Untitled - MEMOTEF Sapienza University of Rome

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Commons/Comune: geografie, luoghi, spazi, città è un volume
delle Memorie Geografiche della Società di Studi Geografici
http://www.societastudigeografici.it
ISBN 978-88-908926-2-2
Numero monografico delle Memorie Geografiche della Società di Studi Geografici
(http://www.societastudigeografici.it)
Certificazione scientifica delle Opere
I contributi pubblicati in questo volume sono stati oggetto di un processo di referaggio a cura
del Comitato scientifico e degli organizzatori delle sessioni della Giornata di studio della Società
di Studi Geografici
Hanno contribuito alla realizzazione di questo volume:
Maura Benegiamo, Luisa Carbone, Cristina Capineri, Donata Castagnoli, Filippo Celata,
Antonio Ciaschi, Margherita Ciervo, Davide Cirillo, Raffaella Coletti, Adriana Conti Puorger,
Egidio Dansero, Domenico De Vincenzo, Cesare Di Feliciantonio, Francesco Dini, Daniela
Festa, Roberta Gemmiti, Cary Yungmee Hendrickson, Michela Lazzeroni, Valeria Leoni,
Mirella Loda, Alessandra Marin, Alessia Mariotti, Federico Martellozzo, Andrea Pase,
Alessandra Pini, Giacomo Pettenati, Filippo Randelli, Luca Simone Rizzo, Patrizia Romei,
Venere Stefania Sanna, Lidia Scarpelli, Massimiliano Tabusi, Alessia Toldo, Paola Ulivi
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L’immagine di copertina è tratta dal volume di Emma Davidson Omnia sunt communia, 2015,
p. 9 (shopgirlphilosophy.com)
© 2016 Società di Studi Geografici
Via San Gallo, 10
50129 - Firenze
Aa.Vv. (2016), Commons/Comune, Società di studi geografici. Memorie geografiche NS 14, pp. 573-579
LUIGI SCROFANI, MARIA NICOLETTA ARISCO
I BENI CONFISCATI ALLE MAFIE, BENI COMUNI PER
L’INNOVAZIONE TERRITORIALE E LA FINALITÀ SOCIALE
1. INTRODUZIONE. — Prendendo le mosse dal tentativo di soluzione che la Ostrom vuol dare
alla tragedia dei commons di Hardin (Ostrom, 2009), gli autori presentano il percorso di formazione
dei beni confiscati alle mafie in quanto essi acquistano le caratteristiche di beni comuni soltanto dopo
un procedimento complesso che si conclude con un’assegnazione finalizzata al benessere sociale che
ha carattere fondante dell’attribuzione di beni di natura privata alla categoria dei beni pubblici e poi
alla categoria dei beni comuni. L’assegnazione del bene confiscato acquista valore fondante poiché è
proprio la finalità sociale (Bruni, 2006; Giannone, 2013), definita dall’ente locale e realizzata direttamente o per tramite di un’organizzazione non profit, a far diventare il bene “comune” che, in tal
modo, contribuisce a irrobustire l’identità collettiva. Con altra finalità e senza l’intervento diretto o
indiretto della comunità locale nella gestione del bene questi potrebbe essere incluso nel novero dei
beni pubblici ma non comuni (Vitali, 2010). Insomma, il fenomeno dei beni confiscati, nato principalmente come fattispecie giuridica, si è trasformato in qualcosa di strategico per il territorio in termini di dimensioni e di implicazioni economiche e sociali (David, Ofria, 2014; Trasparency International Italia, 2014). Ovviamente il trasferimento per legge di beni immobili, mobili e di aziende dalle
organizzazioni criminali allo Stato, e quindi alla collettività, comporta non solo ricadute positive ma
anche problematiche di non facile soluzione. Tra queste ultime, le principali problematiche riguardano gli aspetti legislativi e soprattutto le implicazioni in termini di innovazione sociale e di organizzazione territoriale.
2. IL PROCEDIMENTO DI CONFISCA E DI GESTIONE DEI BENI. — Nella lotta alla criminalità organizzata il legislatore italiano ha per primo in Europa compreso che non si deve soltanto contrastare
l’effettuazione dei reati e prevedere la punibilità ma occorre soprattutto colpire i patrimoni illecitamente
accumulati. Si è posta quindi la massima attenzione sull’esautorazione del criminale dal possesso e dalla
disponibilità del bene. La legge Rognoni-La Torre del 1982 ha così previsto l’introduzione di misure
preventive legate alla proprietà oltre che all’individuo proprio perché la ratio è stata quella di indebolire
le mafie attraverso il sequestro e la confisca dei beni. Soggetta a diverse modifiche, la normativa oggi
prevede la confisca in primo grado. Questa è un provvedimento temporaneo, introdotto per mantenere
fermo il sequestro e poter avviare con maggiore sicurezza il procedimento di confisca, che dovrà essere
confermata dal giudice di secondo grado. La confisca definitiva è l’ultimo elemento del processo giudiziario, determinato dopo aver eventualmente esperito tutti i gradi di giudizio (Corte d’appello e Corte di
cassazione). Solo dopo la confisca definitiva il bene è devoluto allo Stato. L’Italia ha un regime particolare di confisca dei beni in quanto contiene un sistema misto. Da un lato esiste infatti un regime generale
di confisca penale, dall’altro è prevista anche una disciplina speciale per le organizzazioni criminali che
opera attraverso un procedimento cautelare separato da quello penale ed è indipendente dalla condanna
penale della persona i cui beni sono sequestrati o confiscati dallo Stato. Esistono tre diverse categorie di
beni confiscati ognuna con una precisa disciplina:
– beni mobili: denaro contante e assegni, liquidità e titoli, crediti personali (cambiali, libretti al
portatore, altre obbligazioni), autoveicoli, natanti e beni mobili non facenti parte di patrimoni
aziendali. Di norma, le somme di denaro confiscate o quelle ricavate dalla vendita di altri beni
mobili sono finalizzate alla gestione attiva di altri beni confiscati. Alcune tipologie di beni mobili
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(ad esempio, le automobili) possono restare nella disponibilità degli organi che gestiscono l’ordine pubblico;
– beni immobili: appartamenti, ville, terreni edificabili o agricoli;
– beni aziendali: fonti principali di riciclaggio del denaro proveniente da affari illeciti.
Un’altra norma che ha segnato un’ulteriore innovazione della disciplina sui beni confiscati riguarda la loro gestione. A seguito di una forte spinta dell’opinione pubblica, sostenuta e promossa
dall’associazione Libera, è stata introdotta nell’ordinamento italiano la Legge n. 109 del 7 marzo 1996,
che regola il riutilizzo dei beni confiscati per fini sociali per contrastare le attività della criminalità organizzata e diffondere la cultura della legalità (Libera, 1998). Più recentemente la Legge n. 50/2010 ha
istituito la Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati
alla criminalità organizzata (ANBSC) che opera in collaborazione con l’autorità giudiziaria. All’Agenzia
sono stati attribuiti diversi compiti tra cui quelli fondamentali sulla gestione del bene confiscato. La
gestione vera e propria comincia con la confisca di primo grado, quando il bene è assegnato all’ANBSC
che, dopo che la confisca diventa definitiva e lo Stato diventa proprietario, continua a gestirlo.
L’ANBSC può decidere di mantenere il bene per finalità istituzionali (pubblica sicurezza, giustizia,
protezione civile e ambientale) oppure implementare il trasferimento al patrimonio indisponibile di
un ente territoriale (Comune, Provincia o Regione). Gli enti locali possono decidere di amministrare
direttamente il bene immobile o di assegnarlo, attraverso comodato d’uso gratuito, ad associazioni e
cooperative, che si assumeranno il compito di riutilizzarlo a fini sociali. L’assegnazione dei beni differisce in linea generale a seconda della loro natura ma può essere effettuata tramite azioni diverse: trasferimento di denaro allo Stato; cessione di aziende. Quest’ultima può avvenire a titolo gratuito a cooperative sociali (come nel caso dell’Ericina Calcestruzzi) oppure a titolo oneroso a imprese pubbliche
o private. La legge prevede la vendita dei beni immobili e di aziende solo in via residuale, attribuendo
quindi priorità alle finalità istituzionali e sociali.
3. VECCHIE E NUOVE FUNZIONI DEI BENI CONFISCATI ALLE MAFIE. — Il significato del fenomeno dei beni confiscati è sensibilmente cambiato nel tempo. A tal proposito basti leggere qualche
dato per acquisire la consapevolezza che essi non sono più un fenomeno relegato alla sola sfera giuridica e al controllo della legalità in ampie zone del Paese (la Sicilia è in testa per numero di beni confiscati, seguita da Campania, Calabria e Lazio: secondo il sito web dell’ANBSC). Tra i comuni che ospitano il maggior numero di beni immobili confiscati spiccano Palermo, Reggio di Calabria, Milano,
Motta S. Anastasia (Catania) e Roma. Il Comune di Palermo detiene anche il primato delle aziende
confiscate, seguito da Milano, Napoli, Roma e Catania, che rappresentano un tessuto economico altrettanto fertile per gli investimenti imprenditoriali delle mafie (dati tratti dal sito www.confiscati
bene.it). Questi beni sono diventati un fenomeno sociale prima ancora che economico. Entrambi questi aspetti si dispiegano tuttavia in un ambito territoriale che diventa riferimento e quadro entro il
quale si deve collocare il significato e quindi il ruolo dei beni confiscati se non si vuole correre il rischio di sottovalutare un fenomeno che ha ampie ricadute sull’economia e sulla società, coinvolgendo
dapprima la dimensione locale e poi quella nazionale. Dai dati pubblicati dall’ANBSC e da diversi siti
specializzati si coglie innanzitutto che il fenomeno dei beni confiscati coinvolge tutte le regioni italiane
anche se principalmente quelle meridionali. Anzi, procedure di confisca dei beni delle mafie sono
state anche avviate all’estero in quanto le attività criminali e i conseguenti patrimoni accumulati non
conoscono confini e la stessa globalizzazione ha favorito la loro espansione al di fuori dei confini nazionali di origine.
Tralasciando i beni mobili appare essenziale approfondire la confisca dei beni immobili e delle
aziende per le funzioni che essi hanno svolto e potranno svolgere nel territorio. Per quanto riguarda
le aziende, esse hanno assolto principalmente la funzione di riciclare il denaro proveniente da attività
illecite. Dall’entrata in vigore della legge Rognoni-La Torre e fino alla fine del 2012 sono state conteggiate 1708 aziende confiscate definitivamente (Coppola, Ramoni, 2013). I sequestri e le confische
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hanno coperto una vasta gamma di settori di investimento: soprattutto commercio, ma anche industrie
attive nel settore edilizio, agroalimentare (come l’immenso allevamento bufalino con annesso caseificio sequestrato e confiscato alla camorra nella zona di Castel Volturno), ristoranti e pizzerie e noti locali della vita notturna, come lo storico Café de Paris punto nevralgico della Dolce vita romana.
La scelta di chiudere o mantenere in vita un’azienda confiscata alla criminalità organizzata implica, certamente, l’assunzione di grandi responsabilità etiche, sociali ed economiche verso i dipendenti, i creditori, i fornitori e, più in generale, verso l’opinione pubblica nel suo complesso. L’azienda
prima della confisca operava in un sistema di illegalità: lavoro in nero, evasione fiscale, fornitori vessati. Dopo la confisca questo sistema non è più sostenibile e l’impresa diventa meno competitiva (costo della legalità) (La Spina, 2008; Vite, 2014), oltre al fatto che accedere al credito bancario diventa
più difficile (Donato et al., 2013) tuttavia non bisogna assolutamente trascurare l’impatto positivo che
un’eventuale decisione improntata sulla continuità, sul recupero e rilancio aziendale produrrebbe per
i dipendenti, dal punto di vista del mantenimento del posto di lavoro, ma anche per gli altri operatori
economici e per il sistema locale nel suo complesso, in termini di maggiore ricchezza per il territorio.
Ma, allo stesso tempo, vanno attentamente valutati i costi correlati al mantenimento in vita di
un’azienda possibilmente prossima al fallimento. Altri elementi da considerare con estrema attenzione
sono rappresentati dalla qualità e dalle competenze, nonché dal numero, costo e anzianità delle persone che lavorano presso l’azienda in questione. Deve essere attentamente valutato, inoltre, se l’azienda riduca le opportunità competitive di diversi attori che operano sullo stesso mercato. Diversa sarebbe la determinazione nell’ipotesi in cui esista una forte interdipendenza tra l’azienda stessa e il tessuto produttivo-commerciale del territorio circostante, tale che la sua uscita dal mercato genererebbe
inevitabilmente un’intera penalizzazione per il sistema socio-economico nel suo complesso. Insomma,
il recupero di un’azienda confiscata alla criminalità organizzata risulta essere estremamente difficoltoso per via delle numerose problematiche connesse alla necessaria legalizzazione dell’impresa, tant’è
che, nella maggior parte dei casi, si è purtroppo assistito alla loro chiusura e uscita dal mercato (Caramazza, 2014). La regolarizzazione di tutti i rapporti economici e di lavoro, la scarsa capacità professionale dell’amministratore giudiziario, nonché l’assenza di un adeguato e serio supporto da parte
Fig. 1 – Beni immobili (a sinistra) e aziende (a destra) confiscati al 30 marzo 2015.
Fonte: ANBSC.
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delle istituzioni e dei soggetti economici interessati, implicano il rapido deperimento e deterioramento
del complesso aziendale, fino a portarlo alla sua liquidazione. La società Calcestruzzi Ericina, avente
sede a Trapani e confiscata definitivamente al mafioso Vincenzo Virga nel giugno del 2000, e la società Gli Ulivi, sequestrata nel 1995 e successivamente confiscata nel 2001 al catanese Aiello Placido
Filippo, costituiscono due rari casi di recupero e riutilizzo dei beni aziendali sottratti alla criminalità
organizzata. Essi rappresentano un esempio paradigmatico di come il clima di fiducia, il grande senso
di responsabilità, il forte impegno dei lavoratori, nonché la sinergia e la cooperazione tra i diversi attori territoriali ed extra-territoriali, nel primo caso, e la presenza di bravi e infaticabili amministratori
in grado di interpretare un ruolo autenticamente manageriale e di saper individuare immediatamente
le condizioni per il recupero e il rilancio, nel secondo caso, possano permettere non soltanto di tenere
in vita l’azienda, evitandone il fallimento e l’estromissione dal mercato, ma anche di attivare un circuito virtuoso di risanamento e innovazione che consenta il mantenimento dei livelli occupazionali
esistenti, nonché la valorizzazione e la diffusione di ricchezza economica e di benessere sociale nel
contesto locale di riferimento.
I beni immobili confiscati costituiscono un’entità assai più consistente delle aziende confiscate
(nella Regione siciliana di circa quattro volte). Oltre al valore economico, i beni immobili hanno un
alto valore simbolico, perché rappresentano in modo concreto il potere che il boss può esercitare sul
territorio che lo circonda. A titolo di esempio si ricordano che: a Castellammare di Stabia (Napoli) in
via Brin il corteo con la statua del santo patrono Catello si è fermato per un omaggio davanti alla casa
del boss Raffone (video su Youtube del 9 gennaio 2012); a Oppido Mamertina (Reggio Calabria) la
tradizionale processione della Madonna delle Grazie è passata per un omaggio sotto la casa del boss
ottantaduenne Giuseppe Mazzagatti (Il Fatto Quotidiano, 6 luglio 2014); a Ballarò, quartiere palermitano, il corteo che trasportava la madonna del Carmine ha sostato per cinque minuti davanti all’agenzia di pompe funebri del boss Alessandro D’Ambrogio (La Repubblica, 27 luglio 2014); a Paternò (Catania), durante la processione di Santa Barbara due catafalchi dorati vengono fatti dondolare dai devoti davanti alla casa del figlio del capomafia Salvatore Assinnata, mentre la banda intona la musica
del Padrino (La Repubblica, 4 dicembre 2015). Estromettere quindi le mafie dalla gestione di questi
beni per affidarli allo Stato o a organizzazioni che li gestiscano per fini sociali comporta il disconoscimento di un significato simbolico per sostituirlo con altro che implica un processo di mutamento della
stessa identità territoriale. Lo Stato può decidere di utilizzarli per finalità di giustizia, di ordine pubblico e di protezione civile ovvero trasferirli al patrimonio del Comune, della Provincia o della Regione nel quale sono ubicati. L’ente locale potrà poi amministrarli direttamente o assegnarli a titolo
gratuito ad associazioni, comunità e organizzazioni di volontariato. Un caso particolare è rappresentato da quegli spazi confiscati per il reato di agevolazione dell’uso di sostanze stupefacenti perché sovente il bene è stato assegnato ad associazioni e centri di recupero per persone tossicodipendenti. La
gestione dei beni immobili può però dare adito a diverse problematiche relative all’accesso al credito
delle organizzazioni che li possono avere in gestione: la legge, infatti, le definisce solo come affidatarie
del bene, tramite comodati d’uso gratuito o oneroso, e per gli istituti bancari tale referenza non costituisce garanzia economica per la concessione di prestiti o per l’accesso a mutui. D’altra parte l’esistenza di ipoteche o gravami ne rendono difficile, se non impossibile, il riutilizzo. Infine, soprattutto
nella categoria dei beni immobili, sono frequenti i casi di occupazioni a vario titolo di familiari o soggetti per i quali deve essere emesso lo sfratto, o addirittura può accadere che i fabbricati risultino costruiti abusivamente senza che vi sia stato un condono edilizio.
4. LA GESTIONE DEI BENI E L’INNOVAZIONE TERRITORIALE, ALCUNE CONSIDERAZIONI. — Per
molte regioni meridionali i beni confiscati possono diventare uno dei motori per avviare un reale processo di innovazione e di coesione territoriale in grado di incidere sui meccanismi identitari dei luoghi
e delle comunità locali, tenendo, tuttavia, in considerazione le implicazioni che la gestione dei beni
confiscati assume a seconda della natura del bene. La procedura per la gestione delle aziende è di-
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versa, in quanto possono essere affittate, vendute o liquidate: l’affitto è ammesso quando esiste una
concreta possibilità che l’attività possa continuare o ripartire. In tal caso può essere affittata a pagamento a enti pubblici o privati, o gratuitamente a cooperative di lavoratori. La vendita, più rara, o la
liquidazione avvengono se possono portare un beneficio maggiore per l’interesse pubblico. La liquidazione o il fallimento decretano l’insuccesso dell’attività di legalità dello Stato. Al contrario la sua
sopravvivenza contribuisce al consolidamento del capitale sociale locale. Tuttavia non mancano le voci
dissenzienti che sostengono, con qualche ragione, che i costi che sostiene l’operatore pubblico per il
mantenimento di piccole e piccolissime imprese siano insostenibili e pertanto sarebbe più opportuno
porle in liquidazione (Mannisi, 2015). Recenti progetti di riforma del settore propongono l’istituzione
di un fondo di rotazione per rendere a queste aziende più facile l’accesso al credito, in quanto sovente
non riescono ad accedere ai normali canali di finanziamento. Tutte queste azioni configurano una
strategia, ancorché frammentaria, volta a innovare l’organizzazione territoriale e la comunità locale.
Una strategia che deve potersi avvalere, tra l’altro, di adeguate competenze tecnico-gestionali e progettuali, nonché di una non indifferente capacità di creare coalizioni e coordinamento tra i diversi
stakeholders. Una strategia in cui l’imprenditorialità sociale potrebbe concretamente assumere un
ruolo strumentale determinante, rappresentando questo il terreno certamente più propizio per il ricorso all’impresa sociale (Baldascino, Mosca, 2012; Libera, 2014b). E, in effetti, una corretta strategia
di contrasto alla criminalità organizzata dovrebbe necessariamente contribuire non solo a privarla
delle risorse illecitamente acquisite, che le consentono di esercitare un forte potere di controllo e domino sul territorio di riferimento, ma, soprattutto, dovrebbe permettere di indebolire e distruggere il
capitale sociale mafioso, inteso come quell’intensa rete di relazioni che consente alle associazioni criminali di assoggettare e dialogare proficuamente con il contesto economico e sociale in cui agiscono,
traendo ulteriore vantaggio dalla posizione di intrinseca forza e assumendo la falsa veste di un comune
operatore di mercato (Sciarrone, 2009; 2011). Pertanto, i percorsi di imprenditorialità sociale sui beni
confiscati, grazie ai quali viene, ad esempio, offerta ai giovani la possibilità di lavorare in cooperative
sociali e di intraprendere processi di inclusione collettiva dei soggetti svantaggiati, fungono indubbiamente da buone pratiche che andrebbero riprodotte più frequentemente ed efficacemente, non solo
per l’elevato valore simbolico di simili esperienze ma, anche e soprattutto, in quanto tramite le stesse è
possibile rigenerare quel capitale sociale del quale le mafie si sono illecitamente impadronite (Dalla
Chiesa, 2014). E in effetti, l’impresa sociale costituisce, per la sua struttura giuridica ed economica
particolarmente flessibile, una soluzione certamente percorribile in quest’ottica, presentando una
quasi fisiologica predisposizione nel campo della riallocazione dei beni confiscati, soprattutto quelli
aziendali il cui uso appare sempre più problematico, nonché nell’ambito della creazione di capitale
sociale in grado di apportare una forte remunerazione, in termini relazionali, a vantaggio dell’intera
collettività (Lo Bue et al., 2015).
La gestione dei beni immobili appare più interessante per la loro afferenza alla categoria dei beni
comuni (la finalità sociale per l’afferenza alla categoria dei beni comuni è specificatamente prevista:
cfr. Mattei et al., 2010). Le norme che prevedono l’uso sociale dei beni confiscati alle mafie implicano
la restituzione di questi beni, attraverso l’assegnazione a cooperative e associazioni, alla comunità locale che ha subito le conseguenze di comportamenti illeciti. Questo riutilizzo a scopi collettivi sociali
ha il doppio obiettivo di indebolire le organizzazioni criminali e di riaffermare il principio di legalità
in contesti in cui le organizzazioni mafiose hanno costruito radici. Si è già scritto che i beni immobili
possono rimanere nella disponibilità dello Stato oppure delle amministrazioni locali (Comuni, Province, Regioni) che gestiscono direttamente il bene o lo assegnano gratuitamente a gruppi giovanili,
organizzazioni volontaristiche, cooperative, centri terapeutici e riabilitativi per tossicodipendenti, associazioni per la protezione ambientale.
A tal proposito giunge utile riportare una ricerca di Libera del 2014 sulle buone prassi di utilizzo
dei beni confiscati: sono 448 le realtà sociali che gestiscono beni confiscati alle mafie, di cui 139 nel
Nord, 36 nel Centro e 273 nel Sud e nelle Isole. La regione con il maggior numero di esperienze posi-
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tive è la Sicilia, seguita dalla Lombardia, mentre terza è la Campania. Nel dettaglio, il 58% del totale
dei destinatari sono rappresentati dalle associazioni, il 27% dalle cooperative, la restante parte riguarda fondazioni e comunità. Per ciò che concerne le attività svolte e quindi l’impatto sociale del
riuso dei beni confiscati, le organizzazioni assegnatarie si occupano spesso di interventi integrati (circa
il 33%), di reinserimento lavorativo (16%), di minori (16%) e di diversamente abili (14%) ma operano anche in attività formative (8%) e con soggetti con dipendenze, anziani, migranti, donne vittime
di violenza (Libera, 2014a). Dall’esperienza possiamo così riassumere quali siano stati i soggetti coinvolti: innanzitutto i Comuni; i consorzi di Comuni (ad esempio, i consorzi legalità e sviluppo a Agrigento, Trapani, Palermo, etc.); le imprese sociali (cooperative soprattutto); le fondazioni (ad esempio,
Tertio Millennio, Con il Sud, Telecom, Vodafone, Enel, Unipolis, Unicredit, BNL) e le associazioni.
Questi soggetti costituiscono gli attori di un’azione voluta da almeno una parte della comunità, rappresentativa di interessi soprattutto sociali. Come dimostra il recente caso di Palermo (Patanè, 2015),
il Comune può direttamente farsi carico del bene e destinarlo a soddisfare le esigenze abitative di famiglie meno abbienti arricchendo ulteriormente la cultura antimafia e identitaria della comunità locale. Altre volte, accade invece che quando la gestione di un bene immobile è affidata ad un ente locale è probabile che questo non sappia cosa farsene o preferisca non gestirlo perché lo percepisce
come un costo piuttosto che un vantaggio.
La variegata casistica sull’uso sociale del bene confiscato non indebolisce la sua possibile afferenza all’insieme dei beni comuni, anzi rafforza il convincimento che a tal fine sia fondamentale il
ruolo svolto dalla comunità mediante, soprattutto, le organizzazioni sociali che ne rappresentano una
parte vitale. Soltanto in tale modo il bene acquista la doppia caratteristica che può essere consumato
contemporaneamente da più persone (non escludibilità) e che il consumo dell’uno non riduca il consumo dell’altro (non rivalità). In tale prospettiva anche le aziende potrebbero divenire beni comuni
qualora si affermasse la pratica di assegnarle a imprese sociali, pratica che l’attuale normativa riconosce soltanto alle cooperative sociali. La valorizzazione dei beni (mobili, immobili e aziendali) confiscati
alle mafie e diffusi sul territorio nazionale, che rientra certamente negli ambiti di azione promossi
dalle politiche di coesione nazionale ed europea (si vedano i PON Legalità e Sicurezza che hanno
permesso di sostenere diverse iniziative relative ai beni confiscati: cfr. Transcrime, Università Cattolica, 2013), sembra la più attuale e realmente applicabile strategia di cambiamento dei territori meridionali, grazie alla quale si può far leva sui vantaggi comparati e sulle peculiarità di ciascun territorio
per innescare e/o consolidare traiettorie di sviluppo autonome e sostenibili.
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RIASSUNTO: In questo contributo si sviluppa una riflessione sul tema dei beni confiscati alla criminalità organizzata,
un fenomeno che, nato principalmente come fattispecie giuridica, si è trasformato in qualcosa di strategico per il territorio in
termini di dimensioni e di implicazioni economiche e sociali. Gli autori dimostrano come dei beni privati possano diventare
beni comuni, attraverso un’azione collettiva esercitata da una comunità locale che sfrutta il procedimento di confisca per attribuirgli finalità sociali. Questi beni non sono dotati ab initio delle caratteristiche dei beni comuni, vale a dire della non
escludibilità e della non rivalità, ma possono acquisirle dopo. Per molte Regioni meridionali i beni confiscati possono diventare uno dei motori per avviare un reale processo di innovazione e di coesione territoriale in grado di incidere sui meccanismi
identitari dei luoghi e delle comunità locali.
SUMMARY: This paper develops a reflection on the theme of assets confiscated from organized crime. This phenomenon
can become something strategic for the territory in terms of size and socio-economic implications. The authors argue how private goods can become common goods through collective action exercised by a local community to give social purposes to
goods. These goods do not have got the characteristics of the commons ab initio, but they can become non rivalrous and nonexcludable later. For many Southern Regions, confiscated assets can become one of the engines to start a real process of
innovation and territorial cohesion able to influence the mechanisms of identity of places and local communities.
Parole chiave: capitale sociale, giustizia, sviluppo economico, funzioni economiche, comunità
Keywords: social capital, justice, economic development, economic functions, community
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