranquille per leggere e
scrivere; ovviamente andavano fissate delle regole severe sulle uscite dal campo senza creare
privilegi; avrebbe dovuto essere fornito un ragionevole numero di informazioni provenienti
dall’esterno (tramite giornali e radio), ma stando attenti all’uso di radio ad onde corte; sarebbe stato
sicuramente utile organizzare una libreria ben fornita.
5.1.2 Il governo della comunità
Ciascuna delle nazionalità presenti a Fort Ontario aveva un’organizzazione che si occupava dei suoi
specifici interessi, ma il WRA voleva incoraggiare la nascita di un Consiglio che potesse
rappresentare trasversalmente tutti i gruppi.
323
In Greenberg, Karen J., cit., p. 187 è visibile il form del WRA che recitava: “This is to certify that ______________,
a resident of the Fort Ontario Emergency Refugee Shelter whose signature appears below, is authorized to visit the
town of Oswego between
the hours of _____________, _______________, 1944, for the purpose of
_________________.” Seguivano gli spazi per le firme dei residenti e del direttore.
324
Ivi, pp. 178-179.
Già durante il viaggio, sulla Henry Gibbins, un Comitato, in rappresentanza dei vari gruppi di
rifugiati, lavorò al fine di mantenere l’ordine a bordo. Nelle prime settimane a Fort Ontario, fu
costituito un Consiglio consultivo temporaneo sulla base di un caucus dei gruppi di nazionalità. Le
modalità di rappresentanza all’interno del Consiglio non trovarono il pieno appoggio di tutti i
gruppi, visto che, ad esempio, gli jugoslavi chiedevano una rappresentanza maggiore perchè
costituivano il maggior numero di persone presenti nel forte. Alla fine fu raggiunto un accordo in
base al quale il Consiglio risultò composto da 10 persone, 2 “seggi” ciascuno per gli jugoslavi, gli
austriaci, i polacchi e i tedeschi, e 2 rappresentanti per tutti gli altri gruppi di “minoranza”, come
quello cecoslovacco, quello russo e così via 325 .
Non mancarono gli attriti per alcune considerazioni di carattere religioso, in particolare per le
divisioni tra gli ebrei ortodossi e quelli che non lo erano. Gli ortodossi tentarono di avere una
propria rappresentanza, ma non ci riuscirono, anche perché Smart si rendeva conto che si sarebbe
creata una nuova frattura rispetto al fatto che tutti gli altri rifugiati erano rappresentati solo sulla
base della nazionalità. Alla fine molti degli ortodossi decisero di non votare per nessuno dei
candidati.
Il Consiglio lavorò con l’amministrazione per l’attuazione del piano di organizzazione del forte. La
maggior parte dei suoi membri fu nominata come presidente delle sottocommissioni dedicate
all’istruzione, al lavoro, ai servizi sociali, al tempo libero e ad altre attività simili.
Nelle fasi iniziali del progetto, tali sottocommissioni furono di notevole aiuto per poter raccogliere
ed esprimere i desideri e le necessità dei residenti, e nel trasmettere e spiegare a questi ultimi le
politiche adottate dal WRA. Ad esempio, il sottocomitato per l’educazione per tutta la durata del
progetto ebbe un’importanza vitale, soprattutto nella pianificazione delle attività delle scuole per i
bambini e per gli adulti.
Altri sottocomitati ebbero vita più difficile, come quello che si occupava delle entrate e delle uscite
da Fort Ontario, probabilmente perché si ritrovò ad operare in un settore che riguardava
l’amministrazione del campo e quindi non riusciva ad incidere più di tanto sulle decisioni prese
dagli americani. Allo stesso modo il sottocomitato per l’occupazione, e successivamente tutto il
Consiglio, non riuscì a rispondere alle reali necessità dei rifugiati e a trovare una soluzione
praticabile per i problemi legati al lavoro.
Nell’ottobre del 1944, il Consiglio provvisorio fu sostituito da un nuovo Consiglio consultivo
permanente che, con l’aiuto di sottocommissioni, si sforzò di realizzare le condizioni per far vivere
una comunità in modo organizzato, pur tenendo conto dell’eterogeneità e delle differenze presenti
nel gruppo dei rifugiati.
325
Nel Weekly Report (1-7 ottobre 1944), inviato da Smart a Meyer, vengono riportate le modalità di voto e i risultati
relativi al Consiglio permanente. “Durante la settimana, ciascuno dei cinque gruppi rappresentanti le diverse nazionalità
tenne delle primarie eleggendo cinque candidati che avrebbero corso per il Consiglio permanente. Furono eletti otto
membri del Consiglio temporaneo: 1 jugoslavo, 1 austriaco, 3 polacchi, 1 tedesco e 2 per le minoranze. Sotto la
direzione di una commissione di cinque membri nominata dal Consiglio temporaneo, domenica 8 ottobre fu eletto il
Consiglio permanente. Le votazioni, a scrutinio segreto, ebbe luogo nell’edificio del Consiglio dalle 7:30 a
mezzogiorno. I voti furono espressi da 557 dei 772 residenti dai 18 anni in su. Agli elettori fu spiegato che potevano
esprimere il voto per due persone per ciascuna dei cinque gruppi. Quattro degli otto membri del Consiglio temporaneo
furono eletti: 1 jugoslavo, 1 austriaco, 1 polacco e 1 per le minoranze.” Ecco i risultati delle elezioni:
1. Gottlieb Mendel (austriaco – 434 voti); 2. Ehrenstamm Moritz (tedesco – 426); 3. Wittenbert Erich (ceco – 368); 4.
Dodeles Josef (polacco – 319); 5. Pick Josef (ceco – 302); 6. Goldberg Oskar (austriaco – 297); 7. Baum Filip
(jugoslavo – 289); 8. Fros Ferdinand (jugoslavo – 260); 9. Willner Israel (polacco – 252); 10. Landsberg Paul (tedesco –
250). I numeri 1, 3, 4 e 7 erano già membri del Consiglio temporaneo. In Greenberg, Karen J., cit., p. 182.
Il Consiglio fu eletto con una procedura complessa che prendeva in considerazione il sistema
proporzionale. La differenza sostanziale, rispetto all’elezione del Consiglio temporaneo, risiedeva
nel fatto che questa volta ogni rifugiato votava non solo per i rappresentanti in possesso della sua
stessa cittadinanza, ma per quelli di tutte le nazionalità.
Durante l’autunno, il Consiglio si riunì con il direttore di Fort Ontario, ma nonostante il metodo
democratico con il quale i suoi membri erano stati selezionati, non fu all’altezza delle aspettative.
Meno di due mesi dopo l’inizio della sua attività, il Consiglio entrò in crisi proprio per la questione
del lavoro. L’amministrazione non era stata in grado di reclutare un sufficiente numero di lavoratori
per alcune delle operazioni più difficili relative alla manutenzione del campo. La questione fu
sottoposta al Consiglio, che cercò, attraverso la sottocommissione per l’occupazione, di interessarsi
del reclutamento. Il direttore del campo aveva indicato al Consiglio che, se non ci fosse stato un
piano di lavoro soddisfacente, sarebbe stato necessario, da parte dell’amministrazione, ricorrere al
lavoro obbligatorio. Il Consiglio fece diversi tentativi per sviluppare un piano grazie al quale le
persone impegnate nei compiti più gravosi, avrebbero fatto parte di un gruppo più ampio, costituito
da altri residenti del campo, con cui avrebbero condiviso quegli stessi incarichi, in modo tale da
garantire una migliore ripartizione della mole di lavoro.
Si arrivò a convocare un incontro per spiegare l’idea all’intera comunità, ma, dato che la leadership
stessa del Consiglio non era riconosciuta da molti dei rifugiati, e dopo che la discussione fu
caratterizzata da continue interruzioni, la riunione si sciolse senza l’adozione di un piano. Il giorno
seguente, il 6 dicembre 1944, il Consiglio rassegnò le proprie dimissioni al direttore.
Presto i residenti del campo adottarono un loro piano che, in un modo o in un altro, rimase in vigore
per tutta la durata della loro presenza a Fort Ontario.
Oltre al Consiglio consultivo, il direttore sentì il bisogno di essere affiancato da un altro gruppo di
residenti affinchè diventasse il suo canale di comunicazione con i rifugiati. Si ritenne opportuno
disporre di un rappresentante o “house leader” per ogni edificio 326 , seguendo il modello italiano,
dove un “capo” aveva funzioni simili per ogni baracca, come nel caso di Ferramonti di Tarsia. Una
volta selezionati gli house leader, questi si incontrarono di frequente con i membri del personale
amministrativo per discutere e pianificare la distribuzione e l’uso delle provviste e per avere scambi
di opinione in merito al lavoro, alla salute, all’igiene e a tutte le fasi della vita del campo.
Col tempo, fu nominata una persona che potesse rappresentare tutti i responsabili delle baracche.
Nel complesso questo sistema funzionò molto meglio del Consiglio e fu utilizzato ininterrottamente
per tutto il periodo in cui fu tenuto aperto il campo.
5.1.3 Il lavoro
Come visto, il problema del lavoro fu uno dei più discussi e quello che sicuramente creò maggiori
divisioni tra i rifugiati, a tal punto da mandare in crisi il Consiglio consultivo. Durante il periodo
inziale, mentre i rifugiati organizzavano le prime fasi della loro nuova vita negli Stati Uniti, seppur
confinati in un campo, la maggior parte del lavoro intorno a Fort Ontario era svolto dagli abitanti di
Oswego che venivano temporaneamente impiegati per lo scopo.
326
In realtà, la richiesta di nominare degli house leader risaliva all’11 agosto 1944. In un documento del WRA si
chiedeva la selezione di 30 rappresentanti, uno per ogni baracca destinata alle famiglie, a cui andavano aggiunti altri 4,
espressione di ciascuna delle grandi camerate presenti nella costruzione D, a cui furono assegnate le persone sole. Si
veda Greenberg, Karen J., cit., p. 177.
Le difficoltà si presentarono quando venne il momento di cambiare questo sistema iniziale e si
passò a reclutare ed impiegare direttamente i rifugiati.
Nel giro di poche settimane il WRA stabilì che, al di là dei servizi essenziali forniti dal governo, era
necessario garantire un salario per il lavoro svolto. Il livello dei salari fu fissato a 18 $ al mese per
tutti i tipi di lavoratori, senza distinzione tra i professionisti, come i medici, e coloro che svolgevano
incarichi manuali. Il pagamento era assicurato solo per i lavori ritenuti essenziali e strettamente
connessi con la manutenzione e la gestione del campo e che spesso erano i più duri. Rientravano in
questo novero il lavoro in ospedale, nei magazzini, nelle sale da pranzo, negli uffici e così via.
In un bollettino speciale del 28 ottobre 1944 327 , il direttore, Joseph Smart, rendendo note le nuove
regole per il lavoto svolto fuori dal campo, precisò che all’interno del forte i lavori fisici più pesanti
erano stati divisi in tre categorie:
- primo gruppo: coloro che si occupavano di trasportare o spostare il carbone e la neve;
- secondo gruppo: cuochi e fochisti nelle cucine, magazzinieri, camionisti;
- terzo gruppo: artigiani, lavatori di piatti, aiutanti in cucina e altri addetti a lavori fisici.
I rifugiati potevano essere assegnati anche a lavori legati all’ambito educativo, ricreativo, religioso
o ad altre attività ritenute non essenziali. In quel caso avrebbero potuto ottenere un compenso dalle
agenzie private ad un tasso non superiore a quello dato da parte del governo agli altri rifugiati
impiegati. Le agenzie private non pagavano lo stipendio intero di 18 $, ma aggiungevano la somma
di 9,5 $ all’indennità di 8,5 $ riconosciuta dal governo a tutti coloro che non lavoravano e che
avevano più di 18 anni (agli adolescenti il governo riconsceva 7 $ al mese e ai bambini fino agli 11
anni 4 $).
Lo sforzo maggiore fu quello di garantire un lavoro a tutti i residenti abili a tale scopo. Due
rappresentanti del WRA visitarono il campo dal 30 agosto al 10 settembre 1944 per analizzare la
situazione. Alla fine fu elaborato un organigramma, trasmesso a Fort Ontario il 22 settembre, che
prevedeva un tetto massimo di 211 posti di lavoro. Entro e non oltre il 1° dicembre andavano forniti
i dati relativi ai lavoratori che avrebbero ricoperto tali incarichi. Alcuni dei rifugiati furono
impiegati a tempo parziale, ma la maggior parte lavorò regolarmente a tempo pieno.
Le persone non abili al lavoro potevano ricevere le sovvenzioni previste dal governo solo dietro
presentazione di un certificato di salute o di altro tipo che attestasse l’inabilità per motivi di salute o
familiari.
All’interno di questa organizzazione non era consentito lavorare per i privati sia all’interno che
all’esterno del campo fino a quando i profughi sarebbero rimasti a Fort Ontario e fossero stati
quindi sostenuti dal governo.
L’unica eccezione alla politica lavorativa descritta si ebbe nell’autunno del 1944, quando il
Ministero dell’Agricoltura chiese urgentemente al WRA di concedere ai residenti del campo, abili
al lavoro, di salvare un raccolto di frutta nella regione, che rischiava di marcire a causa della
mancanza di manodopera adeguata. Il War Refugee Board diede il suo assenso. Si trattava di un
lavoro pagato 50 cent. all’ora. Duecentocinquanta rifugiati chiesero di essere assunti, ma i posti
erano solo cinquanta 328 . Smart delegò la selezione al Consiglio consultivo. Ai rifugiati scelti fu
rilasciato un permesso a giornata per lavoro agricolo e per un periodo di diverse settimane. In un
327
Greenberg, Karen J., cit., p. 195.
In un rapporto settimanale del direttore, inserito in Greenberg, K., cit., p. 183, si riporta che nella settimana dall’1 al
7 ottobre 1944 lasciarono il campo 17 rifugiati il lunedì e il martedì, 28 il mercoledì, 32 il giovedì, 14 il venerdì, 33 il
sabato.
328
incontro tenutosi il 22 settembre, i lavoratori e quelli che aspiravano a diventarlo, si espressero
tramite un voto (300 per il sì e 7 per il no) sul fatto che i lavoratori selezionati per il lavoro fuori
dal campo avrebbero dovuto donare il 20% dei loro guadagni ad un fondo generale della comunità
che avrebbe potuto essere utilizzato per fornire compensi aggiuntivi per quei rifugiati che
svolgevano compiti essenziali nel campo e venivano pagati con i regolari 18 $ al mese.
Joseph Smart, nel bollettino richiamato poc’anzi, chiarì che era preferibile affidare i lavori
all’esterno del campo a quei lavoratori che rientravano nelle tre categorie in cui erano stati divisi i
lavori più pesanti. Per la precisione indicava che potevano lavorare fuori, solo per una settimana (48
ore) i lavoratori del primo gruppo che avessero svolto lavori pesanti nel rifugio per due settimane
(96 ore), quelli del secondo gruppo nel caso in cui fossero stati impiegati per tre settimane (144 ore)
nel campo, ed infine coloro che, inclusi nel terzo gruppo, avessero lavorato per 192 ore (quattro
settimane).
La possibilità di lavorare fuori dal campo allettavano i rifugiati che avrebbero potuto sentirsi più
liberi ed autonomi, quasi parte delle comunità vicino alle quali vivevano. Tra l’altro le richieste di
lavoro, che arrivarono sulle scrivanie del WRA e del WRB, non mancavano. Ad esempio, un
costruttore di pezzi di aerei, la cui attività si trovava a sole quaranta miglia da Oswego, aveva
urgente bisogno di circa cento operai per un lavoro che poteva essere svolto anche da persone
disabili. In quel caso la compagnia offrì addirittura di costruire delle case per gli operai o, in
alternativa, di occuparsi del loro trasporto da e per Fort Ontario.
Più in generale la mancanza di manodopera si fece sentire pesantemente, soprattutto nel settore
dell’agricoltura. Davanti alle richieste che giungevano dall’esterno, il WRA e il WRB avevano
posizioni divergenti. Il primo considerava positivamente l’impiego dei rifugiati perché vedeva in
tale possibilità un modo per favorire la loro integrazione e per velocizzare la fine dell’internamento.
D’altro canto il WRB pensava che in questo modo si minassero i propri sforzi per ottenere ulteriori
campi profughi. Quindi, per non creare attriti con la popolazione locale, si limitò a concedere il
permesso ai rifugiati che avrebbero lavorato nei frutteti.
Alla fine lo stesso Dillon Meyer, direttore del WRA, in una lettera a Smart del 25 novembre
1944 329 , espresse la sua comprensione per l’idea del lavoro fuori dal campo 330 , anche perché avrebbe
portato più guadagni ai rifugiati e probabilmente avrebbe costituito un incentivo ad accettare lavori
pesanti all’interno del forte, visto che i lavori esterni erano riservati ai lavoratori impegnati in tali
mansioni. D’altro canto, Meyer sottolineava che i permessi concessi si riferivano solo a situazioni di
emergenza legate alle attività agricole e che accordare ulteriori permessi avrebbe significato creare
un precedente e spianare la strada per altre richieste, oltre a comportare una serie di problemi legati
agli eventuali rimborsi a favore del governo da parte di coloro che riuscivano a mantenersi da soli.
D’altronde anche i datori di lavoro non fecero particolari pressioni sul WRB dal momento che il
numero dei POW continuava a crescere e quindi rispondeva perfettamente alle proprie esigenze.
Ancora una volta un paradosso: negli Stati Uniti entrarono migliaia di prigionieri di guerra e ciò fu
un successo da un punto di vista militare, ma anche per le richieste provenienti dal mondo del
lavoro, nello stesso periodo in cui sembrava impossibile poter soccorrere i rifugiati. Quando i 982
della Gibbins arrivarono negli USA, sul suolo americano erano già presenti 355 mila prigionieri di
guerra. In totale arrivarono 425 mila POW, di cui 372 mila tedeschi 331 .
Paradosso nel paradosso, nella zona di Oswego e quindi non lontano da Fort Ontario, c’erano due
campi base e undici strutture satellite che ospitavano 4.500 prigionieri di guerra tedeschi. Non solo
329
In Greenberg, Karen J., cit., p. 197.
In quel caso specifico la risposta di Meyer si riferiva alla richiesta di una ditta che si occupava delle fave di cacao.
331
Lowenstein, S. R., p. 75.
330
lavoravano nei dintorni, per la manutenzione delle strade e nei campi, ma furono proprio alcuni
tedeschi a lavorare a Fort Ontario in vista dell’arrivo dei rifugiati. Si pensi che al loro arrivo al forte,
i prigionieri non avevano ancora finito il lavoro.
Un piccolo episodio può spiegare i sentimenti dei rifugiati davanti ad una situazione di questo tipo.
Come scrisse Walter Arnstein alla Lowenstein, un giorno, nei dintorni del campo, un gruppo di
ragazzi, tra cui lui stesso, incontrò alcuni tedeschi, “il male incarnato, il nazismo stesso, proprio nel
nostro campo”. I ragazzi cominciarono ad urlare in tedesco: “Siamo ebrei… Ci capite, voi maiali?
Ebrei! Non ci avete presi tutti! Siamo ebrei! Ebrei!” Uno dei tedeschi fece un passo in avanti e si
produsse in un inchino ironico e provocatorio, accompagnato dalle risate degli altri prigionieri, ma
prima che ci fosse la reazione dei ragazzi, il supervisore dei prigionieri di guerra intervenne per
mettere fine alla situazione. 332
Paradosso elevato all’ennesima potenza: lo status dei prigionieri di guerra tedeschi, la cui presenza
apparve decisamente incomprensibile per i rifugiati, era previsto e riconosciuto dalle leggi
americane e internazionali, mentre nessuna norma riconosceva la protezione dei rifugiati.
La verità è che i POW erano decisamente convenienti per il governo americano che aveva così a
disposizione una manodopera numerosa e poco costosa, visto che l’indennità che veniva data loro
era inferiore a quella assicurata ai rifugiati di Fort Ontario. Secondo i calcoli governativi, il
mantenimento di Fort Ontario costava cento milioni di dollari, un quarto in più di quanto costasse
mantenere i prigionieri di guerra 333 .
Nell’inverno ’44-’45, il periodo più difficile a causa di una serie di vicende negative e tragiche, il
problema del lavoro divenne uno degli aspetti che creò incomprensioni e tensioni tra i rifugiati, ma
anche tra loro e l’amministrazione, nonostante Smart tentasse sempre di mediare e di avere un
approccio meno rigido rispetto al WRA.
Sicuramente il fattore tempo giocava un ruolo fondamentale ed infatti fu necessario attendere
qualche mese, prima che le normali attività di manutenzione e di funzionamento del campo
andassero a regime. Inoltre, se le difficoltà nel reclutamento di un numero sufficiente di lavoratori si
erano manifestate in condizioni climatiche favorevoli, si può immaginare cosa potesse significare
rispondere a tutte le necessità della vita di un campo profughi quando arrivò la stagione invernale.
Il consumo di carburante cominciò a salire considerevolmente e ciò richiedeva grandi quantità di
carbone che doveva essere scaricato dai carri merci e trasportato ai vari edifici. Contestualmente
era necessario rimuovere le grandi quantità di ceneri che si accumulavano, lavoro che andava ad
aggiungersi a quello relativo alla presenza della neve e degli enormi mucchi che venivano a crearsi
dopo averla spalata e che impedivano i lavori quotidiani, come poteva essere quello dello
smaltimento dei rifiuti. Durante quello stesso inverno si rese anche necessario assumere diversi
lavoratori a tempo determinato per la riparazione dei danni causati dai violenti temporali.
All’interno del campo mancava un numero sufficiente di uomini in grado di svolgere un lavoro
pesante in caso di maltempo. A ciò si aggiungeva il fatto che la maggior parte degli uomini con una
buona capacità di resistenza fisica aveva maturato esperienze lavorative in settori completamenti
diversi da quelli richiesti nel campo. Secondo il punto di vista della dirigenza del forte, alcuni dei
rifugiati avevano una concezione “europea” del lavoro fisico, visto come umiliante, e questo giocò
un ruolo importante nella riluttanza con cui parte dei rifugiati si approcciò ai compiti più pesanti.
L’amministrazione tentò di risolvere la questione attraverso una serie di riunioni con il Consiglio
consultivo, con gli house leaders, con i rappresentanti delle varie nazionalità e con un Comitato per
332
333
Ivi, p. 76.
Ivi, p. 77.
il lavoro. In un primo momento, l’accento fu posto sul tentativo di assumere lavoratori a tempo
pieno per i lavori più urgenti. Quando ciò si rivelò impossibile, l’amministrazione propose un piano
di lavoro che prevedeva la condivisione dei lavori più pesanti sulla base di una rotazione dei
lavoratori. In alcune circostanze si riuscì ad ottenere un numero sufficiente di lavoratori, ma i
risultati non furono mai davvero soddisfacenti, se non con l’introduzione del sistema dei bonus.
Tabella 2 - Settori occupazionali dei rifugiati in Europa 334 .
Settore
Professionale e manageriale
Specializzato e semi-specializzato
Impiegatizio e della vendita
Servizi
Agricolo
Totale
N°
263
117
68
5
4
457
Tabella 3 – Numero di lavoratori abili al lavoro 335 .
Uomini residenti al forte di età compresa tra i 16 e i 65 anni
Inabili certificate per qualsiasi tipo di lavoro
Certificati solo per lavori leggeri
Esentati dal lavoro per ragioni sociali
336
129
63
5
5.1.3.1 Il sistema dei bonus
Con questo sistema, messo in atto da parte dei residenti poco dopo le dimissioni del primo
Consiglio consultivo nel mese di dicembre 1944, le famiglie avevano accettato di pagare una parte
dei loro stipendi, delle sovvenzioni, dei risparmi o dei fondi ricevuti dall’esterno, a coloro che
facevano i lavori più duri. In
questo modo, la maggior
parte dei rifugiati dava
contributi in denaro a coloro
che
erano
regolarmente
impiegati per prelevare la
spazzatura e la cenere e per
distribuire il carbone, e in
molti casi a coloro che
lavoravano nelle mense. Non
vi sono dati disponibili per
quanto riguarda le sanzioni
applicate a quelle famiglie
che non parteciparono a
questo tipo di contribuzione.
È possibile che non abbiano
ricevuto lo stesso livello di
David Hendell al lavoro sul camion della spazzatura.
servizio dei residenti che
Fonte: Hendell, D., cit., p. 311.
pagavano.
334
335
Lowenstein, S. R., p. 194. Si veda anche la tabella 8 del capitolo tre.
Ibidem.
Un rapporto non ufficiale indica che, per questo periodo, veniva addebitata, per la rimozione dei
rifiuti e delle ceneri e per la consegna del carbone, una tariffa dai 50 ai 75 centesimi a persona al
mese, mentre un costo aggiuntivo fu riscosso per coloro che lavoravano nelle cucine. Una famiglia
di quattro persone, che tra contributi e retribuzioni aveva a disposizione 28 $ al mese, dichiarò di
aver pagato fino a 5 $ al mese di tributo (quasi il 18%).
Probabilmente il peso di questo sistema si faceva sentire maggiormente su quei rifugiati che non
ricevevano fondi dall’esterno e che erano costretti per motivi di salute o per altri validi motivi ad
affidarsi solo ai contributi assistenziali. Resta il fatto, tuttavia, che il piano fu il mezzo più efficace
ideato dai residenti per portare a termine i lavori più pesanti.
Nel corso della primavera e dell’estate del 1945, una squadra speciale di cinque uomini fu assunta
regolarmente per la rimozione delle ceneri e dei rifiuti e per il trasporto del carbone. Furono
reclutati dal responsabile degli house leaders e facevano riferimento a lui. Gli house leaders
raccolsero dai vari edifici le somme che andavano a integrare il salario regolare (i 18 $ previsti dal
WRA) degli uomini impiegati in questa squadra. A partire dall’autunno fu organizzata una seconda
squadra e da quel momento la macchina organizzativa cominciò a funzionare decisamente meglio.
5.1.3.2 Le altre attività lavorative interne al forte.
Va segnalato un altro aspetto relativo all’ambito lavorativo. Il WRA fu costretto più volte a
scoraggiare tutti gli esterni che erano interessati ad avviare affari regolari all’interno del campo.
Tuttavia, l’amministrazione chiuse un occhio per le attività che fiorivano all’interno del “rifugio”.
Un rapporto non ufficiale del maggio 1945, indicava lo svolgimento delle seguenti attività a Fort
Ontario da parte di alcuni rifugiati, ovviamente con altri rifugiati in qualità di clienti:
- due fotografi,
- tre barbieri,
- un calzolaio,
- un radio riparatore,
- un orologiaio,
- cinque o sei sarte,
- due modiste,
- un venditore di birra,
- diversi sarti,
- due falegnami,
- due produttori di busti,
- due pellicciai,
- una lavandaia,
- molti insegnanti di inglese,
- un panettiere personale.
In aggiunta, un rifugiato era diventato il rappresentante di una lavanderia di Oswego, mentre un
altro rappresentava un’azienda di lavaggio a secco.
La maggior parte delle persone citate utilizzava i propri appartamenti e i propri materiali. Uno o due
usavano degli spazi non occupati in altri edifici del forte.
In origine il barbiere chiedeva 25 cent per ogni taglio di capelli a fronte dei 65 richiesti in città. A
poco a poco il prezzo salì a 40 cent. Si stimò che l’agente della lavanderia avesse il lavoro più
redditizio. Riceveva 3 cent di commissione su ogni camicia e, approssimativamente, guadagnava
100 $ al mese.
5.2 L’impegno delle agenzie private
Accanto al lavoro svolto dal governo, dal WRA e dall’amministrazione del campo, un ruolo
importante fu giocato dalle agenzie private. Il governo stesso riteneva che la sua responsabilità
relativa a Fort Ontario riguardasse solo gli elementi essenziali della vita quotidiana (cibo, riparo,
cure mediche, sussidi per fornire un abbigliamento adeguato e per le eventuali spese accessorie) e
quindi tutti i beni e i servizi che esulavano da quelle categorie avrebbero dovuto essere presi in
carico dai privati. Se ciò fu reso possibile, lo si deve a un certo numero di agenzie private che sin
dall’inizio, anche prima dell’arrivo dei profughi, si erano dette disposte a fornire i servizi
supplementari. Nell’ambito della politica del WRA, le agenzie private avevano il consenso di
attuare i loro programmi nel forte a due condizioni: l’ottenimento del permesso da parte della
direzione di Fort Ontario, dopo un’iniziale autorizzazione di Washington, e la reale necessità dei
servizi proposti da parte dei residenti.
In un primo momento le agenzie fecero a gara per offrire servizi relativi all’ambito dell’istruzione o
a quello religioso e del tempo libero. Alcuni progetti erano pensati per l’intera popolazione del
forte, mentre altri furono prospettati a gruppi ristretti, per esempio ai membri di una data
nazionalità. Il WRA e le agenzie più responsabili si resero conto della necessità di mettere ordine
nella moltitudine delle attività e decisero di dotarsi di un coordinamento, in modo tale da evitare la
duplicazione delle proposte, ma anche che ci fossero offerte di assistenza rivolte a singoli segmenti
del gruppo dei residenti. Le principali agenzie coinvolte condivisero questo piano e il 31 agosto
1944 fu costituito il Comitato di coordinamento per Fort Ontario, con un direttore esecutivo
residente a Oswego. I membri della commissione erano cittadini rappresentanti delle grandi
comunità dello Stato di New York.
Le spese amministrative della Commissione
furono sostenute da tre delle agenzie private
coinvolte, la Hebrew Sheltering and
Immigrant Aid Society, il National Refugee
Service e il National Council of Jewish
Women. Queste tre agenzie contribuirono a
finanziare i programmi offerti, anche se furono
affiancate da altre agenzie che sostennero i
costi delle attività per le quali avevano un
particolare interesse. Il direttore esecutivo del
Comitato si consultava, di volta in volta, con il
direttore di Fort Ontario, per analizzare le
offerte di assistenza giunte da parte delle
agenzie private e per decidere quali dei servizi,
non garantiti dal governo, avrebbero potuto
essere sviluppati dai gruppi privati.
Il National Refugee Service (NRS) sostenne il
maggior numero di attività sponsorizzate da
una delle agenzie private. Insieme si presero
cura delle forniture e delle altre spese
connesse con la frequenza dei bambini nelle
scuole cittadine, gestirono la scuola materna e
Mary Campo insegna in una classe a Fort Ontario. 45
pagarono la retta per gli studenti autorizzati a
rifugiate si iscrissero al corso di 240 ore, in cui potevano
frequentare lo State Teachers College.
imparare a fare la parrucchiera. Fonte: www.ushmm.org.
Fornirono l’occorrente per la maggior parte
delle attività ricreative e culturali, tra cui l’atletica, l’arte e la musica. Procurarono un ciclostile e la
carta necessaria per il settimanale del forte, chiamato Ontario Chronicle, lanciato nel novembre del
1944 e rimasto in servizio fino all’agosto del 1945. Era scritto e curato interamente da residenti e fu
pubblicato in inglese con edizioni ridotte in tedesco e in serbo-croato.
Il NRS fornì anche i film in 16 mm da proiettare durante la settimana e sovvenzionò i diversi gruppi
teatrali che erano sorti nel frattempo. Fu messo a disposizione un fondo per i rinfreschi e per altre
necessità relative ai circoli sociali organizzati da giovani e meno giovani. Furono acquistate anche
le uniformi per un gruppo di Boy Scout. Inoltre, il NRS sponsorizzò una collezione di libri per la
biblioteca di Fort Ontario, rimborsò il WRA, nella misura di 9,50 $ al mese, per l’occupazione di
oltre cinquanta residenti del forte che furono impiegati in progetti culturali ed educativi e mise a
disposizione dei fondi per integrare le indennità del governo riservate all’abbigliamento,
consentendo ai residenti di acquistare articoli come accappatoi, pantofole e indumenti per la
pioggia.
Forse il più grande contributo da parte dell’NRS fu la fornitura di specifici servizi medici, come si
vedrà tra breve.
Per quanto riguarda gli aspetti religiosi della vita dei rifugiati, diverse agenzie, come l’Agudath
Israel, il B'nai B’rith, il Jewish Welfare Board e il Synagogue Council of America, oltre allo stesso
NRS, contribuirono all’arredamento di due sinagoghe, all’acquisto delle attrezzature per una mensa
kosher, di cibo speciale per le feste, di forniture per un bagno cerimoniale, e all’istruzione religiosa
per i bambini.
Il National Council of Jewish Women fornì le tende per gli appartamenti dei residenti, i corredini e
le vaschette per il bagnetto dei neonati, la culla e il carrozzino per ogni bambino nato nel forte, e,
insieme con il NRS, finanziò un programma di insegnamento della lingua inglese per adulti, uno dei
servizi più popolari all’interno del forte. In un report sul Fort Ontario Refugee Shelter Language
Center del 4 dicembre 1944 336 , vengono esposti i dati essenziali relativi a questo programma.
La scuola fu aperta il 16 ottobre (un anno dopo la retata degli ebrei di Roma) e fu ospitata nella
terza ala dell’ospedale del campo, al secondo e al terzo piano. Oltre alle otto classi regolari, gli
spazi erano stati organizzati in modo tale da accogliere una stanza per le riunioni, due listening
room dove poter apprendere l’inglese attraverso delle registrazioni, e una sala lettura. Ai corsisti
furono forniti dizionari, grammatiche e materiale scolastico. In generale la scuola era ben fornita, di
sicuro al di là di ciò che ci si poteva aspettare, grazie alle sforzo di vari comitati e degli stessi
insegnanti. Questi ultimi, dodici in tutto, furono reclutati nella zona di Oswego e lavorarono parttime, tranne uno che fu impiegato a tempo pieno. Da un punto di vista didattico si affidarono ad un
metodo diretto e funzionale, utilizzando dimostrazioni e illustrazioni, materiele audio, ma anche
l’esperienza sul campo, portando gli studenti a conversare per strada, a fare acquisti, ad ordinare del
cibo da un menu in un locale, o in gite nei dintorni o, ancora, organizzando rappresentazioni teatrali
in inglese o invitando gli studenti a scrivere lettere o racconti in inglese. Risultato di quest’ultima
iniziativa fu la pubblicazione di alcuni racconti, scritti appunto in inglese dai rifugiati stessi. Si
trattava di storie legate alle loro esperienze o alla cultura dei loro paesi di origine, come nel caso di
alcune leggende. Il frutto di questi lavori fu un volumetto, dal titolo Tales from many lands,
collected at Fort Ontario 337 , in cui è possibile leggere i contributi di Lavoslav Arnstein, che
raccontò della fuga dalla Jugoslavia e dell’approdo con un’imbarcazione sulle coste pugliesi, Georg
Lederer, Jelka Arnstein, Kitty Kaufmann e Lenka Svecenski.
336
337
Greenberg, Karen J., cit., pp. 208-211.
Ivi, pp. 217-225.
La scuola era aperta cinque giorni a settimana. La prima classe cominciava alle 9 del mattino e
l’ultima finiva alle 9 di sera. Gli studenti delle classi diurne avevano lezione ogni giorno, mentre
quelli dei corsi serali frequentavano per tre ore a settimana, dato che per gli insegnanti era difficile
affrontare tutte le richieste e incastrare gli impegni.
I 515 studenti (255 uomini e 260 donne), che salivano a 550 dato che alcuni frequentavano più
corsi, furono divisi in quattro gruppi in base al livello di conoscenza dell’inglese. Si arrivò a
formare 30 classi: 18 per principianti, 6 per quelli che parlavano e capivano un po’ di inglese, 4 per
i rifugiati che se la cavavano abbastanza bene e 2 per coloro che avevano un inglese fluente, ma che
volevano migliorare il lessico e la pronuncia. Le classi per principianti arrivavano a 30 studenti, ma
la media si aggirava intorno ai 17.
Accanto ai corsi veri e propri, fu strutturato un programma di incontri sulla cultura americana,
supervisionato dal dott. Wells, professore di lingua dell’Oswego State Teachers College,. In una
bozza di programma 338 , erano previsti venti incontri, ogni martedì, dal 24 ottobre 1944 al 6 marzo
1945. Dalla storia alla geografia, dall’economia alla politica, dal sistema educativo e scolastico alla
cultura, furono toccate tutte le tematiche di base relative alla conoscenza degli Stati Uniti. Non solo
si ascoltava e si parlava in inglese, ma si cercava di favorire il dibattito finale e di suscitare
domande da parte dei rifugiati.
Contemporaneamente, a partire dal 15 ottobre, furono organizzate delle attività per il dopo scuola
dei bambini e dei ragazzi 339 . Divisi per fasce d’età, gli studenti potevano partecipare ad una serie di
giochi, attività sportive e laboratori, tutti i pomeriggi dei giorni feriali e nella giornata della
domenica, escluso, per motivi religiosi, il sabato.
Due agenzie private, l’ORT e il NRS collaborarono per la sponsorizzazione di corsi di formazione
professionale. Originariamente fu previsto un programma completo, con l’obiettivo di riqualificare
molti degli adulti presenti nel forte. In un primo momento, furono organizzati corsi per meccanici di
automobili (con una parte pratica da svolgere nelle officine meccaniche), di carpenteria e sulla
cultura della bellezza. Quest’ultimo corso, insieme a quello di cucito, aggiunto in seguito, fu molto
seguito dalle donne del forte.
L’interesse per i corsi destinati agli uomini non era così alto come ci si aspettava e, ad eccezione di
quello di falegnameria, non furono più attivati dato che le iscrizioni risultarono troppo basse. Anche
lo stesso corso di carpenteria risultò seguito più per hobby che per fare una vera esperienza di
riqualificazione lavorativa.
Uno dei programmi più importanti sponsorizzati dalle organizzazioni di volontariato fu il campo di
lavoro avviato dalla American Friends Service Committee nell’estate del 1945, per formare delle
guide per le attività del tempo libero destinate a lavorare con bambini e adulti. Quando l’estate finì,
due dei lavoratori rimasero in servizio presso il NRS.
338
Greenberg, Karen J., cit., p. 212. Programma degli incontri: 24 ottobre: usi e costumi; 31 ottobre: famiglia e vita
comunitaria; 7 novembre: partiti politici ed elezioni; 14 novembre: geografia degli Stati Uniti; 21 novembre: storia degli
Stati Uniti; 28 novembre: le minoranze in America; 5 dicembre: educazione – scuole e università; 12 dicembre: l’arte in
America; 19 dicembre: forme di governo degli Stati Uniti; 26 dicembre: organizzazione aziendale; 2 gennaio: la musica
in America; 9 gennaio: letteratura americana; 16 gennaio: sport, tempo libero ed educazione alla salute; 23 gennaio:
organizzazione industriale; 30 gennaio: contributi alle scienze; 6 febbraio: agricoltura; 13 febbraio: club e
organizzazioni; 20 febbraio: giornalismo; 27 febbraio: dramma e teatro; 6 marzo: banche e finanza.
339
Ivi, p . 214.
Come si è visto, le agenzie private all’inizio si dedicarono principalmente alla fornitura di servizi
aggiuntivi per la popolazione di Fort Ontario. Con il passare del tempo, inevitabilmente il loro
interesse fu catturato dalla situazione dei rifugiati e dall’incertezza rigurdante il loro futuro status.
I rappresentanti dell’American Committee for Christian Refugees, il National Council of Jewish
Women, il NRS, l’Unitarian Service Committee e lo United Yugoslav Relief erano stati al fianco del
WRA quando i rifugiati erano arrivati negli Stati Uniti e, rimanendo a contatto con loro, avevano
acquisito una serie di informazioni essenziali sui problemi che avrebbero affrontato, non solo
nell’immediato ma soprattutto quelli legati al loro futuro.
La maggior parte di queste agenzie faceva parte dell’American Committee of Voluntary Agencies
for Foreign Service e al suo interno fu istituita una speciale sottocommissione che si occupava dei
problemi dei rifugiati. I membri della sottocommissione si recarono a Washington in diverse
occasioni per cercare di porre all’attenzione dei vari funzionari la necessità di pianificare le dovute
disposizioni finali, relative al gruppo dei rifugiati.
La Hebrew Immigrant Aid Society (HIAS) ed il National Council of Jewish Women furono
particolarmente attivi nello sviluppare piani di azione per quei residenti di Fort Ontario desiderosi di
emigrare in altri Paesi. L’International Migration Service (IMS) collaborò con il WRA in
un’indagine indicante le caratteristiche dei rifugiati del forte e i loro desideri riguardanti una futura
residenza. In una fase successiva le principali agenzie che si occupavano dei rifugiati si
adoperarono per mettere la parola fine all’esistenza del forte attraverso attività di reinsediamento.
5.3 I servizi essenziali
5.3.1 Il cibo
I pasti erano serviti nelle sale mensa gestite dal governo tenendo conto delle restrizioni dovute al
razionamento in tempo di guerra. Nella misura in cui era possibile, i menu tenevano conto dei gusti
dei rifugiati. In realtà, al momento del loro arrivo, basandosi sulla media del cibo consumato negli
altri centri gestiti dal WRA, quest’ultimo sottovalutò le reali necessità del gruppo e non aveva
previsto il tipo di alimenti che i rifugiati desideravano. A ciò si aggiungeva il fatto che, nelle prime
settimane, i rifugiati si rimpinzavano più del dovuto, sbigottiti davanti a tale abbondanza,
soprattutto se confrontata con il lungo periodo di difficoltà affrontato in Europa.
Subito dopo l’apertura del campo, il cibo costava 59 cents al giorno per ogni persona 340 .
Gradualmente si arrivò ad un costo di 45 cents, in accordo con la politica del WRA.
Altrettanto progressivamente, ci si organizzò, anche grazie all’aiuto di agenzie private, per allinearsi
alle esigenze dei rifugiati ed in particolare con le prescrizioni della cucina kosher che alcuni ebrei
ortodossi avevano espressamente richiesto.
Il WRA prese in considerazione l’idea di gestire in maniera diversa la distribuzione del cibo,
permettendo ai rifugiati di avere l’occorrente per prepararsi i pasti all’interno delle loro abitazioni.
Ne discusse con il WRB che si oppose all’ulteriore esborso di fondi per questo progetto. Inoltre,
bisognava considerare i pericoli legati a possibili incendi o incidenti all’interno degli appartamenti.
Comunque sia, molte famiglie consumavano almeno un pasto al giorno nelle proprie case. In questi
casi, un membro della famiglia si recava in sala mensa per la distribuzione dei prodotti.
340
Il costo di 59 cents, moltiplicato per 982 rifugiati, porta la spesa a 580 dollari al giorno equivalenti a circa 7.707,31 $
di oggi, ossia circa 5.686,376 €. Il costo di 45 cents ridusse la spesa giornaliera a 442 $ equivalenti a circa 5.873,5 $ e a
4.333,41 € di oggi. Volendo fare un conteggio approssimativo e considerando che in totale i rifugiati rimasero a For
Ontario circa 530 giorni, l’ammontare delle spese solo per il cibo (utilizzando il dato economico più basso di 442 $ al
giorno e ponendo come riferimento solo l’anno 1944) equivalgono a 234.260 $ di allora che oggi corrisponderebbero a
3.112.955 $, ovvero 2.296.707,07 €. Fonte per la conversione del dollaro: www.bls.gov/data/inflation_calculator.htm
(calcolatore dell’inflazione dello United States Department of Labor, basato sul potere d’acquisto).
5.3.2 Gli alloggi
Nel forte erano presenti diverse baracche di legno costruite nel 1939 come strutture temporanee e
l’esercito le convertì in appartamenti per i rifugiati. Ciascuna baracca conteneva quattro
appartamenti su ciascuno dei due piani, oltre ai bagni e alle docce per uomini e donne. Come si può
notare dai dati riportati nell’elenco dei rifugiati presenti a Fort Ontario, l’assegnazione dell’alloggio
ed il relativo numero delle stanze dipendeva da com’era composta ciascuna famiglia. In questo
modo ad ogni nucleo familiare, in base al numero dei componenti, fu assegnato un alloggio
provvisto solamente di letti. Il resto, tavoli, sedie e altri mobili, come le cassettiere, andava
costruito direttamente nel campo. Non a caso, a distanza di tre mesi, c’erano ancora due dozzine di
famiglie che non avevano i mobili necessari 341 .
Più o meno in quello stesso periodo, ottanta famiglia furono spostate in nuove baracche per cercare
di attenuare il problema del sovraffollamento. Bisogna tener conto che gli appartamenti all’interno
della stessa baracca erano separati semplicemente da pannelli di truciolato e quindi non esisteva
privacy.
Se le famiglie erano particolarmente numerose potevano avere anche l’acqua corrente. Gli uomini
soli furono invece sistemati in dormitori organizzati in strutture fisse di mattoni, a differenza delle
donne sole che ricevettero dei monolocali.
Il WRA non tenne in considerazione la richiesta, già avanzata sulla nave, di predisporre gli alloggi
in base alla nazionalità, avendo un’ottica diversa su come condurre la vita nel campo. Il comitato
dei residenti si occupò, in seguito, dei necessari cambiamenti nell’assegnazione degli alloggi.
5.3.3 La fornitura di indumenti
Si è visto come, a seguito degli anni di guerra, del viaggio e della disinfestazione, i rifugiati si
ritrovarono con pochi e malandati vestiti. La questione rientrò dunque tra le priorità, ma si tenne
conto degli standard prevalenti sul territorio. Basti pensare all’esempio di Charlotte Gal, dieci anni,
e suo fratello Albert, 8 anni, arrivati a Fort Ontario vestiti solo con una magliettina e dei
pantaloncini che la madre, Regina, aveva ricavato da una maglietta donatale da un marinaio
americano. D’altronde questo tipo di situazione era piuttosto diffusa sia per quanto riguarda i vestiti
sia per le scarpe. A causa della confusione iniziale, molti rimasero nelle stesse condizioni per alcune
settimane.
Prima dell’arrivo dei rifugiati al forte, il WRA aveva pensato di preparare delle forniture di
abbigliamento per poterle avere a portata di mano nel più breve tempo possibile, ma poi prevalsero
altre ragioni, tra cui quella di non far diffondere nessuna informazione sulle condizioni dei rifugiati
prima del loro arrivo, quella di favorire i buoni rapporti con i cittadini di Oswego, incoraggiando gli
acquisti di vestiti direttamente nei negozi della cittadina o, ancora, quella di dare direttamente ai
rifugiati la possibilità di acquistare ciò di cui avevano bisogno.
Come detto, l’indennità massima accordata non doveva eccedere la somma mensile di 4,5 $ per i
bambini fino agli 11 anni, di 7 $ per i ragazzi tra i 12 e i 17 anni, e di 8,5 $ per le persone dai 18 in
su 342 , ma al di là delle somme a disposizione delle singole famiglie, inizialmente la limitazione
341
Lowenstein, S. R., cit., p. 65.
Si tratta di 59,8 $ (44,12 € ca.) di oggi per i ragazzi fino agli 11 anni, 93,02 $ (68,63 € ca.) per quelli tra i 12 e i 17
anni e 112,95 $ (83,33 € ca.) per gli adulti. Tenuto conto dei dati a disposizione sulla popolazione del forte (tabella 5
presente nella parte terza) in totale si possono stimare circa 8.372 $ al giorno per i bambini fino agli 11 anni, circa
5581,2 $ per gli adolescenti e meno di 88.326,9 $ per i maggiorenni. Se si estendono questi calcoli, seppur non precisi, a
tutto il periodo di permanenza dei rifugiati a Fort Ontario, si arriva ad un totale di quasi 54.208.453 $. In realtà tale
indennità non spettava a tutti coloro che lavoravano e per i quali erano previsti altri introiti. Inoltre per il calcolo si è
fatto riferimento solo al 1944 (per il calcolo vedi n. 340). I calcoli riportati, insieme a quelli relativi al cibo e tenendo
conto di tutte le altre spese, servono solo a rendersi conto dell’impegno economico sostenuto dagli Stati Uniti e in una
342
maggiore era posta dal periodo di quarantena. Per questo motivo si provvide ad organizzare un
deposito, costituito di vestiti donati, usati o di merce in eccesso, e ad ordinare gli altri indumenti in
base alle taglie.
Tra l’altro anche la distribuzione degli indumenti infiammò nuovamente i risentimenti tra le varie
nazionalità. Filip Baum aiutò l’amministrazione nella distribuzione dei vestiti e dovette subire
l’accusa di favorire gli jugoslavi. A queste tensioni sotterranee, si aggiungeva l’attività delle
agenzia private, come l’American Association for Yugoslav Jews che fornì indumenti destinati solo
ad una parte dei rifugiati. Da qui le lamentele del Jewish Labor Committee che sottolineò il fatto
che gli jugoslavi e gli austriaci avevano ricevuto notevoli aiuti, a differenza dei polacchi. Elise
Neuman, intervistata ad anni di distanza, credeva ancora che i polacchi avessero avuto molto più
aiuto e soldi di chiunque altro 343 .
Ad aumentare lo stato di confusione ci si misero anche i ritardi nelle consegne, ma ancor di più i
commercianti locali ai quali fu permesso di entrare nel campo, durante il primo mese di apertura,
ossia durante la quarantena, e ciò creò non pochi problemi, visto che solo chi aveva delle risorse
aggiuntive o chi aveva ricevuto soldi da parenti ed amici poteva acquistare direttamente dai
commercianti.
Sia per quanto riguarda la fornitura di indumenti, sia per il cibo, considerando la vicinanza della
città di Oswego, il WRA stabilì che non fosse necessario istituire un sistema elaborato che facesse
riferimento agli esercizi commerciali per la vendita di merci ai residenti del campo. Dopo aver
ascoltato il parere del Comitato consultivo di Oswego (organo formale istituito per mantenere dei
rapporti fattivi tra il direttore di Fort Ontario e la cittadina), si decise di aprire uno spaccio gestito
privatamente all’interno del forte da uno dei commercianti della città designato dalla commissione.
Il commerciante acquistò uno stock di provviste e fu assistito nella vendita da molti dei rifugiati che
furono pagati in base al salario percepito per lo stesso lavoro in quella zona. In realtà i lavoratori
ricevettero solo il salario mensile di 18 $, come tutti gli altri lavoratori del campo, mentre la quota
eccedente fu versata in un fondo comunitario. Durante il periodo di quarantena, i rifugiati presero
letteralmente d’assalto lo spaccio, non solo per rifornirsi del necessario, ma anche per il piacere di
poter acquistare cioccolato, birra e altre merci non ottenibili all’estero. In un primo momento ci si
pose il problema della vendita di bevande alcoliche. Fu poi stabilito che, una volta ottenute le
licenze, lo spaccio avrebbe potuto vendere vino e birra ai residenti.
Ci volle un po’ di tempo prima che fosse raggiunto uno standard minimo nel reperimento e nella
distribuzione degli indumenti, ma alla fine la macchina organizzativa riuscì nel suo intento,
predisponendo gli acquisti per gli inverni del 1944 e del 1945, anche con l’aiuto delle agenzie
private.
5.3.4 Le cure mediche
L’organizzazione prevedeva che, per assicurare tutti i servizi sanitari all’interno del campo, alcuni
rifugiati, aventi i requisiti richiesti, avrebbero lavorato sotto la direzione di un medico.
Tra i rifugiati c’erano cinque medici e due dentisti, oltre a diverse persone che avevano avuto
esperienze nei laboratori medici o nel campo della farmaceutica. Mancavano invece gli infermieri.
Il WRA si occupò di nominare un medico che aveva già gestito situazioni simili, come CMO (chief
medical officer), in altri campi.
misura non trascurabile dalle agenzie private. Nel rapporto della sottocommissione incaricata di ascoltare i rifugiati nel
giugno 1945, si riporta la somma di 600.000 $ come spesa necessaria a mantenere il campo per un anno. Attualizzati, si
tratterebbe di circa 7.800.000 $. Si veda Token shipment, cit., p. 101.
343
Lowenstein, S. R., cit. p. 67.
L’ospedale di Fort Ontario era ben attrezzato e notevolmente più grande rispetto alle necessità dei
rifugiati. Occupava tre piani ed era attraversato da numerosi corridoi, cosa che non rendeva agevole
l’organizzazione interna. Ovviamente, nei casi in cui le strutture di Fort Ontario fossero risultate
insufficienti ad affrontare le emergenze, era previsto il ricorso agli ospedali presenti nei dintorni 344 .
Si ricorda che nel treno che portò i rifugiati al forte, c’erano circa dodici pazienti trasportati nella
carrozza-ospedale. Subito dopo il loro arrivo al campo, fu aperto un ambulatorio.
Il WRA provvedeva a tutte le cure del caso, ma solo se il trattamento indicato risultava veramente
necessario per la salute del paziente. Tutto ciò che riguardava la chirurgia elettiva, la riabilitazione
medica e le cure dentistiche fu delegato alle agenzie private. Tale distinzione non trovò facile
applicazione, dato che c’erano diversi casi che non era semplice catalogare nell’ambito degli
interventi essenziali o tra quelli differibili. Ciò significò che ci volle un po’ di tempo prima che
potesse essere sviluppata una politica chiara al riguardo, ma la questione si risolse con il passare
delle settimane.
Anche nel campo medico si rendeva necessario rispettare alcune richieste legate alla religione. Fu
così che, ad esempio, nel primo mese di vita nel campo si tenne un Brit Milah. In realtà si trattava
del bambino, International Harry, nato a bordo di un camion militare sulla strada per Napoli, che
avrebbe dovuto già essere circonciso entro i prescritti otto giorni dalla nascita. I genitori, Olga e
Leon Maurer, non vollero però fare eseguire l’operazione ad un dottore della Gibbins e aspettarono
che un mohel arrivasse da New York.
Complessivamente, nonostante le esperienze vissute dai rifugiati e alcuni casi specifici, la salute dei
rifugiati era buona. Le visite ambulatoriali evidenziarono man mano alcuni problemi che
inizialmente erano sfuggiti o che erano emersi in un secondo momento. Inoltre, la situazione si
aggravò nel corso dei mesi, soprattutto a causa delle incertezze legate al futuro e allo stallo della
situazione nella politica americana relativamente ai rifugiati di Fort Ontario. Si ebbe così, come si
vedrà in seguito, un affioramento di disturbi minori, alcuni dei quali di origine psicogena, legati
sicuramente al prolungato confinamento.
In un periodo così lungo (18 furono i mesi trascorsi dai rifugiati a Fort Ontario), pur nella
particolarità della situazione, fu normale, per i medici del campo e per le strutture esterne chiamate
ad intervenire, trovarsi ad affrontare i piccoli problemi quotidiani così come le emergenze, a
muoversi letteralmente tra la vita e la morte. Furono, infatti, 23 le nascite e 14 i morti.
Tabella 4 - Nati all’interno del campo (dati relativi a 16 bambini).
Nome
Miriam Mary
Beatrice
Susanna
Geraldine
Rachela Ella
Paul
Diana Kay
Rosica
Josef
Silvia
Jacob
Rudolf
Irene
344
Data di nascita
29 settembre 1944
9 dicembre 1944
10 febbraio 1945
2 marzo 1945
12 marzo 1945
29 marzo 1945
6 aprile 1945
6 maggio 1945
18 maggio 1945
19 maggio 1945
1° giugno 1945
24 luglio 1945 (circonc.)
25 luglio 1945
Genitore/i
Victor e Lidia Franco
Jakob e Sonja Merzer
Eva Bass
Ani Pick
Josef D. e Maria Levi
Nechuma Sabniewicz
Manya Hartmayer e Ernst Breuer
Moric e Maria Montiljo
Azriel e Rywa Wajsbrot
Leon e Seri Kabiljo
Hajim e Rika Hazan
Mathilda Ternbach
Mantzi e Sandor Friedmann
Ad esempio Irma Silberstein, già ricoverata nell’ospedale del campo a causa di una paralisi non diagnosticata, il 7
ottobre 1944 lasciò Fort Ontario per il Neurological Institute di New York. Si veda Greenberg, Karen J., cit., p. 183.
Tabella 4 - segue
(maschio)
Harry
Ralph
31 luglio 1945
?
?
Stefania e Jan Israel Willner
Icek e Hella Frajerman
Josip e Sara Rothstein
Tabella 5 - Elenco dei rifugiati morti a Fort Ontario (ad eccezione di Elia Montiljo).
Nome
Elia Montiljo
Philip Stajn
Data
Morta sulla nave il 3.8.1944
31 settembre del 1944
Età
6 mesi
46
Dagobert
Barnass
12 dicembre del 1944
60
28 dicembre del 1944
34
19 febbraio del 1945
42
Ida
Zeitlin
16 marzo del 1945
70
Josef
Schlamm
28 marzo del 1945
76
Baschie
Gottlieb
24 maggio del 1945
52
Emilia
Buchler
15 giugno del 1945
64
Alfred
Thewett
24 giugno del 1945
65
Salomon
Gaon
25 giugno del 1945
40
Nathan
Zindwer
1 settembre 1945
62
Karoline Bleier
Arpad
Buechler
345
Note 345
Nata l’11 gennaio del 1944
Mercante jugoslavo. Morì di infarto, lasciando la moglie Margita.
Era un produttore tedesco di brandy. Arrivò in uno stato di salute
precaria e gli fu diagnosticato un cancro terminale ai polmoni al
Syracuse University Hospital. Tornò al campo nei primi di novembre
per vivere lì gli ultimi giorni della sua vita con sua moglie Herta.
Lasciò il marito Geza e due figli, Ronald e George.
Lasciò la moglie Renee, quattro figli, Pavao, Blanka, Dan e Hanna, e
sua madre Emilia.
Nata in Russia, vedova, infermiera, sperava di raggiungere la figlia, il
genero e i due nipoti in Inghilterra. Arrivò sola e malata di diabete e
morì di broncopolmonite.
Vedovo, mercante d’avorio e di legname, parlava fluentemente tedesco,
francese, italiano e inglese. Arrivò ad Oswego già con problemi di
cuore. La sua morte per broncopolmonite non gli permise di ragiungere
la sua unica figlia sopravvissuta a Benares, in India.
Lasciò il marito Mendel. Cinque settimane prima della sua morte
pensava di essere in buona salute. Ricoverata al Syracuse University
Hospital le ultime tre settimane per un linfoma di Hodgkin, morì di
broncopolmonite.
Era la madre di Arpad. Arrivò già malato con un’arteriosclerosi
cardiovascolare e soffriva di patologie cardiache.
Coreografo teatrale, ritrattista e scrittore austriaco. Parlava bene il
tedesco, il francese, l’italiano e l’inglese. Visse separato dalla moglie
per sette anni perché la moglie ottenne il permesso di entrare in
Inghilterra. Soffriva di attacchi di cuore e morì due mesi dopo che lei
immiggrasse negli Stati Uniti. Mentre si trovava nel campo si occupò di
design della moda e scrisse sull’Ontario Chronicle.
Sarto proveniente dalla Yugoslavia. Lasciò la moglie e il figlio
diciottenne. Fu ricoverato in due ospedali newyorkesi e al Syracuse
University Hospital per una forma di leucemia mortale.
Medico che però lavorava come uomo d’affari, ferito due volte mentre
serviva nell’esercito austriaco durante la prima guerra mondiale.
Trascorse 4 mesi a Dachau e 7 a Buchenwald prima di essere internato
per 4 anni in Italia. Era solo ad Oswego perché i suoi figli erano
emigrati negli Stati Uuniti nel 1938 e sua moglie era morta nel 1940.
Trascorse tutto il tempo al campo studiando inglese. L’assistente sociale
Gabriel Derenberg lo descrisse come “profondamente grato di essere in
questo paese” e “uno dei più umili abitanti del campo”. Né sua figlia,
fisico a Boston, né i suoi due figli che vivevano a New York furono
avvisati se non tre giorni dopo che sviluppò dolori addominali che erano
stati diagnosticati come un’infiammazione acuta della cistifellea. Nel
giro di una settimana morì. Essi protestarono per le condizioni
dell’ospedale del campo dove lui ha avuto un collasso dopo essersi
alzato dal letto e non aver avuto l’ossigeno a disposizione.
Le note sono per lo più il frutto dei dati riportati da Lowenstein, S. R., cit. pp. 200-201.
Tabella 5 - segue
Efraim
Blumenkranz
24 ottobre del 1945
43
Feibish
Koppelman
9 gennaio del 1946
63
Hermine
Ackermann
15 gennaio del 1946
69
Tecnico tessile nato in Polonia, sionista che rappresentava i fochisti
nella Commissione lavoro, soffriva di meningite spinale. Morì al
Syracuse University Hospital di polmonite e fu seppellito a New York
dove vivevano i suoi genitori e tre suoi fratelli. La sua vedova e le due
giovani figlie ottennero un paio di settimane di permesso per andare al
funerale e fare visita alla famiglia.
Torturato per undici mesi a Dachau prima di essere internato per quattro
anni in Italia, arrivò ad Oswego soffrendo di sordità, paralisi parziale,
disturbi di cuore, febbre persistente e nausea. Un virus tifoideo gli
aveva fatto perdere la maggior parte dei denti e lo faceva sembrare
molto più vecchio della sua età. Era spesso confuso e mostrava
atteggiamenti infantili. Morì a Santa Monica, California, solo poche
settimane dopo essere stato affidato a sua moglie e alle sue figlie.
Vedova dal 1932, aveva un figlio in un campo di prigionia in Germania
e un altro tra le fila dei partigiani. Quando fu scoperto il cancro del
retto, l’anno seguente si sottopose, l’8 gennaio 1946, a quello che fu
visto come un intervento riuscito allo state Institute for the Study of
Malignant Disease in Buffalo. Morì nove giorni dopo, solo tre giorni
prima che la famiglia lasciasse il campo e si trasferisse a Cleveland.
Per prevenire malattie gravi o infettive, furono previsti ulteriori approfondimenti. A questo scopo
l’amministrazione del campo in collaborazione con il Servizio di sanità pubblica degli Stati Uniti
sottopose tutti i rifugiati ad una radiografia del torace. I risultati degli esami indicarono che dei
residenti, 848 risultarono sicuramente negativi e 10 inattivi (guariti), mentre 15 casi erano dubbi, 2
erano sospetti e uno aveva la tubercolosi in uno stadio molto avanzato. L’unico caso attivo fu
isolato, in attesa di ulteriori osservazioni, in un sanatorio. Furono presi accordi per seguire da vicino
i casi dubbi e quelli sospetti.
Anche grazie alla presenza permanente di un direttore medico, un chirurgo esperto in grado di
eseguire un gran numero delle operazioni necessarie e di coordinare l’attività dei rifugiati medici, e
all’attività delle agenzie private, la situazione si stabilizzò notevolmente. Sotto la supervisione del
personale medico del WRA, il National Refugee Service inaugurò una clinica ortopedica, e si
occupò materialmente delle montature degli occhiali, di alcuni tipi di dentiere e di altre
applicazioni. Per la precisione, nel gennaio del 1945, con i contributi raccolti dal NRS, furono
acquistati 250 paia di occhiali, 75 paia di scarpe correttive, 2 arti artificiali, 15 dentiere, 12 cinti
ernari, e fu garantito il ricovero per 2 pazienti, l’istituzionalizzazione per altri 4, interventi di
chirurgia per 3 rifugiati, consulenza e servizi speciali per 15 casi.
Si può dire che, alla fine di questo periodo, i problemi della maggior parte dei residenti, almeno
quelli che potevano essere corretti, furono affrontati e risolti.
Se le richieste ambulatoriali (19 mila, con una media di 32 visite al giorno) e di apparecchiature
furono molte, l’uso dell’ospedale fu invece al di sotto delle aspettative. Le ospedalizzazioni
all’interno del campo furono 336, ma, in media, furono occupati soltanto dodici letti al giorno,
come si evince anche dalla tabella 6.
Tabella 6 - Statistiche relative agli aspetti medici. 346
1.
2.
3.
4.
5.
OSPEDALE DI FORT ONTARIO
Ammissioni totali
Media giornaliera
Operazioni importanti eseguite
Operazioni minori eseguite
OSPEDALIZZAZIONE FUORI DAL CAMPO (Oswego, N.Y., Syracuse, Philadelphia)
Visite ambulatoriali totali
Media giornaliera delle visite mediche e chirurgiche
Media giornaliera delle visite dentali
FARMACIA DEL CAMPO
Totale delle prescrizioni
STATISTICHE DEMOGRAFICHE
Nascite
Morti
Nati morti
SERVIZI ADDIZIONALI ESTERNI
Esami degli occhi
Apparecchiature per occhiali
Occhi, orecchie, naso, trattamenti per la gola (inclusa la chirurgia minore)
Problemi della pelle e allergie
Diatermia (trattamenti della pelle)
Elettrocardiogrammi
Test del metabolismo basale
Raggi X (di cui 105 eseguiti fuori del campo prima e 210 eseguiti dentro al campo dopo l’aprile
1945)
336
12
40
47
44
18.819
31
26
15.000
23
14
1
749
Più di 400
731
6
8
7
8
315
5.4 L’importanza della religione nella quotidianità dei rifugiati
La libertà di religione fu sempre rispettata. Alcuni edifici furono adibiti appositamente alle funzioni
religiose che potevano essere tenute in qualsiasi lingua. Le agenzie private fornirono le attrezzature
necessarie e ben presto entrarono in fuzione due sinagoghe: una per gli ortodossi e una per gli ebrei
riformati. I protestanti e i cattolici andavano in chiesa direttamente in città.
Gli ebrei orotodossi furono il primo gruppo ad organizzarsi e rimase quello più coeso. Ackermann
riportò che includeva un nucleo da 35 a 40 persone, composto da coloro che erano sopravvissuti
senza violare le loro coscienze e quindi rispettando le norme, come quelle relative
all’alimentazione. Il numero di persone che richiedeva cibo kosher crebbe dai 70 sulla nave ai 180
durante la prima settimana nel campo. Il responsabile della mensa richiese l’adesione di altre dieci
persone al fine di ottenere un miglior equilibrio tra la cucina kosher e le altre quattro cucine non
kosher e il numero aumentò velocemente fino a raggiungere le 225 unità. La cucina kosher entrò in
funzione solo nove giorni dopo l’apertura del campo.
Contestualmente furono aperte anche una sinagoga ortodossa e una scuola religiosa. Fu inevitabile
l’avvicinamento degli ebrei ortodossi alle posizioni dell’Agudàt Israèl347 , che aveva il suo quartier
generale a New York e a cui i rifugiati si affiliarono subito dopo il loro arrivo.
346
Lowenstein, S. R., cit. p. 141.
Agudàt Israèl (yiddish: agùdas yìsroel; lett. Unione o Associazione di Israele): organizzazione politico-religiosa
internazionale, di orientamento conservatore in campo politico e strettamente ortodosso in quello religioso. Riuniva i
neo-ortodossi tedeschi, gli ortodossi ungheresi e quelli polacchi. Fondata a Katowice, in Polonia, nel maggio del 1912.
La funzione politica dell’A. I. fu ripresa dopo la fondazione dello Stato di Israele e portò alla creazione di un partito
politico religioso. Si veda La Rassegna Mensile di Israel, terza serie, Vol. 62, No. 1/2, Il mondo yiddish: saggi
(Gennaio-Agosto 1996), pp. 489-492. Pubblicato dall’Unione delle Comunitá Ebraiche Italiane.
347
Il War Refugee Board e la War Relocation Authority avevano come obiettivo quello di andare
incontro ai bisogni espressi dalle comunità religiose presenti nel campo. Agudàt Israèl non perse
tempo e rese subito note tali esigenze. Contattando il governo il giorno dopo che Roosevelt
annunciò l’apertura di Fort Ontario, ma anche ripetutamente in seguito, offrì ampia assistenza e nel
più breve tempo possibile ai profughi arrivati. Inoltre incoraggiò Rabbi Mosco Tzechoval e Israele
Rothschild, le principali figure ortodosse tra i rifugiati, affinchè presentassero le dovute istanze per
ottenere le strutture adeguate.
Fu l’Agudàt Israèl a dotare il campo di una cucina kosher e a fornire la carne durante la prima
settimana. Quando il governo si fece carico di questi aspetti, il gruppo religioso si occupò di altre
esigenze particolari e di quelle legate alle festività.
Nonostante i problemi “costanti”, come riporta la Lowenstein, l’amministrazione cercò di
soddisfare i requisiti richiesti dagli ortodossi. La carne, accettabile al momento dell’acquisto, a volte
diventava inaccettabile a causa delle difficoltà di trasporto che creavano dei ritardi nella consegna e
quindi violavano l’obbligo religioso che prevedeva che la carne fosse lavata ogni tre giorni. Anche
aspetti della vita quotidiana di questo tipo contribuivano ad accrescere la reciproca incomprensione.
“I rifugiati ortodossi non riuscivano a capire come fossero possibili tali ritardi in una terra così
lontana dalle battaglie, ed i membri del personale trovavano le loro richieste incomprensibili.” 348
Ovviamente non era solo il cibo al centro degli interessi del gruppo ortodosso. “Celebrarono la
riguadagnata libertà religiosa con quella che un membro del personale descrisse come ‘ecstasy’.” 349
Il primo sabato dopo l’arrivo al forte, Joseph Langnas divenne il primo ragazzo a festeggiare il suo
Bar Mitzvah. Cinque giorni più tardi, durante la cerimonia del Rosh Hashanah condotta dal rabbino
Mosco Tzechoval, gli ortodossi segnarono l’inizio del capodanno ebraico consacrando un’Arca
Santa e quattro rotoli della Torah forniti dall’Agudàt Israèl. Il santuario, organizzato in una struttura
di mattoni ristrutturata dall’esercito, prevedeva 230 posti a sedere per gli uomini e 130 per le donne,
così come aule per 75 bambini. Dopo poche settimane aprì anche un heder, dove i bambini
avrebbero potuto studiare i testi tradizionali.
Dato che per gli ebrei, di diversa osservanza, servivano ulteriori spazi, Smart pensò di condividere
la cappella dell’esercito. Il disagio iniziale scomparve quando il crocifisso fu coperto.
Se gli aspetti pratici furono risolti con il tempo e con la diplomazia, altri furono i problemi più
profondi. Ad esempio, gli ebrei ortodossi erano legati tra di loro dalla lingua yiddish e dalla cultura
ashkenazita, ma ciò non valeva per la comunità liberale, formata soprattutto dagli Jugoslavi, anche
se erano rappresentate quasi tutte le altre nazionalità, e che comprendeva sia gli ashkenaziti di
lingua yiddish sia i sefarditi di lingua ladina. In molte situazioni l’italiano divenne la lingua “ponte”
insieme all’ebraico.
I quasi quattrocento fedeli della congregazione liberale cambiarono il loro modo di seguire i precetti
religiosi. “I più tradizionalisti tra di loro prevalsero nello stabilire la mechitza (posti separati per
uomini e donne), ma la maggior parte scelse di non osservare il kashrut (le leggi alimentari), un
modello europeo che contrastava nettamente con la pratica americana di dare più importanza al
rispetto di quest’ultimo.” 350
D’altro canto se le feste più importanti erano seguite da tutti o quasi, la frequenza settimanale delle
celebrazioni era decisamente bassa e non contemplava mai più di tre o quattro dozzine di rifugiati.
Il B’nai B’rith di Syracuse fornì loro una Torah, mentre altri oggetti arrivarono da Syracuse e dal
Synagogue Council of America.
348
Lowenstein, S. R., cit. p. 63.
Ivi, p. 64.
350
Ibidem.
349
Tutte le attività religiose dovevano essere supervisionate dal Rabbino Tzechoval e da una
sottocommissione del Consiglio Consultivo. Ciononostante le tensioni non mancarono, come nel
caso della scelta di un insegnante a cui affidare l’educazione religiosa dei bambini. Il rappresentante
dell’Agudàt Israèl, inviato a Fort Ontario, “riferì che ‘la metà’ di uno studioso sarebbe stata
sufficiente perché tra i rifugiati non c’era nessuno con una vasta formazione talmudica; raccomandò
che il docente selezionato potesse lavorare sia con i bambini liberali sia con gli ortodossi, per
evitare il precedente affidamento dei servizi ad una organizzazione ‘trefa (non kosher)’ e, nella
speranza che egli potesse portarli all’ovile.” 351 L’insegnante si mostrò decisamente “aggressivo” nei
suoi tentativi di fare proselitismo e la maggior parte dei bambini della congregazione liberale preferì
proseguire gli studi religiosi e prepararsi per il Bar Mitzvah con alcuni rifugiati che si resero
disponibili.
Al di là degli aspetti pratici, delle necessità quotidiane e delle incomprensioni, i rifugiati di ogni
fede poterono ritornare a celebrare le proprie festività. Ciò fu vero in particolare per gli ebrei e le
occasioni non mancarono. Dopo un mese e mezzo dall’arrivo ad Oswego, il 17 settembre, si
ritrovarono per festeggiare Rosh Hashanah, occasione in cui furono consacrate le due sinagoghe. Il
26 dello stesso mese, due giorni prima della visita di Eleanor Roosevelt, si raccolsero per il loro
primo Yom Kippur lontano dagli echi della guerra 352 . Allo stesso modo non mancarono i
festeggiamenti per Hanukkah, il 10 dicembre 1944, né quelli per il Purim del 27 febbraio o per la
Pesach, il 28 e il 29 marzo 1945.
Eisig
e
Hana
Hendel, la figlia
Ruth e il nipote
Vilko
Kremer
durante la desta di
Hanukkah. Fonte:
www.uhsmm.org.
351
352
Ivi, pp. 64-65.
Per maggiori dettagli si veda Gruber, R., cit. pp. 183-184.
Giovani ebrei rifugiati in
costume per il Purim. Da
sinistar a destra (prima fila)
Ivo Svencenski, Jacob
Broner, due sconosciuti e
Leo Levic. Seconda fila:
Liesel
Bader,
Henny
Notovitz, Edward Levic,
Neva Svecenski, Edith
Broner and Elfi Strauber.
Terza
fila:
Herman
Kremer, Manci Broner,
sconosciuto, Lillian Danon,
Ralf Kuznitzki e Ivo
Lederer vestito da Hitler.
Ultima fila: Dorit Reisner,
Ginette Cygelman, Adam
Munz, Silvio Levy, Neli
Bokros, Paul Bokros, and
Paul
Arnstein.
Fonte:
www.uhsmm.org.
5.5 Il ritorno a scuola.
Erano passati diversi anni da quando i
ragazzi più grandi avevano frequentato
con regolarità le scuole, mentre la
maggior parte dei più piccoli non vi
aveva mai messo piede o aveva avuto
solo brevi periodi di scolarizzazione
improvvisata durante gli anni della fuga,
a volte all’interno dei campi stessi in cui
furono confinati. La voglia di riprendersi
il tempo perduto è tutta nelle parole di
Ernst Spitzer. Quando ricominciò ad
andare a scuola, un suo compagno di
classe era dispiaciuto per il fatto che
studiasse troppo e giocasse poco, al che
Ernst rispose che nel campo in cui era
stato internato era troppo affamato per
studiare 353 .
Così come il WRA riteneva che fosse un
obbligo da parte del Governo quello di
fornire
ai
rifugiati
un
riparo,
l’abbigliamento, il cibo e le cure
Fonte:
http://cdm16694.contentdm.oclc.org/cdm/single
item/collection/p16694coll19/id/198/rec/5.
353
Gruber, R., cit., p. 182.
mediche, l’Autorità credeva che fosse altrettanto importante che i figli dei residenti di Fort Ontario
ricevessero una qualche forma di istruzione. Tuttavia, a causa della natura del “progetto Oswego”, il
governo non sentiva di dover garantire il mantenimento di un sistema scolastico, cosa che invece
aveva fatto precedentemente per gli internati di origine giapponese evacuati dalla costa occidentale
a seguito di ordini governativi restrittivi nei loro confronti.
Fin dall’inizio, la speranza del WRA risiedeva nella possibilità che i bambini e i ragazzi del forte
potessero frequentare le scuole della città. In caso contrario, sarebbe stato possibile trovare delle vie
alternative. Tra i rifugiati c’erano diversi adulti che avevano un certo livello di studi e che avevano
avuto esperienze significative occupandosi dell’organizzazione di classi di studenti nel campo di
internamento di Ferramonti, o in altri campi, e che avrebbero probabilmente saputo organizzare
qualcosa di simile a Fort Ontario. La seconda alternativa prevedeva il coinvolgimento delle agenzie
private che avrebbero potuto assumere dei docenti e sponsorizzare un vero programma di scuola, da
quella elementare a quella
liceale, all’interno del forte.
Fortunatamente, i primi
contatti con i referenti di
Oswego portarono subito
dei risultati positivi, come
l’invito, rivolto ai bambini,
di frequentare la scuola
della città.
Uno
dei
fattori
che
inizialmente sbloccò la
situazione fu l’iniziativa di
un
sacerdote
cattolico
incaricato dal vescovo di
Syracuse di occuparsi dei
cattolici presenti al forte.
Ciò aprì le porte alla
partecipazione dei bambini
cattolici
alla
scuola
parrocchiale della città. La
qual cosa ebbe l’effetto
indiretto di spianare la
strada per l’accettazione di
altri bambini nelle scuole
elementari,
medie
e
superiori.
In anni normali il sistema
scolastico di Oswego non
sarebbe stato in grado di
assorbire un numero così
rilevante
di
bambini
rifugiati
nelle
classi
regolari.
Tuttavia,
la
popolazione della città era
diminuita e di conseguneza
anche il numero di classi per ciascun insegnante era in calo. Pertanto, l’aggiunta di alcuni studenti
in ogni classe portò effetti benefici al sistema scolastico, soprattutto nella riqualificazione dei fondi
statali, assegnati in base al numero di alunni presenti.
Le agenzie private furono disposte a farsi carico del trasporto degli studenti che frequentavano le
scuole più lontane. Inoltre, fornirono i libri di scuola e tutto l’occorrente, oltre ad implementare
l’importo a disposizione del WRA per il pranzo, in modo tale che tutti gli alunni potessero avere
pasti caldi.
Passarono diverse settimane tra la decisione relativa al piano di inserimento nelle scuole e l’effettiva
apertura delle stesse 354 . Fu un periodo impegnativo legato soprattutto all’organizzazione e
all’espletamento di tutti i processi burocratici. I funzionari della scuola diedero il loro aiuto nella
registrazione degli studenti e nell’individuazione del grado di scuola che avrebbero dovuto
frequentare. Non si trattò di un compito facile, a causa della varietà delle lingue coinvolte e delle
lacune nella frequenza scolastica per la maggior parte dei bambini. Inoltre, si voleva evitare
l’inserimento di studenti più grandi
e/o
con
esperienze
di
vita
significative e avolte drammatiche, in
classi con bambini molto più piccoli,
ma che avevano avuto una continuità
nella scuola. Qualcuno fu sfiorato
dall’idea di creare delle classi
speciali, ma il WRA da un lato, i
genitori, le organizzazioni private e la
maggior parte dei funzionari della
scuola dall’altro, furono d’accordo
nel ritenere che il valore aggiunto
nell’avere degli studenti rifugiati
nelle scuole di Oswego si sarebbe
perduto se avessero vissuto in classi
segregate.
Tra le soluzioni adottate al fine di
colmare il divario esistente con gli
altri
alunni,
ci
fu
quella
dell’organizzazione,
per
diverse
settimane, da parte delle agenzie
private, di corsi intensivi di inglese
prima che iniziasse l’anno scolastico.
Qualche
tempo
dopo,
la
documentazione scolastica mostrava
che la maggior parte dei bambini
Una vignetta di Sipser tratta dall’Ontario Chronicle del 16.11.1944.
354
Da un breve articolo sulla scuola tratto dall’Ontario Chronicle del 16.11.1944: “Un totale di 189 figli di residenti
frequenta le scuole pubbliceh di Oswego (…). Gli alunni vanno dai 5 ai 21 anni e il totale comprende 101 ragazzi e 88
ragazze. Dieci bambini frequentano la scuola dell’infanzia alla scuola n° 2 e al St. Paul. Quarantuno alunni frequentano
la Oswego High School. Il resto, distribuito dal 1° al 9° grado di sucola, frequenta la scuola n° 2, Fitzhugh Park, e il
campus. Un asilo è stato organizzato direttamente nel forte, per 35 bambini tra i 2 anni e mezzo e i 5 anni.”
Fonte: http://cdm16694.contentdm.oclc.org/cdm/compoundobject/collection/p16694coll19/id/21/rec/16.
Nella pagina precedente, il memorandum consegnanto ai genitori con le regole da rispettare a scuola. Greenberg, Karen
J., cit., p. 207.
riusciva a svolgere autonomamente il proprio lavoro, anche se alcuni erano ancora ostacolati a
causa delle difficoltà linguistiche. Gli insegnanti e gli impiegati della scuola parlavano del forte
interesse che i bambini rifugiati avevano per il loro lavoro ed espressero l’opinione che in molti casi
ciò servì come incentivo per gli studenti della città. Tra l’altro, in un caso, un bambino rifugiato fu
eletto rappresentante della sua classe.
Durante questo periodo, il Comitato di coordinamento assunse un insegnante per attivare la scuola
materna del campo.
Per quanto riguarda i più grandi, una dozzina di loro aveva completato la scuola superiore o il suo
equivalente europeo. Nei primi giorni di presenza nel campo avevano chiesto il permesso di
frequentare il college. La maggior parte di essi speravano di essere autorizzati a immatricolarsi
presso istituzioni aventi sede fuori Oswego, come nel caso di due studenti di medicina che volevano
completare la loro istruzione. Secondo la normativa, però, questo non era possibile. All’inizio del
secondo semestre, nel mese di gennaio, agli studenti che volevano ottenere una qualifica fu
consentito di iscriversi all’Oswego State Teachers College. I costi di iscrizione e le altre spese
furono a carico delle agenzie che componevano il Comitato di coordinamento. Era previsto che gli
studenti autorizzati a frequentare l’università dovessero lavorare nel campo per l’equivalente di
almeno un giorno alla settimana.
5.6 Dalle prime illusioni allo scoramento
5.6.1 Le speranze iniziali
Le prime settimane dopo l’arrivo dei rifugiati al forte potrebbero essere definite una sorta di luna di
miele, periodo durante il quale i rifugiati apprezzarono sostanzialmente l’organizzazione del campo,
erano soddisfatti delle cure ricevute e per la prima volta in molti anni si sentivano al sicuro.
Dopo la fine della quarantena, finalmente, anche se parzialmente, liberi, poterono passeggiare per le
strade di Oswego, guardare le sue vetrine, fare acquisti, visitare la biblioteca, utilizzare l’ufficio
postale, ammirare il Barge Canal, lo State Teachers College e altri luoghi importanti della città. In
questo periodo, incontrarono molti dei loro parenti e amici americani che non speravano più di
rivedere e furono felici anche di ricevere, il 20 settembre del 1944, la visita di Eleanor Roosevelt e
di Elinor Morganthau, moglie del ministro del Tesoro.
A sinistra foto tratta da http://collections.yadvashem.org/photosarchive/en-us/5854513_28048.html.
A destra foto tratta da http://www.fatherryan.org/holocaust/oswego/links.htm: alla sinistra della signora Roosevelt
ci sono Elinor Morganthau, moglie del Ministro del Tesoro, Henry Morganthau Jr., e la rifugiata Dusanka Grin.
In quell’occasione la first lady potè sentire la vicinanza e l’affetto dei rifugiati, ma potè anche
verificare con mano quali fossero le aspirazioni e le ansie di chi, pur essendo al riparo dal terrore
nazista, sentiva la mancanza di ciò che più agognava: la libertà.
Durante la visita alle strutture, agli alloggi (in particolare quello di Dusanka Grin) e ai malati
ricoverati nell’ospedale interno del campo, le domande più frequenti che le furono rivolte dai
rifugiati riguardavano vari argomenti come l’istruzione, ma soprattutto il futuro. Magrita
Ehrenstamm le chiese: “Cara signora Roosevelt, cosa ci succederà quando la guerra sarà finita?
Saremo rimandati in Europa? Non ho una casa dove andare. La Gestapo mi ha preso tutto. Mia
figlia è qui e vuole che viva con lei a New York. Mio figlio Hans è ora in Europa come sergente
dell’esercito degli Stati Uniti.
Voglio essere qui quando lui
tornerà a casa.” 355 La Roosevelt
scosse la testa e rispose con un
onesto e asciutto: “Non lo so”.
Sulla stessa linea d’onda, Juda
Levi, alla guida del Consiglio
consultivo, a cui la moglie del
presidente chiese quali fossero i
problemi più importanti, rispose:
“La recinzione. (…). Vediamo i
prigionieri di guerra nazisti fuori
dalla nostra recinzione. Ci sono
delle guardie che li controllano.
Ma sono fuori e noi siamo dentro.
Persino i nostri bambini hanno
una carta e un numero e devono
mostrarla o gridare il proprio
numero alla guardia quando
vanno a scuola o quando
tornano.” 356
Nell’incontro
organizzato
nell’auditorium,
Eleanor
Roosevelt provò a rassicurare i
rifugiati affermando che sapeva
bene che vivere in un campo con
tutte le restrizioni del caso li
preoccupava, ma che almeno la
minaccia della morte non era più
presente nelle loro vite. Quella
sera stessa scrisse il suo articolo di
fondo “My day” dedicandolo alla
sua visita al forte. Lo concluse
Il primo numero del settimanale redatto dai rifugiati, l’Ontario
affermando: “In qualche modo si
Chronicle, in cui si dà risalto alla rielezione di F. D. Roosevelt. Fonte:
sente che se non vi è alcun
http://www.oswegopubliclibrary.org/node/1343.
355
356
Gruber, R., cit., p. 186.
Ibidem.
risarcimento per la sofferenza, bisognerebbe portare loro, un giorno, qualcosa di bello in cambio di
tutti gli orrori che hanno vissuto”. 357
Nella mente e nell’animo dei rifugiati, la speranza tornò a crescere agli inizi di novembre, in
occasione delle elezioni presidenziali che vedeva contrapposti il repubblicano Thomas Edmund
Dewey e il già tre volte presidente democratico Franklin Delano Roosevelt. Credevano fortemente
che dopo una nuova vittoria alle elezioni, Roosevelt avrebbe finalmente deciso di farli entrare negli
Stati Uniti. Ciò non avvenne e, qualche mese più tardi, il 12 aprile 1945, all’età di 63 anni, il
presidente si spense per un’emorragia cerebrale.
Cadute le speranze, non rimaneva che la certezza di un campo circondato da filo spinato, da cui si
poteva uscire solo con un permesso specifico e per sei ore al giorno, senza poter comunque varcare i
confini della città di Oswego. Paradossalmente si ritrovarono a vivere nelle stesse condizioni di
alcuni anni prima, quando furono costretti al cosiddetto internamento coatto nei piccoli comuni del
nord Italia. Dopo l’annuncio dell’armistizio da parte dell’Italia e dopo fughe rocambolesche, molti
di loro si erano ritrovati a vivere liberamente, anche se alcuni avevano scelto di rimanere nei campi
del sud Italia che assicuravano un alloggio più conveniente e provviste alimentari. Da questo punto
di vista, le restrizioni imposte dal governo americano risultavano ancora più dure e incomprensibili,
soprattutto rispetto a ciò che i rifugiati si aspettavano nel paese che aveva fatto della libertà il suo
vessillo.
Fu proprio nell’autunno del 1944 che cominciarono a essere più evidenti quei segni di malcontento
e irrequietezza che avrebbero caratterizzato la vita a Fort Ontario nel periodo successivo.
357
Eleanor Roosevelt tenne la rubrica “My Day” dal 30 dicembre 1935 al 26 settembre 1962, per sei giorni alla
settimana. Appariva su novanta giornali in tutti gli Stati Uniti. Si interruppe solo in occasione della morte di suo marito.
I suoi articoli le permisero di raggiungere milioni di americani con le sue opinioni su questioni sociali e politiche, sugli
eventi attuali e storici, sulla sua vita privata e pubblica.
Si veda http://www.gwu.edu/~erpapers/myday/. SEPTEMBER 22, 1944:
HYDE PARK, Thursday—Tuesday evening I went with Mrs. Henry Morgenthau, Jr., to Syracuse, where we spent the
night. In the morning Mr. Joseph Smart called for us, and we went to Oswego to visit the refugee shelter where the
United States is temporarily offering hospitality to 982 refugees from concentration camps in Italy. Our army there was
glad to have them come to this country, and since Fort Ontario is not being used at present, they are housed there in
soldiers’ barracks. Partitions have been put up, affording them some privacy, but only the absolute necessities of life
are being provided.
Forty-five cents a day per person is what is allowed for food. Regular iron cots and springs with cotton mattresses,
army blankets, an occasional bare table and a few stiff chairs—this is the furniture of what must be considered a
temporary home. Restrictions are plentiful, and there is much work to be done around the place; but at least the menace
of death is not ever-present. They have elected a committee of their own which decides on questions concerning camp
organization and direction, and they work closely with the camp director, Mr. Smart.
Oswego has an advisory committee that works with theirs, and they have set up recreation, education and business
sections, so that both the shelter and the city may profit by their contacts. Volunteers come out to teach English; but
since most of the people in the shelter are professional people and frequently have many talents, they, too, have much to
offer to the community. After lunch, for instance, an opera singer from Yugoslavia sang for us, and I have rarely
enjoyed anything more.
I was much touched by the flowers which were given me, and especially by some of the gifts, for these, in the absence of
money, represented work. One talented young woman had put a great deal of work into her temporary home. Although
clothes have to be hung on hooks in the wall, she had covered them with a piece of unbleached muslin, and up above
had painted and cut out figures of animals, stars and angels, which were placed all over the plain surface to become a
decorative wall covering.
Brightly colored pictures from magazines and papers had been cut out and pasted elsewhere on the walls, and colorful
covers had been made for their beds. The effort put into it speaks volumes for what these people have undergone, and
for the character which has brought them through. Somehow you feel that if there is any compensation for suffering, it
must someday bring them something beautiful in return for all the horrors they have lived through.
L’ultimo sussulto di un’apparente normalità andò in onda, a Natale, in uno speciale radiofonico di
quindici minuti della NBC, trasmesso dal forte, in cui alcuni rifugiati raccontarono le loro
esperienze ed espressero la loro gratitudine per essere stati accolti negli Stati Uniti. In
quell’occasione Joe Smart presentò diversi rifugiati cristiani a cui fu dato modo di soffermarsi sulle
loro storie. Tra gli altri parlarono Visko Marinković e Margaret Weinstein che si rivolse al pubblico
in questi termini:
“Sono una cristiana sposata con un ebreo, e a Vienna siamo stati entrambi gettati in prigione. Ora
vogliamo solo libertà e sicurezza e il diritto di vivere come esseri umani, non come animali braccati.
Tutto ciò che desidero per voi in America, e per tutti noi nel campo, è la pace.” 358
Il programma, impreziosito da alcune appropriate proposte musicali (tra cui Silent night) eseguite
dal coro di Fort Ontario, fu aperto da un discorso di Dorothy Thompson che sottolineò la particolare
condizione dei rifugiati e l’importanza di un gesto umanitario che, anche se nel discorso non era
esplicitato, poteva essere portato fino in fondo:
“Mille persone sono davvero poche in un mondo in cui milioni stanno morendo e i campi di
concentramento brulicano di perseguitati politici e razziali… Che cos’è uno, o cosa sono mille, tra
milioni di persone?...L’intero destino del genere umano è contenuto in una singola persona, e in una
singola persona risiede l’intero destino dell’umanità…Perciò… è per merito degli Stati Uniti che si è
cercato di salvare alcuni esseri umani e che è stato salvato un migliaio di loro.” 359
5.6.2 Il diffondersi del malcontento
Il periodo che va dal Natale 1944 alla fine della primavera del 1945 si rivelò uno dei più difficili per
i rifugiati e per l’intero campo di Fort Ontario a causa di diversi fattori.
Uno di questi fu il lungo e duro inverno che caratterizzò la parte nord dello Stato di New York. Ad
Oswego ci fu una nevicata che raggiunse un totale di 116 pollici (quasi tre metri), 50 dei quali nel
solo mese di gennaio. Una lettera del 6 gennaio del direttore del campo ricordava le condizioni in
cui si trovarono a vivere i rifugiati, affermando che era “impossibile mantenere le persone a Fort
Ontario in salute e sicurezza e senza pericolo effettivo della vita”. Aggiunse che, a causa delle gravi
condizioni meteo, molte persone non erano in grado “di lasciare gli edifici, persino per i loro pasti”
e che “il modo in cui sono costruiti gli edifici è tale che risulta difficile stare al caldo.”
Inoltre, riferì che la condizione delle persone si stava deteriorando a causa della situazione e
sottolineò che circa la metà dei residenti era “per età o condizione fisica incapace di sopportare
rigorose condizioni ambientali”. 360
Un secondo fattore, ancor più importante e decisivo, fu costituito dal fatto che i residenti si resero
conto che sarebbero rimasti a Fort Ontario per un periodo indeterminato. Non avevano previsto che
le dichiarazioni del presidente Roosevelt nel suo annuncio del progetto sarebbero state così
rigidamente rispettate. Col passare del tempo, divenne sempre più evidente che non sarebbero stati
“liberati” a breve per vivere negli Stati Uniti. Inoltre, i giornali e le riviste, la cui presenza aveva
caratterizzato il loro arrivo, persero interesse nei loro confronti; allo stesso modo i visitatori di
Oswego divennero sempre meno con l’arrivo dell’inverno e, in generale, i rifugiati cominciarono a
percepirsi come parte di un “villaggio dimenticato”.
Ad incidere ancor più negativamente sulla situazione psicologica dei rifugiati, in quello stesso
periodo, ci furono due tragici eventi.
358
Gruber, R. cit., p. 197.
Ivi, pp. 196-197. Si veda anche Lowenstein, S. R., cit. p. 148.
360
Token shipment, cit. p. 45
359
Il 28 dicembre, la trentaduenne Karoline Bleier, madre di due bambini, si suicidò. Il signor Bleier
aveva notato da qualche settimana che la moglie sembrava agitata e depressa e che il suo
comportamento verso i bambini era molto strano. Tuttavia, egli aveva attribuito i suoi atteggiamenti
alle preoccupazioni legate al destino di altri due figli, frutto di un precedente matrimonio, che lei
aveva lasciato in Europa. In una fredda serata, disse al marito che sarebbe andata in città e lo lasciò
a casa con i bambini. Quando non la videro rientrare all’ora del coprifuoco, la polizia cominciò le
ricerche, ma fu solo al mattino seguente che il suo corpo fu ritrovato, vicino al Barge Canal, a circa
un miglio dal forte. Non era finita in acqua, ma era apparentemente morta per assideramento.
L’autopsia indicò che aveva ingerito cento compresse di aspirina prima di lasciare il rifugio.
Il marito, Geza, distrutto dal dolore, non riuscì a reagire. Un gruppo di donne, guidate da Magrita
Ehrenstamm gli portò del cibo e cercò di occuparsi dei figli, Ronald (2 anni) e George (quasi 11
mesi). Alla fine, vedendo che Geza non riusciva più ad occuparsi di loro, affidarono i due bambini
ad una famiglia del forte.
Sempre nello stesso arco di tempo, segnali sinistri pervenivano anche dagli altri rifugiati. Gli
uomini che erano addetti ai lavori necessari per il funzionamento del campo, continuavano ad
avvertire strani dolori al petto, mal di testa, mal di schiena, gambe gonfie. Ormai la possibilità che i
lavori quotidiani venissero eseguiti era nelle mani dei medici che ogni giorni compilavano un bel
po’ di certificati su cui scrivevano “inabile al lavoro”.
In questo contesto di sconforto e pessimismo, un giorno, il dr.
Ernst Wolff 361 portò a Ruth Gruber un manoscritto che aveva
intitolato “Storm in the Shelter”:
“Notte. Sono a letto, e fuori la tempesta ulula - no, non sta
ululando; sta correndo - a 43 miglia all’ora. Fischia in un
concerto infernale attraverso tutte le cicatrici del mio alloggio
costruito con leggerezza. Ringrazio il Signore per la nobile
nazione americana e per il suo meraviglioso Presidente. Sì, li
ringrazio con tutto il mio essere - ma. È un ‘ma’ anche dopo che
mi sono stati offerti umanità, radio, biancheria intima, vestiti,
scarpe, cibo, alloggi, strutture per lo svago e così via. Nonostante
tutto questo, ‘ma’? Sì, ma. Perché nessuno mi offre ciò per cui il
mio cuore sta languendo e il santuario al quale anche l’ultima
creatura sulla terra di Dio ha diritto: LIBERTÀ!...
Mi è stato detto che noi profughi siamo prigionieri (ci era stato
detto che saremmo stati ospiti - che ironia!) perché non abbiamo
nessuno status secondo la legge: così noi esistiamo in un vuoto giuridico, sotto una sentenza più crudele
di quella di un criminale comune - la sentenza dell’incertezza... Per cosa abbiamo pianto sangue dai
nostri occhi e l’umanità si è battuta il petto lamentandosi per noi? Dobbiamo essere prigionieri nella
Terra Promessa? Per quale libertà l’America sta combattendo una guerra all’estero se poi la perde nella
vergogna a Fort Ontario?
Non voglio essere mantenuto ulteriormente: voglio essere di nuovo un uomo libero” 362
361
Il dott. Wolff è stato uno scrittore viennese, autore di sessanta romanzi, e ha lavorato anche ad Hollywood, negli anni
Venti come sceneggiatore, prima di tornare a Vienna. Fonte della foto: http://www.gettyimages.it/detail/fotografie-dicronaca/viennese-scenario-writer-and-novelist-dr-ernst-fotografie-di-cronaca/50649323.
362
Gruber, R., cit., pp. 198-199.
La forza di volontà e il desiderio di libertà espressi da Ernst Wolff trovarono un ostacolo non solo
nella politica americana che era ben
lungi dal prendere una decisione
favorevole ai rifugiati di Fort Ontario,
ma anche in altri episodi che minarono
ulteriormente il loro morale.
Se nel caso della signora Bleier si era
trattato di un gesto doloroso, ma pur
sempre di un atto volontario, dettato
anche dalle terribili notizie sui crimini
nazisti che giungevano negli Stati Uniti
e che l’avevano portata a vivere in un
perenne stato di ansia per i suoi figli, il
secondo incidente fu ancora più
devastante nei suoi effetti sui pensieri e
sui sentimenti dei profughi, tanto più
che era strettamente legato alla
questione dei lavori da eseguire per il
mantenimento del campo.
Arpad Buchler, 42 anni, uno dei
lavoratori più coscienziosi di Fort
Ontario, si occupava regolarmente dei
mezzi di trasporto, ma il 19 febbraio
1945 gli spettava un incarico diverso,
previsto dal sistema di rotazione.
Doveva far parte di un gruppo che
scaricava il carbone per poi distribuirlo
ai singoli edifici del campo.
Nei giorni precedenti aveva fatto
talemente freddo che la sommità di un
enorme ammasso di carbone si era
congelata, e quando gli uomini trassero
fuori il carbone dal mucchio si venne a
creare un sovrastante cornicione di
carbone congelato. Quel giorno, il
tempo si era riscaldato un po’ ed era
cominciato il disgelo. Ad un tratto la
sporgenza cedette e Buchler fu sepolto
dal carbone. Gli altri operai cercarono
freneticamente di tirarlo fuori, ma quando lo raggiunsero era già morto. Lasciò la moglie, quattro
figli sotto ai dieci anni di età e sua madre che, già malata, era stata ricoverata nell’ospedale del
campo. Il numero dell’Ontario Chronicle del 22 febbraio fu quasi totalmente dedicato al tragico
evento 363 .
363
L’immagie si riferisce all’articolo in prima pagina dell’Ontario Chronicle.
Fonte: http://cdm16694.contentdm.oclc.org/cdm/compoundobject/collection/p16694coll19/id/73/rec/25.
5.6.3 L’opinione degli esperti
Resosi conto della pesante situazione, alla fine di dicembre del 1944, il WRA organizzò la visita al
campo di Fort Ontario da parte del dott. Curt Bondy del Dipartimento di Psicologia del William e
Mary College. Era stato un consulente per l’UNRRA e aveva accumulato diverse esperienze nei
molti anni di lavoro all’estero nei campi profughi.
Il dott. Bondy non condivideva l’utilizzo di campi profughi dal momento in cui era possibile trovare
altre forme di sistemazione. Sebbene non ebbe modo di visitare Fort Ontario per un periodo
sufficientemente lungo, dato che rimase nel campo dal 30 dicembre 1944 al 2 gennaio 1945, i suoi
giudizi coincisero in misura sorprendente con il pensiero diffuso tra i membri dell’amministrazione
e tra i rappresentanti delle agenzie private che erano preoccupati per la prospettiva di una lunga
permanenza dei rifugiati all’interno di Fort Ontario.
Curt Bondy trovò l’atmosfera che si respirava all’interno del campo malsana e i rifugiati inquieti e
insoddisfatti. Alcune delle ragioni di insoddisfazione erano quelle comuni a tutti i campi di
internamento:
- l’isolamento e la perdita di libertà, insieme al contatto troppo ravvicinato con lo stesso gruppo di
persone;
- la perdita di denaro e della posizione sociale;
- l’invidia nei confronti di coloro che erano liberi di vivere vite più fruttuose;
- la natura indeterminata della detenzione.
Altre fonti di insoddisfazione erano proprie del gruppo di Fort Ontario. I rifugiati non erano stati in
imminente pericolo di morte o di fame in Italia, e in una certa misura avevano avuto libertà di
movimento dopo l’arrivo degli Alleati. Alcuni si erano guadagnati da vivere lavorando per loro o
negoziando al mercato nero. Molti non avevano, o così dissero, pienamente compreso le condizioni
del loro soggiorno negli Stati Uniti.
Il dott. Bondy prestò una certa attenzione al problema del lavoro, che era particolarmente sentito al
momento della sua visita. Scoprì che i principali fattori di preoccupazione erano:
1. il gruppo relativamente piccolo di uomini disponibili per il lavoro, la maggior parte dei quali non
era abituata ad un duro lavoro fisico e lo considerava degradante;
2. l’errata interpretazione del testo del documento firmato in Italia in cui si affermava che i profughi
sarebbero stati “ospiti degli Stati Uniti”, che sarebbero stati “mantenuti al rifugio,” e che il campo
sarebbe stato organizzato “per prendersi cura per bene dei rifugiati”;
3. la politica dei salari e delle indennità in base alla quale un lavoratore a tempo pieno riceveva solo
9.50 $ al mese in più di una persona esentata dal lavoro per motivi di salute o per altre ragioni;
4. la mancanza di uno spirito comunitario, dal momento che non vi era alcun legame di nazionalità,
religione o estrazione sociale. Effettivamente, il dottor Bondy sottolineò il fatto che il loro passato li
aveva resi più individualisti.
Egli raccomandò di adottare soluzioni provvisorie, seguendo le richieste dei rifugiati, soprattutto
concedendo ai lavoratori l’aumento dei compensi per i lavori più pesanti o poco graditi; inviando un
esperto sui salari in modo tale che potesse formulare raccomandazioni; evitando i metodi coercitivi
che dovevano essere utilizzati solo se assolutamente necessari. Anche il dottor Bondy era stato un
internato, nel campo di Buchenwald per la precisione. Aveva maturato un rifiuto dell’uso della
coercizione, ma arrivò alla conclusione che la vita in un campo può produrre comportamenti
negativi ed aggressivi che, seppur a malincuore, richiedevano risposte forti. Raccomandò così,
previa spiegazione delle misure ai rifugiati, la sospensione o il ritiro dei permessi di uscita
giornalieri o, nei casi più gravi, la detenzione ad Ellis Island.
Per quanto riguardava il campo nel suo complesso, il consiglio principale del dott. Bondy era quello
di chiuderlo il prima possibile. Fino al giorno in cui ciò sarebbe diventato realtà, suggerì di
instaurare un sistema di licenze per alleviare lo stress causato dal domicilio coatto.
Chiese anche la costituzione di un nuovo consiglio consultivo, eletto sulla base dei gruppi nazionali,
che potesse interagire da subito con l’amministrazione, per sostituire il consiglio che aveva
rassegnato le dimissioni a causa dell’impossibilità di risolvere proprio il problema del lavoro.
Il rapporto di Bondy 364 arrivò sul tavolo di Ickes che a tal proposito, il 12 marzo 1945, scrisse a
Dillon Myer 365 . La reazione del ministro al rapporto di Bondy fu piuttosto dura. Prima di tutto
sottolineò che lo psicologo aveva consigliato di chiudere il campo senza spiegare come farlo e dove
condurre i rifugiati, poi si soffermò sul fatto che Bondy non aveva minimamente preso in
considerazione “il sentimento molto forte in questo paese contro ogni ulteriore immigrazione. Non
posso immaginare niente di meglio per aggiungere benzina al sentimento antisemita (…).”
Più in generale, Ickes disse di non essere impressionato dal rapporto di Bondy, paragonato ad un
entomologo che studia degli insetti con la sua lente di ingrandimento, descrivendone le azioni e le
probabili cause. Da qui il secondo affondo nei confronti dello psicologo e un’amara considerazione:
“Forse non avremmo dovuto portare i rifugiati in questo paese. Forse molti, se non la maggior parte,
è arrivata senza la dovuta considerazione e malgrado il fatto che, come ci è stato detto, stavano
meglio nel Sud Italia di quanto lo sarebbero ad Oswego. Personalmente, sento che questi internati
sarebbero dovuti andare alle Isole Vergini dove le condizioni climatiche non sarebbero state come
quelle di cui si lamenta il dott. Bondy.”
La Lowenstein avverte nelle parole di Ickes un senso di frustrazione per la complessità relativa alla
gestione del campo (da questo punto di vista la sua autorià non riusciva ad avere una presa
sufficiente sul forte) e dei problemi che sembravano infiniti e senza soluzione 366 . In effetti, nella sua
lettera, Ickes sembra realmente manifestare una certa rabbia o comunque il suo disappunto per una
situazione che non si riusciva a sbloccare. Non a caso, affermò che “evidentemente abbiamo
sbagliato nel portare qui queste persone, ma non sento nessun senso di colpa verso una situazione
che deploro liberamente”, né verso errori compiuti da altri, come da coloro che avevano snaturato
algi occhi dei rifugiati il progetto di Roosevelt e presentandolo come qualcosa che non poteva
essere o diventare, in base agli accordi iniziali.
L’unica cosa su cui concordò con Bondy, il cui apporto non veniva comunque considerato di nessun
aiuto né particolarmente illuminante, e che lo impressionò negativamente era che “ad Oswego non
stiamo facendo bene il nostro lavoro come avremmo dovuto farlo”.
Ickes concluse, ancor più duramente, spiegando che ciò di cui avevano bisogno ad Oswego erano
delle persone in grado di far capire ai rifugiati i propri obblighi. “Se ci sono individui nel gruppo
che non riescono ad adattarsi ad una situazione da cui nella migliore delle ipotesi non ci si può
aspettare di essere troppo felici, dovremmo fare il possibile per farli ritornare in Europa o in altri
luoghi in cui sarebbero più propensi a inserirsi nel contesto sociale”.
Le raccomandazioni del dottor Bondy non furono prese in considerazione e non si trasformarono in
regole interne né in accorgimenti particolari. Solo nel WRA suscitò un qualche interesse, anche
perché cominciò a pensare che il rimpatrio o l’uso del rimpatrio come una minaccia, potesse essere
una misura coercitiva alternativa.
Appare interessante collegare le scelte future di alcuni gruppi di rifugiati e il dibattito che si era
aperto in quel momento. La Lowenstein riporta l’argomentazione di Edward Spicer, analista delle
364
In Greenberg, Karen J., cit., pp. 230-231, è riportata una sintesi del rapport del dott. Bondy.
Ivi, pp. 232-233. Si veda anche Lowenstein, S. R., cit., p. 81.
366
Lowenstein, S. R., cit. p. 81.
365
comunità, che, scrivendo a Bondy, affermò che gli jugoslavi erano stati il gruppo più insoddisfatto
“dal giorno stesso in cui salirono sulla nave a Napoli” e, visto che le vittorie di Tito rendevano il
rimpatrio un’opzione sempre più desiderabile, si poteva permettere loro di rimanere ad Oswego se
avessero capito “gli obiettivi da qui in avanti”. 367
Come si vedrà, non fu un caso se, al di là delle scelte di singoli rifugiati, quello jugoslavo costituì
l’unico gruppo che chiese il rimpatrio e 66 di loro partirono pochi mesi dopo, nell’estate del 1945.
In realtà tali ragionamenti potevano valere solo per loro, dato che le condizioni di partenza degli
altri rifugiati e quelle del periodo preso in considerazione, non permettevano molte scelte se non
quella di rimanere e aspettare, in un circolo vizioso che avrebbe portato all’aumento dei casi di
disagio psicologico e sociale.
Durante l’inverno la maggior parte degli adulti mostrò segni di nevrosi come irritabilità, sospetti
irrazionali, risentimenti. Sei persone soffrirono di disordini pscichiatrici gravi.
Baruch Fink: sessantadue anni, ex commerciante tessile austriaco, originario della
Polonia, aveva una moglie di cui non conosceva la sorte ed era solo a Fort Ontario.
Ricoverato in una struttura psichiatrica a Long Island ai primi di gennaio dopo diversi
gravi scoppi di ira, tornò più di tre mesi dopo, e continuò ad avere bisogno di
un’alternativa alla vita nel campo. Quando il forte fu chiuso, i funzionari
dell’immigrazione lo dichiararono inammissibile. Tornò all’Amityville Convalescent
Hospital di Long Island.
Gisela Greif: trentanove anni, contabile di origine polacca, sola nel campo. Portata
all’Amityville Hospital nel mese di gennaio, rimase incapace di badare a se stessa e non
tornò più al forte.
Elsa Blau in Porjesz: casalinga austriaca di sessantadue anni, viveva con suo marito, un
ex contabile. Senza figli e senza parenti americani, avevano sofferto numerose
separazioni e internamenti. Entrambi erano “estremamente nervosi” ed era difficile
trattare con loro. Ai primi di marzo lei cadde in uno stato catatonico e rimase
completamente senza comunicare fino a quando ricevette dei trattamenti con
l’elettroshock ad Amityville. Tornò al forte prima della fine del mese e rimase in una
condizione precaria, ma non presentò i documenti per l’immigrazione con suo marito
quando il campo fu chiuso.
Josef Rosenzweig: barbiere austriaco di quarantasette anni, era solo e non aveva parenti
americani. Ricoverato allo Psychiatric Hospital di Philadelphia all’inizio di febbraio per
sordità isterica e comportamento irregolare, tornò al campo un po’ migliorato sei
settimane dopo. Giudicato inammissibile per l’immigrazione, tornò a Philadelphia per
proseguire le cure.
Rachele Ovadia: ventiquattro anni, viveva nel forte con i suoi genitori e la sorella. Si
sposò nel campo. Le fu diagnosticata una sindrome maniaco depressiva e fu ricoverata
nell’ospedale di Syracuse. Tornò al forte mostrando leggeri miglioramenti. Si presentò
per le procedure di immigrazione quando il campo fu chiuso.
367
Ibidem.
Feibish Koppelman: commerciante austriaco di sessantadue anni, fu il caso più triste.
Era parzialmente paralizzato, sordo, e soffriva di febbre tifoide cronica a causa delle
torture subite a Dachau e alle deprivazioni vissute in altri campi. La moglie e le due
figlie, entrambe sposate con soldati delle Forze Armate americane, vivevano in
California. Chiesero disperatamente il suo rilascio da Fort Ontario in modo da potersi
occupare di lui. Feibish uscì dal campo solo il 26 novembre del 1945 e morì meno di tre
mesi dopo. 368
Tenuto conto dei casi descritti e della situazione generale dei rifugiati, nel marzo del 1945, si decise
di avvalersi delle prestazioni di uno psichiatra all’interno del campo, per fare un’ulteriore
valutazione della situazione. In collaborazione con le agenzie private, la scelta cadde sul dottor
Rudolph Dreikurs di Chicago che, dal 29 marzo al 9 aprile, esaminò un certo numero di persone che
gli furono segnalate. Condusse anche diverse discussioni di gruppo per determinare gli effetti del
loro attuale modo di vivere. Durante queste riunioni, i rifugiati avevano la possibilità di esprimere le
loro paure e i loro desideri. In questo modo Dreikurs tentò di interpretare le emozioni e le reazioni
che stavano vivendo nella situazione in cui si trovavano.
Alla fine delle sue analisi individuò tre categorie di rifugiati. La prima mostrava un alterato
funzionamento emotivo e intellettuale che risultava da numerosi conflitti nelle situazioni sociali e
da una grande sofferenza personale. La maggior parte di loro trovava impossibile accettare le regole
e le restrizioni previste a Fort Ontario. Dreikurs pensava che avrebbero potuto diventare dei
provocatori in qualsiasi momento.
Il secondo gruppo esibiva comportamenti anticonformisti, di solito per la prima volta, dato che
prima alcuni comportamenti erano latenti o incanalati in comportamenti costruttivi. Tra di loro
c’erano diversi rifugiati che si sentivano frustrati perché non avevano la minima possibilità di
riprendere il loro lavoro e di riconquistare la posizione che avevano prima della guerra.
Il terzo gruppo, quello più grande, mostrava varie forme di nevrosi spesso legate a idee
persecutorie.
Inoltre Dreikurs sottolineò il fatto che la promiscuità e la mancanza di privacy esacerbava le
relazioni anche all’interno delle famiglie. A ciò si aggiungeva la creazione di uno scontro
generazionale che si manifestò soprattutto a livello lavorativo, dato che i più giovani cercavano di
uscire dal campo, sfruttando i permessi il più possibile ed evitando di adeguarsi alle richieste
relative ai lavori da svolgere nel forte.
Anche per lo psichiatra, una delle soluzioni era quella di alleggerire le regole interne al campo,
soprattutto per quanto riguardava i permessi di uscita, anzi sollecitava la concessione di permessi
temporanei.
Contestualmente Dreikurs si soffermò sulla situazione dei bambini. In molti casi i genitori, per
motivi diversi, non riuscivano a prendersi cura di loro in maniera adeguata, mentre in altri, i
bambini stessi avevano problemi, difficili da affrontare da parte dei genitori. Sarebbe stato
necessario, secondo lo psichiatra, istituire una sorta di casa dei bambini all’interno del campo in cui
farli vivere sotto la supervisione di alcuni adulti. Inoltre, Dreikurs segnalò l’importanza di avere un
programma strutturato di attività ricreative da dedicare ai bambini e ai ragazzi sin da subito, senza
aspettare l’estate.
Nel suo report finale, Dreikurs spiegò:
368
I casi sono descritti in Lowenstein, S. R., pp. 82-83.
“Era probabilmente signifiativo e non incidentale che un numero di pazienti soffriva di problemi cardiaci
con sintomi simili che consistevano in gravi attacchi di paura, con dolore attorno alla testa e altri sintomi
legati al cuore, ma senza corrispondenze organiche… Una breve analisi dei problemi psicologici di
questi pazienti rivelava il vero significato dei sintomi. Essi erano tutti diretti contro la situazione di vita…
Tutte queste persone erano estremamente gentili e simpatiche, molte di loro erano persone di un certo
successo, e all’improvviso si sono trovate in una situazione in cui non potevano svolgere nessun lavoro
significativo e persero la speranza. Allo stato attuale un’ eccitazione incidentale ha dato inizio ad un
disturbo che è diventato il loro unico interesse: da lì in avanti hanno vissuto solo per le loro nevrosi.” 369
In molti casi, la documentazione prodotta dal medico fu trasmessa a Washington dal direttore di
Fort Ontario che in questo modo segnalava la sua convinzione: l’ulteriore permanenza nel campo da
parte degli individui in questione, avrebbe potuto compromettere seriamente la loro futura stabilità e
la loro salute. Questi risultati furono poi girati dal WRA al generale William O’Dwyer, direttore
esecutivo del WRB. Il WRA trovò impraticabili i consigli di Dreikurs, anche se alcune
raccomandazioni furono poi attuate.
La spinta verso una soluzione della situazione relativa allo status dei rifugiati e quindi verso la
chiusura del campo, esortata da Bondy e Dreikurs, trovò un’ulteriore eco nel rapporto che Ruth
Gruber, dopo una nuova visita al campo, presentò al Ministro degli interni e che intitolò Otto mesi
dopo. Dopo aver descritto le sue impressioni e aver registrato i cambiamenti rispetto all’agosto
precedente, la Gruber raccomandò di chiudere il campo il prima possibile e concluse affermando:
“Dovremmo permettere a coloro i quali sono eleggibili per entrare negli Stati Uniti di attraversare il
confine in Canada e rientrare negli Stati Uniti all’interno delle regolari quote su una base individuale. È
tempo di mostrare che questa amministrazione ha una politica di decenza, umanità e coscienza e il
coraggio di portare a compimento quella politica” 370
Non mancarono ovviamente lettere, articoli, memoriali prodotti dai rifugiati stessi. Da questo punto di
vista l’Ontario Chronicle fu un megafono efficiente. Proprio in quel periodo, a fine aprile 1945, il dottor
Landau, editore associato del settimanale, il dott. Lederer e il dott. Ernst, si recarono, in piena notte, da
Joe Smart. Volevano notizie sulla voce che si era diffusa all’interno del campo e proveniente, secondo i
tre rifugiati, da un informatore di Washington, circa il rimpatrio in Europa di tutti i rifugiati. Secondo
loro era stata fissata anche la data: 30 giugno 1945.
Il giorno dopo il New York Daily e il Jewish Morning Journal uscirono con la notizia in prima pagina.
I giornali riportarono come fonte il nome del generale O’Dwyer, il nuovo direttore esecutivo del WRB.
In realtà la data del 30 giugno avrebbe dovuto segnare la conclusione dell’esperienza del WRB che
stava per essere chiuso. Alcuni, all’interno dello stesso WRB, pensarono che la chiusura
dell’organizzazione potesse coincidere con quella del campo. Ad ogni modo, dopo qualche ora, arrivò la
smentita di O’Dwyer. L’incidente non era chiuso ed ebbe importanti conseguenze: da un lato fece
crescere la tensione e la preoccupazione dei rifugiati che cominciarono a fare pressione affinchè fosse
ascoltata la loro posizione; dall’altro portò alle dimissioni di Smart, convinto ormai che l’unico modo
per smuovere le acque fosse quello di creare un comitato indipendente composto da importanti
personalità, prima tra tutte Eleanor Roosevelt.
Sull’Ontario Chronicle, il dottor Landau si fece portavoce dei pensieri dei rifugiati:
369
370
Lowenstein, S. R., cit., p. 86.
Gruber, R., cit., p. 208.
“Potrebbero avere veramente l’intenzione di rimpatriare un residente, che sfortunatamente
è nato in Germania o Austria, nei Paesi di Buchenwald, Auschwitz e Dachau? Potrebbe
avere senso l’azione di salvataggio di un popolo che ha sofferto così tanto quando le
persone salvate saranno rispedite in Polonia, dove, come tutti sanno, la situazione politica
è più che confusa? Il generale D. Eisenhower ha recentemente dato l’ordine affinchè
nessun cittadino polacco che è stato liberato dai campi tedeschi sia forzato a tornare in
Polonia contro la sua propria libera volontà. Per molti di noi tornare ‘nei loro paesi
d’origine in Europa’ significa niente di più e niente di meno che una condanna a morte.” 371
5.7 Gli aspetti economici
5.7.1 Il problema della compensazione
A parte lo shock per l’incidente ed il cordoglio espresso alla famiglia Buchler per la morte di Arpad
durante un turno di lavoro, i rifugiati sollevarono la questione dell’indennizzo al quale la famiglia
aveva diritto. A quel tempo il funzionamento di Fort Ontario era assicurato dai soldi assegnati dal
Fondo di Emergenza del Presidente. Diversi mesi prima del giugno 1945, fu votato uno
stanziamento regolare del Congresso per il funzionamento del campo 372 . La United States
Employees Compensation Commission decise che, date le circostanze, i rifugiati impiegati nel
campo non potevano accedere al risarcimento ai sensi del Compensation Act.
Il WRA, nel chiudere l’anno fiscale, il 30 giugno 1946, inserì una disposizione retroattiva
all’apertura del campo, che avrebbe portato i lavoratori rifugiati di Fort Ontario sotto la protezione
delle United States Employees Compensation Laws. Ciò fu effettivamente realizzato, ma durante i
mesi intercorsi tra l’incidente di Arpad Buchler e l’approvazione dello stanziamento da parte del
Congresso, non c’era nessuna certezza che il risarcimento sarebbe arrivato. Questo fu un fattore di
disturbo all’interno del campo e intensificò la riluttanza dei lavoratori rifugiati ad impegnarsi in
compiti considerati pericolosi.
In connessione con l’incidente mortale di Arpad Buchler, il WRA incaricò il Ministero dell’Interno
che inviò un investigatore a Fort Ontario per fare un’indagine approfondita sulle cause
dell’incidente. Virgil P. Wallace, Supervising Field Representative del Ministero, visitò il
campo e, il 17 marzo 1945, stilò una relazione in cui si diceva in sostanza che, sebbene nessun
individuo fosse direttamente responsabile dell’accaduto e tenuto conto dell’inesperienza dei
lavoratori, la responsabilità andava rintracciata nell’inadeguatezza della supervisione al lavoro
svolto dai rifugiati, così come nelle misure adottate per la loro sicurezza. Wallace richiamò
l’attenzione sul fatto che, sebbene Washington avesse sollecitato la creazione di un Consiglio di
sicurezza, nulla era stato fatto in quel senso.
5.7.2 Il rimborso delle somme depositate
Un segnale positivo arrivò alla fine di febbraio 1945, quando le somme possedute dai rifugiati, in
valute estere, furono finalmente rimborsate e ciò significò per molti la fine della dipendenza totale
371
Gruber, R., cit., pp. 212-213.
Si veda http://www.gpo.gov/fdsys/pkg/GPO-HPREC-DESCHLERS-V7/html/GPO-HPREC-DESCHLERS-V7-4-22.htm. Nel documento è presente il seguente passaggio relativo a Fort Ontario:
WAR RELOCATION AUTHORITY
Salaries and expenses: The limitation in the appropriation for salaries and expenses, War Relocation Authority, in the
National War Agency Appropriation Act, 1945, on the amount which may be expended for travel is hereby increased
from $375,000 to $475,000; and of said appropriation not to exceed $280,477 is made available for expenses incurred
during the fiscal year 1945 incident to the establishment, maintenance, and operation of the emergency refugee shelter
at Fort Ontario, N.Y., provided for in the President’s message of June 12, 1944, to the Congress (H. Doc. 656).
372
dalle indennità governative. In realtà il direttore del campo, in un memorandum del 21 dicembre
1944 373 , mise in evidenza la preoccupazione del governo e delle agenzie ebraiche per l’uso delle
somme, dato che temevano la reazione dell’opinione pubblica e di quella di Oswego in particolare.
Già in altre occasioni, c’era stato qualche commento critico nei confronti di alcuni rifugiati che
avevano a disposizione dei soldi, in realtà giunti tramite dei privati, poi spesi in città. Probabilmente
qualcuno avrebbe potuto puntare il dito contro il fatto che dei rifugiati, pur in possesso di somme di
denaro, erano comunque sostenuti dai fondi governativi.
Fatto sta che prima di lasciare l’Europa, le autorità dell’esercito chiesero ai rifugiati di dichiarare e
consegnare tutti i soldi in loro possesso, rassicurandoli sul fatto che, al momento dell’arrivo negli
USA, avrebbero “alla fine” ricevuto il valore in dollari dei beni consegnati. Solo alcuni mesi dopo,
a seguito della verifica delle somme depositate, il War Refugee Board, in relazione con l’American
Jewish Joint Distribution Committee, elaborò un metodo con cui effettuare la conversione delle lire
e di altre valute.
I pagamenti cominciarono il 28 febbraio. Il valore complessivo dei fondi convertiti ammontarono a
84.983 $, con una media di meno di 100 $ a persona. La somma più alta, posseduta da un solo
rifugiato, era di circa 2.500 $. Molti altri, invece, non possedevano assolutamente nulla.
Delle 585 persone che avevano depositato dei soldi, solo 97 avevano ricevuto somme superiori a
250 $:
- 64 avevano depositato importi fino a 500 $
- 25 da 500 a 1.000 $
- 8 sopra i 1.000 $. 374
Ai rifugiati fu offerta la possibilità di ricevere i soldi in contanti, su un conto bancario di risparmio
o sotto forma di obbligazioni di guerra degli Stati Uniti. Si stabilì, tuttavia, che le persone in
possesso di un certo importo in contanti non avrebbero ricevuto le sovvenzioni previste per un certo
periodo di tempo. Circa il 90 per cento del totale fu convertito in titoli di guerra degli Stati Uniti,
mentre la maggior parte dei conguagli fu depositata in conti di risparmio. Fu la soluzione ideale
anche per il governo e per gli amministratori del campo. Lo stesso Smart sottolineò che la scelta dei
bond sarebbe stata vista di buon occhio dall’opinione pubblica. Inoltre, l’idea più diffusa era quella
per cui i soldi sarebbero serviti soprattutto dopo la chiusura del forte e a ciò si univa il fatto che
Washington aveva posto un limite ai prelievi in relazione al pagamento delle sovvenzioni. Una
famiglia avrebbe potuto ritirare fino a 25 $ a persona senza ricevere il pagamento dei normali
sussidi, mentre nel caso di prelievo di somme maggiori, la parte eccedente sarebbe stata dedotta dai
futuri sussidi 375 .
5.8 Le attività per il tempo libero
Durante il periodo invernale, le agenzie private, in collaborazione con il personale del campo,
fecero del loro meglio per sponsorizzare attività per il tempo libero e nell’ambito educativo, al fine
di alleviare la monotonia della vita a Fort Ontario.
Tra le varie attività va segnalato il corso d’arte. Inoltre, singoli artisti, a cui fu assegnato uno spazio
adeguato, realizzarono alcuni dei loro migliori lavori.
Ernst Wolff, scrittore e drammaturgo, scrisse un articolo sulla sua esperienza di rifugiato in Italia
che fu accettato dal The Commonweal.
373
Greenberg, Karen J., cit., pp. 199-200.
Token shipment, cit., p. 53.
375
Come nota 373.
374
Molti dei cantanti e dei musicisti presenti tra i rifugiati si esibirono ad Oswego e in altre città vicine.
Ci furono anche alcune produzioni teatrali. Il gruppo austro-tedesco realizzò una rappresentazione
presso lo State Teachers College. I bielorussi, che avevano formato il proprio gruppo “Sea Gull”, si
esibirono in allegre perfomance di elevato calibro.
Si riuscì ad allegerire la tensione e ad ironizzare anche sulla situazione lavorativa. Il sistema di
“rotazione” fu messo alla berlina sul palco e fu oggetto di un articolo sull’Ontario Chronicle del 18
gennaio 1945, intitolato “Ho rimosso la spazzatura”, di cui si riportano alcuni brani:
“Venerdì scorso è stato il mio D-day, chiedo sucsa, G-day, dal momento che mi è stato chiesto di aiutare
a rimuovere la spazzatura. (…)
Carbone o rifiuti, questo è il problema, e io preferisco la spazzatura. (…).
Noi siamo in cinque, tutti bravi ragazzi dai 36 ai 54 anni che maneggiano i pesanti bidoni come se
fossero palle da tennis. Il mio lavoro è quello di prendere i bidoni e di svuotarli nel camion. A volte i
rifiuti sono ghiacciati ed è necessario fare più volte boum-boum, ovvero battere i bidoni con forza sul
pavimento prima che i rifiuti accettino gentilmente di lasciare il loro contenitore.
L’immondizia è un materiale interessante, che riflette lo spirito dei nostri residenti. Alcune baracche
sono molto intellettuali e la loro immondizia è principalmente composta di giornali con in testa
l’“ONTARIO CHRONICAL”. Altri hanno una mente più materialista, con pacchetti vuoti di sigarette,
scatole di biscotti, barattoli, ecc. (…).
Nel pomeriggio, (…) il materiale principale che rimuoviamo sono le ceneri, un fratellastro della
spazzatura e un membro della famiglia del carbone. (…)
Secoli fa le ceneri erano un simbolo di tristezza, ma dubito che le ceneri che i nostri antenati si sono
cosparse sulle loro teste fossero della buona qualità di quelle di Fort Ontario, che è un po’ pesante. Il
lavoro nelle stanze delle caldaie ci rende assetati, ma la mensa è vicina e la birra è fresca. E così ‘Tutto è
bene quel che finisce bene’ e tra birra, belle canzoni jugoslave e una piacevole chiacchierata con
l’autista americano, che è un bravo ragazzo, termina la mia storica giornata. Ho rimosso la
spazzatura.” 376
Col passare dei mesi, anche
grazie al lavoro delle agenzie
private, il campo si trasformò in
un luogo di creatività, immerso
nelle più svariate attività
sportive, culturali 377 , sociali e
anche
religiose,
senza
dimenticare il campo musicale. I
rifugiati riuscirono a costituire
sia il Fort Ontario Chorus, sia la
Fort Ontario Orchestra nonché,
qualche tempo dopo, il Fort
Ontario Chamber Trio costituito
dalla
trentasettenne
Vera
376
Ivi, pp. 54-55.
Nel campo era attiva anche una biblioteca. Già nella prima settimana di ottobre del 1944, tra i 40 e i 45 residenti al
giorno ne avevano fatto uso. Erano stati prestati 280 libri agli adulti e 50 ai ragazzi (240 libri in tedesco, 40 in inglese,
20 in yiddish e francese, 10 in ceco). Nella biblioteca erano presenti 2317 libri per adulti (di cui 1414 in tedesco, 605 in
inglese, 250 in yiddish 38 in francese e 10 in ceco) e 1176 per bambini (600 in tedesco, 550 in inglese, 26 in ceco), oltre
a 172 libri di grammatica Greenberg, Karen J., cit., p. 184.
377
Levinson 378 , una pianista russa, dal treatatrenne
Albert Schimel, violinista austriaco, e dal
trentacinquenne George Steinberg 379 , un violista.
Tra i cantanti bisogna ricordare le già citate Eva
Bass e Manya Hartmayer.
Sally Schnaymann, organista e direttore del coro
in una sinagoga di Berlino per trent’anni, si
occupò non solo del Fort Ontario Choir, ma
anche del coro della sinagoga liberale.
Charles Abeles, l’autore dell’opera The golden
cage, organizzò e condusse l’orchestra del campo
e aprì una scuola in cui dava lezioni di
composizione, teoria e musica strumentale.
Abeles compose diverse scenette e operette, tra
cui The captain Korn March, Miss Gruber’s
Fox Trott e I have a girl in Springfield, Mass. Il
mese della musica ebraica del maggio 1945
non fece che mettere in evidenza i talenti
presenti a Fort Ontario 380 .
Tra gli artisti impossibile non nominare Miriam
Sommerburg. Un filantropo di New York,
Adolph Lewisohn, finanziò i suoi studi e lei,
che durante gli anni di fuga aveva perso i suoi
strumenti e si era dedicata agli acquarelli e
all’intaglio, riprese a scolpire. Con il tempo le
sue opere sono state esposte in vari paesi, tra
cui Italia, Francia e Germania.
L’aiuto delle agenzie private, l’iniziativa
individuale, il bisogno di esprimersi dei rifugati
unito al sentimento della vita che ricominciava
378
Secondo quanto riportato dalla Lowenstein, la Levinson si era rifiutata di suonare fino a quando non seppe che i figli
più grandi erano al sicuro in Europa. Lowenstein, S. R., cit., p. 144.
379
Ingegnere elettronico di origini polacche, tenuto ostaggio dai tedeschi dopo la prima guerra mondiale, fu espulso con
sua moglie nel 1940. Lowenstein, S. R., cit., p. 144.
380
Nella pagina precedente, giovani ebrei a Fort Ontario mentre cantano accompagnati da un fisarmonicista. Tra le
persone ritratte ci sono Elfi Strauber, Liesel Bader, Ruth Hendel, Walter Arnstein, Ernest Spitzer, Leo Levic, Wilko
Kremer, David Hendel, Henny Notowitz, Adam Munz, Fortunee Levic, Paul Bokros, Ivo Lederer, Paul Arnstein, Neli
Bokros e Herman Kremer. Fonte: www.ushmm.org. In questa pagina, in basso, la vignetta di Max Sipser per l’Ontario
Chronicle del 14.12.1944 (http://cdm16694.contentdm.oclc.org/cdm/compoundobject/collection/p16694coll19/id/5/rec/13).
In basso, il programma di un’esibizione teatrale. In Greenberg, Karen J., p . 216.
a scorrere, riuscirono, nel quotidiano, ad alleviare le passate sofferenze e le presenti ansie. Ciò fu
ulteriormente favorito dall’arrivo, nel marzo 1945, di Edward Huberman, inviato dal WRA per
gestire al meglio l’organizzazione delle attività interne al campo, che fino a quel momento avevano
sofferto la mancanza di una pianificazione e di una continuità.
Gli spettacoli cominciarono ad avere cadenza bisettimanale, i film erano programmati per cinque
sere alla settimana, furono implementati il numero e i tipi di corsi offerti ai rifugiati, una volta alla
settimana si tenevano lezioni e film educativi. Oltre a venire incontro alle esigenze dei singoli
rifugiati, Huberman pensò anche ad implementare lo spirito di gruppo. Fu così che tra il 30 aprile e
il 5 maggio 1945 si organizzò una grande esposizione dei lavori che portò nel campo centinaia di
visitatori. Nel mese di luglio ci fu il Lawn Festival con una serie di giochi adatti a tutte le età,
mentre durante il resto dell’estate si tennero feste, danze e gare sportive, a partire
dall’americanissimo baseball.
Il settimanale del campo, l’Ontario Chronicle, ebbe un ruolo di primo piano all’interno delle attività
descritte e, più in generale, di tutta la vita del campo. Scritto in inglese anche per favorire
l’apprendimento della nuova lingua, il giornale riportava tutti gli avvenimenti, dalle nascite alle
morti, dagli eventi culturali ai problemi legati al lavoro, dai messaggi del direttore del campo alle
lettere, dalle notizie storiche a quelle di attualità, fino alle vignette satiriche di Max Sipser.
6. Segnali di progresso
In questo periodo furono effettuati diversi importanti cambiamenti nella gestione del personale al
fine di migliorare le prestazioni dei reparti operativi. All’inizio di febbraio, un ufficiale
amministrativo fu nominato per coordinare il lavoro delle unità che si occupavano della parte
fiscale, del personale, dei rifornimenti e della mensa. Lo stesso giorno fu nominato un nuovo capo
sezione per l’assistenza ai rifugiati. Nel mese di marzo, come visto, fu assunto Huberman, uno
specialista nell’organizzazione delle comunità che si occupò delle relazioni e della gestione dei
rapporti del WRA con il comitato di coordinamento e con le altre agenzie private che lavoravano
nell’ambito ricreativo ed educativo. Il 1° aprile, entrò in carica il nuovo direttore medico.
Tre di queste quattro posizioni chiave furono affidate a persone che avevano avuto esperienze nei
centri di trasferimento. Le persone selezionate rimasero nel forte fino alla sua chiusura (quasi un
anno dopo) e ciò contribuì a dare una continuità ai progetti avviati.
L’attenzione era rivolta ancora al funzionamento quotidiano del “rifugio”, ma il WRA aveva
iniziato a guardare avanti. Sebbene non ci fosse ancora nessun piano per il futuro dei residenti del
campo, l’Autorità ritenne importante raccogliere tutte le loro storie, sulla base di
interviste, che non solo avrebbero fornito gli aspetti essenziali del loro passato, ma anche
informazioni sui loro legami con i paesi di provenienza, sui loro desideri per la futura residenza e su
altri elementi che avrebbero potuto essere utili nell’elaborazione di programmi per il loro futuro.
Al momento dell’arrivo del gruppo, il WRA aveva ricevuto, per ogni famiglia, una scheda di
registrazione preparata dall’esercito. I dati erano incompleti e, in alcuni casi, imprecisi.
L’aggiornamento delle schede, iniziato nel mese di ottobre del 1944, andava a rilento.
Un’accelerazione si ebbe con gli inizi dell’anno, quando l’International Migration Service si
interessò alla questione e mise a disposizione del progetto parte del suo personale che si sarebbe
occupato di concludere le interviste. L’interesse dell’IMS era connesso alla possibilità di avere un
modello su cui poter lavorare, al fine di ottenere informazioni utili alle agenzie intergovernative e a
tutti coloro che giocavano un ruolo di primo piano nella gestione internazionale degli sfollati,
destinata a diventare uno dei più grandi problemi nel dopoguerra. Contemporanemente l’IMS stava
sviluppando un progetto simile in un campo profughi in Svizzera.
Il sondaggio fu completato nel febbraio 1945 e all’inizio della primavera i dati erano pronti,
rivelando alcuni interessanti elementi riguardanti la popolazione di Fort Ontario.
Una delle aree oggetto dello studio dell’IMS riguardava i piani per il futuro dei rifugiati e le
caratteristiche del gruppo che avrebbero potuto facilitare o ritardare la realizzazione di questi piani.
Tabella 7 - Piani per il futuro dei rifugiati di Fort Ontario. 381
N° di capifamiglia
(n° tot. delle persone)
Piani per il futuro
304
(641)
Rimanere negli Stati Uniti
68
(133)
Essere rimpatriati
9 volevano andare in un
paese diverso da quello in
cui avevano avuto l’ultima
cittadinanza.
31
(42)
93
(166)
381
22 desideravano andare in
qualsiasi posto ma non negli
Stati Uniti, nel paese di
ultima cittadinanza o in cui
avevano stabilito la propria
residenza.
Note
Si tratta di persone appartenenti a tutte le nazionalità. Molti
avevano già tentato di arrivare negli Stati Uniti e avevano già
espletato alcune delle pratiche del processo di immigrazione
prima di lasciare l’Europa. 14 avevano già ricevuto i visti, 4
avevano avuto un’approvazione consultiva senza ricevere i
visti, 116 erano in possesso di altri documenti ma non avevano
ricevuto i visti.
Dei 304 capifamiglia, 226 avevano 400 parenti negli Stati
Uniti, di cui 22 nelle forze armate; nell’insieme, più di 100
appartenevano alla categoria dei parenti stretti.
In questo gruppo c’erano: 182 austriaci, 170 jugoslavi, 117
polacchi, 70 tedeschi, 17 cechi, 17 rumeni, 13 russi, 11
francesi, 10 turchi, 8 di Danzica, 5 spagnoli, 4 bulgari, 4 greci,
4 libici, 3 ungheresi e belgi, 2 italiani e 1 olandese.
I motivi erano diversi:
- il desiderio di aiutare a ricostruire il proprio paese;
- ritrovare altri membri della famiglia;
- le difficoltà di adattamento in un ambiente nuovo;
- la possibilità di recuperare beni e di tornare al lavoro
precedente.
Gli jugoslavi, 52 capifamiglia che rappresentavano 111
persone, erano di gran lunga il gruppo che desiderava
maggiormente tornare in patria. Il resto del gruppo era
composto da 15 austriaci, 4 cechi, 2 tedeschi e 1 polacco. Il
Consolato jugoslavo a New York aveva inviato un
questionario agli jugoslavi presenti al forte chiedendo loro di
registrarsi per tornare in patria. Almeno 150 risposero
positivamente al Consolato.
Il gruppo includeva 11 austriaci, 11 tedeschi, 8 jugoslavi, 8
polacchi, 2 cechi, 1 francese e 1 russo. Le destinazioni
preferite erano l’Africa, l’Australia, la Palestina, l’America del
Sud e l’Inghilterra. Più in dettaglio:
- 10 chiesero di andare in Inghilterra
- 7 in Palestina
- 6 in Australia
- 5 in Brasile
- 3 in Svizzera, Italia e Argentina
- 2 in Francia
- 1 in Germania, Sud Africa e Canada.
Le richieste erano legate spesso alla presenza di parenti nei
paesi richiesti.
Erano incerti o non avevano
programmi.
Token shipment, cit., pp. 51-52; Greenberg, Karen J., cit., pp. 239-242.
L’analisi 382 mostrò che il 56 per cento dei 496 nuclei familiari erano integri, ovvero con tutti i
membri diretti della famiglia presenti a Fort Ontario. L’altro 44 per cento aveva una parte della
propria famiglia altrove, per lo più in luoghi sconosciuti. In almeno 71 casi, i coniugi erano stati
deportati dai nazisti verso destinazioni sconosciute. 447 rifugiati, che componevano 270 unità
familiari, avevano perso la loro cittadinanza, principalmente a causa delle leggi razziali.
L’indagine fornì elementi importanti al WRA nella battaglia per ottenere lo status di immigrati per i
residenti del campo e, anche se la soluzione era ancora lontana, fu utile per i rifugiati stessi che, in
un momento non certo facile della loro permanenza nel forte, trovarono nuove motivazioni per
pensare alle loro speranze e ai loro progetti.
6.1 La prima partenza
Alcune di queste speranze divennero realtà il 27 febbraio 1945 (un mese dopo la liberazione di
Auschwitz), in occasione della prima partenza dal campo di Fort Ontario. La signora Elsa
Neumann, una donna austriaca di 60 anni, aveva ottenuto un visto dall’Unione del Sud Africa, dove
vivevano i suoi figli. La guerra non era ancora finita e non era semplice organizzare un viaggio di
quel tipo, ma con l’assistenza del National Council of Jewish Women, la signora Neumann partì per
Città del Capo passando per Lisbona e per Lorenzo Marques (oggi Maputo in Mozambico, allora
colonia portoghese). Non aveva un passaporto valido, ma il WRA preparò un affidavit in
sostituzione del passaporto, che fu accettato dal Consolato del Sud Africa a New York.
Quello stesso giorno il Ministro degli Interni scrisse al generale O’Dwyer, direttore del WRB 383 ,
insistendo, con riferimenti dettagliati, sull’urgenza di attuare un progetto basato sulla partenza dei
rifugiati verso località degli Stati Uniti all’interno di un quadro di sponsorizzazioni garantite da
cittadini o da agenzie private. Dopo aver richiamato la difficile situazione dei rifugiati e tutti gli
elementi a favore di una soluzione del genere, Harold Ickes spiegò quali fossero i passi da
intraprendere. I rifugiati avrebbero dovuto presentare una domanda al WRA per ottenere la
residenza al di fuori del campo per un periodo indefinito. Tale residenza sarebbe stata revocata nel
momento in cui il gorverno avesse concluso i piani per l’organizzazione del loro rientro nei paesi di
origine. Per quanto riguarda le agenzie private, avrebbero assicurato il WRA assumendosi la
responsabilità dell’intera operazione, dal trasporto al mantenimenro dei rifugiati, dalle cure mediche
all’eventuale ricerca del lavoro. Ciò avrebbe favorito anche il ricongiungimento con i parenti
presenti negli Stati Uniti. Ovviamente Ickes prevedeva delle specifiche misure di sicurezza che
arrivavano al controllo di coloro che erano considerati tecnicamente appartenenti a una nazionalità
nemica e al rilascio di una carta di indentificazione per tutti i rifugiati aderenti al progetto.
Il piano del ministero, più volte richiamato nelle discussioni, nei documenti e nelle speranze dei
rifugiati non sortì nessun effetto.
382
Si veda il rapporto che Dillon Myer inviò a O’Dwyer il 26 aprile 1945, sette giorni dopo l’incontro in cui fu discussa
la situazione. In Greenberg, Karen J., cit., pp. 239-242.
383
Greenberg, Karen J., cit., pp. 201-203.
7. Dopo Roosevelt: nuove motivazioni
I rifugiati rimasero scioccati e addolorati
per la morte del presidente Roosevelt,
avvenuta il 12 aprile 1945. Per
l’occasione, al forte si tenne una funzione
religiosa speciale.
È possibile immaginare l’ambivalenza dei
sentimenti dei rifugiati nei confronti di
Roosevelt. Era il presidente verso il quale
nutrivano un certo malcontento per la
mancata soluzione della loro situazione,
eppure lo consideravano un simbolo della
vita
cui
aspiravano,
anche
in
considerazione del fatto che fu un suo atto
che aveva permesso loro di lasciare
l’Europa e di approdare negli Stati Uniti.
Pur essendo ancora confinati, avevano
continuato a credere che in qualche modo,
nonostante
le
sue
molte
altre
responsabilità e preoccupazioni, egli fosse
consapevole della loro situazione e al
momento opportuno si sarebbe attivato per
la loro libertà. A parte la perdita del
presidente degli Stati Uniti in un momento
così critico per il mondo intero, di cui i
rifugiati si rendevano pienamente conto,
loro avvertirono che ora sarebbe stato più
difficile trovare una soluzione alla propria
situazione personale. Speranze ed illusioni
si rincorrevano in continuazione e sulla
spinta di questi sentimenti altalenanti, gli
abitanti del forte iniziarono a premere
nuovamente per una modifica delle
decisioni prese circa un anno prima e
Numero dell’Ontario Chronicle del 19 aprile 1945, dedicato
ancora ancorate al modulo che avevano
alla morte di F. D. Roosevelt.
Fonte: www.oswegopubliclibrary.org/node/1343.
firmato in Italia.
In quel periodo, un brano popolare,
ascoltato alla radio, divenne la loro canzone di riferimento: Don’t fence me in. Si tratta di un brano
risalente al 1934, composto per Adios, Argentina, un film musicale che poi non fu più prodotto dalla
20th Century Fox. Il produttore, Lou Brock, dopo aver ricevuto il libro di poesie di Robert Fletcher,
poeta e ingegnere del Dipartimento delle autostrade di Helena (Montana), chiese a quest’ultimo di
scrivere una canzone dal titolo Don’t fence me in.
Cole Porter ne acquistò i diritti per 250 $. L’accordo prevedeva che Porter avrebbe potuto usare il
titolo e riscrivere il testo, se avesse voluto, oltre ovviamente alla musica.
Porter conservò alcune parti della poesia originaria di Fletcher 384 , intitolata Open Range e contenuta
nel libro Coral Dust, (“Give me land, lots of land”, “... breeze ... cottonwood trees”, “turn me loose,
let me straddle my old saddle,” “mountains rise ... western skies”, “cayuse”, “where the west
commences,” and “... hobbles ... can’t stand fences”), ma in altri casi sostituì intere frasi o aggiunse
dei versi 385 .
Dieci anni dopo, nel 1944, la Warner Bros ripescò Don’t fence me in proponendola a Roy Rogers
nel film Hollywood Canteen. Molti ascoltarono la canzone per la prima volta quando Kate Smith la
inserì nella sua trasmissione radiofonica dell’8 ottobre 1944 386 .
Leggendo i versi della canzone, si può capire perché i rifugiati si riconoscessero in quelle parole. A
partire dal titolo, Non intrappolarmi (fence significa recinto, staccionata, ma anche difesa), i
residenti di Fort Ontario potevano esprimere ciò che pensavano e sentivano:
384
Una volta rielaborata la poesia di Fletcher, Porter pubblicò il brano e il testo fu accreditato esclusivamente a lui.
Porter avrebbe voluto far risultare Fletcher come co-autore, ma i suoi editori non acconsentirono. Tuttavia, quando la
canzone divenne popolare, Fletcher ingaggiò alcuni avvocati che diedero inizio ad un’azione legale per far sì che fosse
riconosciuto come co-autore nelle edizioni successive.
385
Si mettono a confronto i testi della poesia di Robert H. Fletcher, la canzone da lui stesso scritta e la versione finale di
Cole Porter.
Open Range di Robert Fletcher
Western land was made for those
Who like land wild and free,
For cattle, deer, and buffalo,
For antelope and me;
For those who like a land the way
That it was made by God
Before men thought they could improve
By plowing up the sod.
I want the rivers running clean,
I want a clear, blue sky,
A place to draw a good, deep breath
And live, before I die.
I want the sage, I want the grass,
I want the curlew's call,
And I don't want just half a loaf,—
I've got to have it all.
These cities seem to ear me down
And I can't stand their roar,
They make me have the itching foot
To get back West once more.
I hate the milling herds in town
With all their soot and grime,
I wouldn't trade a western trail
For Broadway any time.
Just give me country big and wide
With benchland, hills and breaks,
With coulees, cactus, buttes and range,
With creeks, and mountain lakes,
Until I cross the Great Divide,
Then, God, forgive each sin
And turn me loose on my cayuse
But please don't fence me in.
386
Canzone di Robert Fletcher
Don't fence me in.
Give me land, lots of land,
Stretching miles across the West,
Don't fence me in.
Let me ride where it's wide,
For somehow I like it best.
I want to see the stars,
I want to feel the breeze,
I want to smell the sage,
And hear the cottonwood trees.
Just turn me loose,
Let me straddle my old saddle
Where the shining mountains rise.
On my cayuse
I'll go siftin': I'll go driftin'
Underneath those Western skies.
I've got to get where
The West commences
I can't stand hobbles
I can't stand fences,
Don't fence me in.
Canzone di Cole Porter
VERSE 1
Wild Cat Kelly, looking mighty pale,
Was standing by the sheriff's side,
And when that sheriff said,
"I'm sending you to jail,"
Wild Cat raised his head and cried:
REFRAIN
Oh, give me land, lots of land under starry skies above
Don't fence me in
Let me ride through the wide open country that I love
Don't fence me in
Let me be by myself in the evenin' breeze
And listen to the murmur of the cottonwood trees
Send me off forever but I ask you please
Don't fence me in
Just turn me loose, let me straddle my old saddle
Underneath the western skies
On my Cayuse, let me wander over yonder
Till I see the mountains rise
I want to ride to the ridge where the west commences
And gaze at the moon till I lose my senses
And I can't look at hovels and I can't stand fences
Don't fence me in
VERSE 2
Wild Cat Kelly, back again in town,
Was sitting by his sweetheart's side,
And when his sweetheart said,
"Come on, let's settle down,"
Wild Cat raised his head and cried:
REPEAT REFRAIN
Successivamente la canzone fu registrata, quello stesso anno, anche da Bing Crosby insieme alle Andrews Sisters.
Crosby entrò in studio il 25 luglio 1944, senza aver mai sentito prima la canzone. Nel giro di 30 minuti, lui e le
Andrews Sisters avevano eseguito la registrazione, che poi vendette oltre un milione di copie e giunse in cima alla
classifica di Billboard dove rimase per otto settimane nel periodo 1944-45. Altre versioni celebri furono quelle dei
“singin cowboy” come Gene Autry e Willie Nelson con Leon Russell. L’anno dopo, la canzone venne inserita in un
altro film con Roy Rogers, Don’t fence me in (1945) e fu eseguita dallo stesso Roy Rogers, da Dale Evans e dai Sons of
the Pioneers. L’anno successivo (1946), un film biografico su Cole Porter utilizzò una clip da Hollywood Canteen in cui
Rogers cantava Don’t fence me in. Ella Fitzgerald registrò questo pezzo per il suo album Verve, Cole Porter Songbook,
che fu pubblicato dalla stessa etichetta anche come Ella Fitzgerald Sings More Cole Porter.
Dammi la terra, molta terra sotto i cieli stellati,
non intrappolarmi.
Lasciami cavalcare per la campagna sconfinata che io amo
non intrappolarmi.
Lasciami stare per conto mio nella brezza serale
per ascoltare il mormorio degli alberi di cotone,
mandami via per sempre ma ti chiedo, per favore,
di non intrappolarmi.
Semplicemente liberami, lasciami montare sulla mia vecchia sella
sotto i cieli occidentali.
Oh mia Cayuse, lasciami vagare lontano
fino a vedere le montagne che si ergono.
Voglio cavalcare sulla catena montuosa dalla quale inizia l’occidente
e osservare la luna fino a perdere i sensi
e non posso guardare le stamberghe e non posso sopportare gli steccati
non intrappolarmi.
La storia di Fort Ontario stava entrando in una fase in cui tutte le persone coinvolte, dai rifugiati ai
loro parenti e amici, dalle agenzie ai comitati interessati fino allo stesso WRA, compirono tutti gli
sforzi possibili per trovare una via d’uscita allo stato di detenzione in cui si trovavano da quasi un
anno.
8. La spinta finale
Nella primavera del 1945 iniziò il periodo più ricco di eventi nella storia dei rifugiati di Fort
Ontario. Due furono gli avvenimenti che segnarono profondamente la loro memoria e che diedero il
segnale di un cambiamento: il V-E Day 387 e le dimissioni del primo direttore del forte.
Fino al V-E Day l’interesse principale dei rifugiati era costituito dall’ottenimento della libertà al
fine di condurre una vita normale negli Stati Uniti. Nello stesso tempo il WRA faceva pressioni sul
War Refugee Board e sul Dipartimento di Giustizia per ottenere le autorizzazioni necessarie per la
partenza dei rifugiati dal campo sulla base delle sponsorizzazioni delle agenzie private.
L’annuncio della vittoria nella seconda guerra mondiale, almeno in Europa, spostò l’attenzione dei
rifugiati sulle parole con cui il presidente Roosevelt aveva presentato il progetto al Congresso: i
rifugiati sarebbero stati rimpatriati alla fine della guerra. Ora che la fase europea della guerra era
finita, molti si resero conto che la soluzione prospettata da Roosevelt era a portata di mano, ma
nella loro mente il timore di tornare in paesi con i quali non avevano più nessun legame, soprattutto
dopo tutto quello che era accaduto, oscurò tutti gli altri pensieri.
Iniziò un lungo periodo di incertezza che può essere identificato con il lasso di tempo tra il giorno
della vittoria e la fine del 1945. I rifugiati vissero un’altalena di emozioni segnate da voci imminenti
sulla riacquistata libertà e sulla possibilità di essere formalmente accettati come immigrati negli
Stati Uniti, ma anche da periodi in cui tutto sembrava andare per il verso sbagliato e il rimpatrio
sembrava inevitabile. Nella lunga snervante attesa, l’unica speranza derivava dalla logica
conclusione che il governo avrebbe dovuto comunque fare qualcosa, dato che non poteva lasciarli a
387
Victory in Europe Day, la Giornata della Vittoria in Europa, proclamata l’8 maggio del 1945 a seguito della resa
incondizionata della Germania agli Alleati.
Fort Ontario per sempre. Ormai tutte le motivazioni portate fino a quel momento a favore della loro
permanenza nel campo non reggevano più.
A Washington, il War Refugee Board stava prendendo in seria condiserazione il futuro del rifugiati,
anche a seguito dei rapporti inviati dal WRA sulle difficoltà del periodo invernale appena trascorso,
sui pareri dello psicologo e dello psichiatra, sulla crescente pressione delle agenzie private e sulle
molte lettere ricevute dai rifugiati o dagli americani in loro favore. Il Ministero della Giustizia,
tuttavia, aveva rifiutato la raccomandazione del Ministero dell’Interno, riguardante un programma
sponsorizzato di partenze, e il War Refugee Board non aveva soluzioni alternative.
Inoltre, il 19 aprile 1945, si tenne un incontro a Washington a cui parteciaprono rappresentanti del
WRB, del Dipartimento di Stato, del Ministero della Giustizia, del WRA, dell’UNRRA e
dell’Intergovernmental Committee on Refugees 388 . Si discusse della possibilità di sviluppare un
piano che prevedeva il rimpatrio per quei rifugiati che desideravano tornare nei propri paesi di
orgine o in altri paesi. Il destino degli altri, invece, rimaneva in bilico, anche se il Ministero della
Giustizia spiegò che la possibilità di far entrare i rifugiati negli Stati Uniti era legata ad una normale
procedura tesa ad esaminare le singole situazioni e all’assicurazione, richiesta dal governo
canadese, che le persone portate in Canada per cambiare il proprio status sarebbero state riammesse
negli Stati Uniti. Si trattava di un meccanismo già utilizzato in precedenza per altri rifugiati, ma il
Ministero della Giustizia fece notare che non era mai stato approvato dal Congresso e quindi c’era il
pericolo che non fosse ritenuto valido. A quel punto forse l’unica soluzione era rimpatriare in
Europa i rifugiati che da lì avrebbero potuto fare domanda per entrare negli Stati Uniti. In assenza di
altre soluzioni ritenute fattibili, il direttore esecutivo del WRB chiese la collaborazione
dell’UNRRA per trasferire tutta la popolazione del forte in Italia.
Ed Marks del WRA rispose che quella soluzione avrebbe mostrato l’incoerenza americana nel
portare negli Stati Uniti dei rifugiati, ospitarli per un periodo e poi riportarli indietro come fossero
bagagli. Anche se O’Dwyer condivideva questo punto di vista, non vedeva nessuna possibile
soluzione da un punto di vista legale e normativo. Sia Marks sia Ennis, rappresentante del Ministero
della Giustizia, proposero di cominciare da coloro che desideravano essere rimpatriati nei loro paesi
di origine o in altri luoghi e, in un secondo momento, di cercare una soluzione per tutti gli altri. Tra
questi ultimi, ad esempio, potevano essere analizzati casi particolari, come quelli di rifugiati che
avevano parenti nelle forze armate americane.
Per il momento si decise che sarebbe stato opportuno avere maggiori informazioni su ciò che
realmente desideravano i rifugiati (v. tabella 7) ed in base ai risultati O’Dwyer avrebbe scritto
ufficialmente all’UNRRA, al Ministero della Giustizia e al Comitato intergovernativo sui rifugiati
affinchè ci occupassero rispettivamente del rimpatrio (organizzazione del trasporto nei paesi di
origine oppure in Italia o altrove per coloro che non erano rimpatriabili), dei rifugiati che volevano
rimanere negli Stati Uniti, degli apolidi e dei rifugiati che non potevano essere rimpatriati, oltre che
di quelli che desideravano emigrare in altri paesi.
8.1 Le dimissioni del direttore Smart
Convinto che sarebbe stato in grado di dare un contributo maggiore alla causa della libertà dei
rifugiati agendo dall’esterno, Joseph H. Smart annunciò le sue dimissioni ed il 19 maggio del 1945
lasciò il suo incarico 389 . Qualche giorno prima, il direttore del WRA, Dillon Myer, si era recato in
388
Greenberg, Karen J., cit., pp. 235-238. Si veda anche Final summary report of the WRB executive director in
America and Holocaust, cit., p. 177.
389
Nell’immagine, la prima pagina dell’Ontario Chronicle del 10.05.1945 che riporta anche le parole di Smart: “Mi
sono dimesso da direttore dell’Emergency Refugee Shelter e sto lasciando il servizio governativo per dedicarmi a
tempo pieno agli interessi dei rifugiati di Fort Ontario. (…). Molte agenzie private hanno assistito in molti modi, tra
visita al campo e aveva parlato a tutti i
rifugiati, spiegando quali fossero i passi
compiuti dal WRA per ottenere la loro libertà.
In quell’occasione annunciò che Malcolm
Pitts, Vice Direttore del WRA, avrebbe preso
il posto di Smart.
Quest’ultimo
organizzò
un
comitato
nazionale, conosciuto come Friends of Fort
Ontario Guest-Refugees, Inc. e stabilì la sua
sede centrale a New York. Il comitato di
sostegno, composto da personalità di spicco,
lavorò per la liberazione dei rifugiati e per
ottenere il permesso di presentare domanda di
ammissione negli Stati Uniti in base a quanto
previsto dalle leggi sull’immigrazione. Il 9
luglio, il comitato trasmise una dichiarazione
al presidente Truman, firmata da 100
importanti voci americani, tra cui Eleanor
Roosevelt e Robert A. Taft, senatore
dell’Ohio, in cui chiedevano la libertà per il
gruppo di rifugiati.
Oltre a questo lavoro, Smart mantenne i suoi
contatti con il forte attraverso la costituzione
di un Comitato per la liberazione composto
dai residenti di Fort Ontario. Anche se questa
commissione
non
aveva
nessuna
legittimazione ufficiale, includeva un certo
numero di residenti, alcuni dei quali erano
favorevoli ad un politica moderata che si
opponeva, quindi, a qualsiasi manifestazione
che potesse gettare discredito sui rifugiati stessi. D’altro canto, c’erano diversi membri del comitato
che ritenevano, invece, che solo con attività pubbliche avrebbero ottenuto la visibilità necessaria.
Smart sapeva che l’unico modo era quello di agire sull’opinione pubblica, ma non ignorava la
regola d’oro: sfruttare tutte le occasioni a favore della causa, senza provocare incomprensioni ed
esacerbare gli animi. Ad esempio, in un messaggio inviato il 10 settembre a Dillon Meyer 390 , l’ex
direttore mise in evidenza i dati che era riuscito a raccogliere consultando le 523 lettere inviate dagli
ascoltatori in risposta all’invito di Robert St. John, commentatore radiofonico della NBC. St. John
dedicò diverse puntate ai rifugiati di Fort Ontario e chiese ai suoi ascoltatori di esprimersi
liberamente sul problema, spiegando cosa avrebbero dovuto fare gli Stati Uniti. Smart chiese a St.
cui la fornitura di servizi per l’educazione, le attività ricreative e religiose. Tuttavia, i rifugiati hanno molti porblemi
che hanno bisogno di un’attenzione continua da parte di qualcuno e non c’è nessuna agenzia che possa offrire tali
servizi necessari al di fuori del campo. È importante che siano preparati dei piani per il futuro immediatamente
indipendentamente da dove andranno, e questo sarà il mio principale obiettivo, lavorando in cooperazione con le
agenzie ufficiali e private coinvolte nella pianificazione (…). Spero di essere utile nella ricerca dei modi in cui questi
vari desideri e bisogni possano essere esauditi.”
Fonte: http://cdm16694.contentdm.oclc.org/cdm/compoundobject/collection/p16694coll19/id/197/rec/42.
390
Greenberg, Karen J., cit., pp. 253-256.
John di analizzare quelle risposte, arrivando alla conclusione che il 79% era favorevole alla
permanenza dei rifugiati, il 17% si era mostrato contrario, mentre il 4% era incerto. L’analisi
comprendeva anche un’attenzione per i luoghi da cui erano arrivate le lettere. Se un numero
rilevante giunse dal New England, la maggior parte fu spedita dagli Stati del centro-nord, del MidWest e del Sud. Molte furono scritte dalle zone rurali, ben poche erano firmate da persone residenti
sulla costa orientale, così come da cittadini con nomi stranieri o ebraici.
Tra i favorevoli molti usarono argomentazioni basate sui principi cristiani o su citazioni tratte dalla
Bibbia. Quasi tutti mostrarono impazienza per una questione che ormai si trascinava da tempo e
molti addebitavano al governo la responsabilità di un ritardo che ai loro occhi appariva vergognoso.
Per Smart era un modo per fare pressione, dimostrando come sicuramente gli americani fossero
pronti ad accettare l’idea dell’ingresso definitivo dei rifugiati. Anche alcuni che erano contrari ad
una politica liberale sul tema dell’immigrazione, si mostrarono favorevoli, in considerazione del
fatto che il gruppo dei rifugiati era piccolo e si trovava già in America.
Un ascoltatore scrisse: “Per cosa, nel nome del cielo, stiamo combattendo questa guerra se non per
la libertà, la giustizia, l’onestà e il concetto di dignità degli individui? Nel nome di tutto ciò per cui
l’America esiste, a queste persone deve essere permesso di rimanere e devono essere dati loro ogni
opportunità e ogni incoraggiamento per diventare cittadini americani.”
Altri ricordarono la storia americana, qualcuno che gli americani erano tutti stranieri, qualcun altro
ancora che “noi, più di qualsiasi altro paese nel mondo, abbiamo il potere di bilanciare con la
giustizia e la carità gli errori, la miseria e il dolore a cui queste povere anime sono state soggette.
Nell’interesse della decenza e del rispetto per noi stessi, dobbiamo farlo.” 391
La famiglia Smart continuò a vivere ad Oswego. L’ex idrettore viaggiava di continuo tra New York
e il “rifugio” per discutere con il comitato per la liberazione e con gli altri cittadini interessati. Ciò
creò qualche problema nei rapporti con la nuova amministrazione del campo, visto che, anche se
veniva visto dai rifugiati come una persona importante e influente alla stregua del nuovo direttore,
ora era un semplice cittadino che non aveva più accesso agli atti e alle informazioni che giungevano
da Washington.
8.2 La posizione dei cittadini di Oswego
Anche i residenti della città di Oswego si attivarono per i rifugiati. Alcuni di loro redassero
un’istanza per il Presidente degli Stati Uniti e per il Congresso, raccomandando che ai rifugiati
fosse concesso il permesso di lasciare il forte e di “risiedere nei luoghi di loro scelta”, accettando un
lavoro retribuito e qualificandosi per l’ammissione negli Stati Uniti. Il testo fu sottoscritto da 27
notabili della città, compresi i membri dell’Oswego Advisory Committee on Fort Ontario, e
rappresentò un forte segno d’incoraggiamento per i rifugiati che si sentirono sempre meno soli nella
battaglia per il riconoscimento della cittadinanza americana 392 .
Nel documento, oltre a riassumere le condizioni in cui erano arrivati e in cui vivevano a Fort
Ontario e a sottolineare le qualità dei rifugiati, degli studenti iscritti nelle scuole locali, ecc., si
richiamava direttamente il cuore della questione: “Questi sono i 982 che, saggiamente o meno,
abbiamo portato sulle nostre sponde. Ora loro sono definitivamente un nostro problema. Dobbiamo
affrontarlo realisticamente. Senza pensare a ciò che hanno firmato, non possono tornare tutti nei
loro paesi di origine, dato che in alcuni casi sono stati distrutti, e che circa un terzo è stato privato
391
Ibidem.
Nell’immagine la prima pagina dell’Ontario Chronicle del 07.06.1945 su cui viene riportato il documento, già
pubblicato il 1° giugno sull’Oswego Palladium Times.
Fonte: http://cdm16694.contentdm.oclc.org/cdm/compoundobject/collection/p16694coll19/id/153/rec/34
392
della cittadinanza (…). Non possiamo tenerli
confinati per un tempo indeterminato,
inattivi e disperati (al punto da arrivare a
casi di squilibrio e al suicidio) mentre
vedono la loro vita scivolare via senza la
possibilità di trovare un posto per se stessi e
per le famiglie in un mondo che corre in
fretta. (…) meno di mille persone in una
popolazione di centotrentacinque milioni
non potrà in alcun modo disturbare la vita
economica del nostro paese (…) noi
possiamo permettere loro di rimanere in
questo paese senza creare problemi alle
quote previste per gli immigrati. (…). A
meno che non arriviamo a negare l’essenza
stessa di ciò per cui stiamo combattendo ora
e in cui abbiamo sempre creduto (vita,
libertà e ricerca della felicità), dobbiamo
dare ai nostri ospiti la loro libertà. Se non lo
facciamo, le nostre promesse di un mondo
migliore suoneranno vuote.” 393
In questo contesto risultarono significative
anche le iniziative di singoli rifugiati, come
Bernard Guillemin, già giornalista e
scrittore, che scrisse una lettera all’Oswego
Palladium Times, pubblicata il 16 maggio, in
cui espose il dilemma dei rifugiati e sollecitò
la restituzione della piena libertà. L’articolo
del signor Guillemin era in gran parte un
ampliamento delle osservazioni che aveva
già fatto in un comunicato consegnato al
momento della visita del direttore del WRA, Dillon Myer. Sebbene i giornali avessero scritto molti
articoli sui rifugiati, anche al fine di ispirare simpatia per la loro condizione, l’articolo di Guillemin
fu il primo appello lanciato direttamente da un membro della comunità dei rifugiati. Dopo la sua
pubblicazione, al Palladium Times, il cui editore era un membro dell’Advisory Committee on Fort
Ontario, pervenne una raffica di lettere sia di sostegno sia contro la posizione del signor Guillemin.
Le lettere sfavorevoli colpirono i rifugiati e alcuni di loro si rivolsero al direttore del campo
esprimendo la volontà di agire per contrastare tali risposte. Fu lo stesso Guillemin a subirne le
conseguenze dato che gli altri rifugiati lo attaccarono a causa delle possibili ripercussioni del suo
articolo sulla situazione della comunità. In realtà, le lettere favorevoli superavano quelle contrarie,
ma ci vollero comunque alcune settimane prima che le acque si calmassero.
Il 6 giugno 1945, arrivò l’annuncio relativo alla decisione del presidente Truman di trasferire tutte
le responsabilità del progetto Oswego al Dipartimento dell’Interno in considerazione della chiusura
del War Refugee Board. Il Brigadiere generale William O’Dwyer, nella sua relazione finale sul War
393
Testo tratto dalla prima pagina dell’Ontario Chronicle del 07.06.1945
Refugee Board, chiese che ai rifugiati fosse permesso di restare negli Stati Uniti fino a quando non
ci fossero stati ulteriori chiarimenti sulla politica internazionale in materia di sfollati, e appoggiò il
programma del rilascio dei rifugiati sponsorizzato dalle agenzie private 394 .
8.3 Le audizioni della Commissione Dickstein
Il risultato di tutti gli sforzi descritti fu l’importanza che assunse Fort Ontario nella discussione
politica del Congresso. Si arrivò così all’anuncio della formazione di una sottocommissione della
House Committee on Immigration and Naturalization che avrebbe visitato il campo verso la fine di
giugno per studiare da vicino la situazione. La delegazione di sei membri del Congresso che si
fermarono ad Oswego il 25 e il 26 giugno 1945 comprendeva: il presidente Samuel Dickstein
rappresentante di New York, O. Clark Fisher del Texas, Lowell Stockman dell’Oregon, John
Lesinski del Michigan, George P. Miller della California e James I. Dolliver dell’Iowa.
I più temuti, per le loro posizioni sull’immigrazione e sull’intoccabilità delle quote d’ingresso,
erano Fischer e Stockman. Appena arrivati al campo, i sei furono guidati in una visita delle
strutture. L’amministrazione cercò di mostrare quanto fosse stata profonda l’americanizzazione dei
rifugiati, dalla frequenza dei corsi di inglese alle lezioni sulla costituzione e sugli emendamenti.
Non mancarono mostre dei lavori realizzati dai rifugiati stessi, dalle pitture ad olio di Vladimir von
Zabotin alle sculture in terracotta e agli acquerelli di Miriam Sommerburg. Si trattava degli stessi
lavori che furono poi esposti in una mostra a Syracuse.
Il sottocomitato, riunitosi nella palestra del forte, davanti a schiere di giornalisti e fotografi 395 ,
ascoltò le testimonianze dei funzionari governativi, dei residenti di Oswego e degli stessi rifugiati. Il
Generale O’Dwyer arrivò da New York e testimoniò a favore dei rifugiati. I rappresentanti del
WRA, a partire da Edward B. Marks 396 , ricostruirono la storia del progetto e sottolinearono i
problemi legati alle spese e alle difficoltà di gestione di un impianto di gran lunga superiore al
fabbisogno dei rifugiati. I cittadini di Oswego erano rappresentati da funzionari del sistema
scolastico e dello State Teachers College, dal capo della polizia, dall’editore dell’Oswego
Palladium-Times e da un avvocato locale che era il presidente dell’Advisory Committee on Fort
Ontario. Tutti lodarono il talento e la condotta dei rifugiati, giovani e meno giovani. Il capo della
polizia affermò che non vi era stato “alcun problema con questi rifugiati nella nostra città” e che
“camminano per le strade e si comportano molto bene 397 ”.
L’editore del giornale locale rischiò di offendere il sentimento della popolazione locale dicendo che
c’era “più talento in questo gruppo che in tutti gli abitanti di Oswego messi insieme” 398 .
I commenti in merito ai bambini che frequentavano la scuola furono decisamente positivi. Il
sovrintendente delle scuole mise in evidenza il fatto che il loro rendimento scolastico era stato
“superiore” e i loro successi “sbalorditivi”. Il preside del liceo richiamò l’attenzione sul fatto che 8
dei circa 40 studenti delle scuole superiori provenienti dal forte erano risultati idonei per la National
394
Ivi, pp. 177-178 e 183-184.
Tra I giornalisti c’erano Charles J. Wellner corrispondente dell’Associated Press e Janee Mahler, fotografa
dell’Associated Press; Naomi Jolles del New York Post; Robert W. White del New York Herald Tribune; Joseph Godsor
del Jewish Daily Forward; Salomon Dingsol del The Day, New York; Charles Gotthart del Chicago Tribune; David
Wallace del Syracuse Herald-Journal.
396
Si veda Marks, Edward B, Still counting. Achievements and Follies of Nonagenarian, University Press of America,
Lanham (Maryland), 2005, p. 173.
397
Token shipment, cit. p. 61.
398
Ibidem.
395
Honor Society, e un insegnante con 22 anni di esperienza disse: “Questi ragazzi sono tra i migliori
che io abbia mai avuto” 399 .
Uno dei momenti più tesi fu proprio il confronto tra Fisher e O’Dwyer:
FISHER: Generale, solo per mettere le cose in chiaro, sa che queste persone, portate qui alle condizioni
che sono state descritte, sono a conoscenza del fatto che una volta arrivate sarebbero state portate
indietro al termine della guerra?
GENERALE O’DWYER: Gli è stato detto. Sono d’accordo che gli sia stato detto, ma devo dire che
questa commissione dovrebbe tener presente le condizioni mentali di queste persone nel momento in cui
ciò gli è stato comunicato, dopo aver affrontato mille pericoli, tormentati, venire in America era qualcosa
per loro in quel momento, e hanno preso al volo la possibilità al di là di ciò che sarebbe accaduto dopo.
FISHER (incredulo): Lei intende che queste persone sentivano che sarebbero state portate qui con
l’inganno, vero?
GENERALE O’DWYER: No, per niente. Non credo che si tratti di nulla del genere, ma dico che noi non
ci imbatteremo più in persone di questo tipo durante la nostra vita. Erano in uno stato mentale molto
confuso, e stavano andando in America. Credo che ciascuno di loro avrebbe firmato qualunque pezzo di
carta in quel momento. Stavano andando in America, che era l'unico posto al mondo, essendo stati
tormentati nella loro vita, in cui tutti volevano andare. La stessa cosa mi è successa 35 anni fa, e so come
ci si sente. 400
Fisher: Il Dipartimento di Giustizia non era obbligato a tener fede alle direttive del Presidente?
O’Dwyer era d’accordo e disse che quella era la sua posizione iniziale, ma credeva anche che la
commissione, nominata dal Congresso, avrebbe potuto mettere fine a tali obblighi.
Fisher: Certamente non siamo chiamati a modificare le leggi sulle immigrazione e fare particolari
eccezioni.
O’Dwyer: Tutto ciò è necessario. È solo una questione di interpretazione.(…). Temo di non averla
convinta, signor Fisher. In questo momento ci sono milioni di persone in Europa, milioni di sfollati
che hanno bisogno di un programma di reinsediamento che dev’essere fatto dalle Nazioni Unite... Che
cosa ha intenzione di fare con quei pochi che abbiamo portato qui? Ha intenzione di dire loro: ‘La
guerra è finita; tornatevene a casa'? Se lo fa, lei sta per dire a tutti in modo neutrale: ‘Questo è il
modo di gestire la cosa’. 401
Alla fine, O’Dwyer raccomandò due azioni: permettere ai rifugiati di lasciare il campo al più presto,
affidando alle agenzie private, che erano già preparate a farlo, la responsabilità finanziaria e
personale dei singoli rifugiati; dire al Congresso di non prendere nessuna decisione sullo status dei
rifugiati fino a quando l’UNRRA non avesse elaborato una politica per i milioni di sfollati creati
dalla guerra. In questo modo il generale tentava di far rientrare i rifugiati di Fort Ontario nel più
vasto problema, di livello mondiale, relativo alle displaced persons. L’unica differenza era che loro
si trovavano in un campo di rifugiati sul suolo americano.
I migliori testimoni all’udienza furono i rifugiati stessi. Nella sessione pomeridiana del 25 giugno,
la sottocommissione passò ad ascoltare testimone dopo testimone, tra cui i membri della Fort
399
Idem. Sulle audizioni della Commissione e sulle testimonianze relative agli aspetti scolastici si veda anche il capitolo
undici della dissertazione per il dottorato di Michael E. Ruddy presente al seguente link in
www.oswego.edu/~ruddy/Buffalo%20Papers/Dissertation/Chapter%2011.pdf, pp. 21-34. Si veda, inoltre, Lowenstein,
S. R., cit., p. 125.
400
Gruber, R., cit. pp. 222-223.
401
Ivi, p. 223.
Ontario Boy Scout troop, che affermarono di non avere nessun paese in cui ritornare e che
desideravano rimanere negli Stati Uniti e, alla fine della giornata, Ruth Gruber.
Tra coloro che furono ascoltati ci furono la signora Rosa Mosauer, una vedova che aveva due figli
con cittadinanza americana, un sergente e un tenente dell’Esercito degli Stati Uniti impiegati
all’estero; Jacob Ernest Kahn, la cui moglie e i due figli vivevano a Minneapolis; la signora Regina
Loewit, il cui marito lavorava in una fabbrica di guerra a New York; Josef Langnas, di 14 anni,
presidente della sua classe nella Oswego Junior High School; il signore e la signora Seif, genitori di
una quindicenne che viveva in Inghilterra e che aveva appena ricevuto un visto di immigrazione per
raggiungere gli Stati Uniti; il principe Pietro Ouroussoff che disse di non poter più utilizzare il suo
titolo zarista, ma che voleva unirsi a sua sorella, direttrice di una scuola di ballo a New York; Jakob
Charasch, i cui due figli erano nella U. S. Merchant Marine; Aca e Rajko Margulis, che erano stati
invitati dalla Harvard Medical School per continuare i loro studi solo se avessero ottenuto il
permesso di andare a Cambridge prima dell’inizio del semestre autunnale; la ventenne Marcella
Weinstein, che aveva portato fino a Fort Ontario i suoi cinque fratelli e aveva saputo, il giorno del
suo arrivo, attraverso un annuncio su un giornale americano, che sua madre era al sicuro in
Svizzera. Anche Alfred Thewett era sulla lista dei rifugiati che avrebbero dovuto presentarsi davanti
alla commissione, ma il 65enne stilista viennese,
morì a causa di un attacco cardiaco la notte
prima delle audizioni, a meno di tre mesi
dall’arrivo della moglie negli Stati Uniti grazie
ad un visto per l’immigrazione.
Durante la permanenza dei membri del
Congresso a Fort Ontario, i rifugiati misero su
uno spettacolo speciale per gli ospiti d’onore, tra
cui un’imitazione di una delle udienze.
I numeri dell’Ontario Chronicle che uscirono in
quel periodo sono particolarmente significativi.
Su quello di fine giugno è riportata una
dichiarazione rilasciata da Dickstein al
settimanale dei rifugiati il 26 giugno, subito
prima di ripartire 402 :
“Sono felice di aver incontrato i rifugiati a Fort
Ontario e sono stato molto favorevolmente
impressionato dalle udienze. Penso che i rifugiati
dovrebbero essere rilasciati al più presto possibile.
Secondo la mia personale opinione, anche se
dovesse essere necessario un milione di dollari per
il rilascio dei residenti di Fort Ontario, penso che
varrebbe la pena spendere una tale somma. Ora
torniamo a Washington e inizieremo subito a
scrivere il nostro report basato su un quadro
completo della situazione a Fort Ontario.”
L’aspetto più interessante è legato a quanto
venne delineato da Dickstein ai giornalisti a
402
Nell’immagine è riportata la prima pagina del numero del 28.06.1945.
Fonte: http://cdm16694.contentdm.oclc.org/cdm/compoundobject/collection/p16694coll19/id/166/rec/36.
proposito della soluzione al problema dell’ammissione negli Stati Uniti. Secondo il presidente della
Commissione, le possibilità erano tre.
Nel primo caso, i rifugiati sarebbero stati rilasciati individualmente in base a garanzie fornite da
loro stessi. Nel secondo, avrebbero potuto essere rilasciati in base a obbligazioni per cui
occorrevano più di un milione di dollari e per cui forse ci si poteva organizzare. La terza opzione,
preferita da Dickstein, era quella di farli dichiarare illegali negli Stati Uniti. In questo modo
sarebbero passati direttamente sotto il controllo delle autorità di immigrazione, per essere sottoposti
ad un pre-esame e inviati verso il Canada, paese disposto ad accettarli. Da lì, coloro che fossero
risultati idonei all’ingresso negli Stati Uniti, sulla base delle quote assegnate ai rispettivi paesi di
origine, avrebbero potuto richiedere il visto per entrare definitivamente e legalmente negli Stati
Uniti. Si scoprirà che alla fine fu quest’ultima la soluzione scelta dal governo.
I membri del Congresso tornarono a Washington e, all’unanimità, la sottocommissione votò per la
chiusura del campo, ma si creò una spaccatura su quali disposizioni prendere per il futuro dei
rifugiati. Due dei membri della sottocommissione e la maggioranza dell’House Committee on
Immigration and Naturalization erano a favore del rimpatrio. L’HCIN, il 6 luglio 1945, dopo aver
ascoltato il rapporto della sottocommissione, decise che il compito di verificare se fosse praticabile
il rimpatrio dei rifugiati non sarebbe stato affidato al Congresso, ma ai Dipartimenti di Stato e della
Giustizia. Questi ultimi, “in accordo con quanto previsto dalle leggi e dalle procedure esistenti”,
avrebbero dovuto appurare chi tra i rifugiati fosse stato rimpatriabile. In caso contrario i residenti di
Fort Ontario sarebbero stati dichiarati stranieri illegali soggetti ad immediate procedure di
deportazione. 403 In realtà tutte le formule usate lasciavano spazio a diverse interpretazioni, cercando
di accontentare le diverse posizioni espresse nelle varie sedi. Lo stesso Thomas Dolley, impegnato
nel dibattito in commissione, assicurò a Ruth Gruber che il fatto di dichiarare i rifugiati stranieri
illegali, dava loro la possibilità di accedere al pre-esame per la procedura di immigrazione.
Infine, l’HCIN, sempre nella sua risoluzione del 6 luglio, disse a chiare lettere che il fatto di
continuare a spendere 600.000 $ all’anno per il forte era “sconsigliabile, ingiustificato e avrebbe
dovuto essere interrotto” 404 .
Di sicuro però la soluzione non era così vicina come speravano i rifugiati dopo la visita della
Commissione.
Sulla stampa americana le audizioni ebbero larga eco. In un editoriale del 28 giugno, il New York
Times riprese le notizie relative alla buona impressione suscitata dai rifugiati e mise in evidenza che
“la maggior parte di loro proviene da paesi in cui le quote per l’immigrazione, a causa delle
condizioni di guerra, non sono state esaurite. Non ne sono certamente abbastanza per inondare il
mercato del lavoro in tempo di pace, ed a causa delle circostanze peculiari in cui sono entrati nel
paese il loro rilascio non costituirebbe un precedente pericoloso. Questi sono i veterani di una vera
e propria guerra. Hanno sofferto per motivi di coscienza. Noi potremmo permetterci senza
problemi, per ordine del Presidente o di un atto del Congresso, di accettarli come futuri
cittadini.” 405
Se, quello stesso giorno, il Syracuse Herald Journal, dava credito alla proposta di Dickstein ed anzi
trovava geniale la sua idea, fu però l’Oswego Palladium-Times, giornale vicino ai problemi e ai
sentimenti dei rifugiati, a perorare ancor di più la loro causa: “Non vi è alcun dubbio che gli Stati
Uniti siano in grado di assorbire queste persone senza turbare il nostro mercato del lavoro. Un
403
Lowenstein, S. R., cit. p. 126.
Si veda nota 342.
405
Articolo riportato sulla prima pagina dell’Ontario Chronicle del 05.07.1945
404
posto può essere trovato per poche centinaia di individui in una nazione di 130 milioni, senza
alcuna difficoltà. (…) A parte i nemici prigionieri di guerra, i profughi di Fort Ontario sono l’unico
gruppo in America, la cui libertà è limitata. La situazione non è in linea con il nostro ideale di fair
play e dovrebbe essere corretta. Non sarebbe giusto per questo gruppo che ha sopportato indicibili
sofferenze, persecuzioni, dolore in un continente invaso da dittatori, essere sottoposto ad ulteriori
disagi. Dobbiamo ricordare che molti dei nostri antenati sono venuti in America per sfuggire
all’oppressione in Europa. Lo spirito americano di equità, giustizia e tolleranza deve determinare
la nostra azione nei confronti di questi profughi.” 406
Alla ridda di posizioni diverse in seno al
Congresso e alla spinta dell’opinione
pubblica e dei media, si affiancò in quei
giorni, precisamente il 7 luglio, il War
Department che stabilì che nessuno “sarà
costretto a tornare al suo ex domicilio tranne
che per essere processato per un reato” 407 .
Altri due tasselli favorevoli ai rifugiati
sarebbero andati al loro posto nei giorni o nei
mesi successivi. Alla fine di giugno, tra i
primi cambiamenti apportati da Truman a
seguito della sua elezione, ci fu quello del
procuratore generale. Il presidente chiese a
Francis Biddle di lasciare il suo incarico 408 .
Biddle si era mostrato inflessibile sul
problema dei rifugiati che lui considerava una
minaccia per la sicurezza del paese, mentre il
successore, Thomas C. Clark 409 , amico e
collaboratore di lunga data di Truman,
appariva più costruttivo e flessibile.
Due mesi e mezzo dopo, il 14 settembre
1945, Truman firmò l’ordine esecutivo n°
9614 410 che portò all’abolizione del WRB e
ciò significò il trasferimento del controllo del
forte dal WRB, che considerava i rifugiati
come parte del problema internazionale
relativo agli sfollati, al WRA, che vedeva il
campo di Fort Ontario come uno dei tanti
campi di internamento destinato alla chiusura
406
Articoli riportati sulla prima pagina dell’Ontario Chronicle del 05.07.1945 (come da immagine in questa pagina).
Fonte: http://cdm16694.contentdm.oclc.org/cdm/compoundobject/collection/p16694coll19/id/88/rec/28.
407
Lowenstein, S. R., cit., p. 127.
408
Francis Beverley Biddle (Parigi, 09.05.1886 – Wellfleet, Mass., 04.10.1968) fu un avvocato e giudice americano.
Divenne procuratore generale degli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale. Dopo aver lasciato la procura
generale, Truman lo nominò giudice presso il Tribunale Militare Internazionale di Norimberga.
409
Thomas Campbell (“Tom C.”) Clark (Dallas, 23.09.1899 – New York, 13.06.1977) è stato procuratore generale degli
Stati dal 1945 al 1949 e Associate Justice della Corte Suprema degli Stati Uniti dal 1949 al 1967.
410
Si veda il testo in http://trumanlibrary.org/executiveorders/index.php?pid=379.
con la fine della guerra. Il Ministro degli Interni, Ickes, poteva ora trattare e fare pressione
direttamente su Truman, non avendo più il WRB come intermediario.
8.4 Cambiamenti nell’amministrazione
Il nuovo direttore pro tempore del campo, Malcolm Pitts, apportò diversi cambiamenti nella
gestione del forte. Fu istituita una sorveglianza più stretta ai cancelli del campo e molte persone
furono condannate alla prigione perché avevano violato le norme stabilite per le uscite, recandosi in
visita fino a Syracuse e a New York. Pitts introdusse dei giorni di pulizia con cadenza bisettimanale,
in cui il campo veniva chiuso e tutti i rifugiati erano tenuti a pulire gli edifici e gli spazi aperti.
Durante questa fase ci fu anche un netto miglioramento nei rapporti con le agenzie private.
Allo stesso modo, fu ideato un nuovo piano per la realizzazione delle operazioni di manutenzione
necessarie per il forte, tenuto conto che non era possibile avere a disposizione del personale a tempo
pieno. Si modificò, quindi, il precedente sistema basato sulla “rotazione” e si passò al piano della
“redistribuzione” che fissava le priorità per i lavoratori rifugiati, mentre tutti quelli che non
lavoravano o ai quali erano stati assegnati compiti più leggeri, erano tenuti a rispettare il loro turno
nel gruppo di lavoro che operava sulle strade e sui terreni o in altre funzioni essenziali.
Il nuovo piano fu presentato come temporaneo, almeno fino a quando non avessero trovato un
numero adeguato di lavoratori da impiegare a tempo pieno.
Il sistema, come detto, prevedeva una serie di priorità:
1) persone abili al lavoro che non lavoravano,
2) i lavoratori occupati a tempo parziale,
3) i lavoratori occupati a tempo pieno negli uffici amministrativi del WRA o nei lavori ricreativi,
educativi o di altro tipo finanziati dal Comitato di coordinamento per Fort Ontario.
Le persone del primo gruppo venivano chiamate una media di due volte in più rispetto agli altri due
gruppi. Tutte le persone che lavoravano a tempo pieno nei settori operativi, nelle mense, nei
magazzini e nell’ospedale non rientravano nel piano di ridistribuzione del lavoro. Le persone che
non rispettavano quanto previsto dal piano venivano private dei permessi di uscita, in base al
periodo di lavoro perso, a meno che non avessero dei certificati medici validi o qualche altra
motivazione.
Nonostante le lamentele e alcuni passaggi a vuoto, il piano funzionò e fu in seguito modificato per
consentire la partecipazione delle donne non occupate. Queste utlime furono assegnate alle mense e
la pena, in caso di mancato svolgimento della propria mansione, non era la revoca dei permessi di
uscita, ma il divieto di partecipare alle attività delle classi di formazione professionale. Le lezioni
per operatrici di bellezza, in particolare, erano così popolari che si pensò che la minaccia della
sanzione fosse sufficiente per la maggior parte delle rifugiate.
8.5 L’ultima estate
Le modifiche apportate da Pitts non consentivano significativi cambiamenti nella politica relativa ai
permessi di uscita. Ciononostante, il WRA permise ai rifugiati di allontanarsi fino a 20 miglia dal
forte. La decisione fu annunciata il 4 luglio 1945. I rifugiati potevano ora approfittare del clima
estivo favorevole per visitare città vicine e per fare il bagno nei due parchi statali della zona.
Tuttavia, non potevano ancora spingersi fino a Syracuse, che si trovava a circa 35 miglia di
distanza.
La stagione estiva fece sì che aumentassero le visite da parte dei familiari e degli amici. In uno o
due casi, i parenti dei rifugiati affittarono una casa ad Oswego o nelle vicinanze per le vacanze
estive. Inoltre, le regole del forte furono modificate leggermente per permettere ai coniugi e ai figli
minorenni di pernottare nel campo, se lo si desideravano.
Altri fattori contribuirono ad allentare le tensioni. Ad esempio molti si concentrarono sulla fine
della scuola, sui diplomi di scuola superiore ottenuti da sei studenti e sul completamento, avvenuto
con successo, dei rispettivi anni di scuola da parte di altri bambini e ragazzi.
A ciò si aggiunse una grande attività nel campo artistico, anche grazie alle mostre dei lavori
organizzate in precedenza, dal 30 aprile al 5 maggio. Pitture, sculture e creazioni di tutti i tipi
attirarono l’attenzione di centinaia di visitatori provenienti da Oswego e dalle città vicine. L’alta
qualità delle opere esposte e i commenti favorevoli da parte dei giornali locali portarono il Museo
d’Arte di Syracuse ad ospitare una selezione dei migliori lavori per una mostra che si tenne nel
mese di giugno.
Nei due teatri del forte, furono messe in scena diverse rappresentazioni da parte di gruppi austrotedeschi, russi, sionisti, di giovani e bambini. I fondi raccolti furono donati alla Croce Rossa di
Oswego o per altre cause, e molti degli spettacoli furono riproposti allo State Teachers College.
Inoltre, i rifugiati diedero vita a numerose organizzazioni sociali, la più pittoresca delle quali forse
fu il “Club dei Solitari” per i single over 50, che si riuniva il mercoledì pomeriggio. I membri
conversavano, apprezzavano il rinfresco fornito da una delle agenzie private e ascoltavano la
musica scritta dai loro stessi membri o da altri. Il club era stato organizzato dalla responsabile del
comitato femminile che si occupava di altri aspetti importanti come il rinnovamento
dell’abbigliamento dei bambini, in modo tale da integrare il guardaroba di molti residenti che erano
costretti a spendere per altri scopi l’indennità prevista dal governo. Il senso dell’attività del comitato
delle donne è ben illustrato da una citazione apparsa sull’Ontario Chronicle: “Il modo migliore per
superare la noia, la malinconia e la preoccupazione per il futuro è quello di aiutare gli altri, di
dare una buona mano per coloro che sono soli, vecchi e deboli” 411 .
L’estate diede impulso alle attività educative e ricreative. Grazie ad un programma promosso dalla
American Friends Service Committee si organizzò un campo di lavoro. Le discussioni riguardanti il
contenuto di questo programma ebbero inizio nella tarda primavera. Il nucleo del personale addetto
al campo di lavoro era composto di 15 ragazze che avevano completato, all’Haverford College, un
corso speciale per l’assistenza all’estero, ma per le quali le assegnazioni non erano ancora
disponibili. Nel frattempo desideravano fare un’esperienza pratica nel lavoro con gli sfollati. Grazie
alla collaborazione con i rifugiati, riuscirono a superare i problemi organizzativi legati alla necessità
di attivare, con un personale limitato, un programma estivo sia per bambini in età scolare sia per gli
adulti.
8.6 I primi rimpatri
A seguito del completamento degli accordi con l’UNRRA, il primo gruppo di rifugiati lasciò Fort
Ontario il 30 maggio 412 , diretto in Jugoslavia. Si trattò di rimpatri volontari. L’UNRRA rese noto
che un gruppo di residenti del campo sarebbe potuto partire a bordo della Gripsholm. In un primo
momento sembrava che la possibilità di partire fosse estesa a più rifugiati, ma gli ultimi accordi
ridussero le speranze accordando il permesso solo a 13 persone, tutte di origine jugoslava. Sette di
loro erano adulti soli. Una famiglia di tre persone (i Bjelic), una coppia (i Kabiljo) ed un uomo
411
Ivi, p. 67.
Ruth Gruber e il sito http://www.safehavenmuseum.com/List.html riportano la data del 31 maggio, mentre il
rapporto del WRA quella del 30 maggio. Probabilmente il 30 maggio indica la partenza dal forte e il 31 la partenza
effettiva da New York, visto che i 13 rifugiati dovettero attendere nella città portuale prima di partire.
412
(Grin) che lasciò temporaneamente la moglie e il figlio (l’avrebbero raggiunto con il viaggio
successivo, organizzato ad agosto) completavano il gruppo 413 .
Tabella 8 - Nomi dei rifugiati rimpatriati (viaggio del 31 maggio 1945).
Cognome
Alfandari
Bjelic
Fischer
Freudenfeld
Grin
Haipern
Jakovljevic
Jurat
Kabiljo
Schmutzer
Elvira
Alexander
Gizela
Branko
dott. Oskar
Herman
dott. Alexander
Martin
Zora
Marko
Jakov
Caterina
Dragutin
Gruppo familiare
Sola (in realtà era la fidanzata di Freudenfeld) 414
Marito
Moglie
Figlio
Solo (aveva una moglie non ebrea che si stava occupando delle loro proprietà)
Solo (aveva un figlio e una figlia nelle fila dei partigiani)
Solo (la moglie Dusanka e il figlio Paul rimasero a Fort Ontario)
Solo (aveva una moglie non ebrea che si stava occupando delle loro proprietà)
Sola (aveva un figlio che combatteva con i partigiani)
Solo (aveva una moglie non ebrea che si stava occupando delle loro proprietà)
Marito
Moglie (suo fratello combatteva con i partigiani)
Solo (aveva una moglie non ebrea che si stava occupando delle loro proprietà)
Nel mese di luglio l’UNRRA informò il WRA che, ad agosto, ci sarebbe stato un nuovo viaggio
della Gripsholm per i rifugiati jugoslavi intenzionati a tornare in patria. Considerato che la guerra in
Europa era finita da qualche mese e tenendo conto della disponibilità di maggiori informazioni sui
paesi di provenienza dei rifugiati, un certo numero di jugoslavi decise di iscriversi sulla lista dei
partenti, entro la data stabilita del 6 agosto, facendo salire il totale a 53.
Ai rifugiati in partenza furono distribuite alcune istruzioni 415 sui beni che potevano portare con sé
(si trattava solo degli effetti personali utilizzati nel campo, mentre non era permesso portare prodotti
nuovi acquistati al momento, che sarebbero stati considerati come regali purché per ogni persona
non si superasse il valore di 60 $; anche il cibo veniva considerato tra i regali e non poteva superare
il valore di 10 $), sulle somme concesse (non oltre i 50 $), sulle regole relative alla censura (tutte le
lettere, i documenti, i libri, ecc. andavano inseriti nel bagaglio a mano per poter essere controllati al
porto di imbarco) e così via.
Diverse furono le motivazioni che spinsero gli ebrei jugoslavi presenti a Fort Ontario a chiedere il
rimaptrio. Molti di loro non avevano subito una forte persecuzione nel loro paese fino all’invasione
dei nazifascisti, anche se sicuramente molti membri delle loro famiglie erano stati poi sterminati.
Alcuni rifugiati pensavano, comunque, di avere ancora amici e parenti in vita. Diversi erano entrati
nell’esercito di Tito. Inoltre, pochi di loro avevano legami stretti negli Stati Uniti e parecchi erano
fortemente motivati dal desiderio di tornare in patria e di dare il proprio contributo per la
ricostruzione del paese. In altri casi fu vero il contrario, ovvero che alcuni degli jugoslavi non
avevano nessuna certezza relativa al futuro della Jugoslavia e quindi erano restii a lasciare gli Stati
413
Contando le persone indicate in partenza sul libro della Gruber (Appendix, pp. 297-323) e sul sito citato (nota 406) il
totale degli jugoslavi è 12. Tuttavia tutti i rapporti indicano il numero di 13 persone. Il nome mancante è quello di
Alfandari Elvira, citata invece dalla Lowenstein, S. R., cit. p. 198. Sulla prima pagina dell’Ontario Chronicle del
12.07.1945 si può apprendere che i rimpatriati avevano raggiunto la Jugoslavia passando per Bari da cui presero
un’ulteriore nave. Alcuni di loro, a Bari, si staccarono dal gruppo: Oskar Fischer andò a Roma, mentre Jak Kabiljio e la
moglie si recarono a Venezia.
414
I dati tra parentesi sono tratti da Lowenstein, S. R., p. 199.
415
Greenberg, Karen J., cit., p. 252.
Uniti. Di conseguenza erano propensi a cogliere la possibilità di essere ammessi come immigrati,
pur considerando la situazione attuale in cui non c’era nessuna assicurazione sul fatto che i rifugiati
avrebbero potuto realmente rimanere negli Stati Uniti.
Tabella 9 - Nomi dei rifugiati rimpatriati (viaggio del 28 agosto 1945).
Cognome
Adanja
Albahari
Altarac
Antic
Gruppo familiare
Sofija
Madre 416
Mika
Figlia
Marela
Figlia
Hani
Solo
Estera
Madre 418
Belja
Figlia
Dora
Figlia
Josip
Marito
Terezija
Moglie
Cognome
Koen
Konforte
Levi
Lowy
(Loewy)
Gruppo familiare
Stevan
Helen
Marito 417
Moglie
Blanka
Josef
Zlata
Cica (Sara)
Sola
Marito
Moglie 419
Figlia
Rosa
Sola
dott. Rafailo
Olga
Rajko
Aca
Vilma
Mario
Ella
Josep
Sida
Sara
Atias
Flora
Laura
Madre
Figlia
Baeder
Josip
Clara
Vera
Marito
Moglie
Figlia
Market
Market
Israel
Dugalic
Maria
Sola
Montiljo
Ebenspanger
Hugo
Solo 424
Montiljo
Moric 425
Finzi (Finci)
Jakob
Solo
Papo
Mose
Lenka
Marito 421
Moglie
Figlio
Figlio
Madre 422
Figlio
Sorella di Vilma
Marito 423
Moglie
Figlia
La moglie Maria e la figlia Rosica
di 3 mesi rimasero al forte
Marito 426
Moglie
Gaon
Klara
Zanko
Madre
Figlio
(il padre Salomon non partì)
Madre
Figlio
Marito
Moglie
Pesah
Sarika
Albert
Madre 427
Figlio
Pick
Cilica
Al forte rimasero la nuora con sua
figlia e il nipote
Pinto
Avram
Solo
Grin
Hahn
416
Dusanka
Paul
Josip
Julia
420
Margulis
Suo marito era nelle fila dei partigiani.
Ex presidente della Camera di Commercio di Belgrado.
418
Suo marito era nelle fila dei partigiani.
419
Aveva i suoi genitori nelle fila dei partigiani
420
Suo marito era nelle fila dei partigiani.
421
Aveva un cancro allo stadio terminale e desiderava tornare in patria.
422
Suo marito era nelle fila dei partigiani.
423
Avevano un figlio nelle fila dei partigiani.
424
Aveva un fratello e una sorella nelle fila dei partigiani.
425
Aveva un figlio nelle fila dei partigiani. Lui e suo fratello Josep ritornarono con casse di macchinari necessari per far
ripartire i loro affari nel settore delle calzature.
426
Avevano un figlio nelle fila dei partigiani.
427
Suo marito era nelle fila dei partigiani e poi fu catturato dai tedeschi ed era in un campo per prigionieri di guerra in
Germania.
417
Tabella 9 – segue.
Cognome
Kabiljo
Baravram
Gruppo familiare
Abraham J. 428
Indicati insieme
Miriam
David
Marito
Berta
Moglie
Luna
Figlia
Kabiljo
Cognome
Pinto
Gruppo familiare
Berta
Sola
Sull’elenco finirono anche i due giovani studenti di medicina che erano stati ammessi ad Harvard
per la sessione autunnale. Era il loro più grande sogno, ma dopo un anno di permanenza al forte, la
stanchezza per l’attesa ed il desiderio di essere nuovamente liberi risultarono più forti delle loro
prospettive educative e quindi decisero di lasciare gli Stati Uniti.
Quando il primo gruppo di 13 persone partì, ebbe un brevissimo preavviso e stette meno di un
giorno a New York. Per il secondo gruppo in partenza il 28 agosto, ci fu più tempo a disposizione e
i 53 rifugiati rimasero quattro giorni nella città portuale prima di partire. Durante questo breve
periodo, furono festeggiati e sostenuti da diverse organizzazioni umanitarie private e da comitati
che fornirono loro fondi, abbigliamento e altri materiali di consumo assolutamente necessari nel
paese in cui stavano tornando 429 . Anche se con il rimpatrio non sperimentarono mai una vita
normale negli USA, quei quattro giorni furono comunque per loro un assaggio di libertà sul suolo
americano.
Altri due residenti del forte lasciarono gli Stati Uniti in quel periodo. La macchina organizzativa
riuscì a preparare il viaggio per Ludwig Reis, un austriaco che voleva raggiungere suo figlio in
Uruguay e che si imbarcò per Montevideo il 3 agosto. Il suo viaggio fu ritardato a causa della
riluttanza del governo argentino nel fornire il visto di transito di cui aveva bisogno.
L’ultimo rifugiato a lasciare gli Stati Uniti fu Cecilia Melcer, ceca, il cui marito la stava aspettando
a Praga. A causa delle necessarie autorizzazioni militari, l’UNRRA non fu in grado di organizzare
prima il rimpatrio per la signora Melcer. Attraverso fonti private, riuscì a raggiungere Parigi con
una ragionevole aspettativa di arrivare successivamente a Praga. Il WRA garantì la sua partenza per
il 9 ottobre.
Tabella 10 - Dati statistici al 9 agosto 1945.
428
N° di rifugiati
all’arrivo a
Fort Ontario
N° di
morti
N° di
nascite
Rifugiati partiti
(Sud Africa e Uruguay)
982
10
14
2
(3 con la signora Melcer)
Rifugiati partiti
con la
Gripsholm
13 + 53
Totale rifugiati
rimasti a
Fort Ontario
918
(917)
Lui e suo fratello David non erano stati presi come partigiani a causa della loro salute. Avevano un terzo fratello tra i
partigiani.
429
Tutti quelli che partivano dovevano prima ottenere il certificato di liquidazione delle tasse dall’ufficio di New York
della Alien Unit della Treasury Department’s Division of Income Tax. Ciascun rifugiato che aveva meno di 25 $
ricevette quella stessa somma dal Comitato di coordinamento. Il WRA donò due asciugamani a ciascun rifugiato in
partenza con il primo viaggio, mentre il NRS sponsorizzò il viaggio e la permanenza a New York a quelli che partirono
ad agosto. Inoltre, il WRA fornì loro lenzuola, coperte ed asciugamani.
8.7 Il nuovo direttore
Nel frattempo si avvicinava la scadenza
del mandato del direttore pro tempore di
Fort Ontario, Malcom Pitts, prevista per
il 1° luglio 1945. Il WRA stava
negoziando con il Ministero della Guerra
la possibilità che il ruolo fosse assegnato
al capitano Lewis Korn, membro del
Civil Affairs Division, che aveva avuto
un ruolo di primo piano nella selezione
dei rifugiati in Italia e che li aveva
accompagnati negli Stati Uniti. Il
capitano Korn era stato vicedirettore del
Gila River Relocation Center e quindi
aveva una certa esperienza nel lavoro
con il WRA e con i gruppi di rifugiati.
Alcune complicazioni rinviarono la
conclusione dei suoi compiti presso
l’Esercito e di conseguenza il WRA
abbandonò l’idea.
Nell’attesa di trovare un nuovo direttore,
Edward B. Marks Jr., Refugee Program
Officer a Washington sin dall’inizio del
programma, fu nominato direttore pro
tempore dal 1° luglio per un periodo di
tre settimane, scaduto il quale fu
nominato Clyde H. Powers (direttore dal
20 luglio 1945 fino alla chiusura del
Ontario Chronicle, 2 agosto 1945, p. 4. Fonte:
http://cdm16694.contentdm.oclc.org/cdm/compoundobject/col
lection/p16694coll19/id/61/rec/17.
campo). Powers aveva lavorato per il Bureau of
Indian Affairs per diversi anni prima di passare al
WRA nel 1942 come capotecnico. Diede continuità al
lavoro amministrativo relativo al campo e riuscì a
coordinare le varie sezioni del WRA e a collaborare
con il nuovo comitato esecutivo.
Proprio in quel periodo cadde il primo anniversario
dell’arrivo dei rifugiati al forte. Non c’erano di sicuro
le motivazioni giuste per festeggiare una tale
ricorrenza, tenuto conto della fase di stallo in cui
vivevano i rifugiati. Qualche nota positiva ed ironica
venne comunque dall’Ontario Chronicle 430 che dedicò
una vignetta all’anniversario: la parte superiore, che
Max Sipser, il realizzatore di tutte le vignette dell’Ontario
Chronicle. Fonte: Lowenstein, S. R., Token refugee, cit., p. 95.
430
Il settimanale dei rifugiati usciva ogni giovedì. Gli uffici erano situati nella costruzione 186 di Fort Ontario. Il dott.
Ernst Arthur era l’editore, coadiuvato dal dott. Edmund Landau e da Ernest Dirnbach. Fredi Baum era il manager, Max
Sipser il vignettista.
rappresentava il 1944, mostrava il gruppo all’arrivo a New York con lo sguardo speranzoso rivolto
alla Statua della Libertà; nella parte inferiore, il 1945, un rifugiato guardava, oltre il filo spinato del
forte, con uno binocolo, la Statua della Libertà, ormai decisamente lontana.
8.7.1 La formazione del nuovo Consiglio consultivo
Dai primi di dicembre del 1944, quando il Consiglio consultivo si era dimesso, fino al luglio del
1945, nessun altro gruppo di rifugiati rappresentò ufficialmente l’intera popolazione del forte nei
confronti dell’amministrazione. Ciò significava che i singoli residenti del rifugio, a causa della
mancanza di qualsiasi altro canale, consultavano direttamente il direttore su una varietà infinita di
questioni. Non solo. Anche i vari comitati che si erano formati nel frattempo (quello dei lavoratori,
quelli delle diverse nazionalità, il comitato per la libertà, gli house leaders, ecc.) si rivolgevano
sempre e solamente al direttore. Se si considera che il posto di vicedirettore era vacante, si può
immaginare come il direttore passasse buona parte del tempo in riunioni con i diversi gruppi o con
singoli rifugiati su problemi che in molti casi non erano così urgenti o importanti.
L’amministrazione fece intendere ai rifugiati che era arrivato il momento di dotarsi di un nuovo
consiglio e loro stessi riconobbero l’opportunità di avere un canale di comunicazione più efficace.
Di conseguenza, fu creata una nuova organizzazione, chiamata National Board of Fort Ontario
Residents. Era composta da 36 membri 431 , diciotto dei quali avevano il diritto di voto, mentre gli
altri avevano una funzione consultiva. Al suo interno c’era un comitato esecutivo, composto di nove
membri, che era stato scelto dai gruppi delle varie nazionalità e contemplava due jugoslavi, due
austriaci, due polacchi, due tedeschi e un ceco. Il comitato esecutivo avrebbe interloquito
direttamente con l’amministrazione.
Il primo incontro, alla presenza di Edward Marks, ebbe luogo il 18 luglio. In quell’occasione, il
presidente del comitato chiarì che erano lì in rappresentanza della comunità e non
dell’amministrazione, come aveva tentato di fare il primo consiglio costretto alle dimissioni. Il
direttore espresse subito la speranza che il comitato esecutivo potesse organizzare una commissione
giudiziaria per gestire le controversie tra individui e gruppi all’interno del forte. Alcuni mesi dopo,
il 19 ottobre, il Consiglio nazionale annunciò la formazione di un comitato che si sarebbe occupato
dei reclami e di un tribunale arbitrale che avrebbe gestito questo tipo di funzioni.
8.7.2 I congedi per malattia
Durante l’autunno del 1945, il direttore aveva chiesto a Washington di modificare la politica
relativa ai permessi di uscita, richiesta che era stata avanzata più volte anche in passato. L’idea del
direttore era quella di consentire ai rifugiati di uscire e di trascorrere almeno un breve periodo in un
ambiente normale. Il governo, tenuto conto dello stato dei negoziati sulla chiusura del forte, ritenne
inopportuno spingere per quel tipo di proposta, a metà strada tra la vita nel campo e la liberazione
definitiva. In compenso, ci fu, per alcuni mesi, una graduale estensione del congedo per motivi di
salute. Durante la primavera e l’estate, questo tipo di permesso fu concesso per periodi di
convalescenza a un certo numero di persone che avevano bisogno di una “pausa” dalla vita nel
campo. Nella maggior parte dei casi, si trattava di rifugiati che si stavano riprendendo da problemi
fisici, e in ogni caso, il permesso doveva essere sempre approvato dal direttore medico. Le spese
furono sostenute da un’agenzia privata.
Questa decisione non andava incontro alle necessità di tutti coloro che ne avevano fatto richiesta,
ma fece sì che si potessero alleviare almeno le situazioni familiari più difficili, seppur per alcune
431
Si veda Greenberg, Karen J., cit., p. 185. Dei 36 membri, 12 erano jugoslavi, 10 austriaci, 8 polacchi, 4 tedeschi e 2
rappresentavano i cechi e i gruppi di minoranza.
settimane, durante le quali il paziente viveva fuori dal campo in una casa di cura o di riposo o, in
alcuni casi, affidato ai membri della propria famiglia. Washington approvò anche l’affidamento a
famiglie adottive di diversi bambini i cui genitori non erano in grado di prendersi cura di loro in
modo soddisfacente.
Nel tardo autunno fu apportata una nuova modifica alle tipologie di permessi accordati per motivi di
salute. Due persone, una parzialmente paralizzata e l’altra quasi cieca, entrambe provate fisicamente
a causa della loro esperienza di rifugiati, avanti con gli anni e di cui i parenti stretti volevano
prendersi cura, furono autorizzati a lasciare il forte a tempo indeterminato. Da un punto di vista
amministrativo erano ancora residenti a Fort Ontario, ma in realtà non c’era nessuna possibilità che
potessero tornare nel campo. È probabile che se il forte fosse rimasto aperto per un periodo più
lungo, il direttore medico e il direttore del forte avrebbero raccomandato a Washington di concedere
ad un’altra mezza dozzina di persone lo stesso trattamento.
Una delle situazioni più particolari riguardò Feibish Koppelmann, un uomo di 63 anni originario
dell’Austria. Sua moglie e le due figlie sposate, tutte cittadine degli Stati Uniti, vivevano in
California, dove la signora Koppelmann possedeva un’attività commerciale. Lei si era recata già tre
volte a Fort Ontario per far visita al marito. Quando arrivò negli USA, a causa delle sue
vicissitudini nei campi di concentramento, il signor Koppelmann era sordo e, più in generale, in
condizioni fisiche precarie. Il fatto di non poter raggiungere la sua famiglia probabilmente contribuì
al peggioramento delle sue condizioni e divenne quasi del tutto paralizzato. Nel novembre del 1945,
arrivò finalmente l’autorizzazione per la sua partenza da Fort Ontario; sua moglie lo portò con sé in
California dove potè trascorrere alcune settimane con la propria famiglia. Agli inizi di gennaio
morì.
8.7.3 Nuove figure professionali nell’amministrazione del campo
Nell’estate del 1945 ci fu una significativa integrazione al personale del forte con l’inserimento
della figura dell’assistente sociale. Si trattava di una consulente del WRA, giunta al rifugio ai primi
di settembre per un periodo di due mesi. Quando per lei arrivò il momento di tornare a Washington,
fu sostituita da un assistente trasferito da uno degli altri centri per rifugiati a Fort Ontario dove
rimase in carica dal 15 novembre 1945 fino alla chiusura del campo. Diede un contributo
importante durante il periodo finale, dedicando una parte consistente della sua attenzione ad un
lavoro di raccordo tra il WRA, il National Refugee Service ed i molti pazienti coinvolti in tipi di
trattamento che erano stati presi in carico dall’agenzia privata.
La relazione finale dell’assistente sociale evidenziò alcuni dei problemi incontrati al “rifugio”:
“Il tipo di problemi emotivi esistenti tra i residenti, connessi alla vita familiare, nonché agli individui
adulti e bambini, e che si riflettevano sulla salute generale, erano essenzialmente gli stessi di quelli
riscontrati da parte di un assistente sociale tra i pazienti di un ospedale, in ogni comunità, in particolare
nei periodi di crisi. Comunque qui c’è stata una concentrazione e intensificazione di questi problemi
indotte dalle traumatiche esperienze di cui questo intero gruppo aveva sofferto per diversi anni prima
dell’arrivo in questo paese e dalle anormali condizioni in cui è costretto a vivere nel rifugio.
La separazione e la perdita di genitori, figli, mariti o mogli, la disarmonia familiare, l’incompatibilità
sessuale e l’insicurezza per il futuro sono state alcune delle cause che hanno portato a problemi emotivi e
all’esaurimento fisico.” 432
Un’altra novità relativa al personale fu l’arrivo, nell’ottobre del 1945, di un’impiegata addetta alle
questioni lavorative. Il suo controllo delle assegnazioni dei rifugiati ai vari tipi di lavoro,
provocarono molte meno accuse di favoritismo di quanto era successo quando se ne occupavano
432
Token shipment, cit., p. 77.
alcuni referenti dei rifugiati. Un effetto positivo ebbe la riduzione della forza lavoro costituita dai
rifugiati assegnati alle attività dei vari settori, anche a seguito di uno studio ad hoc realizzato dal
direttore del centro.
8.7.4 Chiusura dell’Ontario Chronicle
I cambiamenti apportati dall’amministrazione, sempre attenta al dibattito pubblico e al modo in cui
poteva esser visto dall’esterno il gruppo dei rifugiati, portarono il direttore ad entrare in contrasto
con la redazione dell’Ontario Chronicle, il giornale ideato e scritto dagli stessi rifugiati e pubblicato
dall’8 novembre 1944 al 13 settembre 1945. La diatriba riguardava gli scopi stessi del settimanale.
Prima delle dimissioni della redazione, per alcune settimane, era stato pubblicato del materiale che
il direttore riteneva pregiudizievole per gli interessi stessi dei rifugiati. La redazione riteneva che
fosse un dovere del giornale pubblicare articoli che facessero pressione per la libertà dei rifugiati 433 ,
mentre il direttore pensava che la circolazione di editoriali provocatori su questo argomento avrebbe
potuto danneggiare la situazione, ed esortava a dare più copertura alle notizie relative a ciò che
accadeva nel forte giorno per giorno. Ci furono numerosi incontri tra il direttore e la redazione del
giornale. Alla fine il direttore concordò che non ci sarebbe stata nessuna censura in cambio della
promessa di non pubblicare articoli che avrebbero potuto avere un impatto negativo sul morale dei
rifugiati.
L’atto conclusivo si ebbe con la pubblicazione, avvenuta poco dopo, di due articoli ritenuti offensivi
dall’amministrazione. Uno era la recensione di una rappresentazione teatrale in cui il giornalista
faceva dei riferimenti poco lusinghieri a un membro dell’amministrazione; il secondo era un lettera
anonima all’editore in cui venivano fatte accuse infondate riguardanti la situazione alimentare nel
forte, senza che fosse stata data la possibilità di replicare. Ritenendo che questi articoli potessero
causare il malcontento tra i rifugiati e forse provocare una reazione sfavorevole tra i lettori del
giornale residenti fuori dal campo, il direttore pensò che ci fossero buoni motivi per sospendere la
pubblicazione del settimanale. Il giorno seguente, l’editore e il caporedattore si dimisero e il
giornale non fu più pubblicato, dato che non c’erano altri rifugiati qualificati interessati a farsi
carico di quel compito.
In realtà, già cinque giorni prima, l’8 settembre 1945, Powers aveva dichiarato 434 che avrebbe
tentato di cambiare lo staff del settimanale se gli editori non fossero stati d’accordo nel pubblicare
articoli più costruttivi.
Lo stesso WRA, il 2 agosto, decise di mettere su carta alcune riflessioni 435 , rivolgendosi
direttamente ai rifugiati, sulle lettere inviate ai giornali americani da diversi cittadini, evidenziando
come fosse normale, in un dibattito pubblico, avere opinioni contrastanti che contemplavano da una
parte messaggi di vicinanza e sostegno nei confronti deri rifugiati, ma anche missive fortemente
critiche verso la loro presenza negli Stati Uniti. Davanti a tali reazioni negative, il WRA invitava i
residenti a non fare nulla che potesse provocare ulteriori articoli o risposte contrarie. Senza mai
citarlo, tra le righe si può leggere il riferimento all’Ontario Chronicle.
Può essere interessante notare che, dopo la chiusura del settimanale, nessuna petizione o nessun
altro tipo di richiesta a favore della ripresa dell’attività del giornale giunse all’attenzione
dell’amministrazione. Anche se aveva avuto il ruolo di cassa di risonanza dei problemi dei rifugiati,
molti tra loro lo vedevano come un giornale poco indipendente. Col passare del tempo, funzionò
433
A tal proposito, il 13 settembre 1945, l’Ontario Chronicle pubblicò una lettera di Bernard Guillemin, lo stesso che
tre mesi prima aveva suscitato un notevole dibattito pubblicando una sua lettera sull’Oswego Palladium Times in cui
criticava l’internamento in quanto contrario agli stessi ideali americani.
434
Lowenstein, S. R., cit., n. 24, p. 217.
435
Greenberg, Karen J., cit., p. 206.
soprattutto come mezzo di comunicazione diretto all’esterno del campo e non a caso, durante
l’inverno precedente, riuscì solo a stento a superare il voto di sfiducia richiesto in un apposito
incontro voluto dai rifugiati.
9. Ulteriori audizioni
L’estate del 1945 trascorse senza portare nessuna novità sul fronte della possibile liberazione dei
rifugiati e dell’ingresso degli stessi sul suolo americano. In questo contesto fu una sorpresa
l’annuncio, dato ai primi di settembre, che i rappresentanti dei Dipartimenti di Stato e della
Giustizia, in relazione con il Dipartimento degli Interni, si sarebbero recati in visita a Fort Ontario
per intervistare tutti i rifugiati sul loro status. Essendo una sorta di ripetizione di quanto avvenuto
con la commissione Dickstein, molti pensarono che si trattasse finalmente della fase finale
dell’indagine, anzi che fosse una mera formalità prima della concessione dell’agognata libertà.
Alcuni addirittura sostenevano che le audizioni costituissero un effettivo esame per l’immigrazione.
La delegazione, composta da 4 membri ciascuno dei Dipartimenti di Stato e della Giustizia, giunse
al forte il 14 settembre. Tra i rappresentanti del Ministero degli Interni c’era il Refugee Program
Officer di Washington e tre membri del personale del “rifugio”.
I lavori furono affidati a tre gruppi principali 436 , composti da rappresentanti di ciascuno dei
Dipartimenti, e ad un quarto gruppo 437 che avrebbe rivisto il tutto. L’amministrazione del campo
collaborò ciclostilando un apposito questionario che i comitati avevano elaborato.
Divenne presto chiaro ai rifugiati che le audizioni avevano solamente uno scopo esplorativo. In
aggiunta alle informazioni richieste dal questionario, ad ogni rifugiato furono poste altre domande e
alla fine fu fatta una trascrizione di tutte le testimonianze.
Lo scopo principale delle audizioni, in realtà, era quello di determinare la fattibilità del rimpatrio
dei rifugiati nei paesi in cui risiedevano prima o durante la guerra. Al fine di ottenere le
informazioni necessarie, i membri dei comitati entrarono nei dettagli della vita individuale e
familiare dei rifugiati. Le domande riguardavano il periodo in cui erano stati rifugiati in Europa, la
loro esperienza durante la guerra, lo sterminio di membri della loro famiglia, il luogo in cui si
trovavano i parenti superstiti, tra cui quelli presenti negli Stati Uniti, le speranze e le paure per il
futuro.
Un membro dei comitati insistette sul documento che i rifugiati avevano firmato in Italia prima di
partire, affermando che qualsiasi volontà di violare o modificare i termini di quell’accordo sarebbe
stato un atto di malafede. Un altro membro sembrò dare poca o nessuna importanza al fatto che
molti degli individui intervistati avessero perso i loro parenti più prossimi a causa della
persecuzione nazista. Dal suo punto di vista i rifugiati, essendo stati curati e sostenuti nel corso
dell’ultimo anno dagli Stati Uniti, avrebbero dovuto desiderare di tornare nei loro paesi per
contribuire alla loro ricostruzione.
Quando un certo numero di rifugiati mise in evidenza la propria preoccupazione per le notizie
relative all’antisemitismo ancora presente nei paesi europei, i rappresentanti governativi misero a
tacere quelle voci, affermando che visto che gli Alleati avevano vinto la guerra e avevano il
controllo dell’Europa, notizie di quel tipo erano prive di fondamento.
436
Il primo era composto da E. L. Freers (Dip. di Stato), S. A. Diana (Giustizia) e Janet Margolies (Interni); il secondo
da Philip F. Cherp (Stato), Thomas P. Galvin (Gustizia) e Frieda Reifer (Interni); il terzo da J. L. Tochey (Stato), J.
Auerbach (Giustizia) e Edward Huberman (Interni).
437
Il gruppo di revisione era composto da Marshall Vance (Stato), Joseph P. Savoretti (Giustizia) e Edward B. Marks
(Interni).
Se solo una piccola parte dei rifugiati risultò turbata dalla conduzione delle audizioni, la maggior
parte si rese conto che non c’era da aspettarsi una soluzione rapida.
Durante la loro permanenza al forte, i rappresentanti governativi furono intrattenuti con diversi
spettacoli teatrali e feste, e quasi tutti, presi singolarmente, espressero il loro profondo interesse per
la causa dei rifugiati. Tuttavia, al di là dell’accoglienza dei rappresentanti governativi e di ciò che
questi dissero ai rifugiati, non va dimenticato che le audizioni si svolsero in un momento in cui la
situazione europea era incerta e i giornali americani erano pieni di rapporti sulle deplorevoli
condizioni dei campi profughi, sulla probabile scarsità di cibo che avrebbe caratterizzato l’inverno
successivo e sull’antisemitismo presente in alcuni paesi europei. Tutto ciò creò una sensazione di
panico da parte di un certo numero di rifugiati che aveva timore di essere rispedito in Europa contro
la propria volontà. A ciò si aggiunse la snervante attesa che si protraeva da mesi e che esacerbò
ancora di più gli animi a causa del rinvio continuo di una decisione finale e delle continue voci che
si rincorrevano.
Per avere un’idea della dilazione dei tempi, basti pensare che il Comitato di revisione lavorò sui
dati 438 emersi da questa seconda visita dal 4 al 10 ottobre e completò la sua relazione per i tre
Ufficiali del Governo il 24 ottobre 1945. Più di un mese dopo, i Dipartimenti di Stato e della
Giustizia convocarono i membri dei tre Dipartimenti con la raccomandazione di preparare un piano
d’azione.
Durante questo periodo l’ex direttore del forte e attuale direttore del Friends of Fort Ontario GuestRefugees entrava e usciva dal forte per incontrare i membri del Comitato per la libertà e
altri rifugiati. Si discusse anche della possibilità di inviare una delegazione a Washington o di
avviare degli scioperi della fame.
Furono mesi particolarmenti tesi, caratterizzati da un pessimismo di fondo causato dal fatto che tutti
gli sforzi portati avanti fino a quel momento erano caduti nel vuoto.
Diversi rifugiati decisero, al fine di accendere l’attenzione sulla loro condizione, di proclamare il 12
dicembre giornata del dolore e della preghiera. Tra le motivazioni c’era sicuramente quella di
richiamare l’interesse della stampa. Il piano prevedeva una serie di inviti a rappresentanti di un
certo numero di periodici affinchè visitassero il forte il giorno dell’evento.
Alla fine, su pressione del direttore, a sua volta consigliato da Washington, la manifestazione fu
annullata dato che avrebbe potuto facilmente ritorcersi contro i rifugiati stessi. Ad esempio, persone
che non conoscevano esattamente i termini della questione avrebbero potuto fraintedere gli scopi
dell’iniziativa ed evidenziare, al contrario, l’ingratitudine dei rifugiati dopo tutta l’ospitalità
ricevuta.
Due giorni prima della presentazione della relazione, il 22 ottobre, quindici tra comitati, agenzie,
enti e associazioni scrissero direttamente al presidente Truman 439 . Con la lettera si voleva
438
Dalle interviste emerse che 32 persone desideravano il rimpatrio, 72 volevano entrare in altri paesi e circa 814
dissero di voler rimanere negli Stati Uniti. I rappresentanti del gruppo di revisione decisero all’unanimità che per 119
degli 814 non era fattibile un loro ritorno in Europa, mentre sui restanti 695 casi le opinioni diversero. In particolare, il
rappresentante del WRA, Edward Marks, eccepì nel 90% dei 695 casi che il rimpatrio non era da prendere in
considerazione, cosa che invece volevano proporre gli altri due membri del gruppo di revisione. Si veda Token
shipment, cit., pp. 102-103.
439
Greenberg, Karen J., cit., pp. 257-258. Si tratta dell’American Christian Committee for Refugees, del War Relief
Services, dell’International Migration Service, del National Refugee Service, dell’International Rescue and Relief
Committee, della Young Women’s Christian Association, dell’Hebrew Sheltering and Immigrant Aid Society,
dell’American Jewish Committee, dell’American Jewish Congress, del National Council of Jewish Women, del Jewish
Labor Committee, dell’American Friends Service Committee, dell’American Ort Federation, dell’Unitarian Service
Committee e del B’nai B’rith.
sottolineare l’unione di visioni e di intenti delle comunità cattoliche, ebraiche e protestanti, a loro
volta in accordo con le agenzie che lavoravano nel settore dell’immigrazione e dei rifugiati.
Nel messaggio invitavano il governo americano ad attivarsi per impedire il rimpatrio dei residenti di
Fort Ontario nei paesi di origine, in base a due principali considerazioni. La prima era legata alle
difficili condizioni dei paesi europei dopo la fine del conflitto e la seconda alla necessità che gli
Stati Uniti diventassero un modello, e stabilissero un precedente per il mondo intero. Anzi, le
posizioni assunte nei confronti dei paesi alleati circa la situazione dei profughi in Europa e le
istruzioni fornite alle autorità militari americane, rendevano già gli Stati Uniti il paese aprifila di
una politica dell’emigrazione basata sulla consapevolezza che i profughi non potevano tornare nei
loro paesi di origine. Da questo punti di vista, il rimpatrio dei rifugiati di Fort Ontario non avrebbe
fatto altro che peggiorare la situazione dei paesi di origine e degli stessi rifugiati che non avrebbero
certo potuto avere l’assicurazione di “una posizione di sicurezza e di decenza umana ragionevole”,
ma che anzi sarebbero stati “precipitati in un vortice di privazioni, incertezze e disperazione che ora
attanaglia molte migliaia di europei e dal quale il nostro governo ha salvato questa manciata”.
I mittenti si auguravano che il presidente mettesse fine alla lunga attesa, tenuto conto che prima o
poi una decisione andava presa, e cercasse il modo, pur rispettando le leggi sull’immigrazione, di
risolvere la questione. Le agenzie erano pronte a farsi carico dei rifugiati e ad assicurare il loro
inserimento negli Stati Uniti.
La vignetta illustra gli ostacoli che impediscono l’immigrazione di profughi verso gli Stati Uniti (1945-1948).
Fonte: http://www.annefrankguide.net/en-us/bronnenbank.asp?oid=19221.
10. La chiusura di Fort Ontario
Il secondo Natale all’interno di Fort Ontario si stava avvicinando. I rifugiati erano scoraggiati e non
riuscivano a vedere una via d’uscita nonostante gli sforzi di parenti e amici, delle agenzie e dei
comitati ed anche del lavoro svolto da due delegazioni governative, una del Congresso ed una del
governo. Nel frattempo le voci continuavano ad autoalimentarsi arrivando a sostenere che i rifugiati
sarebbero stati trattenuti a Fort Ontario per tutto l’inverno, soprattutto a causa della situazione
alimentare e delle instabili condizioni politiche in Europa, e che, con l’arrivo della primavera, tutti i
rifugiati, tranne pochi casi particolari, sarebbero stati rimpatriati.
In quel coacervo di umori contrastanti, esplose l’annuncio 440 del presidente Truman: il 22 dicembre
1945, il presidente firmò una direttiva 441 in materia di immigrazione che fornì la risposta tanto attesa
alla difficile situazione dei rifugiati di Fort Ontario. Nel documento ufficiale, Truman dichiarò che
“nella misura consentita dalle nostre leggi sull’immigrazione, deve essere fatto tutto il possibile, in
una sola volta, per facilitare l’ingresso di alcuni di questi profughi e rifugiati negli Stati Uniti” 442 .
Ciò anche sulla base, come già chiesto dalle agenzie e dalle associazioni nella lettera di due mesi
prima, di essere “da esempio per gli altri paesi del mondo che sono in grado di accogliere alcune di
queste persone sofferenti a causa della guerra”.
Con riferimento specifico ai residenti di Fort Ontario disse che era stato deciso “sulla base di una
attenta ricerca da parte del Dipartimento di Stato e dell’Immigration and Naturalization Service
(...) che se queste persone avessero fatto domanda ora per l’ammissione negli Stati Uniti la
maggior parte di loro sarebbe risultata ammissibile ai sensi delle leggi in materia di
immigrazione” 443 . Il Presidente Truman aggiunse che “sarebbe disumano e uno spreco imporre a
tali persone di ripercorrere tutta la strada per tornare in Europa solamente con lo scopo di fare
domanda per ottenere i visti e tornare negli U.S.A. (...). Sto quindi dando al segretario di Stato e al
procuratore generale le indicazioni per regolare lo status di immigrazione dei membri di questo
gruppo che potrebbero voler rimanere qui, in stretto accordo con le leggi e le normative vigenti” 444 .
Grazie alla direttiva una buona parte delle quote destinate agli immigrati furono utilizzate per le
cosiddette displaced persons. Il numero totale di immigrati non fu quindi toccato. Semplicemente
furono ammessi più profughi: circa 22.950 DP, di cui due terzi ebrei, entrarono negli Stati Uniti tra
il 22 dicembre 1945 e il 1947. Negli anni precedenti, però, le cose erano andate diversamente. Lo
stesso Truman, nella sua direttiva, spiegò che, durante gli anni della guerra, furono pochi gli
immigrati entrati sul suolo americano: nell’anno fiscale 1942 solo il 10% dei visti fu utilizzato; nel
1943, il 5%; nel 1944, il 6%; nel 1945, il 7%. L’argomento usato da Truman per dimostrare come i
flussi fossero quasi fermi e fosse possibile accogliere i residenti di Fort Ontario, era nello stesso
tempo un’ammissione di quanto poco fosse stato fatto negli anni precedenti per salvare le vittime
del nazismo. Tra l’altro, la norma voleva che i posti rimasti vacanti non fossero presi in
considerazione per gli anni successivi. Per i soli paesi dell’Europa centrale e orientale, le quote
erano destinate a 39.000 ingressi all’anno, due terzi dei quali assegnati ai tedeschi. Dato che i
440
In realtà la discussione proseguì a livello parlamentare e governativo. Si veda Token shipment, cit., pp. 103-105.
Si tratta dello Statement by the President on immigration to the United States of certain displaced persons and
refugees in Europe e della Directive by the President on immigration to the United States of certain displaced persons
and refugees in Europe.
442
http://www.jewishvirtuallibrary.org/jsource/Holocaust/truman_on_dps.html. Si veda anche Greenberg, Karen J., cit.,
pp. 264-268.
443
Ibidem.
444
Ibidem.
441
permessi erano concessi su base mensile, si trattava di 3.900 visti al mese a fronte di circa mille
rifugiati presenti a Fort Ontario.
Restando sempre nel solco della legge, Truman evidenziò, inoltre, che nessuno dei profughi sarebbe
risultato a carico della collettività, né i bambini orfani che lui sperava di far entrare in maggior
numero né gli adulti. Le diverse organizzazioni avrebbero dovuto dare garanzie su questo punto.
La reazione dei rifugiati di Fort Ontario non si fece attendere. Molti cominciarono a chiedersi
quando sarebbe arrivato il momento della loro liberazione, alcuni iniziarono a raccogliere e ad
impacchettare i loro averi in vista della partenza, altri scrissero a parenti ed amici chiedendo loro di
cominciare a cercare un alloggio e un lavoro. Qualcun altro, sulla scorta dei mesi passati, rimase
sospettoso sui reali effetti delle dichiarazioni del presidente.
10.1 I preparativi
I festeggiamenti per le vacanze natalizie e per l’arrivo del nuovo anno passarono in fretta. Lunedì 7
gennaio 1946, giunsero a Fort Ontario venti tra ispettori del settore immigrazione, poliziotti di
frontiera, un rappresentante del Dipartimento di Stato, due funzionari del Servizio di Sanità
Pubblica degli Stati Uniti, impiegati ed altro personale dell’Immigration and Naturalization Service
e circa venti lavoratori che rappresentavano le agenzie private che erano state scelte dal WRA per
realizzare il reinsediamento della popolazione del “rifugio”.
Nei sedici giorni intercorsi tra la dichiarazione di Truman e l’arrivo del personale al campo, c’era
stato un notevole lavoro preparatorio. Tutti i rifugiati furono registrati dall’Oswego Ration Board
per le tessere annonarie relative allo zucchero; tutti gli uomini tra i 18 e 65 anni furono registrati ai
sensi del Selective Service Act voluto nel 1940 da Roosevelt; furono scattate le fotografie
necessarie per il visto ufficiale, stamapti i moduli per l’immigrazione e una varietà di altri moduli di
registrazione previsti per gli stranieri.
Grazie a questo lavoro preliminare, i funzionari dell’immigrazione e della salute pubblica
riuscirono a passare direttamente alle fasi finali del processo burocratico. I medici completarono gli
esami in un paio di giorni e, in meno di una settimana, gli ispettori dell’immigrazione e i poliziotti
di frontiera esaminarono le domande dei rifugiati e presero le loro impronte digitali.
Gli stessi residenti del campo diedero una mano ai funzionari: il gruppo dei Boy Scout aiutò i
poliziotti di frontiera con le impronte digitali; le ragazze rifugiate che frequentavano la scuola
aziendale della città si occuparono di battere a macchina i moduli necessari; altri ancora incollarono
le fotografie, fecero da traduttori o interpreti, o funsero da corrieri.
Le procedure furono portate avanti ad un ritmo tale che anche i più scettici tra i rifugiati rimasero
stupiti di ciò che veniva chiamato “American tempo” 445 . In realtà il ritmo sostenuto era legato alle
scadenze da rispettare.
Nello stesso periodo in cui al forte proseguiva il lavoro della macchina burocratica, i funzionari dei
Dipartimento di Stato e della Giustizia stavano lavorando in Europa per la creazione di consolati
nelle zone occupate dagli Stati Uniti in cui avrebbero potuto essere prodotte le domande per i visti,
in base alla direttiva di Truman. Di conseguenza, dovendo rendere disponibili delle quote nella
primavera del 1946 per il maggior numero possibile dei richiedenti presenti in Europa, era
necessario elaborare il prima possibile le domande dei rifugiati di Fort Ontario.
Il contingente previsto per i tedeschi, gli austriaci, i polacchi, i cechi e i russi era tale che tutte le
domande dei rifugiati di Fort Ontario avrebero potuto essere accolte durante i mesi di gennaio e
febbraio. Diversa era la situazione degli jugoslavi che, nonostante il rimpatrio di 66 persone,
445
Si veda Token shipment, cit., p. 80.
rimaneva il gruppo che contava il maggior numero di persone. Il contingente annuo per gli jugoslavi
ammontava a 845 ingressi, ma la legge stabiliva che non più del 10% di quella quota poteva essere
utlizzata per ciascun mese. Di conseguenza, fu necessario ripartire gli ingressi degli jugoslavi in un
periodo di 3 mesi. Nella stessa situazione si trovarono piccoli gruppi come quelli dei greci e dei
romeni.
Washington decise che i rifugiati avrebbero cambiato il loro status di immigrati presso il Consolato
americano alle Cascate del Niagara. 446 Poiché si trattava di un piccolo ufficio, si pensò fosse
opportuno completare la maggior parte delle procedure al forte stesso, in base a quanto consentito
dalla legge.
765 residenti di Fort Ontario si erano registrati per presentarsi negli uffici del Consolato nei mesi di
gennaio e febbraio, mentre altri 88 ci sarebbero andati a marzo.
Il console americano alle Niagara Falls, si recò al forte agli inizi di gennaio per prendere accordi. La
decisione fu quella di gestire fino a cento persone al giorno al consolato. Per far ciò, si stabilì che
gruppi di circa cento rifugiati sarebbero partiti da Fort Ontario a giorni alterni, a partire dal 17
gennaio 447 .
446
Nella foto. Fonte: http://www.nflibrary.ca/nfplindex/show.asp?id=91386&b=1.
Sulle fasi conclusive descritte si veda Greenberg, Karen J., cit., pp. 261-263 (memorandum di Dillon Myer sulle
disposizioni relative alla chiusura del campo del 29 dicembre 1945) e pp. 269-270 (Shelter Closure Memorandum n°8
del 13 gennaio 1946).
447
10.2 Le ultime performance.
Mentre la macchina amministrativa e burocratica si era messa in moto per garantire in tempi rapidi
la chiusura del forte e la partenza dei rifugiati, questi ultimi organizzarono due spettacoli teatrali. In
un caso si trattò di uno spettacolo di varietà che fu messo in scena in onore della visita dei
funzionari del governo e dei rappresentanti delle agenzie private. Uno dei momenti migliori fu lo
sketch che faceva satira sulle udienze per l’immigrazione. In un’altra scena i rifugiati si prendevano
gioco degli sforzi messi in campo dalle agenzie private per far sì che i rifugiati utilizzassero i propri
fondi per pagare il trasporto ed altre spese piuttosto che avanzare una richiesta di aiuto alle agenzie
stesse. In questa scena un padre rifugiato esagerava la propria disponibilità finanziaria davanti ad un
corteggiatore americano che chiedeva la mano di sua figlia, ma un attimo dopo si lamentava della
sua povertà e dei suoi bisogni con un rappresentante di un’agenzia privata che lo invitava nella sua
casa. L’umorismo della situazione era dato dal fatto che il rifugiato confondeva l’identità del
corteggiatore con quella dell’assistente sociale, con risultati decisamente disastrosi. 448
L’altra performance delle ultime
settimane fu The golden cage,
un’opera in due parti con sei
scene,
scritta
da
Miriam
Sommerburg, una donna tedesca
di 45 anni arrivata negli Stati
Uniti con i suoi quattro figli, e
musicata da un altro rifugiato,
Charles Abeles. Questo lavoro
ambizioso era stato composto
prima
della
direttiva
del
presidente Truman ed era
originariamente inteso come un
drammatico appello per la libertà.
L’annuncio del presidente arrivò
prima che fosse messa in scena e
allora fu aggiunta all’ultimo
momento una scena finale che
comprendeva la buona notizia.
L’opera, eseguita da cantanti e
attori che leggevano e cantavano
le loro parti con
l’accompagnamento
di
un
pianoforte, descriveva l’intera
storia del gruppo dal periodo
trascorso in Italia come rifugiati,
fino alla libertà negli Stati Uniti.
Il libretto di The golden cage 449
rivelava l’avversione dei rifugiati
per l’internamento e la loro gioia
448
Token shipment, cit., p. 87.
Token shipment, cit., pp. 87-89.
Le immagini del libretto dell’opera sono tratte da http://safehavenmuseum.wordpress.com/2012/03/26/the-golden-cage/.
449
per la liberazione finale. In una scena ambientata a Fort Ontario, che ricordava i giorni
immediatamente successivi all’arrivo del gruppo, “signore americane elegantemente vestite”
sentivano le “malvestite rifugiate” cantare dietro la recinzione:
“Siamo in una gabbia senza un motivo,
siamo in una gabbia, una gabbia d’oro;
non ci manca nulla tranne la nostra libertà.”
Un uomo cantava:
“Mi sento una scimmia
nel giardino zoologico;
siamo noi ad essere in mostra?
Non manca nulla tranne il guardiano!
Cosa siamo, - una sensazione
per il piacere delle persone annoiate?”
In un’altra scena, dopo sedici mesi di vita nel campo, i profughi erano ancora “seduti dietro la
recinzione, mentre guardano con desiderio la Statua (della Libertà), cantando tristemente”:
“Dietro la recinzione di Fort Ontario
siamo seduti, in attesa del giorno glorioso,
quando i nostri piedi senza catene potranno finalmente andare
sulle strade dei paesi più belli.
Non c’è cibo che desideriamo.
Nessun bisogno materiale per cui stiamo soffrendo,
ma i nostri cuori non sono mai stati curati,
sono tremendamente turbati.
Come un leone in gabbia
stiamo perdendo la salute e l’umore;
come un uccello che invecchiando
non può fare nulla di buono con le sue ali.”
Ad un certo punto, un messaggero arrivava con la notizia della decisione di Truman e i rifugiati
cominciavano a ridere, ballare e cantare:
“Inviamo i nostri ringraziamenti a Roosevelt
che ci ascolta al di là delle stelle,
che ha mandato un angelo per il mondo
per liberarci da questa farsa.
Abbiamo appena lasciato Fort Ontario
e cerchiamo di trovare il nostro focolare;
per trovare la nostra vita, il nostro lavoro e muoverci
verso la libertà sulla terra!”
10.3 Il lavoro di programmazione per il reinsediamento
Il WRA fissò il 6 febbraio 1946 come data di chiusura del campo. Anche se 88 persone si
sarebbero recate presso il Consolato a marzo, si decise che sarebbero state sistemati altrove,
per non mantenere in attività l’intero forte per un altro mese. L’Immigration and
Naturalization Service accettò l’idea e diede a queste persone dei permessi temporanei per
entrare negli Stati Uniti. Allo stesso modo furono concessi dei permessi temporanei alle 8
persone in attesa di emigrare in un altro paese, ai 19 rifugiati che avevano chiesto il rimpatrio
e ai 19 le cui domande furono ritenute inammissibili per motivi di salute.
I 23 bambini nati a Fort Ontario furono ammessi come
cittadini degli Stati Uniti, anche se questo aspetto era
rimasto in dubbio fino all’inizio del processo di
immigrazione. La questione era stata posta al
Dipartimento di Giustizia almeno una volta, ma non
arrivò nessun parere ufficiale. Comunque, nel numero di
gennaio del 1945 dell’American Journal of International
Law, era stato pubblicato un articolo speciale su tale
questione in cui si concludeva che i bambini nati nel
campo erano cittadini degli Stati Uniti a tutti gli effetti.
Lo stesso WRA, nel gennaio del 1946, fu informato dai
rappresentanti dell’Immigration and Naturalization
Service che non sarebbe stato necessario trattare i
bambini come stranieri poiché erano cittadini
statunitensi. Ciò fu confermato nel memorandum che, il
3 gennaio 1946, il commissario Ugo Carusi 159 inviò a
James O’Loughlin, responsabile dell’immigrazione
distaccato ad Oswego: “I bambini nati nel campo per
rifugiati di Oswego, New York, sono considerati come soggetti nati sotto la giurisdizione
degli Stati Uniti e di conseguenza cittadini degli Stati Uniti alla nascita, in base al
Quattordicesimo Emendamento della Costituzione.” 160
159
Da www.uscis.gov e http://beta.worldcat.org/archivegrid/data/818014557.
Ugo Carusi nacque in Italia il 17 marzo 1902, mentre i suoi genitori, entrambi cittadini americani naturalizzati,
stavano visitando la loro città natale, Carrara. Tornati negli USA, quando Ugo Carusi aveva tre anni,
quest’ultimo potè trascorrere la sua infanzia a Barre, Vermont. Frequentò le scuole pubbliche fino al 1918,
quando andò a lavorare in uno studio legale locale. Nel 1922 era in servizio come segretario del Procuratore
Generale del Vermont. Nel 1925, Carusi entrò alla National University Law School (ora conosciuta come
George Washington University Law School), dove si diplomò come primo della sua classe. Mentre frequentava
la scuola di legge, Carusi lavorò come segretario privato di John G. Sargent, US Attorney General. Fu poi
nominato segretario esecutivo del Procuratore Generale nel 1930 e rimase in servizio fino al gennaio 1945,
quando il presidente Franklin D. Roosevelt lo nominò Commissario per l’immigrazione e la naturalizzazione.
Nei suoi due anni e mezzo come commissario, Carusi supervisionò le operazioni del dopoguerra dell’INS, lavoro
che comprendeva la pianificazione dell’emigrazione di migliaia di europei rimasti senza casa dopo la guerra.
Dopo le sue dimissioni nel 1947, continuò a lavorare a vario titolo in progetti del governo federale relativi ai
profughi, in particolare in qualità di Presidente del Comitato per gli sfollati del Presidente Truman nel 1948 e
come membro del Committee for Hungarian Refugee Relief voluto da Eisenhower nel 1956. Nel 1967 si recò in
Vietnam come membro di un gruppo che rappresentava le organizzazioni di volontariato che si occupavano di
soccorso e che riferì al presidente Johnson della situazione dei bambini rimasti senza casa a causa del conflitto.
Carusi è morto il 21 luglio del 1994 nella sua casa di Washington, all’età di 92 anni.
160
Token shipment, cit., p. 82.
Tabella 11 - Situazione alla chiusura del campo 161 .
A
B
C
D
E
F
G
H
Cittadini degli Stati Uniti (i bambini nati nel forte furono riconosciuti come cittadini americani
quando il procuratore generale stabilì che la residenza a Fort Ontario soddisfaceva il requisito
per il preesame)
Immigrazione negli Stati Unti
1. Visti permanenti
2. Visti temporanei per jugoslavi in attesa dei visti permanenti
Visti temporanei per le persone in attesa di essere rimpatriate (questo gruppo includeva persone
che volevano tornare dalle proprie famiglie o che volevano cercarle; la maggior parte sperava di
emigrare più tardi. Cinque di loro appresero che i loro parenti erano morti e scelsero di inoltrare
la domanda per un permesso permanente. Un austriaco non ebreo, che era stato un custode di
una borsa valori, un lavoro governativo, ritornò in una pensione che non voleva perdere)
Visti temporanei per le persone in attesa di emigrare (raggiunsero i propri parenti in paesi terzi)
Inammissibili (ottennero dei visti temporanei, rinnovabili ogni anno per sette anni, dopo di che
diventavano idonei per la residenza permanente ma non per l’immigrazione)
1. TB (la maggior parte di questi casi portava alla loro esclusione, ma restarono solo sulle
vecchie cartelle cliniche ed ottennero permessi permanenti)
2. Problemi psichici
3. Cancro
4. Epilessia
5. Condizioni generali (questa donna anziana, “troppo debole per andare da qualsiasi parte”,
rimase in un centro di convalescenza)
Morti
TOTALE
Di cui non ebrei
1. Reinsediati dal Catholic Committee for Refugees
2. Reinsediati dall’American Committee for Christian Refugees
23
853
765
88
19
8
19
11
5
1
1
1
14
922
73
38
35
Una volta espletate tutte le pratiche legate all’ingresso dei rifugiati negli Stati Uniti, il WRA
cercò di far sì che fossero reinsediati nel miglior modo possibile. Tre agenzie private, il
National Refugee Service, l’American Committee for Christian Refugees e il Catholic
Committee for Refugees, si erano impegnate a fornire degli affidavit collettivi e in alcuni casi
individuali per tutti i rifugiati. In questo modo le agenzie assicurarono al governo che nessuno
dei residenti di Fort Ontario sarebbe diventato un peso pubblico. Alla luce di questa
responsabilità e tenendo conto dell’esperienza in materia di reinsediamento dei rifugiati, il
WRA designò il NRS come referente per tutto il progetto.
In origine era previsto che l’agenzia portasse a termine il suo compito in un periodo compreso
tra 60 e 90 giorni. Ciò si scontrò con la necessità di completare l’ingresso dei rifugiati negli
Stati Uniti in più mesi. Scartata la possibilità che i rifugiati non ancora sistemati potessero
tornare a Fort Ontario, per non farli considerare appunto un peso pubblico, il NRS e le altre
agenzie si organizzarono per avere più personale a disposizione per finire prima il lavoro. Fu
consegnato loro un intero edificio nel quale, per circa un mese, fu istituito un ufficio
provvisorio.
Il NRS tenne degli incontri con i rifugiati nel corso dei quali spiegava il programma di
reinsediamento ed i servizi offerti dalle varie agenzie coinvolte. Allo stesso modo i
rappresentanti del NRS e del WRA si accordarono per decidere la politica di base di tutta
l’operazione. La sezione welfare del WRA avrebbe pianificato gli appuntamenti per le
interviste relative al reinsediamento condotte dalle agenzie private e, di volta in volta, avrebbe
161
Lowenstein, S. R., cit., p. 202.
trasmesso all’agenzia una sintesi riguardante i dati più rilevanti su ciascuna famiglia o
rifugiato. Le operazioni non furono affatto semplici, considerato il poco tempo a disposizione
e la necessità di conoscere a fondo le singole situazioni per dare una risposta efficace a tutte le
richieste. Nel caso di presenza negli USA di parenti stretti che si facevano carico dei rifugiati,
il procedimento poteva essere velocizzato, ma nei casi di persone senza parenti o in situazioni
particolari, era necessario sviluppare un piano di reinsediamento completo che avesse
ovviamente un senso per il rifugiato in questione.
Nel rapporto del NRS si legge 162 :
“Il tempo è essenziale; il reinsediamento doveva essere discusso nei dettagli attraverso
una o al massimo due interviste. Se i posti per il reinsediamento erano in dubbio, non era
possibile dare al rifugiato la sensazione che ci fosse un luogo in cui potesse andare e
dove sarebbe stato davvero accolto.
Semplicemente non c’è alcuna privacy nella vita di un campo, come ad Oswego. Le
paure,i problemi, i pregiudizi di una persona, apparivano in una forma esagerata e
diventavano proprietà di tutti. I piani per un individuo spesso venivano esposti ai pensieri
di tutto il gruppo. (…). Ad esempio, se un impiegato trovava un accordo con un rifugiato
su una particolare comunità e poi la comunità non lo accettava, non solo c’era la
necessità di aiutare il rifugiato in questione nell’affrontare questo rifiuto, ma altri
rifugiati, venendo a conoscenza di quanto accaduto, non prendevano più in
considerazione quella particolare città. Non deve essere sottovalutato il fatto che queste
persone si sentivano rifiutate. Erano state cacciate dalle loro terre d’origine e
semplicemente non potevano sopportare esperienze simili, a prescindere dalle buone
intenzioni.
Alcune comunità, alla fine, riuscirono a trovare, come unica soluzione, degli alloggi
temporanei ubicati fuori dalla città. Diversi rifugiati, dopo averlo saputo, non li hanno
accettati per una serie di ragioni. Molti non volevano vivere a 10-25 miglia dalla città,
cosa che ostacolava anche se temporaneamente la loro accessibilità al lavoro, facendo
aumentare i tempi di spostamento e le spese di viaggio; molti di coloro che in un primo
momento hanno accettato, con una certa riluttanza, una nuova sistemazione al di fuori di
New York, poi hanno rifiutato di andarci quando hanno saputo che avrebbero dovuto
vivere in coabitazione soprattutto al di fuori della città. In ultima analisi, piuttosto che
accettare queste condizioni, avrebbero chiesto di andare a New York, perché sapevano
che almeno a New York c’era un rifugio dell’HIAS 163 ad accoglierli.”
New York attrasse molti dei rifugiati. Coloro che avevano validi motivi per andarci non
presentavano nessuna difficoltà per le agenzie, ma l’obiettivo delle agenzie private e del
WRA rimaneva quello di reinsediare i rifugiati nel maggior numero possibile di comunità.
Pertanto si cercò di convincere i rifugiati, che non avevano motivi particolari per scegliere
New York, a scegliere altre mete. Le agenzie non costrinsero ad optare per una comunità o
per l’altra, ma in questi casi si cercò d’influenzare la loro scelta.
Oltre a lavorare al programma di reinsediamento, il NRS era responsabile dell’assistenza
necessaria ai rifugiati durante il viaggio e dopo l’arrivo nelle loro nuove comunità. L’agenzia
si occupò anche del trasporto e della spedizione dei bagagli. Nel frattempo doveva continuare
a seguire la situazione di coloro che avevano ricevuto solo dei permessi temporanei. Inoltre il
162
163
Token shipment, cit., p. 83.
Hebrew Immigrant Aid Society, Scoietà di aiuto agli ebrei immigrati.
WRA si accordò con il NRS affinchè si prendesse cura dei residenti di Fort Ontario ricoverati
fuori dal campo ed affidati dal governo ai privati il 1° febbraio 1946.
10.4 La partenza
I primi tre autobus, con 95 rifugiati a bordo, partirono per le cascate del Niagara alle 6 del
mattino del 17 gennaio. L’accordo prevedeva che una volta che il NRS avesse presentato al
WRA la lista dei passeggeri, il cui piano di reinsediamento era stato completato, solo il WRA
stesso avrebbe potuto autorizzare eventuali cancellazioni. Diverse famiglie inserite sulla lista
per il primo viaggio volevano tirarsi indietro all’ultimo momento. In tutti questi casi, tranne
uno, l’indagine della sezione welfare rivelò che la volontà di rinviare la partenza era legata
solo alla riluttanza di lasciare il campo nella data prevista. L’eccezione fu prevista solo per un
uomo a causa di valide motivazioni legate alle sue condizioni di salute. Gli altri partirono
come da programma. Solo quando il primo gruppo partì ed i rifugiati si resero conto che il
loro sogno si stava davvero realizzando, il desiderio di partire si fece impellente. Alcuni
chiesero addirittura di partire prima e in diversi casi furono stabiliti nuovi orari per permettere
di anticipare il viaggio.
I rifugiati lasciano Fort Ontario per il Rainbow Bridge (foto di Leni Sonnenfeld). Fonte:
http://cdm16694.contentdm.oclc.org/cdm/singleitem/collection/p16694coll19/id/206/rec/2.
La maggior parte delle partenze erano previste la mattina presto in modo tale che i rifugiati
potessero arrivare alle cascate del Niagara in tempo per consentire al Console di rilasciare i
visti di immigrazione il giorno stesso. I rifugiati in partenza si radunavano tra le 4 e le 5,
facevano colazione con ciambelle e caffè, e consegnavano la loro checklist che indicava che
tutti i requisiti del WRA erano stati soddisfatti. Molti rifugiati, la cui partenza era prevista in
un altro momento, andavano comunque a salutare i propri amici. Si può immaginare
l’emozione sui loro volti nel dire addio a coloro con cui avevano condiviso anni di fuga e di
internamento.
L’ultimo gruppo lasciò il forte il 4 febbraio, due giorni prima della scadenza stabilita, anche
se un rifugiato, un signore anziano per il quale si era reso necessario l’arrivo di un’ambulanza
speciale, partì il giorno successivo. Le partenze avvenute entro il 4 febbraio includevano
anche i titolari di permessi temporanei.
L’autobus con i rifugiati attraversa il ponte che congiunge gli Stati Uniti al Canada dove avrebbero raggiunto il
Consolato americano. Foto tratta da Hendell, D., cit., p. 49.
Non fu facile completare il piano di
reinsediamento del gruppo di jugoslavi che
sarebbe stato l’ultimo a partire, nel mese di
marzo. In base a quanto disposto dalle
agenzie private, gli jugoslavi dovevano
lasciare il forte all’inizio di febbraio ed
andare a New York ed in altre città, fermo
restando che ai primi di marzo sarebbero stati
riconvocati e accompagnati con un treno
speciale alle cascate del Niagara. Gli accordi
furono molto precisi, ma un certo numero di
persone fu preso dal panico. Probabilmente a
causa delle loro precedenti esperienze
europee, temevano che potesse sorgere
qualche contrattempo che gli impedisse di
entrare definitivamente negli Stati Uniti. Fu
Eisig e Golda Diamond al Consolato americano alle
cascate del Niagara, 1946. Fonte:
http://access.cjh.org/home.php?type=extid&term=5
47036#1.
con grande difficoltà che il WRA e le agenzie private riuscirono a coinvincerli che le loro
preoccupazioni erano prive di fondamento, che i posti, all’interno del sistema delle quote,
erano stati riservati, che tutti gli accordi erano stati presi e che non ci sarebbe stato nessun
errore.
Per i 19 rifugiati le cui domande erano state giudicate irricevibili, si trattava di attendere.
Alcuni pensavano che un riesame della documentazione avrebbe soddisfatto i requisiti sanitari
previsti dalla legge. Comunque sia, significava prolungare il loro stato di incertezza e ciò non
escludeva la possibilità di essere rimpatriati contro la propria volontà.
Il 28 febbraio 1946 Fort Ontario tornò sotto il controllo del Dipartimento di Guerra.
11. Una nuova vita
11.1 I luoghi
Anche se la maggior parte dei profughi si stabilì sulla costa orientale e soprattutto a
New York City, il resto risultò abbastanza ben distribuito in tutto il paese.
I 923 rifugiati presenti nel momento in cui il campo fu chiuso scelsero più di 70 comunità in
21 Stati oltre al Distretto di Columbia. Per quanto riguarda i gruppi più numerosi 573
andarono a New York, 61 in California, 58 nel New Jersey, 46 in Pennsylvania e 42
nell’Ohio.
Di coloro che avevano scelto lo Stato di New York, 82 si stabilirono in città diverse da New
York. Si può affermare che il numero di rifugiati che scelse città nei dintorni di Fort Ontario,
come Syracuse, Rochester, Buffalo e altre, è stato sicuramente più alto di quello che ci si
sarebbe potuto aspettare nel caso in cui fosse stata designata un’altra zona degli Stati Uniti per
ospitare il campo profughi. I contatti con la popolazione locale, la lettura dei giornali ed un
minimo di conoscenza del territorio portarono alcuni rifugiati alla decisione di rimanere nella
zona.
Lentamente tutti i rifugiati fecero il loro ingresso nella loro nuova vita in un paese libero.
Alcuni erano pronti ad affrontare il futuro con una certa fiducia, avendo al loro fianco parenti
ed amici, un lavoro ed un alloggio assicurato. Altri si resero conto del fatto che il loro periodo
di dipendenza dal governo era finito e d’ora in avanti avrebbero dovuto ripensare la propria
vita da zero. Le agenzie private s’impegnarono particolarmente per inserire questo tipo di
persone, senza legami stretti, in comunità in cui le loro competenze avrebbero potuto essere
sfruttate e contattarono altre associazioni o comitati a livello locale per organizzare al meglio
il loro trasferimento.
Particolarmente interessante fu il ragionamento di uno dei rifugiati 164 . L’uomo, solo e senza
parenti stretti, scelse Baltimora. Aveva un cugino di secondo grado a Philadelphia ed un
amico a Washington, ma decise di stabilirsi a Baltimora perché geograficamente si trovava a
metà strada tra le due città. Non voleva essere un peso per loro, ma avere la possibilità di far
visita ad entrambi. A Baltimora sperava di ricominciare a lavorare nel suo campo, quello del
commercio delle spezie.
164
Token shipment, cit., p. 90.
Tabella 12 - Destinazioni finali dei rifugiati in base al Paese e al tipo di partenza.
RIFUGIATI
Destinazione
Totale
Stati Uniti
Arizona
California
Connecticut
Georgia
Illinois
Indiana
Kentucky
Louisiana
Maryland
Massachusetts
Michigan
Minnesota
Missouri
New Jersey
New York
N. Y. C.
Altre città
Ohio
Pennsylvania
Rhode Island
Texas
Wisconsin
D. of C.
Paesi stranieri
Cecoslovacchia
Jugoslavia
Union of South Africa
Uruguay
Deceduti
Totale
1005
922
3
61
21
5
20
12
1
1
21
17
7
6
5
58
573
491
82
42
46
10
3
2
8
69
1
66
1
1
14
Nati
negli
USA
23*
23
2
1
1
1
1
1
13
11*
2
Totale Morti
982
899
3
59
20
4
19
12
1
1
20
16
7
6
5
57
560
480
80
42
45
10
3
2
7
69
1
66
1
1
14
14
Rimpatriati
67
67
1
66
Emigrati
2
Totale
899
899
3
59
20
4
19
12
1
1
20
16
7
6
5
57
560
480
80
42
45
10
3
2
7
Immigrati
negli
USA
765
765
3
58
19
4
18
10
1
1
18
13
7
6
4
53
461
407
54
35
32
10
3
2
7
2
1
1
14
* Compresa una persona in attesa di partire per la Jugoslavia con la sua famiglia che avevano chiesto di essere rimpatriati.
Totale
134
134
NEGLI STATI UNITI
RESIDENTI TEMPORANEI
In attesa di In attesa di
In attesa del
immigrare
emigrare
rimpatrio
88
8
19
88
8
19
1
1
19
19
1
1
1
2
2
2
3
2
3
1
4
99
73
26
7
13
Inammissibili
1
2
61
40
21
6
12
1
5
5
1
1
17
17
16
11
5
1
1
Tabella 13 - Destinazioni finali dei rifugiati in base al Paese di origine e al tipo di partenza 165 .
RIFUGIATI
Nazionalità
Totale
Austria
Belgio
Bulgaria
Cecoslovacchia
Danzica
Francia
Germania
Grecia
Italia
Jugoslavia
Olanda
Polonia
Romania
Russia
Spagna
Stati Uniti
Turchia
Ungheria
Totale
1005
238
3
4
40
9
13
95
4
6
368
1
153
17
16
4
23
8
3
Nati
negli
USA
23*
Totale
982
238
3
4
40
9
13
95
4
6
368
1
153
17
16
4
Morti
14
5
Rimpatriati
67
Emigrati
2
1
1
1
6
1
66
1
1
Totale
Immigrati
negli USA
899
232
3
4
39
9
13
93
4
6
296
1
152
17
15
4
765
212
3
4
38
8
13
90
8
3
5
3
6
207
1
146
11
14
4
Totale
134
20
1
1
1
3
4
4
89
74
6
6
1
6
3
1
Inammissibili
19
8
3
12
1
3
5
1
23*
8
3
* Compresa una persona in attesa di partire per la Jugoslavia con la sua famiglia che aveva chiesto di essere rimpatriata.
165
NEGLI STATI UNITI
RESIDENTI TEMPORANEI
In attesa di In attesa di In attesa del
immigrare
emigrare
rimpatrio
88
8
19
2
3
7
Le due tabelle sono riportate in Token shipment, cit., p. 107.
2
11.2 Il lavoro
Alcuni hanno avuto la fortuna di trovare un lavoro prima ancora di lasciare il forte. Ad esempio, un
ex corrispondente di un giornale tedesco, vissuto a Parigi per molti anni, aveva attirato l’attenzione
di un editore di Rochester che aveva notato i suoi articoli sull’Ontario Chronicle. Gli fu offerto un
lavoro con uno stipendio base di 35 $ a settimana. Diverso tempo dopo il suo arrivo, scrisse a un
amico che Rochester era “una città moderna, con persone disponibili e piena di lavoro. Ora tutto è
alle spalle e una nuova vita è iniziata. Un buon inizio in un paese meraviglioso” 166 .
Anche altri residenti del campo non ebbero difficoltà a trovare un lavoro. Un esperto fornaio e
pasticcere e sua moglie, destinati al New Jersey, tornando dal Canada, si erano fermati in un hotel di
Buffalo, una base che le agenzie private usavano come luogo per le spedizioni. Un residente di
Buffalo si recò in albergo per chiedere se qualcuno del gruppo fosse un pasticcere. La coppia si fece
avanti e furono assunti immediatamente per 100 $ a settimana oltre all’alloggio.
Steffi Steinberg, che si era diplomata ad Oswego ed aveva poi seguito un corso di economia, fu
assunta per gestire la corrispondenza estera, in qualità di segretaria, da una ditta di Providence che
lavorava nel campo dell’esportazione.
Un fotografo trovò un posto come ritoccatore in uno studio di Washington. Un pescatore fu
impiegato a San Pedro, California; sua moglie e i suoi figli cominciarono a lavorare in una fabbrica
di conserve di pesce.
Un giovane jugoslavo, che conosceva cinque lingue ed era un esperto corriere, andò all’estero come
assistente amministrativo in una missione dell’UNRRA. Suo padre, un ex produttore di carrozzine a
Zagabria, fu impiegato a New York in un’officina che lavorava metalli e che stava convertendo la
sua attività in tempo di pace.
Tabella 14 – Lavori negli Stati Uuniti dei rifugiati che avevano fino a 28 anni quando Fort Ontario fu chiuso. 167
Lavoro
Ragioniere
Architetto
Art Director
Procuratore
Contabile
Esperto in Braille
Imprenditore edile
Civil Servant
Impiegato/segretario/stenografo
Compositore
Analista/programmatore di computer
Dirigente d’impresa
Dentista
Ingegnere
Disegnatore di pellicce
Casalinga
Agente/Mediatore d’assicurazione
Manager
Produttore industriale
Ricercatore medico
166
167
Token shipment, cit., pp. 90-91.
Lowenstein, S. R., cit., p. 195.
N°
1
1
1
5
2
1
1
4
7
1
4
4
2
9
1
18
3
4
2
1
Lavoro
Militare
Terapista occupazionale
Osteopata
Farmacista
Fotografo
Produttore TV/Film
Professore
Titolare
Psicologo
Investitore/Mediatore immobiliare
Commesso
Consulente scolastico
Operaio qualificato
Operatore sociale
Agente di cambio
Talmudista
Insegnante
Rappresentante delle organizzazioni delle N. U.
Veterinario
Assistente sociale
Totale
N°
1
1
1
1
1
3
8
5
2
4
1
2
2
3
1
1
9
1
1
1
121
11.3 Il proprio posto nel mondo
La ricerca di una casa fu senz’altro un problema. Le agenzie private, quando era possibile, chiesero
ad amici e parenti di condividere le abitazioni con i rifugiati, onde evitare che questi ultimi
dovessero affrontare subito il mercato immobiliare. Più di un mese dopo la chiusura del campo,
però, c’erano ancora alcune persone che vivevano negli alloggi temporanei dell’HIAS a New York.
A questo proposito e anche per capire cosa è accaduto nel periodo immediatamente seguente
all’ottenimento della libertà da parte dei rifugiati, può essere interessante la testimonianza di David
Hendell che racconta della sistemazione nella nuova casa, ma anche del lavoro e degli studi in una
città come New York, la meta maggiormente scelta dai rifugiati di Fort Ontario.
“La Hebrew Immigrant Aid Society (HIAS) si occupò di tutti i preparativi per il nostro arrivo.
C’erano i letti su cui riposare e cibo sufficiente per nutrirci. C’erano anche numerosi operatori sociali
che ci aiutavano a contattare le nostre famiglie o gli amici a New York, a viaggiare verso altre
destinazioni negli Stati Uniti, a cercare appartamenti e posti di lavoro, e rispondevano alle migliaia di
domande che avevamo. (…). Dopo un paio di notti presso l’HIAS ci trasferimmo con i Kremer in Simpson
Street, nel Bronx. Due settimane dopo trovammo un appartameno al sesto piano senza ascensore al 313
Est 112 Street. In realtà, a causa del numero dei componenti della mia famiglia, avemmo due
appartamenti. (…). Gli appartamenti avrebbero potuto essere degli studio; erano appartamenti per le
bambole, creati dividendo quelli più grandi, a causa della carenza di case durante la guerra. Il nostro, il
più grande dei due, aveva una cucina abitabile in cui si entrava direttamente dal corridoio. La vasca da
bagno era sotto i mobili da cucina e aveva un grande coperchio smaltato di bianco. C’erano una stufa a
gas, un forno e, accanto ad essi, una scatola di legno per il ghiaccio. Ci portavano il ghiaccio due o tre
volte la settimana, a seconda del periodo dell’anno. Il costo per ogni consegna era di 25 centesimi. C’era
anche spazio per il tavolo smaltato della cucina e per tre sedie. In fondo alla cucina c’era la porta del
bagno. Non c’era abbastanza spazio per sedersi e chiudere la porta, non c’era un lavandino. Ci si lavava
e radeva in cucina prima di colazione. Dalla cucina, una porta ad arco portava al soggiorno. Un divano
letto per due persone. C’erano una poltrona, un tavolo da cocktail e una lampada. (…). Dal soggiorno,
due porte conducevano a due camere da letto. La camera matrimoniale aveva un letto matrimoniale, un
comò e un armadio. L’altra camera da letto era un armadio: c’era spazio solo per un letto. Ma è stata la
miglior camera da letto, in quanto era l’unico luogo in cui c’era un po’ di privacy... ed era mio! I miei
genitori presero la camera da letto matrimoniale, e Ruth e Giselle dormivano in salotto. (…). Zia Bertha,
Herman e Willy ebbero un appartamento simile, ma più piccolo, sullo stesso piano. Avevano solo una
camera da letto e l’affitto era un po’ più basso: 21,95 dollari al mese rispetto al nostro che costava 23,65
dollari. Ciò che ci mancava in termini di spazio, lo abbiamo avuto in compenso con gli scarafaggi.
Sfilavano spudoratamente in tutto l’appartamento e sembravano essere risentiti per la nostra presenza.
Andare in bagno durante la notte era particolarmente inquietante. Se non si accendeva la luce, lo
scricchiolio era assordante (usare la propria immaginazione - abbiamo sempre indossato le scarpe). Se,
invece, si accendeva la luce, le ragazze in salotto si svegliavano (…). Furono tempi eccitanti. Le cose
fervevano e noi ci rendemmo conto che tutto stava finalmente iniziando a funzionare normalmente. Mio
padre trovò un lavoro sulla 47th Street nel settore della gioielleria. Guadagnava 1,25 $ l’ora. Mia
madre trovò un lavoro come sarta sulla 7th Avenue, nel quartiere della moda, come ha fatto zia Bertha.
Herman ed io, la mattina, frequentavamo la James Monroe High School. Lavoravamo nel nostro tempo
libero per un servizio di corriere alla Grand Central Station. Guadagnavamo un salario minimo di 55
centesimi l’ora. Il lavoro consisteva nel prendere e consegnare materiali agli impianti di stampa di un
giornale, nel ritirare biglietti per il teatro e distribuire piccoli pacchi in tutta la città. Abbiamo imparato
in fretta il sistema dei trasporti. Avremmo guadagnato 10-15 dollari a settimana. (…). Alla fine Herman
(…) dopo la laurea al Brooklyn College in ingegneria civile, è stato assunto da una società in Visey
Street dove già lavorava part-time mentre andava a scuola. (…).
Nel tardo pomeriggio o la sera (…) frequentavo le lezioni presso il City College di New York.
Ero uno studente non immatricolato perché non avevo completato la scuola superiore. (…). Seduto nella
mia poltrona da dentista sulla East 112th Street, nel 1947, mi resi conto che le mie possibilità di
diventare un architetto erano scarse. Il C.C.N.Y. non aveva alcun programma per la mia carriera da
sogno, e la scuola privata non era conveniente, odontoiatria sembrava una scelta promettente. (…). Nel
1948, meno di due anni dopo il suo arrivo a New York senza nemmeno una pentola per pisciare, mio
padre acquistò una casa con tre camere da letto al 166-22 Jewel Avenue a Flushing Heights, NY.
Dicemmo addio al sesto piano a piedi, addio agli scarafaggi, addio ai pidocchi (mi sono dimenticato di
loro e dei materassi di seconda mano) e demmo il benvenuto alla nostra nuova casa, con una cucina
moderna e dei bagni civili. La casa costò 12.500 $, e dopo aver versato un piccolo acconto, con il 3% di
interesse, le rate mensili ammontavano a 55 $ dollari al mese. Funzionò alla perfezione. Mio padre ce lo
spiegò. Il suo lavoro era pagato 1,50 $ l’ora e lavorava 40 ore. Con un po’ di straordinari, avrebbe
potuto prendere 60 $ dollari a settimana. Lo stipendio di una settimana serviva per il mutuo. (…). Dopo
aver lavorato come corriere, (…) lavorai in una gioielleria nel Barbizon Hotel for Women. (…). Ho fatto
quello che doveva essere fatto, come la pulizia del negozio, dare la cera al pavimento e lavare le finestre.
Quello che mi piaceva di più era consegnare e prendere gioielli che erano in riparazione. (…). Nel
frattempo, grazie al mio amico Romano Zaki, trovai un lavoro a tempo pieno presso la Home Insurance
Company sulla Maiden Lane. Era la mia prima esperienza con la contabilità e mi pagarono 48 $ a
settimana. (…). Mi unii alla 42^ divisione di fanteria (la ‘Divisione Rainbow’) della Guardia Nazionale
per una ragione specifica. Dal momento che non ero uno studente iscritto a pieno diritto alla CCNY, non
potevo essere ammesso al normale differimento della leva. La guerra di Corea era in pieno svolgimento,
e un modo per garantire il differimento era quello di essere nel programma ROTC (Reserve Officers’
Training Corps, n.d.r.) o aderire alla Guardia Nazionale.” 168
Sul New York Daily del 6 febbraio 1946 169 , un articolo di Donald D. Ross, partendo dalla situazione
della famiglia Finger, metteva in evidenza quanto raccontato da Hendel e descriveva ciò che era
diventato un obiettivo primario per molti rifugiati: la ricerca di una casa. Circa 170 ex residenti di
Fort Ontario erano stati provvisoriamente ospitati presso le strutture dell’HIAS. Eppure ricostruire
le proprie vite significava anche riconquistare l’indipendenza, a partire da un luogo che potesse
restituire, seppur in minima parte, non solo un senso di sicurezza e tranquillità, ma soprattutto
quello di appartenenza ad una comunità e di adesione ad un progetto di vita.
168
169
Hendell, D., cit., pp. 38-45.
Fonte: http://fultonhistory.com/Fulton.html.
Con molta probabilità, i rifugiati ebbero bisogno di tempo e di speciali attenzioni per riprendersi da
tutto ciò che avevano visto e vissuto. Tuttavia, la maggior parte delle persone, dal punto di vista di
chi li aveva osservati ad Oswego, aveva una buona possibilità di riuscire a superare positivamente
quel periodo. Un esempio può essere quello dei bambini e dei ragazzi che avevano frequentato le
scuole e i cui risultati, come disse il sovrintendente Charles E. Riley, mostravano che erano in grado
di applicarsi con diligenza ed entusiasmo, nonostante o forse proprio per le esperienze che avevano
vissuto. In una lettera che Riley scrisse a Dillon S. Myer, datata 6 febbraio 1946 170 , possiamo
leggere:
“Ho seguito i risultati dei ragazzi rifugiati nelle nostre scuole molto attentamente dal momento del loro
arrivo. Non ho mai conosciuto un gruppo di ragazzi in grado di realizzare così tanto in un breve periodo
di tempo. La loro presenza nelle nostre classi è stata sia stimolante sia sorprendente e sentiamo di essere
stati molto fortunati per essergli stati di grande aiuto.
Tutto sommato è stata una piacevole esperienza. Non c’è un singolo episodio che possa rovinare
l’immagine. Il nostro unico rimpianto è che non siamo riusciti a tenere con noi questi ragazzi fino al
diploma. Sono assolutamente certo, tuttavia, che avranno un inizio eccellente e sapranno adattarsi
immediatamente a qualsiasi sistema scolastico.”
Nel report finale di Edward Marks 171 , da cui è stata tratta la maggior parte delle informazioni di
questo capitolo, s’insiste molto sulla capacità e sulla possibilità dei rifugiati di potersi inserire nella
società americana, sottolinenando in particolar modo la loro avvenuta americanizzazione. Non c’è
dubbio che i contatti con la città di Oswego e i servizi forniti dalle agenzie private abbiano favorito
l’avvicinamento dei rifugiati al modo di vivere americano, che tra l’altro era visto come un
orizzonte da raggiungere, almeno in una fase della vita in cui era forte il desiderio di lasciarsi tutto
alle spalle e di ricominciare a costruire qualcosa sulle macerie reali e psicologiche che ciascun
rifugiato portava con sé. D’altronde il continuo riferimento alla loro buona condotta, alla mancanza
di richiami da parte della polizia e così via, serviva ad Edward Marks per mettere ancor più in
evidenza quei fattori che avrebbero potuto risultare utili agli occhi degli americani e di tutti quegli
apparati che a lungo avevano frenato l’ingresso dei rifugiati negli Stati Uniti. Scrive Marks:
“La popolazione di Fort Ontario si trovò molto più preparata alla vita negli Stati Uniti rispetto a quando
era arrivata diciotto mesi prima. Ciò fu vero non solo per i bambini ed i ragazzi che frequentarono le
scuole, ma anche per gli adulti, la maggior parte dei quali aveva imparato l’inglese, i costumi ed i gusti
americani ed aveva acquisito un senso dei valori del paese, anche se la Main Street di Oswego fu l’unico
barlume di America che videro. Il giudizio e l’esperienza del WRA trovò conferma nelle decisioni delle
autorità che si occupavano di immigrazione in base alle quali tutti, ad eccezione di pochi casi,
soddisfacevano pienamente i requisiti in materia d’immigrazione.
Nonostante lo stress all’interno del forte, a causa dell’incertezza del futuro, la popolazione del campo si
rivelò un buon vicino di casa dimostrando di essere al 100% rispettosa della legge e mostrando di poter
diventare leali e produttivi americani.” 172
Senza dimenticare tutte le considerazioni su cui ci si è soffermati in questo studio, a partire dalle
responsabilità alleate legate all’inconcludenza o al differimento delle azioni di salvataggio degli
ebrei, non si può non chiudere guardando il mondo con gli occhi di uno dei 982 rifugiati arrivati a
Fort Ontario:
“Era una giornata fredda e buia di febbraio, quando l’autobus ci depositò presso un edificio strano nel
centro di Manhattan. Dopo aver prima attraversato il confine alle cascate del Niagara in Canada ed
averlo riattraversato per entrare negli Stati Uniti, siamo arrivati (…) da Oswego a New York. Al confine
abbiamo firmato alcuni documenti e siamo stati riammessi negli Stati Uniti come immigrati legali. Per la
prima volta da quando siamo sbarcati nel porto di New York (…), nell’agosto del 1944, eravamo sicuri
che tornare in Europa non era più un’opzione. È stato difficile comprendere che ero davvero a New York.
170
Token shipment, cit., pp. 91-92.
Token shipment, cit.
172
Ivi, p. 88.
171
Come era successo? Posso chiaramente vedere me stesso sulla barca a remi mentre attraverso la baia
dalla Jugoslavia alla zona italiana e mi chiedo se sarei affogato prima di raggiungere la riva. Posso
sentire il fracasso notturno dei fascisti e dei nazisti che tentano di entrare per cercare qualcuno nella mia
scuola parrocchiale a Roma. Partendo da Napoli e attraversando l’Atlantico, ero sicuro che saremmo
stati centrati dagli U-Boot. Come ce l’ho fatta, contro ogni previsione? Puro caso? E trovarmi nella più
grande città del mondo, la città dove sono nate delle leggende, ed io, un ebreo diciottenne che è
sopravvissuto, nonostante gli sforzi della macchina della morte più efficiente nella storia dell’umanità, io
sono qui!” 173
12. In prospettiva
Ruth Gruber e Sharon Lowenstein incontrarono a più riprese gli ex rifugiati sia in incontri ufficiali
in cui si celebravano gli anniversari della permanenza a Fort Ontario, sia in incontri privati. Nel
dettaglio, si fa riferimento all’incontro dei rifugiati con la Gruber nel 1981 e a quelli della Gruber e
della Lowenstein nel 1984. Inoltre quest’ultima contattò telefonicamente o per lettera coloro che
non era riuscita ad incontrare. Ovviamente non tutti i rifugiati tornarono a Fort Ontario e/o
parteciparono alle riunioni, a partire da quelli che scelsero il rimpatrio in Jugoslavia. Tra coloro che
rimasero negli Stati Uuniti, alcuni preferirono mettersi alle spalle l’intera vicenda, altri provavano
ancora rabbia e delusione, altri ancora semplicemente ignoravano, per diversi motivi, il rinnovato
interesse nei confronti di quell’esperienza.
La ricostruzione delle biografie degli internati, relativamente al periodo successivo alla chiusura di
Fort Ontario, sono il frutto del confronto tra i dati raccolti dalla Gruber e dalla Lowenstein nelle
rispettive pubblicazioni 174 . I nomi dei rifugiari sono riportati in ordine alfabetico. Il simbolo * fa
riferimento al libro della Lowenstein, mentre ** a quello della Gruber. Se sono presenti entrambi,
significa che le notizie sono state ricavate da tutte e due le fonti. Considerato che le fonti utilizzate
risalgono a circa trent’anni fa, molte delle situazioni descritte sono senz’altro cambiate.
A partire dalle informazioni biografiche, può essere interessante soffermarsi su un paio di aspetti.
Il primo riguarda gli sforzi compiuti dai rifugiati giunti a Fort Ontario e le positive ricadute delle
loro scelte sulle vite di figli e nipoti. Se molti degli adulti trovarono difficoltà a inseririsi nel mondo
del lavoro ed in parte in quello sociale, i loro figli si trovarono di fronte a possibilità impensabili
fino a qualche anno prima. Quasi la totalità ha avuto modo di studiare, di trovare lavoro e di
realizzare i propri progetti di vita, come si può notare dall’alto numero di laureati e dagli ambiti
lavorativi in cui si inserirono. Dalle brevi biografie riportate, è ancor più evidente che ciò vale
anche per le seconde e le terze generazioni.
L’altro aspetto che va sicuramente portato all’attenzione riguarda le risposte date dagli ex rifugiati
alla Gruber e alla Lowenstein su ciò che pensavano della loro esperienza a Fort Ontario 175 . Dato
l’alto numero di persone intervistate, è normale che le posizioni siano piuttosto diversificate, eppure
si può dire che alcune emergano più di altre, rendendo possibile una loro divisione in tre categorie.
Nella prima possono essere inclusi coloro che considerano con benevolenza e gratitudine lo sforzo
americano e la loro esperienza nel campo (Ackermann, Auerbach, Baum, Danon, Hazan, Kabiljo,
Levitch, Merzer, Selan, Strauber). Alcuni di questi rifugiati erano bambini all’epoca dei fatti e
quindi è da quella prospettiva che ripensano al forte. Altri si sono detti entusiasti e felici o
comunque hanno conservato ricordi piacevoli. Qualcuno si è sentito in debito nei confronti degli
Stati Uniti, come Dresdner e Semjen.
Nel secondo gruppo, una buona parte dei rifugiati pensa che, nonostante tutto, la loro sia stata
un’importante e costruttiva esperienza di vita (Hirschler, Hochwald, Lederer, Steinberg). In questo
gruppo si possono inserire anche coloro che ritengono che il periodo nel campo sia stato necessario
per avere un tempo di transizione tra gli anni della fuga e il vero inserimento nella società
americana. Anche chi, come i Buchler, ha dovuto affrontare momenti molto difficili, ritiene che
quell’esperienza l’ha rafforzato. Qualcun altro, come Geza Bleier e Danon, è riuscito ad accettare
173
Hendel, D., cit., pp. 37-38.
Gruber, R., cit. pp. 255-262. Lowenstein, S. R., cit., pp. 162-193.
175
Si vedano le parti virgolettate e in corsivo presenti nelle relative schede.
174
quell’esperienza dopo averla confrontata con quanto era accaduto ad altri e con le specifiche
circostanze di quel momento storico, quasi fosse un male minore e in qualche misura necessario.
Nell’ultima categoria, ci sono i rifugiati che hanno vissuto negativamente i 18 mesi a Fort Ontario
(Ernst Bleier, Drucks, Gross, lo stesso Lederer, Ruchwarger, Waksman e Zabotin). Alcuni
considerano quel capitolo della loro vita un’esperienza dolorosa. Altri si sono sentiti a disagio,
rinchiusi in quel campo come fosse uno zoo in cui i visitatori si recavano per vedere com’era fatto
un rifugiato. Altri ancora hanno riflettuto sull’inutilità della loro permanenza nel campo e sulla
perdita di tempo, sul ritardo accumulato nelle loro vite, sull’ingiustizia subita rispetto ad altri tipi di
prigionieri (come quelli tedeschi), sul tradimento delle loro speranze. Probabilmente per alcuni era
una sofferenza legata sia a quanto accadeva in Europa e alla situazione dei propri familiari durante
la guerra, sia per quello che appresero dopo sulla loro sorte. Ci fu anche chi, dopo l’ingresso legale
negli Stati Uniti, non riuscì mai ad adattarsi e visse periodi difficili, addirittura di depressione, o
arrivò al suicidio, spinto dalle ombre di un passato fin troppo presente anche nell’America del
dopoguerra.
Non vanno dimenticati coloro, come Bronner, che evidenziano il fatto di essersi salvati da soli,
raggiungendo il Sud Italia, e di non essere più in pericolo al momento della partenza per gli Stati
Uniti, e che chiudono il ragionamento affermando che Oswego “non rende pulite le mani
dell’America”. Qualcun altro, come Schild, avrebbe aggiunto a questa riflessione di sentire che agli
ebrei spettava un risarcimento e che pochi (o nessuno) avevano realmente pagato per quanto
accaduto.
Il cantante d’opera, Leo Mirkovic, disse alla Lowenstein che ormai era meglio dimenticare, quasi
chiedendo una sorta di diritto all’oblio, ma aggiunse anche che “un campo è un campo”.
12.1 Schede biografiche
ABELES
*
ACKERMANN/
ARNSTEIN
*-**
AUERBACH
*
BADER
*-**
BASS
*-**
BAUM/
RUCHWARGER/
LEVI (LEVY)
*-**
CHARLES, di fede cattolica, già internato in vari campi nazisti a causa delle sue idee politiche
socialdemocratiche, è stato colui che ha organizzato l’orchestra del campo e la scuola di musica. È tornato in
Austria, dove ha ottenuto una pensione dal governo.
HERMINE, settantatré anni, è morta solo due giorni prima che la famiglia Arnstein (sua figlia, suo genero e i
loro figli) lasciasse Oswego per Cleveland. Fatta eccezione per questo triste avvenimento, i nipoti, VALDO
(Walter) e PAVLE (Paolo), guardano ai loro anni a Oswego come ad “un piacevole ricordo”, uno li ricorda
addirittura come “esaltanti”. Gli anni successivi sono stati molto più difficili per i loro genitori, LAVOSLAV
(Leo) e JELKA, che hanno vissuto insieme solamente altri due anni. Leo, ex produttore di abbigliamento che
ha lavorato a Cleveland come impiegato in una fabbrica tessile, è stato colpito, all’età di 51 anni, da un ictus.
I due fratelli e le loro famiglie hanno vissuto a Berkeley. Paul, dopo aver frequentato Medicina Veterinaria
alla Ohio State University, è entrato nel Servizio di Salute Pubblica degli Stati Uniti. La sua ricerca si è
concentrata sulla peste, sulla rabbia e sul cancro. Walter, un dottorato di ricerca in ingegneria elettronica, è
diventato un programmatore di computer. EVA ARNSTEIN BOGAR, la sorella più piccola, si è sposata con
un economista che lavora presso l’Indiana University e gestisce la propria galleria d’arte ad Indianapolis.
EVA ha spiegato che lei e molti della sua generazione “non si sono resi conto di quanto di bello e buono
abbiamo avuto” ad Oswego. Suo marito, JAKOB, si occupava della produzione di abiti prima della guerra.
Dopo la chiusura del forte, ha dovuto accettare lavori umili a New York fino a quando finalmente ha trovato
un lavoro d’ufficio in una società di import-export. Lei è diventata una sarta per una modista. Se la Jugoslavia
non fosse diventata comunista, “sarebbero potuti tornare”.
LIESL BADER FRIEDMANN si è laureata al Queens College in sociologia e psicologia e alla scuola di
terapia occupazionale della Columbia University. Si è sposata con Lawrence Friedman, uno psichiatra, e ha
lavorato come supervisore clinico della terapia occupazionale in età pediatrica a Manhattan. Ha anche
lavorato con il dott. Howard Rusk presso l’Istituto di Medicina Riabilitativa. Suo padre KARL, l’elettricista
che produceva e vendeva piastre di cottura elettriche, ha trovato lavoro in una fabbrica di New York, mentre
sua moglie MAGDALENE ha lavorato in una corsetteria. Hanno poi vissuto in un centro per anziani in cui
Karl si è preso cura dei giardini.
EVA, ex cittadina svizzera di origine polacca, è morta nel 1971, all’età di sessantadue anni. Gli assistenti
sociali del WRA, durante la permanenza a Fort Ontario, la persuasero a dare in adozione la figlia illegittima,
SUSANNA, nata nel campo. L’altro figlio, allora dodicenne, JOACHIM Bass (Jack) ha trascorso gli ultimi
quattro mesi della sua esistenza al forte, in una casa-famiglia di Philadelphia insieme alla sua sorellina,
Yolanda. Eva Bass cambiò il nome dell’altra figlia, YOLANDA (poi Yolanda Bass Fredkove), in quello di
Gloria, per mostrare il suo amore patriottico per l’America. Gloria ha lavorato come assistente in uno studio
legale a St. Paul e nel 1985 ha creato una newsletter per gli ex rifugiati e per gli amici di Oswego. Avendo
ereditato l’indimenticabile voce di sua madre, ha cantato nel coro di una sinagoga. Jack ha avviato, invece, un
servizio di limousine a Manhattan.
FREDI Baum (Fred) all’interno del campo era l’interprete ufficiale. È diventato vice-direttore regionale
dell’UNRRA e ha lavorato con gli sfollati in Europa. Quando è tornato a New York, ha trovato un posto di
lavoro in una ditta di importazione di scarpe e poi è stato proprietario di una catena di negozi di scarpe. Ad
Oswego avrebbe voluto inserirsi nelle liste dell’esercito, data la giovane età, ma è stato dichiarato non
ammissibile perché aveva perso una gamba in un incidente prima della guerra. Tragicamente, i Baum hanno
perso uno dei loro due figli, di ventidue anni, in un incidente d’alpinismo. Avendo conosciuto diversi campi
sia come rifugiato sia come impiegato dell’UNRRA, Fred pensa che Oswego sia stato qualcosa di diverso e
rispetto agli altri campi “l’unica cosa negativa è stata il clima”. Ha vissuto con sua moglie, JENNY Baruch
Baum, ad Hillsdale, New Jersey. La sorella di Fredi, ZDENKA Ruchwarger Levy, è diventata un’infermiera e
ha lavorato in diversi studi medici a Los Angeles, dove hanno vissuto suo figlio e sua figlia. Zdenka ha
guardato all’esperienza di Oswego come ad un periodo necessario di adattamento e transizione alla vita
americana. Ma il marito, ABRAHAM (Avram), “non si è integrato e non l’ha mai voluto fare”. Mandato in
Italia dai partigiani per un periodo di riposo e di recupero, Abraham ci rimase nella speranza di raggiungere la
Palestina e si iscrisse per andare ad Oswego solo perché la sua sposa e la sua famiglia avevano insistito.
Chirurgo, andò a lavorare come psichiatra nell’American Legion Hospital di Belleville, New Jersey. I posti di
lavoro, a bassa retribuzione, negli ospedali psichiatrici erano spesso gli unici a disposizione dei medici
rifugiati che non erano in grado di riprendere le loro specialità a causa delle procedure restrittive relative alle
licenze imposte dalle associazioni mediche statali. I Ruchwarger hanno poi vissuto in Israele per alcuni anni,
ma sono tornati a Washington, D. C., dove lui è morto di un attacco di cuore nel 1968 all’età di cinquantasei
anni. Zdenka si è risposata con DAVID LEVY, un venditore, che conobbe sulla Henry Gibbins. DAVID
voleva rimanere nel campo abbastanza a lungo per completare gli studi presso l’Oswego State Teachers
College. Temeva di non essere in grado di riprendere i suoi studi, dovendo mantenersi. Solo e malato, dopo
aver perso tutta la sua famiglia in Yugoslavia, ricordava Oswego come un’esperienza “memorabile”. Scelse
Cleveland perché c’erano molte persone ebree di origine italiana e jugoslava. La comunità ebraica lo aiutò a
BLEIER
*-**
BLEIER
*
BLUMENKRANZ
**
BOEHM
*
BOKROS
*-**
BONI
*-**
BREUER
*-**
trovare un lavoro e a completare i suoi studi presso la Case Western Reserve University. È stato un agente
immobiliare per diversi anni a New York e poi un commerciante di vestiti a San Francisco. Entrambi i suoi
figli, Robert e Norma, sono diventati avvocati.
Dopo il suicidio di KAROLINE, il WRA collocò i suoi due figli in affidamento a Rochester. Successivamente
hanno vissuto dentro e fuori gli orfanotrofi di New York, mentre il papà, GEZA, lottava per guadagnarsi da
vivere e per trovare una madre ai suoi figli. Si è sposato per due volte con ex rifugiate di Fort Ontario e per
due volte, la prima con Rachael Ovadia, i matrimoni si sono conclusi con un divorzio. Commerciante di
scarpe in Jugoslavia, è diventato un venditore tessile a New York. Suo figlio RONALD, che ha prestato
servizio nel Corpo di pace, ha insegnato in un liceo, mentre l’altro figlio, GEORGE, è diventato consulente in
una scuola elementare. Geza ha dichiarato: “A dispetto di tutto quello che mi è successo... mi consideravo un
vincitore, perché ero vivo, ho avuto due bambini sani... altre persone hanno avuto perdite più grandi.”
ERNST, un gioielliere vedovo nato nel 1899 a Vienna, solo a Fort Ontario, è morto alcuni anni fa a New
York. GEZA Bleier ha riportato che Ernst “non ha mai accettato le sue perdite... non riusciva ad
ambientarsi... è diventato mentalmente instabile ed è morto”.
DORIS Blumenkranz Schechter è stata un’autrice di libri di cucina e proprietaria del My Most Favourite
Dessert Company, un ristorante kosher e caffetteria nel quartiere dei teatri di New York. BERTA BADRIAN,
la madre di Doris, ha lavorato vendendo abiti. RUTH HOFFMAN, sorella di Doris, vendeva scarpe firmate
alla Saks Fifth Avenue.
Fred Bohm aveva perso i contatti con i suoi genitori e aveva cercato di ottenere un congedo di emergenza
subito dopo aver appreso che erano arrivati ad Oswego, ma fu spedito oltreoceano. Li ha rivisti solo dopo la
fine della guerra. Agente di un importatore in Austria, IGNATZ Boehm ha trovato un lavoro a New York con
un ex cliente. ESTER Boehm, prima della guerra, aveva viaggiato in Medio Oriente per sondare il mercato
per conto della Singer Sewing Company. Dopo la chiusura del forte cercò lavoro proprio alla Singer. È
diventata supervisore di una linea di produzione. Ignatz è morto nel 1955, all’età di settantuno anni, Ester nel
1962 a ottantuno. Fred è stato un designer industriale. Lui e sua moglie hanno avuto due figlie, una delle
quali, il rabbino Lenore Bohm, ha ricevuto l’ordine alla Hebrew Union College nel 1982.
PAUL fu profondamente influenzato dall’insegnante dell'High School Industrisal Arts di Oswego, Tom
Crabtree. L’intraprendente sedicenne che aveva gestito un fiorente commercio illegale di liquori in
Italia, è diventato un ingegnere elettronico. Ha servito come istruttore nella Air Force durante la guerra di
Corea e, come direttore di ingegneria di un ramo della General Dynamics, è stato coinvolto nello sviluppo di
diversi sistemi missilistici. Alla General Dynamics è stato responsabile della progettazione e dello sviluppo
del materiale informatico utilizzato nel mantenimento del velivolo F-16. Paul ha sempre mantenuto un
rapporto ambivalente con l’ebraismo. Lui e la sua famiglia “hanno dato per scontato che le organizzazioni
ebraiche aiutassero i rifugiati”. Dopo la chiusura del campo hanno fatto affidamento sull’assistenza ebraica e
hanno espresso la loro gratitudine per questo. Paolo in particolare ricordava il Jewish country club, dove ha
vissuto con i genitori e le due sorelle fino a quando un’agenzia ebraica di Philadelphia non trovò loro un
appartamento. Lui e sua moglie Greta hanno poi vissuto a San Diego. NELLY BOKROS THALHEIMER,
sorella di Paolo, tornò a scuola dopo aver cresciuto i suoi tre figli e ha conseguito un B. A. in una scuola
serale e un M. A. in gerontologia sociale e lavora come assistente sociale geriatrica. Si è sposata con Hans
Thalheimer, vice-presidente di un’azienda. Hanno avuto tre figli: Philip, che ha studiato psicologia aziendale,
David, che ha studiato legge, e Jeffrey, anche lui studente universitario. Sua sorella, MIRA, da impiegata è
diventata revisore dei conti nell’amministrazione civile. Ha sposato Myron Halpern, un professore di
anatomia e fisiologia al Camden County College, New Jersey, e ha avuto due figli, entrambi studenti. FILIP
BOKROS, padre di Paul, Nelly e Mira, che in Jugoslavia esportava pelli e legname e che a Fort Ontario era
diventato responsabile della cucina, ha svolto diversi umili lavori fino alla morte per infarto avvenuta nel
1953, due anni dopo la morte di sua moglie, ALICE. Quest’ultima ha lavorato in una fabbrica fino a quando
si è ammalata di leucemia.
SYLVAN Boni ha insegnato filosofia della religione alla Central High School a Philapdelphia. Sua moglie è
la preside di una scuola ebraica diurna. Il fratello, RAYMOND, e la sorella, CLAUDE, hanno lavorato nel
settore immobiliare, sempre a Philadelphia. Raymond è stato per anni l’unico sostegno e si è laureato in
ingegneria in una scuola serale, spostandosi successivamente nel Queens. La madre, BELLINA, una vedova
di origini bulgare, ha vissuto con suo figlio Claude e sua moglie, una bibliotecaria.
ERNST è diventato un agente immobiliare di Los Angeles. Lui e Manya, che si erano sposati per primi a Fort
Ontario, hanno divorziato nel 1965. Hanno avuto tre figli: DIANE, assistente di volo in una compagnia aerea
e poi imprenditrice, Gregory, pilota e controllore di volo, e Marsha, parrucchiere attivo in un gruppo di
sostegno per figli di sopravvissuti all’Olocausto. ALICE Breuer, la sorella di Ernst, ora si chiama Liesl (che è
sempre il suo vero nome) Earle. Gestisce un negozio di prodotti di maglieria importati a Toronto con Trudy,
sua sorella, che è arrivata dall’Inghilterra. MANYA HARTMEYER Breuer è diventata una consulente per
importanti gallerie d’arte. Ha confessato alla Gruber di avere delle improvvise crisi di pianto, probabilmente a
causa della sua esperienza in ben cinque campi di concentramento. Quando canta, però, smette di piangere.
Dopo la permanenza al forte, ha cantato con la Santa Monica Civic Opera Company, l’American Opera
BRONNER
*-**
BUCHLER
*
CONFORTE**
DANON
*-**
DANON
*-**
DEUTSCH
*
DRESDNER
*
Company e la Beverly Hills Simphony.
HEINRICH e ELENORA Bronner, ebrei ortodossi polacchi, si sono trasferiti a Jersey City, dove vivevano
una sorella e suo marito. Heinrich era un designer di scarpe, ma dopo la guerra non si è mai ristabilito. La
moglie, Eleonora, dodici anni più giovane di lui, ha lavorato in un’industria di maglioni. Entrambi sono morti
all’età di ottant’anni. LILY, la loro figlia maggiore, ha sposato il supervisore di un ufficio postale e ha avuto
due figli, uno insegnante e uno dottore commercialista. JACK, il più giovane dei Bronner, è stato un
sottufficiale dell’esercito e poi ha lavorato per la NASA a Washington. EDITH BRONNER Klein ha
completato le scuole superiori in un corso serale ed è diventata operatrice di perforatrice. Ha sposato Murray
Klein, ex presidente della Zabar, l’emporio di gourmet sulla Upper West Side di New York. Murray era stato
rilasciato, dopo la guerra, da un campo di lavoro siberiano. La loro figlia è un M. B. A. sposata con un
medico. Edith si è sempre sentita grata per essere arrivata in un paese dalle mille opportunità, ma ha fatto
sapere che “ci siamo salvati da soli”, che i profughi non erano più in pericolo quando il forte fu aperto.
Oswego “non rende pulite le mani dell’America”.
RENEE, che ha perso ARPAD, il suo primo marito, nell’incidente con il carbone avvenuto a Fort Ontario, si
è risposata nel 1953 acquisendo il nuovo cognome, Tenenbaum. Le figlie HANA e BLANKA sono entrambe
casalinghe. L’altro figlio, DAN, si è mantenuto con diversi lavori, al fine di dedicarsi allo studio della Torah.
Suo fratello, PAVLE, anche lui uno studioso e padre di cinque figli, è diventato un venditore per una ditta di
stampaggio di metalli. Ortodossi sefarditi provenienti dalla Jugoslavia, sono usciti “rafforzati” dalle loro
prove. “Abbiamo visto tanti miracoli... Qui in America, eravamo più liberi di essere praticanti e osservanti”.
RENÉE Conforte McKee è stata titolare, con il marito David, della McKee Art Gallery a New York.
RAFAEL, pasticciere in Jugoslavia, è stato inizialmente dichiarato inammissibile a causa di alcuni problemi
psichiatrici e probabilmente ha trascorso qualche tempo nell'Oswego County Sanitorium prima di ottenere un
cambiamento di stato. Lui e sua moglie, ERNA, si sono spostati in California, dove hanno messo su la Danon
Butter Cookies. Erna è morta di un attacco di cuore nel 1963. Due anni dopo, Rafael è morto in un
convalescenziario. Il fratello di Rafael, SIMA Danon, lavoratore di pelli in Jugoslavia e leader della sua
baracca al forte, è stato inviato dal NRS, con la sua famiglia, a Cleveland, ma non si adattarono in una zona
“troppo desolata”, soprattutto senza i loro amici. Si sono trasferiti a New York, non appena è stato possibile,
e lì Sima ha preso in prestito 300 $ e ha aperto un negozio di biancheria intima di seconda scelta per signore.
Molti anni più tardi ha seguito Rafael e Erna in California. Prima della sua morte, avvenuta nel 1964, all’età
di sessantaquattro anni, Sima era proprietario di una catena di vestiti di moda nella zona di Santa Monica.
RASELA, la sua vedova, è morta nel 1972 all’età di sessantatré anni. Il figlio, MIKA (Mike), produce
tendaggi. ICA (Ike), suo fratello, è un investitore immobiliare. IRENE è pittrice, poetessa e magnate
immobiliare. Figlia di Sima e Rasela, subito dopo aver raggiunto gli altri partenti in California, si ritrovò
vedova con tre piccoli figlie. Sosteneva la sua famiglia cucendo in casa e poi è diventata un mediatore
immobiliare di successo. “In quale altro posto una piccola ragazza rifugiata può finire in una bella casa,
possedere appartamenti, guidare una grande macchina e continuare ad andare a scuola. Solo in America”.
La famiglia Danon ha perso 190 parenti sotto il nazismo. “Sono una persona molto positiva”, ha detto Irene
alla Lowenstein. “Date le circostanze, [Oswego] andava bene.”
SARI, la futura Sarah Meller, aveva quindici anni quando si è trasferita con tutta la sua famiglia a
Philadelphia. Lei e il suo marito, proprietario di un piccolo ristorante, hanno avuto tre figli: uno è diventato
urologo, uno ha lavorato nel commercio alimentare all’ingrosso, mentre la figlia ha studiato per diventare
farmacista. Il padre di Sarah, JOSIP, non ha mai pienamente recuperato la sua salute. Ha lavorato in diversi
negozi ed è morto a circa 65 anni. Sua moglie, HANA, ha lavorato come cucitrice in una fabbrica fino a
quando i figli sono cresciuti. Ha vissuto a Baltimora con la figlia più piccola, ESTHER Danon Kaida, che ha
lavorato per il governo federale a Washington, come suo fratello, Isak, diventato revisore dei conti del
governo.
ALEXANDRA corruppe le guardie per portar via le sue due figlie dal campo di Sajmiste vicino Belgrado,
due settimane prima che tutti gl iinternati, circa 7 mila donne e bambini, fossero deportati. Suo marito era
stato assassinato dai nazisti. Una delle due figlie, ELSA Deutsch Ceraldi, madre di un maestro di scuola, è
morta nel 1981, a sessantadue anni. L’altra, GORDANA Milinovic Musafia, moglie del proprietario di un
negozio di bici, è stata un’assistente amministrativa del presidente di una compagnia di import-export.
JAKOB è nato nel 1901 a Satumare, Ungheria, sede della setta Satmar del chassidismo. A Fort Ontario,
Jakob ha prestato il suo servizio come cantore nella congregazione ortodossa del campo. Insieme a sua
moglie, ELLENA, era arrivato con nove figli, il più grande nato in Cecoslovacchia, il secondo in Belgio e gli
altri in Romania. Avevano eluso i nazisti separandosi e nascondendosi in vari monasteri. ELIZABETA, la più
grande, ha sposato un mercante di diamanti ed è emigrata in Israele. RUDOLF, che ha gestito un fast food
kosher, ha vissuto a Stanford, Connecticut. Gli altri hanno vissuto a Brooklyn e nel Bronx. FRANCINE è
diventata un insegnante di sostegno, SALOMON un agente di assicurazione, mentre JOSEPH ha lavorato in
un’industria di diamanti. ABRAHAM ha lavorato in un negozio di biancheria, ISIDORE in un negozio di
maglieria, e il marito di PAULA per una ditta che si occupa di chimica. Jakob è morto nel 1982. Ellena, due
anni più giovane, nel 1983. I nove fratelli sono rimasti in contatto tra di loro e si incontravano, con le loro
DRUCKS
*
ERNST
*
FINCI
*-**
FINGER
*-**
FLATAU
*-**
FRAJERMAN
*-**
FRANCO
*
FRIEDMANN
**
FROELICH
*
famiglie, ogni 4-6 settimane. Oswego li ha portati in questo paese. “Mi sentivo in debito”, ha detto Salomon.
“Due anni nell’esercito. L’ho saldato.”
HERBERT Drucks (Druks) ha espresso tutta la sua amarezza. Ha visto i suoi genitori, CHAIM e ADA,
lottare con tutte le forze. Chaim ha cercato di riprendere la produzione di maglioni. “Mi dispiace essere
venuto qui. Questo è un paese molto difficile. È un paese che divora vive le persone”. Le sue domande lo
hanno portato a conseguire un B. A. al City College, un M. A. alla Rutgers University e un Ph. D. alla New
York University. Professore associato di storia diplomatica e presidenziale americana al Brooklyn College,
per quanto riguarda Oswego ha detto: “Era un abominio. Il Governo degli Stati Uniti ci deve un risarcimento
per quella detenzione”.
ARTUR, cattolico, avvocato e redattore, arrestato per i suoi editoriali anti-nazisti, ha sposato sua moglie Lily
a Springfield, Mass. Ha scritto per un giornale in lingua tedesca di New York, ed è rimasto a Springfield fino
alla morte, nel 1965.
Suo padre, SILVIO, che stava lavorando al fianco di Arpad Buchler al momento dell’incidente occorso nel
campo e che si rifiutò di lavorare ancora, si è trasferito con la moglie, RIKICA (Ricki), e i loro due figli,
MIKA (Mike) e SONJA, a Baltimora. Silvio, impiegato di una segheria a Sarajevo, è diventato un acquirente
per una grande società di legname. È morto nel 1983, due anni dopo Ricki. Sonja, sposato con Theodore
Setran e madre di tre figli, ha lavorato per il Dipartimento di Pubblica Sicurezza a Baltimora. Mike, una stella
del calcio all’Università del Maryland, è diventato un broker assicurativo indipendente. Lui e sua moglie,
Brenda, hanno avuto due figli.
OSKAR e LYDIA Finger hanno ereditato un’arenaria di cinque piani sulla Seventy-Ninth Street, due anni
dopo essersi trasferiti a New York. Lydia ha aperto un negozio di corsetti, a cui suo marito, un mercante in
Cecoslovacchia, ha presto collaborato. Oskar e Lydia erano tra coloro che aspiravano a raggiungere la
Palestina sulla Pentcho, ma poi non hanno mai trovato il tempo di recarsi in Israele. Lydia, cantante molto
popolare nel campo, ha lavorato per sette giorni a settimana fino agli ottant’anni. ARNON è diventato un
ingegnere meccanico. SUSAN, nata nel forte, ha avuto una bambina.
ERNST Flatau, un avvocato il cui nonno paterno era stato uno dei primi ebrei in California e i cui clienti in
Germania una volta includevano l’americana Motion Picture Association, è stato uno dei principali leader dei
rifugiati nel campo e scriveva delle poesie che lui stesso recitava in diverse occasioni. Una volta uscito da
Fort Ontario, ha trovato lavoro come traduttore a New York. Sua moglie ANNI, diciotto anni più giovane di
Ernst, era un’artista apprezzata nel forte ed è stata una dei rifugiati selezionati per testimoniare alle udienze
della Commissione Dickstein. È diventata una governante presso diverse signore del posto. Entrambi sono
morti a metà degli anni ‘70. Ernst e Anni hanno avuto tre figli. Gerald, il più grande, era in un gruppo di
studenti in Inghilterra inviato in Australia durante la guerra. Un cancro ai polmoni si è portato via ROLF
STEVEN, dirigente aziendale, nel 1982, all’età di cinquantuno anni. Ha lasciato una moglie e due figli.
FRED, il suo gemello, è diventato un internista a New York. Lui e sua moglie hanno avuto due figli.
ICEK e SARAH (Hella Chaya) FRAJERMAN arrivarono in America con i loro tre figli: RACHEL Frajerman
Goldfrad, SAMUEL e JACOB. Il loro figlio più giovane, HARRY, è nato nel campo. Hella Frajerman
“voleva vivere a New York con i suoi amici”, ma, non avendo rapporti a New York, alla fine ha deciso di
andare a Philadelphia. Ha lavorato in una fabbrica di sigari, mentre Icek ha imparato a fare il pellicciaio. La
figlia Rachel ha avuto quattro figli ed è rimasta vedova. Suo marito aveva una merceria su Marshall Street.
Salomon (Sam Fraserman), il figlio maggiore, ha conseguito un B. A. in letteratura inglese alla Temple
University ed è nella gestione dell’agenzia governativa Industrial Supply Center. Suo fratello, Jacob, si è
laureato al Philadelphia’s Textile Institute e ha lavorato per una divisione della Kodak in California. Il figlio
più giovane, Harry, è un distributore per un caseificio di Philadelphia.
Ad Oswego c’era solo una famiglia di ebrei italiani. VICTOR e LIDIA Franco erano nati nelle Isole
Dodecanesi e i loro tre figli in Nord Africa. Victor ha aperto un negozio di birra e vino ad Atlanta, dove è
morto nel 1981 all’età di settantuno anni. I Franco hanno perso la loro figlia RACHELE per un cancro nel
1961 quando aveva ventiquattro anni. DAVID, di due anni più giovane, si è sposato e ha avuto tre figli. Ha
lavorato per un gioielliere. MIRIAM MARY, la prima bambina nata nel campo, e suo marito hanno lavorato
per delle compagnie di assicurazione. Tutti sono ebrei osservanti.
MARGARET COHN Friedmann è diventata un’esperta di elettronica aerospaziale. Sua figlia, IRENE
Friedmann Reinsdorf, nata nel campo, ha lavorato nel settore immobiliare. Un’altra figlia, ANNA ITALA, è
stata un’insegnante di amministrazione nelle scuole pubbliche di Los Angeles.
OTON e ELSA hanno scelto il rimpatrio in Jugoslavia, dove i loro tre figli erano rimasti con i partigiani.
Ironia della sorte, partirono per l’Europa nel momento stesso in cui uno dei figli stava volando a New York. Il
ventinovenne Ernest, medico veterinario, era stato nominato membro dell’UNRRA e stava andando ad un
convegno alle Nazioni Unite. Non è mai più tornato in Jugoslavia e non ha più visto i suoi genitori. La figlia
dei Froelich ha raggiunto Ernest negli Stati Uniti dopo la morte di entrambi i genitori, Elsa nel 1959, all’età
di settantadue anni, ed Oton nel 1968 , all’età di ottantacinque anni. Un altro figlio è rimasto in Jugoslavia.
Oton e Elsa si erano identificati come cattolici al loro arrivo ad Oswego. Ernest ha saputo da suo fratello,
diverso tempo dopo, che un sacerdote “liberale” che conosceva bene aveva battezzato i suoi genitori e i suoi
FURMANSKI
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GAL
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GAON
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GRUNBERG
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GROSS
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HANF
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HAZAN
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HELLNER
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HENDEL
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fratelli più piccoli subito dopo l’attacco della Germania alla Jugoslavia e aveva predatato i certificati di
battesimo in modo che la famiglia potesse viaggiare più liberamente verso la Croatia. Ernest era di stanza
nell’esercito jugoslavo al momento dei battesimi dei suoi familiari.
ABE Furmanski (ora Abe Forman), quando arrivò ad Oswego era un sarto vedovo di 35 anni proveniente
dalla Polonia, che era stato in alcuni campi nazisti ed aveva poi lavorato con il movimento clandestino in
Francia e in Italia. Ad Oswego è diventato un leader del gruppo polacco. A New York si è risposato ed è
diventato un commerciante di metalli e di monete. Abe si è dichiarato “antireligioso”, ma ha mandato suo
figlio, Armand, in una yeshiva “per imparare che cosa significa essere religiosi” Armand è morto per la
sindrome di Hodgkin nel 1970, a ventidue anni.
REGINA, nata in Polonia nel 1909, si è vista portare via dai nazisti, in Francia, il marito e tre fratelli. Proprio
in Francia aveva vissuto per un po’ e aveva avuto due figli. È diventata una sarta a New York. Anche lei non
religiosa, ha inviato i suoi figli in una yeshiva. Sua figlia, CHARLOTTE, una contabile, è tornata al college
per ottenere un B. A. L’altro figlio, ALBERTO, che aveva manifestato il suo amore per la musica nel campo,
è diventato un programmatore/analista informatico ed ha sposato un’assistente sociale. Hanno avuto un figlio.
CLARA ha perso suo marito, SALOMON, per una leucemia, mentre era ancora a Fort Ontario. Si è
mantenuta lavorando a New York come manicurista. Suo figlio, ZDENKO (Jack) è un assistente sociale per il
New York’s Human Resources Corporation.
JACOB, un trentasettenne pasticcere di origini viennesi, viveva in Italia da dieci anni quando lui e IRMA, la
moglie jugoslava, apriorno un hotel e un’osteria a Fiume nel 1930. Walter è nato tre anni dopo. Nel 1940 si
unirono al movimento illegale di ebrei diretti in Palestina, ma furono arrestati ed internati in Libia e poi in
Italia. Dopo la chiusura di Fort Ontario, avevano scelto di vivere a Newark, ma un colpo fortuito li portò a
lavorare a Buffalo. Dopo sei mesi, tempo sufficiente per mettere da parte qualche risparmio, si trasferirono a
New York. Ben presto vedova, Irma si è risposata e, per molti anni, ha gestito una tavaola calda con il suo
secondo marito. WALTER Greenberg, presidente del gruppo scout nel campo, è diventato un educatore e
documentarista. Ha tenuto delle conferenze sull’arte dei bambini morti a Terezin (Theresienstadt).
Lui e sua moglie si incontrarono in una fattoria di formazione sionista e vissero nei kibbutz israeliani dal 1953
al 1956. Si trasferirono a Cuba dove Celia aveva già vissuto e poi tornarono negli Stati Uniti.
Se tutti a Fort Ontario hanno avuto qualche problema ai denti, pochi hanno sofferto più di VERA. Aveva
dieci anni quando il campo chiuse. Ha sopportato anni di forti emicranie, ronzii alle orecchie e dolori facciali,
a causa di un problema dentale diagnosticato poi come correggibile. Studentessa di igiene dentale, ha gestito
un ufficio di un ortodontista. Vera e suo marito, il titolare di un negozio di alimentari, hanno avuto due figlie.
I genitori di Vera, ALEXANDER e JOLANDA, speravano di trasferirsi con la figlia a Buenos Aires, dove
vivevano due fratelli, gli unici della famiglia ancora in vita. Tuttavia, nel momento in cui hanno ottenuto i
visti, si erano già ambientati a New York e non se la sono sentita di trasferirsi. Esperto in una miniera di
carbone in Jugoslavia, Alexander è diventato rappresentante per la Gimbels. È morto nel 1960, a sessantatré
anni. Vera ha lavorato in una fabbrica Ex - Lax e poi ha vissuto in una pensione a Miami Beach. Lei ricorda
che “le persone ad Oswego non avevano mai visto un ebreo. Essi vennero a guardarci”. Quella parte della
sua vita è stata “molto dolorosa”, perché lei “si sentiva così diversa”, ancora più diversa che in Europa.
LEA, il cui padre fu portato via nel 1941 e di cui non ha più saputo nulla, aveva diciannove anni quando si
trasferì con la madre a New York. È diventata responsabile di un grande ditta nel settore tessile. Nel 1965 ha
contribuito ad organizzare il ventesimo incontro della classe del Liceo di Oswego del 1945. Cinque anni
dopo, lei e suo marito, Alexander Frank, dirigente di una radio, sono morti in un tragico incidente stradale.
Tre anni prima si era spenta la madre, ZLATA, morta per un infarto.
HAJIM era uno shohet in Jugoslavia, ha servito in una congregazione a Cincinnati per undici anni e in
un’altra a Sioux City per sedici anni. In età avanzata si è ritirato in una pensione a Miami Beach, senza
rinunciare a servire in una comunità sefardita come temporaneo lettore della Torah. Sua moglie, RIKA, ha
avuto problemi al cuore. Hanno avuto tre figli: JOSEF, fotografo a Los Angeles, JACK, dentista a Tampa, e
Linda, nata a Cincinnati, casalinga con tre figli a Omaha. Di Oswego, Hajim ha detto: “Eravamo soddisfatti”.
DAVID, un commerciante di origini polacche, era stato dichiarato inammissibile a causa della tubercolosi e
morì in un sanatorio a Perrysburg, New York. Sua moglie, Dina, ha vissuto con la figlia, Judy Hellner Schalz,
e con la sua famiglia a Buffalo ed è morta nei primi anni ’70. Judy ha sposato un insegnante di musica e ha
gestito un negozio di vestiti. Sua figlia ha lavorato in una stazione televisiva a San Francisco. Sua sorella,
Ruthe Hellner Zogut, si è sposata con un farmacista e ha avuto due figlie.
Di DAVID Hendel si è parlato a lungo in questo studio. È diventato un dentista e docente alla Columbia
University. RUTH Hendell Fishman, la sorella minore di David, è diventata maestra nelle scuole pubbliche,
ha sposato lo psichiatra Jacob Robert Fishman, ha conseguito un M. A. in arte terapia, e ha collaborato con il
marito nel suo ufficio a Washington, D. C. I genitori degli Hendel, EISIG e HANNA, dopo vari tentativi di
inserirsi nel settore dei gioielli, hanno cominciato a dividere il loro tempo tra New York e Bat Yam in Israele.
Eisig e Hanna si sono presi cura dei loro nipoti, Jetta e Giselle, figlie del fratello di Eisig ucciso durante la
guerra. JETTA si è sposata con lo psicologo clinico Myron Gordon. Affascinata dal Pacifico del Sud ha
lavorato per dieci anni come rappresentante dell’associazione non governativa Pan Pacific Unite and
HIRSCHLER
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HOCHWALD
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KABILJO
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KAISER/BAUER
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KALDERON
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KAMHI
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KAUFMANN
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Southeast Asia Women delle Nazioni Unite. Sua figlia Tamar è un’antropologa, mentre l’altra figlia, Eva, è
diventata uno psicologo clinico. GISELLE Hendel Sebestyen, sorella di Jetta, ha conseguito un dottorato di
ricerca in antropologia alla Columbia University ed è diventata professoressa associata presso la State
University di New York a New Paltz. ELFIE STRAUBER Hendell, ex moglie di David, è diventata assistente
sociale.
FRED Z. HARRIS e MAY M. HARRIS (in origine ZLATKO e MILICA), la coppia jugoslava di trentenni
che si era guadagnata dei soldi extra creando collane di perline per una donna a New York, è rimasta nella
Grande Mela solo pochi anni prima di trasferirsi a San Francisco. Fred, il proprietario in pensione di un
negozio di riparazione di elettrodomestici, ha scritto un’autobiografia non pubblicata chiamata “The Flight”,
che descrive la sua odissea dalla Jugoslavia all’America. Gli Hirschler hanno adottato nuovi nomi e Milica
non vuole che vengano associati ad Oswego. Per quanto riguarda la loro esperienza Zlatko ha scritto: “È stato
un periodo di transizione eccellente per tutti di noi... è stato molto benefico per il nostro benessere interiore
perché la libertà istantanea avrebbe potuto rovinare il nostro equilibrio interiore.”
John Hunter, nato IVO Hirschler, guidava un taxi e serviva ai tavoli alla Hunter Montain mentre era uno
studente universitario. Cambiò il suo nome nel 1960, quando la RCA lo accettò come tirocinante. Nel 1970 ha
fondato una società di computer che impiegava 250 persone e fatturava annualmente più di 40 milioni $.
Presidente di una suddivisione, responsabile di acquisizioni e fusioni di Volt Science, Inc., società genitrice a
cui, per 400 milioni di dollari, vendette la Delta Resources, dice alle classi MBA della Columbia University:
“Io credo veramente che la nostra società sia aperta al raggiungimento di qualsiasi livello se uno ha la
volontà e l’impegno e la necessità di raggiungerlo.” JULIO Hirschler, che morì nel 1960 prima di
raggiungere i settant’anni, era stato un impiegato di banca in Jugoslavia ed è diventato un contabile. ELLA
Hirschler, morta nei primi anni 1970, ha fatto parrucche per manichini.
RAYMOND B. Harding (in origine BRANKO HOCHWALD) è stato presidente del New York State Liberal
Party. Il suo nome deriva in parte dal titolo del suo programma radiofonico preferito, “David Harding,
Counterspy”, ed in parte dalla predilezione che aveva per un suo cugino di nome Ray. All’inizio si è
guadagnato da vivere guidando taxi e facendo il cameriere. Si è laureato alla New York University School of
Law, ha lavorato per cinque anni come assistente speciale del Governatore Hugh Carey, poi nello studio di
Shea e Gould. È diventato il principale stratega politico del Partito liberale dello Stato di New York. Branko
Hochwald ha visto nell’esperienza di Oswego il “momento migliore” della sua vita, il “dono di un’infanzia
felice... una spensierata introduzione alla scuola americana, e un tempo per la formazione delle amicizie di
tutta una vita”. Non è più entrato in una sinagoga per venti anni dopo il suo Bar Mitzvah. Pensava con
orgoglio alle sue origini, ma “non si è mai identificato con i rituali del giudaismo”. Tuttavia, ha insistito sul
fatto che i suoi due figli frequentassero la scuola ebraica e ciascuno ha avuto il proprio Bar Mitzvah.
Nell’estate del 1946, il padre di Ray, MANE Hochwald, mercante di legno in Jugoslavia e leader del settore
lavoro al forte, ha iniziato a lavorare come cameriere nel Catskills, mentre JELKA, sua moglie, è diventata
una cuoca, per poi trovare lavoro in una compagnia di assicurazioni. Da pensionati hanno vissuto a Forest
Hills, vicino a Irma Grunberg Liptcher, la madre di Walter Greenberg.
LEON e SARI chiamarono la loro figlia, concepita a bordo della Henry Gibbins, Silvia Simcha per celebrare
la gioia per l’inizio di una nuova vita. Leon, ufficiale delle entrate per il governo jugoslavo per dieci anni, è
diventato un contabile in una ditta di legname di Baltimora. Sari è rimasta a casa con i bambini fino a quando
hanno cominciato ad andare a scuola e poi ha lavorato diciotto anni in una biblioteca. SILVIA è un’estetista.
Linda, nata a Baltimora, è diventata maestra di scuola ed ha sposato un podologo di Detroit. Leon ha detto:
“Siamo molto contenti di essere venuti negli Stati Uniti... qui c’è la libertà come in nessun altro paese”.
EDUARD e MARGITA si trasferirono, con i genitori di Margita, ARTUR e SIDA BAUER, a Cleveland,
dove Artur, commerciante di bestiame in Jugoslavia e leader della sua baracca nel campo, aveva tre sorelle e
un fratello. Eduard, un ex commerciante, trovò lavoro come contabile in un deposito di legname. Margita è
stata una cosmetologa. BRUNO, ingegnere elettronico, è stato il proprietario della Sentry Technology,
produttrice di antifurti e allarmi antincendio a San Francisco.
SIMON, leader della comunità di Baltimora, è stato presidente della Packaging Corporation, lavorando con
agenzie governative e private. FLORA Kalderon Friedman, sorella di Simon, era una casalinga. Il padre,
AVRAM, lavorava come caporeparto in una società di tappezzeria.
MORIC (MAURICE) Kamhi non era solo un attore poliedrico, scrittore e regista, ma anche un appassionato
schermidore. Moric, dodici anni alla chiusura del campo, è diventato un produttore televisivo a New York.
Lui e sua moglie hanno avuto due figli, di cui una, Katherine, ha lavorato in serie televisive come All my
children e nel cinema. La madre di Moric, EMICA, aveva lasciato Oswego dicendo di voler tornare in
Jugoslavia con la madre, RIFKA Alkalaj, e il figlio, ma, dopo aver saputo che il marito era morto, fece
domanda per l’immigrazione. A New York, ha lavorato come parrucchiera, competenza acquisita grazie ai
corsi seguiti nel campo. Emica Agrimi ha lavorato per molti anni con il suo secondo marito nel loro salone.
BRANKO Kaufmann, fotografo ritrattista che aveva avviato uno studio nel campo utilizzando una macchina
fotografica presa in prestito da un professore di Oswego e che rappresentava i lavoratori del carbone nel
Labor Committee, ha cercato di aprire uno studio a New York, ma poi si è subito convinto a tornare ad
KORNER
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KRAUTHAMER
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KRAMER
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(Goldmann in
Lapajowker)
KREMER
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KUZNITSKI
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LANGNAS
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LEDERER
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Oswego. Lui, sua moglie KATHE e la piccola Eva hanno vissuto lì fino al 1959 e poi hanno optato per la
California. Branko è morto per un attacco di cuore dopo tredici anni. EVA KAUFMANN DYE e suo marito,
Robert, hanno vissuto a Millbrae, California, ed entrambi sono stati insegnanti.
Austriaci di origine rumena, i Korner si stabilirono a Providence, Rhode Island, dove avevano un cugino.
SCHLOMO, sessantacinquenne insegnante ebreo che aveva preparato i ragazzi del rifugio per il Bar Mitzvah,
trovò, dopo Fort Ontario, altri ragazzi a cui insegnare. Lui e SCHEWA, sua moglie, sono entrambi morti nel
1962, cinque anni dopo aver perso REGINA, la figlia maggiore, per un’appendicite, all’età di quarantanove
anni. MINA, tre anni più giovane di Regina, ha lavorato in una fabbrica fino al suo pensionamento. TINA, la
figlia più giovane, ha lavorato in un ufficio fino al matrimonio con David Chernick, socio di una società di
assicurazioni. Tina e Davide sono morti di cancro nel 1984, hanno avuto quattro figli, due maschi e due
femmine. Meno di due settimane dopo aver compiuto i 22 anni, il loro figlio, Russell, morì senza ricevere
cure in un’ambulanza perché il sistema di comunicazione con i medici era rotto. Lei lanciò una vigorosa
campagna per colmare il vuoto legislativo. L’11 maggio 1982, il governatore di Rhode Island ha convertito in
legge l’atto relativo ai servizi medici di emergenza che autorizzava il personale, come gli addetti alle
ambulanze e i paramedici, ad assumersi la responsabilità per la somministrazione di farmaci senza il
permesso del medico, quando non era possibile mettersi in contatto con lui. Tina ha ritenuto che la normativa,
già introdotta, ma resa operativa solo due mesi dopo la morte del suo figlio maggiore, sia stata una sorta di
“monumento personale” per entrambi i suoi ragazzi. Sei anni prima, infatti, aveva perso Stuart, il figlio più
piccolo. Vittime della distrofia muscolare, entrambi i ragazzi erano costretti a vivere su una sedia a rotelle, ma
nonostante ciò riuscirono a “vivere la vita fino in fondo”. TINA Korner Chernick, dopo essersi ripresa dalla
perdita dei due figli, si è dedicata a trovare una cura per l’afta epizootica. Poi è diventata vicepresidente della
sezione di Rhode Island della Muscolar Dystrophy Association.
SUZANNE Krauthamer Gurwitz ha vissuto un conflitto interiore relativamente al suo passato. Ha attribuito la
sopravvivenza della sua famiglia alla fortuna, ma riteneva anche che “Dio voleva che noi sopravvivessimo per
qualche scopo”. A New York ha fatto l’insegnante. Uno dei suoi due figli era in Israele per diventare un
rabbino ortodosso, mentre l’altro era uno studente di una yeshiva che si stava preparando per trasferirsi in
Israele. La figlia, invece, studiava al Queens College. NAFTALI e RESEL Krauthamer, i genitori di Suzanne,
erano entrambi nati in Polonia agli inizi del Novecento. Suzanne era nata in Francia nel 1939 e i suoi fratelli
maggiori, SIMON e JULIUS, in Germania nei primi anni Trenta. Quando Fort Ontario fu chiuso, la famiglia
si stabilì a New York. Naftali trovò lavoro come pellicciaio ed è morto nel 1979, all’età di settantasette anni,
sei anni dopo la morte di sua moglie. Simon è diventato un agente di cambio e Julius un revisore dei conti del
governo. Sono rimasti ebrei osservanti.
LIANA Kramer Brown, che ha preferito farsi conoscere con il nome acquisito dopo la chiusura del forte, è
diventata un’insegnante. Sua madre, REGINA, ha lavorato come pellicciaia. Sono rimaste a New York per tre
anni, poi sono partite per l’Italia per cercare i loro parenti, per poi ritornare negli Stati Uniti per unirsi al padre
di Liana. Liana si è sposata e ha avuto tre figli.
BERTA e i suoi due figli, Herman, di sedici anni, e Vilko (William), di undici anni, si trasferirono a New
York. Lei sposò SIGMUND ALSTER, un cinquantenne viennese di origini polacche che era un
commerciante di biancheria e che era stato un supervisore delle baracche e un drammaturgo molto popolare
nel campo. Dopo la morte di Alster (cancro), Berta, sorella di Eisig Hendel, si sposò la terza volta aiutando
suo marito ad espandere la sua lavanderia. Hanno poi vissuto in Florida, dove WILLIAM è entrato
nell’azienda di famiglia. HERMANN è stato un ingegnere civile a Montreal.
RALF MANFRED ha rinunciato al suo cognome (KUZNITSKI). Ha studiato ingegneria ed è stato analista di
ricerca per Aerojet ed uno dei creatori dei missili Polaris e Minuteman. Dopo essere diventato un
ambientalista convinto, ha dedicato la sua vita alla ricerca di una fonte di energia alternativa migliore e più
economica del petrolio e del nucleare. Lui ed i suoi genitori hanno vissuto a Toledo per diversi anni e poi si
sono spostati in California. BERTHOLD Kuznitski è morto a Los Angeles nel 1966, all’età di settantacinque
anni. FELICITAS, sua moglie, è morta sei anni dopo, a settantotto anni.
JOSEPH, il primo a fare il Bar Mitzvah nel campo, si è stabilito con i suoi genitori e la sorella più piccola a
Detroit. Suo padre, IGNAZ, un mercante viennese di origini polacche, trascorse i suoi ultimi anni (morì nel
1972) come mercante di vino, dopo aver svolto vari lavori saltuari. La madre di Joseph, DORA, ha lavorato
20 anni come sarta. Dora Stock si è risposata e ha vissuto una parte dell’anno a Montreal e l’altra a Miami.
Joseph è un osteopata e insegna patologia al Botsford Hospital vicino a Detroit. Lui e sua moglie, ex profughi,
hanno avuto quattro figli, due dei quali sono diventati medici. La sorella di Joseph, BETTINA Langnas Lis,
fu educata in uno yeshivot come Joseph, e ha lavorato come segretaria. Lei e suo marito, proprietario di una
ditta di computer, hanno avuto tre figli. Oswego è stato per Joseph “una di quelle esperienze da cui
misuriamo le nostre vite”.
Quando il campo chiuse, MIRA aveva 21 anni. È divenatata una ricercatrice medica, un insegnante di scuola
media e autrice di due libri. Ha anche scritto un toccante articolo sulla sua mastectomia e sperava di scrivere
un libro su Oswego su cui si è espressa con assoluta franchezza: “Per gli americani, ebrei inclusi, fu
un’esperienza felice e particolare”, ma per chi l’ha vissuta “è stato un misto di dolore, delusione, frustrazione
LEPEHNE
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LEVI
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LEVITCH
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LEVY
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LIBAN
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MAURER
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e con la debole speranza di rimanere negli Stati Uniti”. Sposata con un ebreo americano di terza generazione,
pensava che i nativi fossero incapaci di comprendere appieno l’orgoglio che provava nel vedere suo figlio
laureato a Princeton. IVO, cinque anni più giovane di Mira, ha conseguito un dottorato di ricerca in russo e in
Storia dell’Europa dell’Est a Princeton, ha insegnato a Princeton, Yale e Stanford e ha pubblicato molti libri.
Oswego ha rappresentato per lui un luogo da cui “la feccia della seconda guerra mondiale” emerse e stabilì
un record straordinario in termini di “vite piene, utili e gratificanti”. A differenza di Mira, egli considerava il
campo come un’“esperienza positiva”. Come lei, egli riteneva che “solo una persona nata all’estero può
veramente apprezzare quello che l’America è”. I loro genitori, OTTO e RUZA Lederer, hanno lavorato
duramente. Avvocato in Jugoslavia, Otto non ha più ripreso la sua professione in America.
EVA aveva diciassette anni quando arrivò ad Oswego con CHAIM e JULIA SCHLOMOWITZ, una coppia
austriaca sulla cinquantina con cui fece amicizia dopo che i nazisti uccisero suo padre in Germania e la madre
durante la fuga. Traumatizzata ed “emotivamente immatura”, riuscì, tuttavia, ad anticipare di un anno
l’entrata in prima media fino ad arrivare al diploma. Eva pensava di andare a vivere con la nonna, ma
quest’ultima, che viveva a Rochester, morì prima che il campo fosse chiuso. Così Eva raggiunse un suo zio
sempre a Rochester. Ha conseguito il titolo di infermiera. Si è sposata con Eric Rosenfeld, un dirigente
industriale a Nashville. Lei ha lavorato come contabile in una sinagoga ed ha avuto tre figli: David, analista
informatico, Vera, insegnante di sostegno, e Ken che, all’epoca, era ancora uno studente.
STELLA, che apprese dopo la guerra che suo marito era morto, si è dovuta rimboccare le maniche per
crescere suo figlio di nove anni, JAKOV, lavorando come sarta ed estetista. Quando si è risposata, otto anni
dopo, suo figlio ha preso il nome del patrigno ed è diventato Jack Wilson. Farmacista sposato con una
maestra di scuola, Jack ha avuto due figli ed ha contribuito a fondare una sinagoga di stampo conservatore a
Staten Island.
JOSEPH, farmacista e poeta, in Jugoslavia aveva insegnato alla moglie, Fortunée, e ai loro tre figli come
impiccarsi se fossero stati catturati dai fascisti jugoslavi. FORTUNEE è stata una docente ed una
drammaturga tanto amata nel campo. Ospite popolare nelle case di Oswego, il 19 gennaio 1946 ha scritto sul
Palladium Oswego Times: “Dobbiamno portare con noi i ricordi più piacevoli che rimarranno
indimenticabili nei nostri cuori”. Graziosa e spiritosa, ha dovuto affrontare delle dure prove dopo aver
lasciato il rifugio. Suo marito, dopo diversi anni, riuscì a superare gli ostacoli burocratici americani ed aprì la
sua piccola farmacia. Poco dopo, dei rapinatori armati gli si avvicinarono e in lui riaffiorarono i ricordi della
brutalità nazista. Cadde in una depressione che è culminata nel suicidio. Debilitata dall’artrite, Fortunee ha
vissuto con la figlia Manon nella zona di San Francisco e si è spenta qualche tempo dopo.
EDWARD, suo figlio maggiore, è diventato architetto e imprenditore edile ispirato dall’insegnante della High
School Industrial Arts di Oswego, Tom Crabtree. Negli ultimi anni ha avuto dei problemi finanziari e ha
trovato nuova forza nello studio della Torah. L’altro figlio, LEON, suonava le sue composizioni, molte delle
quali furono registrate dall’etichetta Orion. Aveva studiato armonia con il rinomato Isaac Thaler a Ferramonti
e pianoforte con Frieda Sipser e Vera Levinson a Fort Ontario. Lavorò come accordatore di pianoforte a Los
Angeles, competenza acquisita durante l’internamento, ed ottenne un M. A. in composizione. Nel 1971
contribuì a creare il dipartimento di tecnologia del pianoforte a UCLA. Nel 1978 fu di valido aiuto nello
sviluppare un programma simile alla North Ridge Extension of California State University.
La sorella, MANON Levitch Rainbolt, è ceramista e pittrice.
LEO (noto come Juda) ha trascorso due anni come prigioniero dei fascisti in Jugoslavia, durante i quali la sua
famiglia non seppe più nulla di lui, fino a quando, dopo l’amistizio, gli italiani lo liberarono. Avvocato, chiese
di partire per Oswego per dare un’opportunità educativa ai suoi figli adolescenti. In attesa di tornare in
Jugoslavia, guidò sia il Consiglio consultivo sia il gruppo jugoslavo e partecipò a diverse performance
teatrali. La NRS dispose per la sua famiglia il trasferimento a Philadelphia, ma la famiglia andò invece a New
York per stare vicina agli amici. La moglie di Juda, IRENE, che era un’infermiera nel campo, frequentò una
business school e lavorò per una società manifatturiera fino al 1962, quando si trasferirono in California.
L’anno precedente Juda aveva lasciato il posto di direttore del Treasury of Care, Inc. Morì due anni dopo e lei
si trasferì in Israele, dove ha vissuto in condizioni di salute precarie che la obbligarono a tornare negli Stati
Uniti nel 1983. Un figlio, SILVIO (Robert Sidney Lee), ha vissuto a New York, diventando un avvocato.
L’altro, ERIK Levy Lee, è stato un gastroenterologo, direttore della formazione medica nel Permanent
Medical Group Kaiser a Bellflower, e professore clinico associato presso la UCLA. Entrambi i figli hanno
combattuto nella guerra di Corea.
DAVID, austriaco di origini polacche, non si è mai ripreso dalle ferite subite in un campo di concentramento
tedesco. Morì nel 1959, all’età di 76 anni. Sua moglie, RELA, è morta nel 1974 all’età di 84 anni. I loro figli,
Eric, professore di matematica, e Jack, progettista di condizionatori, li aiutavano. Furono grati per aver potuto
rivedere i genitori negli Stati Uniti dopo averli creduti morti.
HARRY (International Harry) si è laureato in filosofia al City College di New York, è diventato un
informatico, ha lavorato per diversi anni alla NASA e per la Air Force in California. Successivamente ha
lavorato in Ontario (Canada) come responsabile del trattamento dei dati informatici. Il fratello di Harry,
WALTER è stato uno stilista di pellicce. LEON, il padre, è morto ad 86 anni nel 1982. La moglie, OLGA,
MERZER
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MIRKOVIC
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MOSCHEV
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MUNZ
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NEUFELD
/KABILJO*
NEWMANN
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NOTOWICZ
HAAS
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PICK
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REISNER/
MARGULIS/
CICCARELLI
donna dinamica fino alla fine, è morta qualche anno dopo.
Commerciante di pelliccia in Germania, è diventato un contabile a New York. JAKOB è morto nel 1962, a 48
anni. Sua moglie SONJA era andata a lavorare l’anno precedente come donna delle pulizie in una fabbrica di
abbigliamento. Successivamente ebbe problemi al cuore. Avevano avuto tre figlie: YVONNE (13 anni alla
chiusura del campo), vedova, ha lavorato per la Singer a Long island; LILLIAN ha sposato un uomo d’affari,
come ha fatto Yvonne, ed ha aperto un negozio di abbigliamento a New York; BEATRICE, nata nel campo, è
diventata un’analista informatico a Washington, D.C., come suo marito. Sonja ha detto di Oswego: “Adesso
capisco che stavamo bene”.
LEO, già baritono dell’Opera di Zagabria, aveva pensato di tornare all’Opera come direttore, ma alcuni
colleghi erano diventati “grandi nazisti” e lui scelse di non sottomettersi a loro. Continuò a cantare negli Stati
Uniti, ma si rese conto che aveva bisogno di un agente e non poteva permetterselo. Nel 1951 completò gli
studi di canto, nella prima classe di laurea del Cantorial School of the Hebrew Union College - Jewish
Institute of Religion. Ha servito in diverse congregazioni a Washington, D. C., e a New York e poi ha vissuto
in pensione a Miami Beach. Il desiderio di Mirkovic di cantare ad Oswego e nella zona circostante e quello
del governo di “usarlo” “per la capacità di intrattenere” gli diede più libertà rispetto agli altri rifugiati.
Sull’esperienza di Oswego ha dichirato: “È meglio dimenticare tutta la vicenda... Sono felice di essere venuto
qui, ma un campo è un campo”.
ALBERT e BELLA Moschev scelsero Philadelphia per la sua vicinanza a New York e si trasferirono a New
York nel 1948, non appena la loro figlia, ROSA, finì il liceo. Mercante di origini bulgare, Albert aveva
cinquantasei anni quando il campo fu chiuso. Lavorò prima in una fabbrica di abbigliamento e poi divenne
caposquadra in una fabbrica di senape. Bella si è dedicata ai lavori all’uncinetto. Lei si è dichiarata felice e
riconoscente per essere arrivata negli Stati Uniti. Rosa, quando pensa ad Oswego, pensa alla libertà. Secondo
lei per i bambini è andata meglio che per gli adulti, perché potevano far fronte più facilmente al freddo
estremo e perché avevano più libertà. Rosa è diventata una stenografa ed ha sposato Marcel Levy, un
controllore contabile. Joseph, loro figlio, è un contabile, mentre l’altra figlia, Linda, lavora nella pubblicità
con il marito.
ADAM è stato professore associato di psicologia medica alla Columbia University, direttore dei servizi
psicologici all’Ospedale di Sant Luke di New York, presidente della New York Society degli psicologi clinici
e poi della divisione clinica dell’Associazione psicologi dello Stato di New York. Se avesse seguito le orme
di suo padre, in base alla tradizione, sarebbe diventato un macellaio. Oswego influenzò la scelta della sua
professione. Si è sposato con Lotte, una pschiatra infantile. Hanno avuto una figlia, Robin. Con l’aiuto di
amici, PESACH Munz, ex macellaio proveniente dal Belgio, padre di Adam, è diventato un broker di
diamanti a New York. FRADL, sua moglie, è morta di cancro alla fine degli anni ’70. LEON, il fratello più
piccolo di Adam, ha prodotto cappotti di pelliccia a New York. Lui e sua moglie, Selma, hanno avuto due
figli: Steven, un oftalmologo, e Rachael, che ha lavorato in una banca.
ERNA Neufeld ha lavorato a New York come interprete per il settore salute dell’International Ladies
Garment Workers Union, arrotondando di sera come estetista e pasticcera, competenze acquisite grazie ai
corsi tenuti a Fort Ontario. Suo figlio, GEORGIE (George), ingegnere elettronico a Manhattan, ha riferito che
la madre, morta nel 1970 a 58 anni, e sua nonna, IRENE KABILJO, morta nel 1974, ad 85 anni, “erano in
estasi per aver fatto parte del gruppo” di Fort Ontario.
KARL e ELISE Newmann (Cari e Liesl Neuman) hanno raccontato alla Lowenstein il loro primo periodo
dopo la chiusura del campo. Arrivarono alla Union Station di Kansas City in una fredda giornata di febbraio e
lì un impiegato della United Jewish Social Service li accolse e li accompagnò verso la loro nuova dimora: una
stanza da letto scarsamente riscaldata, con il bagno, al secondo piano di una casa nel centro della città. Hanno
vissuto lì per due anni, in condizioni molto meno confortevoli rispetto a quelle di Fort Ontario. Karl ha
trovato lavoro come contabile per una società di grano di proprietà di Paul Uhlman, Sr., che si è occupato a
lungo di assistenza ai rifugiati. Successivamente i Newmann hanno vissuto in un confortevole bungalow. Il
loro unico figlio, PETER, commercialista, e sua moglie Bev, bibliotecaria della congregazione, hanno avuto
tre figli.
HENNY si stabilì a New York con i suoi genitori, OSIAS e MARIA, e, quattro anni dopo, sposò un giovane
ragioniere che divenne uno dei principali ufficiali della Music Corporation of America. Ha lavorato dodici
anni come braillist all’Istituto Braille. Ha poi divorziato e ha vissuto a Beverly Hills, viaggiando ampiamente
all’estero per acquistare opere d’arte per le gallerie. Si è spenta qualche anno dopo. Sua figlia Gilda è
un’urbanista, mentre l’altra figlia, Linda, è artista e fotografa.
ANNY, a Fort Ontario, era considerata una stella di molti degli spettacoli organizzati nel campo. Ha trovato
lavoro in un negozio di souvenir ad Hollandale, Florida. Suo figlio, PETER, ha conseguito un dottorato di
ricerca ed è diventato storico dell’arte a San Francisco, mentre GERALDINE Cassens, nata nel campo, ha
insegnato psicologia presso la Harvard Medical School.
FRITZ Reisner, che era stato il direttore di una compagnia ferroviaria a Vienna, trovò lavoro in una società di
import-export. Morì nel 1969 all’età di settant’anni. STELLA, sua moglie, lavorò come contabile in una
fabbrica di guanti. Vissero nella zona di New York. La loro figli,a RENÉE, che ALEX MARGULIS aveva
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ROMANO
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ROSENBAUM
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ROTHSTEIN
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SCHILD
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SCHNAYMANN
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corteggiato a bordo della Henry Gibbins e che poi aveva sposato, è morta nel 1979, all’età di cinquantadue
anni, per un lupus sistemico. Lui ha diretto il Dipartimento di Radiologia del Medical Center dell’Università
della California e ha contribuito a sviluppare lo scanner CAT. Ha lavorato anche su tecniche più avanzate per
la diagnosi del cancro. DORRIT REISNER OSTBERG, tre anni più piccola di Renée, ha conseguito un B. A.
in letteratura comparata e un M. A. in matematica. È diventata un’insegnante di matematica. Suo figlio è un
avvocato della Direzione Risorse Umane dell’Amministrazione di New York City. RALPH (RAJKO)
Margulis, fratello di Alex, è diventato un ginecologo presso il Royal Oak, Michigan. Si è sposato con VESNA
CULIC, che aveva già corteggiato sulla nave. Vesna e sua madre, ANGELINA CICARELLI, di fede
cattolica, si trasferirono a Cleveland, dove Vesna, che era stata un’interprete in Italia, ha lavorato come
contabile fino a quando non si è sposata con Rajko. Hanno avuto due figli, uno è medico e l’altro un
avvocato. Il padre di Rajko e Aca, RAFAILO Margulis, un medico ammalatosi di cancro, decise di tornare in
Jugoslavia con la moglie e i figli, con il primo gruppo che aveva scelto il rimpatrio, ma presto si pentì e fece
di tutto per far ottenere ai due figli, Rajko e Aca, dei visti per studenti. L’Harvard Medical School li accettò e
concesse ad entrambi delle borse di studio. OLGA Margulis ha raggiunto i suoi figli negli Stati Uniti dopo
essere rimasta vedova ed è morta di cancro alcuni anni più tardi.
RENA ROMANO BLOCK lavorava come segretaria legale. La famiglia Romano aveva accettato la
sistemazione offerta dal NRS a Cleveland, ma poi si spostò a New York, due anni dopo. SIMA rimase con le
stampelle per quasi due anni a causa di una brutta caduta ad Oswego, un mese prima della chiusura del
campo. Ha lavorato nel settore dell’abbigliamento fino ad ottenere un posto di lavoro, a più di sessant’anni,
nell’ufficio di una banca. È morto di cancro ad ottantaquattro anni. Sua moglie, CLARA, è andata in pensione
a sessantacinque anni, ma ha continuato a lavorare nel settore dell’abbigliamento, ma non solo. Il figlio,
SAMUILLO, che quando era a Fort Ontario faceva spesso l’autostop con il suo amico David Levi per
raggiungere New York nei fine settimana, entrò nell’esercito, poi tornò a studiare presso la Case Western
Reserve University di Cleveland dove conseguì un B. A. in psicologia clinica e alla New York University
dove prese un M. A. in psicologia industriale. Era l’account executive per la Eastern European Division della
Marsh & McLelian Insurance Company. È morto a 55 anni, nel 1979, a causa della sindrome di Lou Gehrig.
Sam e sua moglie, Renata, hanno avuto due figli: Karen, assistente alla regia presso la Macmillan Publishing
Company, Inc., e Robert, agente immobiliare nel settore industriale. ZARIE (Zachary), fratello di Sam, è
diventato un agente di assicurazione e ha avuto due figli.
MOSES si trasferì a Chicago con FANNY Heller, che aveva sposato a Fort Ontario, e trovò lavoro in una
fabbrica di bagagli. È morto nell’aprile 1978, ad ottantadue anni, credendo che la sua prima moglie e i loro
quattro figli fossero tutti vittime della Shoah. In realtà un figlio, Morris, era sopravvissuto. Morris aveva
saputo nel 1965 che suo padre era stato internato a Ferramonti e aveva iniziato le sue ricerche, ma senza
avuto notizie su Fort Ontario se non nel 1983.
JOSIP Rothstein, che era un produttore di tessuti e un grossista in Jugoslavia, si trasferì con la sua famiglia a
Washington, D. C. SARA, sua moglie, aveva completato gli studi in odontoiatria in Germania, ma non potè
fare pratica a causa delle leggi di Norimberga. Dopo Oswego, ha conseguito una laurea in igiene dentale alla
Howard University. Josip morì nel 1970, all’età di settantaquattro anni. Sara ha lavorato fino al suo
pensionamento, nel 1983. Hanno avuto tre figli. RALPH, il più giovane, nato nel campo, è diventato un
endocrinologo pediatrico a Vancouver, British Columbia. LAVOSLAV, conosciuto con il suo nome ebraico,
Ari, e che ha assunto ufficialmente questo nome quando è diventato un cittadino americano, e MIRJAM
hanno vissuto entrambi a New York, con le loro famiglie. Lui è stato un avvocato nel settore delle tasse e del
commercio, mentre lei, moglie di un rabbino, ha insegnato studi ebraici in una scuola ebraica diurna. Ari
aveva quindici anni quando lasciò il campo. Di quel periodo pensa di aver avuto una vita più interessante
della maggior parte dei suoi contemporanei.
ADOLPH, disegnatore tecnico per la Electric Bell Company in Belgio, e suo figlio, Ignace, facevano foto agli
agricoltori in cambio di cibo e riparo, mentre la famiglia si nascondeva tra le montagne in Italia. A New York,
dopo aver lasciato Oswego, Adolph trovò lavoro come rappresentante in una compagnia che si occupava di
arti grafiche e fotoincisione. Morì nel 1956 a sessantasei anni. Sua moglie, FANNY, diventò un’elettrologista.
IGNACE, diventato nel frattempo Irving, ricevette una borsa di studio per la Cooper Union Art School, si
addestrò durante la guerra di Corea per diventare un fotografo di guerra dei Marine Corps e completò la sua
formazione sul GI Bill. Successivamente è stato professore e presidente del Dipartimento di Fashion
Photography al Manhattan Fashion Institute of Technology. I suoi lavori sono stati pubblicati su riviste come
Mad, Glamour, Esquire, e sulla tedesca Stern. Ignace-Irving ha dichiarato che “gli ebrei, trascurati da tutti i
governi, dovrebbero essere riconosciuti” anche attraverso dei “memoriali ovunque ... Il mondo merita di
pagare un prezzo... Non ha pagato il prezzo”. FLORENCE Schild Miller, che ha insegnato francese presso
l’Istituto ebraico di Long lsland, e suo marito, un commercialista, hanno avuto tre figli, uno dei quali è uno
scriba tradizionale in Israele.
SALLY Schnaymann (Solly), maestro del coro a Fort Ontario, diventò un rappresentante di tessuti a New
York e suonò l’organo volontariamente in un tempio riformato del New Jersey. MARTA, la moglie, si prese
cura del loro nipote, Steven Schroeter, mentre la figlia, Elsa (Ilse) Schroeter, lavorava come modista e
SCHOENWALD
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SELAN
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SEMJEN
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SIPSER
SOMMERBURG
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SPITZER
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STEINBERG
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modella sulla 57th Street. Solly soffriva di cuore e morì nel 1956. Marta ebbe un ictus e morì nel 1971. Ilse,
tre volte vedova, ha poi lavorato come addetta alle vendite in un salone di pelliccia a Bloomingdale. Suo
figlio, Steven Schroeter Kattan, è diventato un produttore indipendente, scrittore e regista di documentari a
Los Angeles.
FERDINANDO Schoenwald, un venditore di calze vedovo, originario della Jugoslavia, si trasferì a New
York con i suoi figli, Nada e Villi. NADA sposò Wilhelm Loewy, che aveva avuto un ristorante a Vienna e la
cui prima moglie era stata internata a Teresienstadt. Si stabilirono a San Francisco. VILLI gestì una
lavanderia a San Francisco.
EDNA SELAN Epstein è diventata un avvocato ed educatrice a Chicago. La famiglia Selan, composta da
SERAFINA e dai suoi due figli, CARLO e RUDOLF, e dalle loro famiglie, si trasferirono a Buffalo, ma poi
si spostarono a New York. Rudolf , proprietario di una miniera di carbone in Jugoslavia, sfrutttò i corsi tenuti
a Fort Ontario per diventare un tappezziere e un decoratore di interni. Morì nel 1976. NADA, la moglie di
Rudolf, iniziò come commessa in un piccolo negozio di abbigliamento a Buffalo e fu per quindici anni
coordinatrice di moda per Bergdorf Goodman. BRANKO (William), figlio di Rudolf e Nada, è diventato
architetto a New York. CARL aveva trascorso parte della fine degli anni Venti negli Stati Uniti ed era tornato
in Jugoslavia per diventare manager generale della Twentieth-Century Fox in Jugoslavia. Ad Oswego, lavorò
come supervisore di film, contribuì ad organizzare il Festival di Primavera e agì come leader per le attività
sioniste. Lui e LOTTE divorziarono poco dopo aver lasciato Oswego, e lei e MIRA, la figlia, si trasferirono in
Svizzera. L’altra figlia, EDNA, rimase negli Stati Uniti con il padre. Edna ha conseguito un dottorato di
ricerca in lingue romanze ad Harvard ed ha insegnato presso l’Università dell’Illinois. Ha sposato Wolfgang
Epstein, un internista e professore di biochimica presso l’Università di Chicago, con cui ha avuto tre figli. Poi
Edna è entrata alla University of Chicago Law School, ha lavorato come assistente procuratore ed è diventata
una delle prime donne partner nella società internazionale Sidley e Austin. Attivista politica che ha insegnato
e pubblicato molti libri, ha dichiarato di aver avuto una vita ricca, piena e felice. “Questo paese è stato buono
con me”.
EDITH Semjén si trasferì a New York con sua madre, Elisabetta, e, pochi anni dopo, sposò Bernard O.
Starkman, un revisore dei conti pubblici. Iniziò come parrucchiera in un “decrepito” salone in una strada
laterale, che spostò sulla Upper West Side arrivando ad avere, nel giro di pochi anni, diciotto dipendenti.
Successivamente lavorò in un salone di Broadway, dove Ruth Gruber è stata una delle sue clienti. “Quando
ho chiuso la mia attività, ho donato tutte le attrezzature e forniture ai carcerati di Rikers Island. Volevo dare
loro una vocazione in segno di gratitudine per quello che l’America e Oswego mi hanno dato”.
MAX ha vinto molti premi nazionali e internazionali nel corso di diverse mostre d’arte. Morì nel settembre
1968.
SONJA Sommerburg (Sonia Rabin), apprese di essere ebrea solo dopo l’arrivo ad Oswego, all’età di
quattordici anni. La madre, MIRIAM Sommerburg, aveva cercato di risparmiare ai suoi figli, nati
da un padre non ebreo, le sofferenze. In Italia, invece, Sasha, il più grande, si unì alla Brigada ebraica. Ha
combattuto nella Guerra di Indipendenza di Israele e ha continuato a vivere in Israele con la moglie, una
sopravvissuta rumena, fino a quando emigrarono negli Stati Uniti nel 1957. Dei quattro figli presenti ad
Oswego, due, tra cui Sonia, sposarono degli ebrei e vissero come ebrei. Sonia è diventata direttore artistico
per una casa editrice di New York e amministratrice delle proprietà di sua madre. PETER è stato nell’esercito
per tre anni come paracadutista e poi è diventato un architetto ad Atlanta. DIMITRI è diventato carpentiere
nell’Upstate New York. GIOCONDA è diventata sia una ballerina, seguendo lo stile di Isadora Ducan, sia
un’analista informatica. Miriam è stata una scultrice e ha vinto numerosi premi. Molte delle sue sculture in
legno sono presenti nelle collezioni permanenti del Metropolitan Museum of Art. Alla sua morte, nel 1980,
all’età di ottant’anni, il suo corpo è stato cremato e le ceneri sono state sparse, su sua richiesta, nel lago di
Tiberiade in Israele.
La famiglia Spitzer si trasferì a San Francisco, dove FILIP trovò diversi posti di lavoro, ma non riacquistò
mai il suo precedente status. La figlia, MARGARET, lavorò come infermiera privata per i bambini e poi
come insegnante nelle scuole di San Francisco. Lì incontrò e sposò Robert Fisse, un broker indipendente.
La Lowenstein racconta che hanno lavorato la terra sulle colline che dominano la città e, con le loro mani,
hanno costruito una magnifica casa che rispecchia la loro apertura e il loro rispetto per la natura. Ebbero due
figli: Filip e Devin.
STEFFI STEINBERG WINTERS ha dichiarato che l’esperienza di Fort Ontario è stata una “preparazione
per tutta la vita”, anche in considerazione del fatto che lì si è diplomata. Lei e la sua famiglia si trasferirono a
New York. Lì trovò lavoro come cameriera e come segretaria e, dopo pochi anni, divenne assistente
amministrativa di un esportatore, per nove anni. Si è sposata con Sam Winters, un commerciante di rottami
metallici, e ha avuto tre figli. GERTRUDE Steinberg, la madre di Steffi, svolse vari lavori (manicurista,
infermiera, assistente della cucina ed artista in un’industria di bambole) fino ad ottenere, e a mantenere per 17
anni, un lavoro come capoufficio, grazie ad un impiegato del WRA, Edward Huberman. Suo marito era un
produttore di carta a Berlino è morì durante l’internamento in Italia, quattro anni prima che la moglie e la
figlia arrivassero negli Stati Uniti. Gertrude è mortà nel 1964 all’età di settantadue anni.
STRAUBER
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STRIKS
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SVECENSKI
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TERNBACH
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TUSAK
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TZECHOVAL
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WAKSMAN
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WEISS
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ZABOTIN
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La famiglia Strauber si è trasferita a Brooklyn, dove HERMAN, un ebreo polacco che aveva lavorato nel
settore tessile, aveva un cugino. Morì nel 1962. La figlia, MARION, ebbe la sua prima vera educazione ad
Oswego e ha solo “piacevoli” ricordi. Ha conseguito un M. S. in materia di istruzione al City College ed è
diventata un consulente scolastico ad Ann Arbor, Michigan, dove ha vissuto con il marito, George Siegel,
medico e professore di neurologia presso l’Università del Michigan, e i loro tre figli. Per l’altra figlia, ELFI,
si veda la voce Hendell.
FANNY e sua figlia GERTRUDE si trasferirono a Brooklyn, dove Fanny sposò Harry Saltz. Lavorò nel
settore dell’abbigliamento e come cameriera, per molti anni, alla gastronomia Katz sulla Houston Street.
Dopo aver perso il marito, Fanny andò a vivere a West Palm Beach, in Florida. Gertrude si diplomò, sposò
Michael Ehrlich, un grossista tessile, ed ebbe tre figli.
EUGENE, un internista, e LENKA, un chirurgo maxillofacciale, hanno lavorato in industrie a New York fino
a quando, come il dottor Ruchwarger, ottennero due posti da psichiatri in un istituto di New York. Lui morì
nel 1962; lei visse con la figlia, NEVA Svecenski Gould, una patologa pediatrica presso il Michael Reese
Hospital di Chicago. Anche suo marito era un patologo. Neva e Michael hanno avuto tre figlie. Suo fratello,
IVAN Strong, è stato un avvocato a New York attivo nel Partito Democratico. ERNST, il fratello di Eugene,
un ex imprenditore jugoslavo, lavorò in una fabbrica fino alla sua morte nei primi anni Cinquanta. La sorella,
YOLANDA Schlesinger, morì a New York nel 1964.
La famiglia si trasferì a New York, dove MATILDE lavorò brevemente come infermiera in una casa di cura
prima di diventare finitrice di pellicce. Una volta in pensione, visse a Beverly Hills, in Florida. LEA fece la
casalinga a New Rochelle, New York. RUDY, nato nel campo, completò il dottorato in psicologia alla Boston
University. Originariamente interessato alle ricerche in neuropsicologia, ha poi lavorato come psicologo
comportamentale per i disabili, alla Belchertown State School vicino ad Amherst. Influenzato dal lavoro di
Anna Freud con i bambini sopravvissuti ai campi di concentramento, ha deciso di lavorare con le persone che
ne hanno più bisogno.
I Tusak si trasferirono a Dallas, dove MAKSO, un macchinista in Jugoslavia, trovò lavoro nel campo
dell’aviazione. Morì di cancro nel 1966. Sua moglie, GIZELA (Gisela), un insegnante, lavorò inizialmente
come operatrice di bellezza e poi trovò lavoro in un ufficio per 25 anni. Da allora visse in Florida, in
California, nell’Indiana, per essere vivcina alla figlia Edna. EDNA Tusak LOEHMAN ha conseguito un
dottorato di ricerca in economia, ha insegnato presso l’Università della Florida, è stata economista per le SRI
Industries a Palo Alto e poi ha insegnato economia ambientale presso la Purdue University. È stata in Israele
per sviluppare progetti di condivisione dell’acqua tra israeliani e palestinesi.
Di origine rumena, MOSCO fu una figura religiosa di riferimento nel campo. Era stato professore di teologia
ed etica e direttore di un seminario yeshiva e talmudico ad Anversa, in Belgio. La moglie, MINDLA, di
origine polacca, era stata professore di teologia e di morale al seminario femminile ad Anversa. Si stabilirono
a New York e lui entrò nel commercio di diamanti, non a caso visto che Anversa era stata la capitale
dell’attività ebraica nel commercio dei diamanti dalla fine del XIX secolo. A metà aprile del 1960 i corpi dei
Tzechoval furono trovati in un lago del New Jersey. Le voci attribuirono le loro morti o ad un suicidio o a
ladri di diamanti.
ANDRÉ Waksman nacque in Francia, mosse i primi passi in Italia e mise il primo dentino negli Stati Uniti.
Tornato in Francia per studiare alla Sorbona, sposò una francese. È diventato un regista di documentari a
Parigi. Una figlia lavora per una rivista e un figlio è in una scuola d’arte. Il fratello di André, SAMUEL, nato
otto anni prima in Belgio, ha conseguito un Master come assistente sociale all’Università del Michigan e ha
lavorato per lo stato dell’Ohio come assistente di un direttore di psichiatria forense. I loro genitori, JAKOB e
SUZANNE, entrambi di origine polacca, hanno vissuto in pensione a Miami Beach. Jakob era stato un
produttore di mobili in Belgio e lavorò come falegname a Hoboken, New Jersey, dove Suzanne divenne
commessa in una gioielleria. Suzanne dice di Oswego: “Quarantena... recinzione... come uno zoo... gente
molto bella a Oswego... una gran perdita di tempo... Oswego ci ha ostacolato durante i nostri primi anni, ma
non era come un campo di concentramento”.
TEA Weiss (Thea) si stabilì con i suoi genitori, SANDOR e WILHEMINA, a Youngstown, Ohio, dove
Sandor aveva un fratello. Commerciante di tessuti in Jugoslavia, Sandor lavorò in un impianto di assemblaggi
elettrici finché non trovò un lavoro come contabile. Morì nel 1971, ad ottantaquattro anni. Sua moglie morì
nel 1981. Thea rimase con i suoi genitori a Youngstown per cinque anni e poi raggiunse gli zii da poco
arrivati a New York dal Brasile. Operaia perforatrice ed impiegata, ha sposato Samuel Sanders, un impiegato
postale, ed ha avuto due figli: Arthur, avvocato, e Shelley, un agente pubblicitario.
VLADIMIR Zabotin si trovò in difficoltà con i nazisti in Germania per due motivi: era russo ed aveva una
moglie ebrea. Tornò in Germania, la terra a cui si sentiva culturalmente legato, nel 1954. Astrattista popolare
ad Oswego per i suoi ritratti, alcuni dei suoi lavori furono esposti nei musei tedeschi. Sua moglie,
ADELHEID (Heidi), tecnico di laboratorio e scultrice, che si rifiutò di scolpire a Fort Ontario, ma che lavorò
come paesaggista, morì qualche anno prima a New York per un cancro. Lui morì in Germania nel 1968. Poco
dopo il suo arrivo a Oswego, il filgio sedicenne, KONSTANTIN (Kostia), scoprì che, passando attraverso la
recinzione, poteva andarsi a bere una birra con gli amici, vicino al campo. Ben presto imparò, tuttavia, che
“non era il luogo ideale per vivere”. Vincitore di un concorso letterario dell’American Legion Essay Contest
alla Oswego High School con una pubblicazione dal titolo “La Costituzione degli Stati Uniti vista da un
europeo”, non riusciva a capire perché ci fossero bar separati per i neri e per i bianchi. Kostia ha conseguito
un B. A. al Brooklyn College ed è stato poi responsabile del servizio alla clientela della Air France
all’aeroporto Kennedy. Lui, sua moglie Anita, agente di viaggio, e il figlio Mischa hanno vissuto in un
appartamento a Manhattan decorato da disegni dei suoi genitori, tra cui alcuni ritratti fatti ad Oswego da
Vladimir ed un acquerello di Adelheid di una baracca con gabbiani sullo sfondo. Anche se Vladimir si è detto
felice di essere negli Stati Uniti, non ha dimenticato l’umiliazione che gli è stata inflitta. “Ho sempre risentito
delle restrizioni alla mia libertà negli Stati Uniti. Non riuscivo a capire perché, allo stesso tempo, i
prigionieri di guerra tedeschi avessero più libertà di movimento di noi”.