Idrosfera: FAQ
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Idrosfera: FAQ
1) Vorrei sapere qualche cosa di più sulla desertificazione La desertificazione è il processo di degradazione del suolo causato da numerosi fattori, tra cui le variazione climatiche, la riduzione della quantità d’acqua disponiblile e le varie attività umane. Questo fenomeno ha spesso origine dallo sfruttamento intensivo della popolazione che si stabilisce in un determinato territorio per coltivarlo oppure per necessità industriali e di utilizzo per i pascoli. 2) Quali sono le cause della desertificazione? Le cause che maggiormente contribuiscono al processo di desertificazione sono molte e complesse e comprendono, oltre alle varie attività di deforestazione, cioè l’eccessivo utilizzo del terreno per il pascolo, errate pratiche di irrigazione e, più genericamente pratiche di uso del suolo non sostenibili, oltre ai vari problemi legati all’acqua (scarsità in determinati territori o mancanza quasi totale, distribuzione non uniforme, condizioni climatiche che influiscono sullo stato fisico di essa....). 3) Quali sono le aree della Terra a maggiore rischio desertificazione? Questa è la mappa che illustra nel nostro pianeta il rischio di desertificazione La desertificazione interessa in modo particolare le zone dell'Africa confinanti con il Sahara che si espande e con i deserti in Arabia e della zona mediorientale. Altre zone a rischio di desertificazione sono: la parte occidentale dell'America del Nord e di quella del Sud. Anche il deserto australiano è in notevole espansione. In Italia, le regioni maggiormente a rischio sono Sicilia, Sardegna, Puglia, Calabria e buona parte della Basilicata. 4) E’ vero che l’acqua marina non ha la stessa concentrazione di sali dappertutto? L’acqua salata ricopre il 70% della Terra, e costituisce il 97% delle acque. E’ l’acqua che costituisce mari e oceani, nella quale sono disciolti sali e altre sostanze, come i due gas ossigeno e anidride carbonica. La concentrazione del sale dipende dai fiumi che sfociano nelle acque e dall’intensità dell’evaporazione, poichè solo l’acqua evapora e i sali rimangono sul fondo. Inoltre, più fiumi affluiscono nel mare più l’acqua viene mischiata, disperdendo i sali. Il sale presente in queste acque è il cloruro di sodio, ovvero il comune sale da cucina; oltre ai sali si trovano anche alcune sostanze (come nitrati e fosfati) e due gas: ossigeno e anidride carbonica, che permettono la vita agli esseri viventi e alla fotosintesi delle piante marine. A causa dei sali disciolti l’acqua salata ha una densità maggiore (circa 1,03 kg/dm3) rispetto all'acqua dolce e per questo gli oggetti immersi in essa, ricevendo una spinta idrostatica maggiore, galleggiano meglio. 5) Ma visto che l’acqua dolce è così scarsa non si potrebbe recuperarla dissalando l’acqua di mare? La dissalazione è il processo che consente di rimuovere del sale dalle acque marine, con lo scopo di ottenere un’acqua con un minore contenuto di sale, per poi utilizzarla nell’alimentazione o comunque come acqua dolce. L’apparecchiatura usata è il dissalatore, in grado di “distillare” l’acqua. Esistono tre metodi diversi per rimuovere il sale, il più semplice è quello evaporativo. In questo caso, il sale viene rimosso tramite l’evaporazione, che viene poi recuperata con la condensazione, ottendendo un livello di sale più basso, che viene poi recuperato in forma cristallina, dopo l’evaporazione totale dell’acqua. In genere il tipo evaporativo viene utilizzato per grandi produzioni di acqua dissalata. Impianto di dissalazione negli Emirati Arabi I dissalatori necessitano di una fonte di calore e funzionano a temperature alte (tra i 40 e i 200°C) ed hanno, quindi, il bisogno di essere costruiti con materiali speciali, (come, ad esempio, le leghe di titanio) resistenti alle alte temperature e alla corrosione causata dal sale. Per il momento la dissalazione è ancora un processo troppo costoso con gravi impatti sull’ambiente e quindi non praticabile su larga scala. 6) Qual è stato il disastro ambientale più devastante per l’idrosfera in tempi recenti? Sicuramente il disastro petrolifero del Golfo del Messico. Era il 20 aprile 2010 e la trivella della Deepwater Horizon (la stazione petrolifera offshore) stava completando il Pozzo Macondo (pozzo di profondità superiore ai 1500 m). Un'esplosione sulla piattaforma ha innescato un violentissimo incendio; 11 persone sono morte all'istante, incenerite dalle fiamme, mentre 17 lavoratori sono rimasti feriti. In seguito all'incendio la flotta della BP (British Petroleum una società che si occupa di petrolio) ha tentato invano di spegnere le fiamme, oltre a recuperare i superstiti. I giorni successivi all'esplosione della piattaforma le auorità tendevano ad escludere un'emergenza ambientale significativa. Due giorni dopo la piattaforma Deepwater Horizon si è rovesciata, affondando e depositandosi sul fondale profondo 400 metri. Le valvole di sicurezza presenti all'imboccatura del pozzo sul fondale marino non hanno funzionato bene e il petrolio greggio, spinto dalla pressione del giacimento petrolifero ha iniziato a uscire senza controllo. Immagine da satellite della NASA (1 maggio) Lo sversamento in mare del petrolio. Il 7 maggio 2010 la BP ha poi tentato di arginare la falla, utilizzando una cupola di cemento e acciaio, ma la perdita non si è arrestata ed il tentativo di ridurre il danno è fallito. Ecco la situazione fotografata da un satellite della NASA 17 maggio che testimonia il fallimento dei vari tentativi. In attesa di trovare una strategia risolutiva la BP ha poi approntato il progetto Lower Marine Riser Package, con la creazione di un imbuto convogliatore e collegato a una nave cisterna in superficie, volto a recuperare almeno in parte il petrolio che fuoriesce senza controllo dal pozzo. Dopo 86 giorni dall'inizio dello sversamento di petrolio, il 15 luglio 2010 la BP dichiarava di essere riuscita a tappare la perdita del greggio. Secondo le stime della BP stessa erano già stati riversati in mare, al 15 luglio, tra i 3 e i 5 milioni di barili di petrolio, ovvero tra i 506 e gli 868 milioni di litri. Dopo 100 giorni dall'inizio delle perdite e a due settimane dal nuovo tappo che chiude il pozzo in attesa di una soluzione definitiva presumibilmente grazie alla tempesta tropicale che si è abbattuta sulla zona per più giorni, la macchia di petrolio che prima galleggiava sull'acqua è praticamente scomparsa. Rimane visibile solo il catrame spiaggiato sulle coste. Quanto manca - a eccezione di quanto aspirato nelle operazioni di pulizia (circa 800.000 barili - corrispondenti a 127 milioni di litri) o date alle fiamme in incendi controllati - si presume sia in parte evaporato, in parte dissolto (sono stati impiegati 7 milioni di litri di solventi rovesciati sulla macchia nera nelle prime settimane dell'emergenza), in parte digerito dai batteri; ma si ipotizza che la maggior parte sia finita sul fondale marino formando laghi di petrolio destinato a solidificarsi. Un terzo delle acque degli stati USA che si affacciano sul Golfo del Messico sono state chiuse, la pesca sta morendo e il turismo registra la chiusura del 20% delle spiagge. Il 3 agosto 2010 inizia l'operazione Static Kill, con la quale la BP si propone di tappare definitivamente il pozzo mediante un'iniezione di fango e cemento attraverso i pozzi sussidiari, così da deviare il greggio in un bacino sicuro posto a 4 km di profondità. Il 19 settembre 2010 viene terminata la cementificazione definitiva del pozzo. 7) Ho sentito parlare dell’isola di plastica, esiste? che cos’è? Si, esiste purtroppo. Sembra incredibile ma è vero! Lo chiamano Pacific Trash Vortex, cioè il vortice di spazzatura dell'Oceano Pacifico. Ha un diametro di circa 2500 chilometri, è profondo 30 metri ed è composto per l'80% da plastica e il resto da altri rifiuti che vengono da ogni posto. E' come se fosse un'immensa isola nell'Oceano Pacifico composta da spazzatura anziché rocce. Questa incredibile e immensa discarica si è formata a partire dagli anni Cinquanta, in seguito all'esistenza della North Pacific Subtropical Gyre, una lenta corrente oceanica che si muove in senso orario a spirale. L'area è una specie di deserto oceanico, dove la vita è ridotta solo a pochi grandi mammiferi o pesci. Per la mancanza di vita questa superficie oceanica non è quasi mai frequentata da pescherecci e molto raramente è attraversata anche da altre imbarcazioni. Ma proprio a causa di quel vortice l'area si è riempita di plastica al punto da essere considerata una vera e propria isola galleggiante. Il materiale poi, talvolta, finisce al di fuori di questo vortice per spiaggiarsi sulle Isole Hawaii o addirittura verso la California. Questa è appunto una fotografia di una spiaggia hawaiana in cui si sono arenati vari detriti. In alcuni casi la quantità di plastica che si arena su tali spiagge è tale che si rende necessario un intervento per ripulirle, perchè si formano strati molto grossi e spessi anche 3 metri. La maggior parte della plastica giunge dai continenti (80%), solo il resto proviene da navi private o commerciali e da navi pescherecce. Nel mondo vengono prodotti circa 100 miliardi di chilogrammi all'anno di plastica, dei quali, grosso modo, il 10% finisce in mare. Il 70% di questa plastica poi, finirà sul fondo degli oceani danneggiando la vita dei fondali. Il resto continua a galleggiare. La maggior parte di questa plastica è poco biodegradabile e finisce per sminuzzarsi in particelle piccolissime che poi finiscono nello stomaco di molti animali marini portandoli alla loro morte. Questa immagine fa impressione. Sono i resti di un uccello (albatros) nel cui stomaco si notano residui indigeriti soprattutto di plastica. Ha fatto letteralmente il giro del mondo Quella che rimane si decomporrà solo tra centinaia di anni, provocando in questo arco di tempo danni alla vita marina.