CONtRIBUtI SCIENtIFICI dI AggIORNAMENtO
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CONtRIBUtI SCIENtIFICI dI AggIORNAMENtO
CONTRIBUTI SCIENTIFICI DI AGGIORNAMENTO • Quale presidio tra il catetere vescicale ed il catetere esterno è più efficace per ridurre le infezioni delle vie urinarie, i costi ed i disagi in un paziente di sesso maschile, allettato e con incontinenza urinaria? Selenia D’Amato INTRODUZIONE Per trattare il seguente argomento si è ritenuto necessario definire anzitutto cos’è l’incontinenza urinaria. L’Agency for Health Care Policy and Research (1996) la definisce come “[...] la perdita involontaria di urina attraverso il meccanismo sfinterico, dimostrabile oggettivamente, in luoghi e/o tempi inappropriati tali da costituire un problema igienico e sociale”. Nelle Unità Operative non è raro trovare persone assistite di sesso maschile cateterizzate a causa dell’incontinenza urinaria e la maggior parte di loro, a causa dell’età avanzata o di determinate patologie, sono costrette a rimanere a letto. Tali persone vengono cateterizzate per un lungo periodo di tempo, maggiore di 30 giorni, andando incontro a complicanze come l’infezione delle vie urinarie (IVU), che rappresenta più di un terzo di tutte le infezioni nosocomiali, pielonefriti, ascessi e prostatiti che sono meno comuni (19). Ulteriori complicanze a cui si potrebbe andare in contro sono i calcoli vescicali, perforazione uretrale e cambiamenti neoplastici (8). Nonostante i cateteri urinari forniscano benefici a volte indispensabili, rimangono il fattore di rischio dominante per le infezioni dell’apparato urinario (11). A tal proposito, nel 2001, è stata pubblicata una linea guida per la prevenzione delle infezioni associate all’assistenza sanitaria, basata su prove d’efficacia (HCAI). Gli autori della suddetta linea guida (13), dichiararono: “[...] cateterizzare un paziente lo dispone nel pericolo significativo di acquisizione dell’infezione dell’apparato urinario [...]”. Nonostante ciò, si valuta siano rimaste milioni le procedure di cateterizzazione urinaria, addirittura è stato stimato che ogni anno si potrebbero evitare circa il 15/25% delle cateterizzazioni, in quanto ritenute deleterie (18). Inoltre alcune delle suddette persone, oltre a lamentare un certo disagio determinato dalla presenza in sede del presidio, va incontro ad infezione delle vie urinarie con conseguente aumento dei giorni di degenza e maggiori costi. Tuttavia, preme ricordare che per molte persone assistite l’uso del catetere urinario rimane essenziale per la loro assistenza. Lo scopo del presente articolo consiste nel mettere a confronto il catetere vescicale ed il catetere esterno, per verificare quale fra i due presidi può apportare una riduzione dell’incidenza delle IVU, dei relativi costi e garantire di conseguenza un’assistenza infermieristica di qualità alla persona assistita. Attraverso l’acronimo P.I.C.O. (Population, Intervention, Comparison, Outcome), è stato formulato il quesito: “Quale presidio tra il catetere vescicale ed il catetere esterno è più efficace per ridurre le IVU, i costi ed i disagi in una persona assistita di sesso maschile, allettata e con incontinenza urinaria?”. Per trovare delle risposte al quesito sopra citato, è stato necessario effettuare una ricerca bibliografica con l’obbiettivo di individuare le migliori prove d’efficacia oggi disponibili che supportassero l’utilizzo di uno o dell’altro presidio. La ricerca ha avuto inizio nei Database bio-medici ed infermieristici (Medline, Cinahl e Cochrane Library), attraverso l’uso dei: •descrittori del Thesaurus1 (MeSHMedical Subject Headings in Medline); •termini in parola libera2 derivanti dal P.I.C.O. (considerando anche le possibili sigle, il singolare/plurale, l’inglese/americano), con l’ausilio degli operatori booleani AND, OR e dell’operatore * per la loro troncatura, che permettono di generare relazioni e di trovare i record che contengono tutti i termini scelti. I relativi risultati sono stati combinati tra loro utilizzando, nuovamente, gli ope- ratori booleani (AND e OR). Per consentire di analizzare solo i documenti rilevanti ai fini della ricerca, sono stati stabiliti i seguenti criteri di inclusione: documenti che trattavano persone assistite di sesso maschile, documenti in lingua italiana, inglese e francese, pubblicazioni comprese tra il 1995 ed il 2007, possibilità di recuperare il fulltext. Il risultato delle ricerche nelle Banche dati, nei siti istituzionali e di interesse infermieristico è il seguente: Banche Dati Articoli trovati Articoli scelti Medline 57 20 Cinahl 35 5 Cochrane Library 5 1 Siti infermieristici consultati Articoli scelti Centro EBN A.O. Sant’Orsola Malpighi di Bologna 1 Joanna Briggs Institute 0 IPASVI Como 0 IPASVI Bologna 0 Associazione europea di Urologia 1 Istituto Superiore di Sanità 1 Centers for Disease Control and Prevention 1 Sono stati, anche, consultati libri di testo, monografie, riviste infermieristiche ed infine utilizzando motori di ricerca generalisti come Google e Yahoo. Il lavoro è proseguito lettura critica del materiale selezionato in quanto ritenuto utile ai fini della ricerca. INFEZIONI DELLE VIE URINARIE ASSOCIATE ALLA CATETERIZZAZIONE L’introduzione di un catetere vescicale è una manovra invasiva che va a compromettere le difese naturali contro le infezioni, interrompendo, quindi, la funzione antibatterica del leucocita (23). L’apparato urinario è solitamente sterile (21), ma si potrebbe incorrere nel rischio che la normale flora batterica che circonda il meato uretrale o l’uretra distale, possa essere introdotta in vescica durante l’inserzione del catetere, anche procedendo con una corretta manovra sterile (9). Oppure, i microorganismi possono giungere 37 N. 1 - Gennaio / Marzo 2009 in vescica migrando lungo lo spazio tra la parete esterna del catetere e la mucosa uretrale (via trans-luminale) o attraverso il lume interno (via intraluminale) dello stesso catetere (19). I cateteri vescicali, quindi, violano le difese naturali dell’organismo, fornendo un condotto per lo sviluppo di Biofilm3 (21). Ouslander et al (1987) sostennero che anche i cateteri esterni concorrono a sviluppare le infezioni delle vie urinarie, ma l’incidenza di quest’ultime è 2,5 volte inferiore rispetto al tasso di IVU nei soggetti portatori di un catetere vescicale. Quanto detto trovò conferma nello studio di Warren (1997), dal quale emerse che all’interno del catetere esterno possa sedimentare dell’urina sviluppando alte concentrazioni di batteri che possono risalire in vescica e dare origine all’IVU. Nonostante ciò, l’autore, suggerì che il catetere esterno debba essere usato, qualora possibile, in sostituzione del catetere vescicale, in quanto dimostrò anche che l’incidenza di IVU è più bassa per il catetere esterno rispetto al catetere vescicale (23). L’affermazione appena citata è stata confermata da un recente Trial Clinico Randomizzato (RCT), in cui è stato anche calcolato il tempo medio che intercorre tra l’applicazione del dispositivo ed il momento in cui si presenta l’infezione del tratto urinario, equivalente a 7 giorni per il catetere vescicale ed 11 giorni per il catetere esterno (17). Si deve però citare un punto a sfavore del catetere esterno, consistente nelle difficoltà riscontrate nell’applicazione a soggetti confusi/non collaboranti, obesi o con micropenia (12). Sironi & Baccin (2006) comunque, affermano che il catetere esterno, nonostante abbia alcuni svantaggi, è una possibilità da considerare prima di decidere di applicare, nell’uomo, un catetere vescicale a permanenza. 38 COSTI E DISAGI GENERATI DALLA CATETERIZZAZIONE Le infezioni ed altri effetti spiacevoli connessi alla cateterizzazione, conducono ai costi aumentati in sanità (15). Da alcuni studi è stato valutato che il 40% di tutte le infezioni ospedaliere sono a carico dell’apparato urinario, dovute all’utilizzo di dispositivi di drenaggio dell’urina (9). L’insorgere di queste infezioni comporta un aumento della degenza ospedaliera di almeno 2 giorni (22), con un conse- guente aumento dei costi che variano in base all’organizzazione amministrativa dell’ospedale (15). Dallo studio condotto dall’università del Michigan è emerso che vi è un aumento giornaliero dei costi di degenza di circa $676 per una persona assistita che ha sviluppato IVU, con un costo totale annuo di circa $1.6 miliardi (5). Per entrare più nello specifico, i costi aggiuntivi affrontati in caso di IVU includono i costi inerenti ad indagini diagnostiche, assistenza da parte degli operatori sanitari, farmaci e presidi utilizzati (22). Un’analisi del consumo delle risorse ha indicato che i costi connessi all’utilizzo del catetere esterno erano 10 volte maggiori rispetto all’utilizzo dei cateteri vescicali, questa differenza è dovuta quasi interamente al tempo impiegato dai professionisti infermieri per la cura del catetere esterno (2). Il presente lavoro, che ha messo a confronto il catetere vescicale con il catetere esterno, ha anche tenuto conto di tutto ciò che riguarda i costi immateriali riguardanti il dolore ed il disagio provato dalle persone assistite. Gammack (2002), analizzando precedenti studi in cui erano stati documentati alcuni casi di dermatite, macerazione e necrosi/strangolamento del pene, fece notare che, anche se meno invasivi dei cateteri vescicali, i cateteri esterni non sono esenti dal procurare dolore ed a suo parere potrebbe essere evitato con un’attenta applicazione e monitorizzazione del dispositivo. Anche Saint si interessò del disagio provato dalle persone portatrici di cateteri vescicali ed esterni, riaffermando un’indagine che aveva effettuato, al Seattle Veterans Affairs Medical Center nel 1999, con lo scopo di sottolineare quale fra i due tipi di catetere arrecasse meno disagi. Da tale studio emerse che il catetere esterno era considerato più comodo e meno doloroso rispetto al catetere vescicale, dato che il fastidio provato dall’inserimento di quest’ultimo arrecava il disagio maggiore (16). Infine, molte persone definirono il catetere esterno come una liberazione dal continuo bruciore avvertito a livello dell’uretra distale, causato dalla lunga permanenza del catetere vescicale in sede (16). Uno studio più recente, che si è interessato alle complicanze del catetere vescicale, ha asserito che una trazione involontaria può determinare un intenso dolore per il trauma a carico del collo della vesci- ca, della prostata o nei casi più gravi per la rottura uretrale (14). Gli autori dello stesso studio, concordi con le affermazioni di Saint & Chenoweth, dichiararono che il catetere esterno, per la diversa ubicazione, riduce il disagio di chi ne è portatore ed evita il dolore determinato dalle complicanze sopra citate (14). CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE Le difficoltà affrontate per effettuare tale lavoro, derivano dal fatto che in letteratura non vi sono molti studi riguardanti il catetere esterno, infatti, alcuni di quelli reperiti riportavano solo in linea generale qualche informazione, problema non riscontrato invece per quanto riguarda il catetere vescicale. Un altro problema è stato determinato dal numero irrisorio di ricerche condotte a livello italiano, quindi sono stati reperiti, quasi esclusivamente, solo articoli in lingua inglese che hanno necessitato di un’attenta traduzione. Dall’analisi della letteratura, si può concludere che il catetere esterno rimane il migliore, rispetto al catetere vescicale, in termini di riduzione delle IVU e del disagio lamentato dalle persone assistite, viceversa per quanto riguarda il contenimento dei costi, in quanto il meno oneroso risulta essere il catetere vescicale. Però, anche se i costi connessi all’utilizzo del catetere esterno sono maggiori rispetto al catetere vescicale, la differenza economica che intercorre tra i due dispositivi si ridimensiona considerando la riduzione dell’incidenza delle IVU e del relativo costo aggiuntivo. Nonostante la letteratura concordi riguardo alle proprietà positive del catetere esterno, da uno studio, effettuato nel Presidio Ospedaliero di Pistoia, è risultato che tra tutte le persone assistite che necessitavano dell’applicazione di un dispositivo di drenaggio delle urine, nell’86,46% dei casi si era ricorso all’utilizzo di un catetere vescicale, mentre solo il 5,21% era portatrice di un catetere esterno (7). Questi risultati fanno riflettere sul fatto che molti infermieri, pur avendo la possibilità di aggiornarsi sulle migliori prove di efficacia riportate in letteratura, continuano a lavorare sfruttando le conoscenze passate. La cateterizzazione vescicale, tuttavia, non deve essere una soluzione di comodo per medici e operatori sanitari nella gestione della persona assistita, ma, rappresentando un serio fattore di rischio per l’insorgere delle infezioni dell’apparato urinario, va evitata quanto possibile, tranne nei casi in cui sia veramente necessaria. A farne le spese di tutto ciò sono proprio le persone assistite che, oltre a non ricevere un’assistenza adeguata alle loro esigenze, vanno incontro ad un maggior disagio, un aumentato rischio di IVU o altre complicanze dolorose. Riguardo alle responsabilità dell’infermiere, la legge n° 42 del 1999 all’articolo 1.1 recita: “la denominazione professione sanitaria ausiliaria è sostituita dalla denominazione Professione Sanitaria”, dando origine alla figura professionale responsabile dell’assistenza generale infermieristica. A tal proposito, il Codice Deontologico (3), nell’articolo n°3.1, sancisce che “l’infermiere aggiorna le proprie conoscenze attraverso la formazione permanente, la riflessione critica sull’esperienza e la ricerca, al fine di migliorare la sua competenza [...] fonda il proprio operato su conoscenze validate ed aggiornate, così da garantire alla persona le cure e l’assistenza più efficaci [...]”. Un ulteriore riferimento lo possiamo riscontrare nel DM n° 739 del 1994 che all’articolo 1, comma 4, specifica che “l’infermiere [...] concorre direttamente all’aggiornamento relativo al proprio profilo professionale e alla ricerca”. BIBLIOGRAFIA 1.Agency for Health Care Policy and Research-AHCPR (1996) Managing acute and chronic urinary incontinence. American Family Physician. 54(5): 1661-1672. 2.Armstrong E.P., Ferguson T.A. (1998) Urinary incontinence: Healthcare resource consumption in veterans affairs medical centers. 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Infectious Disease Clinics of North American. 11(3): 609-622. 39 N. 1 - Gennaio / Marzo 2009 notE 1. Catheterization, Urinary catheterization, Condom catheters, Catheters indwelling, Urinary tract infection, Urinary incontinence, Health care costs, Cost control, Patient satisfaction. 2. External catheter, Urinary tract infection, Discomfort, Indwelling urinary catheter, Urinary incontinence, Cost. 3. Un Biofilm è una colonia di organismi microbici circondata da una sostanza extracellulare composta soprattutto da polisaccaride, tale sostanza si lega alle superfici del catetere non permettendo ai batteri di essere eliminati neanche dalla forza di taglio esercitata dal passaggio dell’urina (16). • “La contenzione dei pazienti nelle strutture sanitarie” Morena Buferli Infermiera - Azienda USL Citta di Bologna Presidio Ospedaliero di Vergato Antonio Gramegna Infermiere - Azienda Ospedaliera S.Orsola-Malpighi Bologna 40 INTRODUZIONE Oggi nonostante le nuove conoscenze mediche in campo senile e psichiatrico e piani assistenziali infermieristici sempre più personalizzati, l’applicazione della contenzione fisica delle persone assistite resta un problema di non facile gestione per gli operatori. Infatti l’uso di questa pratica soprattutto in ambito geriatrico, psichiatrico e, all’interno di strutture residenziali pone spesso quesiti di natura etica e comportamentale che non sempre trovano una facile soluzione. L’utilizzo di mezzi di contenzione, tuttavia, non è limitato a questi soli ambiti; spesso, infatti, il ricorso alla contenzione viene rilevato anche in unità operative ospedaliere di medicina e chirurgia, servizi di pronto soccorso, malattie infettive ecc. In tali settori può esserci una minore considerazione, da parte del personale in- fermieristico, delle sequele cliniche e degli aspetti legali e giuridici correlati all’uso (anche improprio) dei mezzi di contenzione fisica. Nel 1980 il Congresso degli USA, poiché il fenomeno nelle nursing homes aveva raggiunto proporzioni allarmanti, commissionò ad un Istituto di Medicina uno studio sulla qualità dell’assistenza. I risultati della ricerca diedero origine all’Omnibus Budget Reconciliation A c t (OBRA) del 19871. Tale documento contiene importanti provvedimenti, tra i quali quelli relativi alla riduzione della contenzione fisica e farmacologica in assenza di giustificazioni cliniche e di apposita documentazione. In Italia i dati disponibili sull’uso dei mezzi di contenzione non sempre sono attendibili e spesso sono sottostimati anche perché fanno riferimento esclusivamente ai mezzi di contenzione meccanici tralasciando la rilevazione di dati relativi all’uso della contenzione farmacologia. Ma allora quando parliamo di contenzione a cosa ci riferiamo? Molti operatori sanitari a questa domanda restano interdetti e pensano erroneamente che tale pratica venga attuata solo ed esclusivamente attraverso mezzi meccanici. Per contenzione si intende l’uso di forza fisica o di mezzi meccanici o farmacologici limitanti la sfera di libertà di una persona, con particolare riguardo alle sue capacità di movimento, con la finalità di garantire la corretta esecuzione di un trattamento diagnostico o terapeutico o di assicurare l’incolumità dell’assistito o di terze persone. •La contenzione fisica fa riferimento al ricorso della forza fisica e persegue lo scopo di aiutare il paziente a superare una situazione critica. •La contenzione meccanica è quella che si esercita attraverso strumenti, quali: - sponde da letto - cinture - tavolino avvolgente da sedia - braccioli da polsi o caviglie - corpetti è consentita unicamente quando destinata ad apportare una qualche beneficio al paziente. •La contenzione chimica o farma- cologia è legata invece all’uso di farmaci psicoattivi: essa è ammissibile quando abbia natura di intervento sanitario, è invece da evitare quando persegue finalità di controllo in persone di non facile gestione. ASPETTI GIURIDICI DELLA CONTENZIONE Il principale riferimento di legge specifico sulla contenzione rimane l’art. 60 del R.D. n° 615 del 1909: “Nei manicomi debbono essere aboliti o ridotti ai casi assolutamente eccezionali i mezzi di coercizione degli infermi e non possono essere usati se non con l’autorizzazione scritta del direttore o di un medico dell’Istituto. Tale autorizzazione deve indicare la natura del mezzo di coercizione (...)”. Altri riferimenti giuridici di portata più generale, e riguardanti l’insieme dei trattamenti sanitari, sono contenuti nell’articolo 32 della Costituzione, che recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. La contenzione fisica della persona assistita, che si configura come atto coercitivo e quindi in contrasto con la libertà della persona, è ammessa solo nei casi nei quali essa possa configurarsi come provvedimento di vigilanza, di custodia, di prevenzione o di cura, quindi solamente allo scopo di tutelare la vita o la salute della persona a f ronte di una condizione di incapacità di intendere e di volere che renda di fatto inattendibile ogni scelta o manifestazione di volontà del soggetto. Il Codice Penale, infatti, prevede situazioni nelle quali la contenzione è giustificata (art. 51 c.p., ‘Esercizio di un diritto o adempimento di un dovere’; art. 54 c.p., ‘Stato di necessità’) o è dovuta, (art. 589 c.p., ‘Omicidio colposo’; art. 590 c.p., ‘Lesioni personali colpose’; art. 591 c.p., ‘Abbandono di persone minori o incapaci’). Qualora la contenzione fosse ingiustificata perché sostenuta da motivazioni di carattere disciplinare o per sopperire a carenze organizzative o, ancora, per convenienza del personale sanita- rio, si possono configurare i reati di sequestro di persona (art. 605 c.p.), violenza privata (art. 610) e maltrattamenti (art. 572). Qualora, per l’uso dei mezzi di contenzione, si verificassero danni alla persona (lesioni traumatiche, asfissia, patologie funzionali ed organiche...), si potrebbero configurare altre ipotesi di reato, per responsabilità colposa (art. 589 c.p., ‘Omicidio colposo’ e 590 c.p., ‘Lesioni personali colpose’) o per violazione dell’art. 586 c.p. (‘Morte o lesioni come conseguenza di altro delitto’). ASPETTI DEONTOLOGICI ED ETICI DELLA CONTENZIONE Il Nuovo Codice Deontologico degli infermieri (febbraio 2009), all’articolo 30, evidenzia: “L’infermiere si adopera affinché il ricorso alla contenzione sia evento straordinario, sostenuto da prescrizione medica o da documentate valutazioni assistenziali.” Alla luce di quanto sopraesposto è importante che l’ utilizzo di un metodo di contenzione sia sempre correttamente motivato e documentato limitandolo il più possibile nel tempo. L’infermiere è il professionista che può cogliere prima di chiunque altro mediante l’osservazione continua della persona assistita gli eventuali mutamenti clinici e riferendoli al medico può evitare inutili allungamenti di tempo nella contenzione della persona stessa. Presupposti per il controllo della contenzione È importante che all’interno delle strutture sanitarie se il problema è rilevante siano adottate misure atte a garantire una corretta applicazione della contenzione. A tale scopo è auspicabile un’intervento di sensibilizzazione di tutto il personale sanitario compreso l’OSS. E’ importante che l’infermiere responsabile coinvolga, nel pianificare la contenzione, i colleghi ed il medico, facendo in modo che quest’ultimo possa o approvare la contenzione o modificare la terapia farmacologia prescritta. L’intervento formativo deve principalmente mirare a rendere edotto il personale, sui rischi e i problemi di natura tecnica, etici, morali, e giuridici, legati o derivanti dal trattamento stesso. L’utilizzo di protocolli può fornire un aiuto e un indirizzo più preciso al ricorso di tale misure da parte del personale responsabile dell’assistenza. All’interno delle singole realtà operative la presenza di un infermiere esperto nell’uso della contenzione è utile per ridurne la sua applicazione e chiarire eventuali dubbi tra il personale. Una scheda di monitoraggio per ogni paziente può fornire dati sul numero dei pazienti trattati, sulle problematiche e complicanze più frequentemente rilevate, sulla durata dei tempi di contenzione ed altri informazioni utili. La periodica analisi di questi dati permette all’infermiere di quantificare e qualificare le problematiche più frequenti e quindi ripianificare una gestione più corretta nell’applicazione di tale procedura. RESPONSABILITA’ A chi compete la responsabilità? La responsabilità della prescrizione del trattamento è di competenza del medico, l’attuazione e il controllo è compito dell’infermiere che può avvalersi del supporto dell’OSS. Quando utilizzare la contenzione fisica? Come ultima ratio e con l’unico obiettivo di aumentare la sicurezza per il paziente o degli altri assistiti. Quali sono le situazioni che possono trovare un indicazione a tale misura? •pazienti a rischio di caduta dove non sono possibili alternative assitenziali; •pazienti in cui la somministrazione della terapia risulti impossibile ( es paziente affetto da una grave forma di meningite in cui la somministrazione dei farmaci endovenosa risulta impossibile perché il paziente tende a strapparsi il Catetere venoso); •pazienti in stato d’agitazione a rischio di autolesioni; •pazienti con disturbi comportamentali che mettono a repentaglio la propria e l’altrui sicurezza; •pazienti affetti da movimenti inconsulti portatori di CVC, drenaggi, ecc. E importante tenere sempre presente che a tutt’oggi non esistono prove documentate che l’uso della contenzione riduca l’incidenza di cadute o diminuisca il livello d’agitazione del paziente e pertanto i benefici che il trattamento produce non sono universalmente accettati. Come e quali presidi di contenzione adoperare? •Spondine per letto Ne esistono di diversi tipi: possono essere a scatto e già applicate al letto di degenza o essere asportabili da parte del personale. Non vanno mai utilizzate se esiste la possibilità, da parte del paziente, di scavalcarle. •Bracciali di immobilizzazione Sono solitamente in gomma schiuma o in poliuretano e rivestiti in materiali morbidi e traspiranti, come il vello. Possono essere regolati tramite chiusure in velcro e robuste cinghie di fissaggio con fibbie. Possono anche essere utilizzati in situazioni di emergenza nel caso di auto-eterolesionismo. •Fascia per carrozzina È costituita da un cuscinetto imbottito, morbido, comunemente rivestito di materiale traspirante; è dotato d’alcune cinghie d’ancoraggio che ne permettono il fissaggio alla poltrona o alla carrozzina. Per questioni di sicurezza è da evitarne l’uso sulle normali sedie che, data la loro leggerezza, non impediscono alla persona di alzarsi e trascinare con sé la sedia. •Fascia pelvica È costituita da una mutandina in cotone o in materiale sintetico con cinghie di ancoraggio e fibbie di chiusura per applicazione a sedie o carrozzine. La fascia previene anche la postura scorretta, evitandolo scivolamento in avanti del bacino. Le varianti alla fascia pelvica possono essere costituiteda: divaricatore inguinale, fasce anti-scivolamento, corsetto con bretelle, corsetto con cintura pelvica. •Tavolino per carrozzina È di facile applicazione e fissaggio tramite rotaia scorrevole e viti poste sotto i braccioli della carrozzina. Impedisce di sporgersi in avanti e permette l’utilizzo del piano d’appoggio per eventuale attività. •Fasce di sicurezza per il letto Sono solitamente costituite da una fascia imbottita applicata alla vita del paziente e fissata al letto mediante 41 N. 1 - Gennaio / Marzo 2009 cinghie di ancoraggio. Consentono libertà di movimento permettendo la postura laterale e seduta. Quali avvertenze deve avere l’operatore sanitario? •La contenzione non può essere imposta per più di 12ore consecutive salvo che non lo richiedano le condizione del soggetto. •Durante il periodo di contenzione garantire al paziente la possibilità di movimento e di esercizio per non meno di 10 minuti ogni 2 ore con esclusione della notte. Compagnia e sorveglianza: •Fare in modo che il paziente non stia da solo, prestando e conversando più tempo con lui. •Coinvolgere i familiari, volontari o amici, spiegando l’importanza della loro presenza, con particolare riguardo alle ore notturne. Cambiare e/o modificare fastidiosi trattamenti: •Valutare ogni 3-4 ore l’eventuale insorgenza di effetti dannosi direttamente attribuibili alla contenzione, quali abrasioni, ulcere da decubito, edemi agli arti inferiori, ematomi, etc. •Alimentazione per os invece che quell’endovenosa o tramite sng. •Il comfort e la sicurezza del paziente sono entrambi da perseguire durante il periodo di contenzione. •Mettere il paziente vicino alla guardiola. Quali sono i rischi associati all’uso di contenzione fisica? Essi sono principalmente legati ad un utilizzo scorretto e/o prolungato dei mezzi di contenzione si dividono in: •traumi di natura meccanica; •strangolamento; •asfissia da compressione della gabbia toracica; •lesione dei tessuti molli superficiali. Malattie funzionali e organiche: •decondizionamento psicofisico; •incontinenza; •lesioni da decubito; •infezioni; •diminuzione della massa, del tono e della forza; •muscolare; •aumento dell’osteoporosi. Sindromi della sfera psicosociale: •stress; •umiliazione; •depressione. 42 strategie che riducano o annullino il ricorso alla contenzione. Gli aspetti gestionali su cui è possibile agire sono molteplici e riguardano: E’ possibile ridurre l’uso delle misure di contenzione? Premessa importante è che il personale sia adeguato al carico di lavoro ed alla complessità delle patologie trattate all’interno della struttura, diversamente diventa difficile applicare •Rimozione di cateteri e drenaggi. Modifiche ambientali: •Aumentare la luce. •Mettere il materasso per terra. •Non mettere le sponde. •Creare un ambiente tranquillo. si dell’esistenza della prescrizione scritta del medico, a tutela dell’infermiere stesso in considerazione delle responsabilità giuridiche che potrebbero scaturire da tale intervento. BIBLIOGRAFIA Contenzione fisica in ospedale. Infermiere Francesca Marchetti, Sabrina Fontana e Tiziana Turrin Centri studi EBN - Azienda Ospedaliera di Bologna - Policlinico S.Orsola-Malpighi. Linee guida per l’uso della contenzione fisica nell’assistenza infermieristica. Nadia Poli Inf. AFD, Uff. Formazione,Az. Osp. ‘Istituti Ospitalieri’di Cremona Anna M.L. Rossetti IID,Serv. Infermieristico, IRCCS San Raffaele di Milano. Contenzione del paziente in ospedale dr. Gabriella Negrini Azienda USL di Bologna. •Dare vicino il campanello. •Rispondere subito al campanello. •Avere presidi speciali (letti più bassi, poltrone ecc). • L’educazione terapeutica CONCLUSIONI L’infermiere è il responsabile dell’assistenza infermieristica. E’ la persona più qualificata a cercare strategie alternative alla soluzione di un problema sul quale per anni si è fatto ben poco. La contenzione resta un intervento sanitario che può determinare oltre a danni fisici conseguenze psicologiche sul paziente non sempre prevedibili, pertanto esso deve rappresentare un eccezione. Nel rapporto con i familiari può agire attivamente mediante lo strumento della comunicazione e far comprendere che la loro presenza può aiutare gli operatori a evitare o limitare un simile intervento. Il monitoraggio degli interventi di contenzione è uno strumento utile per conoscerne i rischi e i benefici e permette un più efficiente controllo sulla corretta applicazione dell’intervento. Infine nel caso di attuazione del trattamento di contenzione l’infermiere deve documentare e circostanziare l’intervento assicurando- Carla Cortini Secondo anno, Corso di Laurea in Scienze Infermieristiche. Università di Bologna. A.A. 2008/2009 Premessa Gli orientamenti della cultura del nostro tempo tendono a riconoscere a ogni uomo un diritto sempre più ampio ad intervenire direttamente nelle scelte che lo coinvolgono; questo accade anche nel campo della salute. In questo periodo si assiste ad una progressiva trasformazione del ruolo del cittadino utente da soggetto passivo a soggetto attivo e, contemporaneamente, il professionista sanitario sposta il suo ruolo da curante centrato sulla malattia a curante centrato sull’utente. Nel panorama sanitario attuale abbiamo assistito ad un progressivo incremento delle patologie di tipo cronico degenerativo e all’aumento della vita media dei soggetti: si stima che un italiano su tre soffra di almeno una patologia cronica e che uno su cinque sia affetto da almeno due patologie croni- che. Ciò ha portato ad un incremento dei costi sanitari e ad una conseguente riorganizzazione dei servizi sanitari e sociali, soprattutto in ambito territoriale, per poter offrire risposte adeguate ed economicamente sostenibili. Per rispondere a questa esigenza l’intero corpo dei professionisti della salute deve sviluppare maggiormente le competenze educative al fine di tutelare il diritto a decidere e l’effettiva consapevolezza delle decisioni che la persona assume. L’approccio educativo infatti mira a rendere consapevole e responsabile il soggetto nel pieno rispetto della sua libertà di scelta. L’informazione è un aspetto necessario, ma insufficiente, mentre diventa necessaria una presa in carico dell’uomo in modo globale: in situazioni di salute e di malattia, con specifiche caratteristiche psicoemotive ed affettive, con diverse caratteristiche e potenzialità cognitive e nell’ambito di uno specifico contesto culturale e sociale. Le politiche per la salute devono orientarsi sempre più verso il potenziamento delle funzioni di promozione della salute e prevenzione della malattie, nonché della prevenzione delle complicanze derivanti dai processi patologici. La tutela della salute, nel rispetto del diritto all’autodeterminazione, non può prescindere da un investimento nel campo dell’educazione alla salute rivolto al singoli e alla collettività. Nella Carta di Ottawa del 1986 la salute è definita come risorsa e bene prezioso della persona e della società, e come principio regolatore dello sviluppo possibile dei popoli e delle nazioni in una prospettiva di miglioramento della qualità della vita delle persone; centrale è inoltre il concetto di corresponsabilizzazione dei diversi settori della società per segnare il passaggio dal concetto di sanità a quello di salute. Questo concetto è ampliato nel 1998 dall’OMS, Regione Europa, con la stesura del programma Salute 21 – salute per tutti nel 21° secolo dal quale si evince che la promozione di una cultura della salute si realizza con prestazioni sanitarie essenzialmente di tipo educativo ed informativo e che nell’ambito della “educazione alla salute” si possono distinguere specifiche attivita’ di “educazione sanitaria e terapeutica”. Definizione Nell’ambito dell’educazione alla salute una delle risposte appropriate a problemi di salute cronici è l’educazione terapeutica. Essa si colloca nell’ambito della prevenzione secondaria e terziaria ed ha lo scopo di aiutare il paziente e le persone a lui significative a: comprendere la malattia ed il suo trattamento, cooperare con il personale sanitario nella cura della malattia, adottare uno stile di vita più sano, mantenere e migliorare la qualità di vita. Documentazioni scientifiche dimostrano che l’educazione terapeutica da una parte, migliora il livello di salute del paziente, preservandone in molti casi la qualità di vita, dall’altra contribuisce a rallentare la comparsa delle complicanze riducendo i costi in termini di risorse umane e materiali. L’educazione terapeutica rappresenta quindi una strategia per contenere i costi, migliorare la qualità della vita dei soggetti affetti da patologie acute ed in particolare croniche, rispettare il diritto del soggetto di decidere e agire in autonomia. Nel 1998 l’OMS ha fornito una definizione che ne esplicita l’essenza e gli scopi, “l’educazione terapeutica del paziente consiste nell’aiutare il paziente ad acquisire e mantenere le competenze che gli permettono una gestione ottimale della sua vita con la malattia. Si tratta, di conseguenza, di un processo permanente, integrato alle cure e centrato sul paziente. L’educazione implica attività organizzate di sensibilizzazione, informazione, apprendimento dell’autogesione e sostegno psicologico concernenti la malattia, il trattamento prescritto, le terapie, il contesto ospedaliero e di cura, le informazioni relative all’organizzazione e i comportamenti di salute e di malattia. E’ finalizzata ad aiutare i pazienti e le loro famiglie a comprendere la malattia e il trattamento, cooperare con i curanti, vivere in maniera più sana e mantenere e migliorare la loro qualità di vita”. Principi L’educazione terapeutica è quindi finalizzata a migliorare la qualità di vita, prevenire l’evoluzione dei problemi di salute e l’insorgenza di complicanze in soggetti affetti da patologie croniche; non è tuttavia esclusa una efficacia anche per le patologie acute. Si rivolge ai pazienti e al loro entourage e si propone di renderli competenti nel curarsi. Si tratta quindi di una formazione che utilizza i principi e i metodi dell’andragogia o della pedagogia (in base all’età dei soggetti) ovvero usa metodi didattici attivi che incentivino la partecipazione attiva in risposta a bisogni condivisi di apprendimento. La formazione deve quindi essere incentrata sull’utente a partire dalle sue conoscenze, esperienze, credenze e potenzialità e deve essere strutturata per obiettivi in risposta ai bisogni dei pazienti per lo sviluppo di competenze che garantiscano l’autogestione di alcuni aspetti della cura e dello stile di vita. Il processo educativo si avvale non solo di informazioni relative ai problemi di salute ma anche di sostegno psico-sociale per favorire l’adattamento e l’accettazione della malattia. L’azione educativa è un processo continuo che necessità di programmi ben strutturati e sviluppati secondo la metodologia del problem solving. I programmi di educazione terapeutica devono tenere conto dell’età dei soggetti a cui si rivolgono e del contesto in cui si realizza l’intervento educativo, per definire in modo opportuno metodi, strumenti e tempi. Deve inoltre tenere conto del processo di adattamento alla malattia, dell’eventuale presenza di meccanismi di difesa, delle fasi della malattia, dei bisogni della persona e della famiglia, dello stile di vita e dei progetti futuri. L’educazione terapeutica esige una conoscenza approfondita delle malattie, delle scelte terapeutiche e delle risposte umane ad esse, ma deve parallelamente considerare i comportamenti individuali di salute, l’osservanza terapeutica e le capacità di apprendimento della persona, nonché le risorse psicosociali del suo contesto. L’educazione terapeutica che risponda ad un approccio globale richiede la collaborazione fra i diversi professionisti sanitari (medici ospedalieri, infermieri, fisioterapisti, assistenti sanitari, dietisti, MMG, pediatri, ecc) e il contributo di esperti in scienze umane quali pedagogisti, psicologi e antropologi. Tale approccio garantisce una visione ampia dei diversi bisogni e delle risorse dell’assistito e una capacità di risposta più completa. L’OMS sottolinea il carattere multiprofessionale ed interdisciplinare dell’educazione terapeutica e la necessità che questa sia erogata da persona- 43 N. 1 - Gennaio / Marzo 2009 le formato in questo settore in grado di educare i pazienti e coordinare programmi all’interno di differenti contesti di cura. Un principio fondamentale che guida l’azione educativa riguarda la relazione fra team curante e assistito. Tale relazione deve necessariamente superare il modello autoritario e paternalistico per giungere ad una relazione fondata sulla negoziazione e la mutua partecipazione. In questa prospettiva l’educazione terapeutica si propone di riscoprire il lato umano del malato e offre all’assistito la possibilità di vivere da protagonista la propria esistenza. Percorso pedagogico L’utilizzo in campo educativo dell’approccio sistemico risale agli anni ‘50 quando si è dimostrato che questa nuova concezione di organizzazione dei sistemi industriali ed economici era applicabile anche alla pianificazione pedagogica. L’approccio sistemico permette un intervento globale centrato sulla persona. Possono essere identificate quattro fasi: 1.La diagnosi educativa che identifica i bisogni della persona inquadrandola secondo le sue capacità di apprendimento, il suo contesto psico-sociale e le proprie esigenze biomediche in relazione all’evoluzione del processo patologico. 2.La definizione degli obiettivi pedagogici raggruppati nel “contratto educativo”. Definiscono le competenze che i pazienti devono saper padroneggiare per ragioni di sicurezza e le competenze in risposta a specifici bisogni dell’assistito. 3.La definizione dei contenuti, dei metodi e degli strumenti in relazione agli obiettivi educativi. 4.La valutazione del soddisfacimento o meno dei bisogni educativi. Il processo di valutazione è finalizzato anche all’individuazione di eventuali errori allo scopo di superarli nell’ottica del miglioramento continuo. 44 1 - La diagnosi educativa rappresenta la definizione dei bisogni di apprendimento del soggetto; si ottiene attraverso una raccolta dati più o meno strutturata che si effettua nel corso di colloqui individuali iniziali e si arricchisce e modifica nel corso di tutto il processo educativo. La raccolta delle informazione deve essere adeguata all’età dei soggetti. Le informazioni raccolte vanno trascritte nella cartella educativa. Tale strumento facilita la comunicazione nel team dei professionisti che si occupono degli interventi educativi, evita inutili ripetizioni e favorisce la continuità dell’azione educativa. Le informazioni che si dovrebbero raccogliere esplorano dimensioni diverse pertinenti con l’educazione del paziente. •Area biomedica: fase della malattia, eventuali malattie concomitanti, trattamenti farmacologici e non; fondamentalmente ci si chiede che cosa ha? •Bisogni pedagogici: rappresentazioni della malattia, credenze, esperienze di familiari o conoscenti, livello di comprensione, esperienze educative precedenti. Particolare rilievo assume la rappresentazione della malattia e delle cure nelle differenti culture. L’interrogativo riguarda il cosa sa? •Sfera socio-professionale: riguarda l’attività professionale, le abitudini quotidiane, la vita familiare, il contesto sociale. Ci si chiede cosa fa ? •Sfera psicologica: serve ad identificare chi è ? Si esplorano le caratteristiche psicologiche, le attitudini, il temperamento, il livello di adattamento ed accettazione della malattia, l’eventuale presenza di meccanismi di difesa, il livello di motivazione all’apprendimento. La conoscenza di tutti i dati raccolti permette la definizione dei punti di forza e di debolezza che possono facilitare o limitare il processo educativo, comprendere il progetto e le richieste del paziente. La diagnosi educativa costituisce il fondamento del programma di educazione che verrà proposto al paziente. 2 - La definizione degli obiettivi pedagogici. Gli obiettivi devono definire comportamenti osservabili e misurabili. Gli obiettivi possono riguardare il campo cognitivo, il campo dei gesti e campo delle attitudini. Il campo cognitivo si riferisce alle co- noscenze, alla capacità di interpretare dati e ragionare, alla capacità di assumere decisioni in situazioni nuove. Il campo delle abilità o senso motorio si riferisce all’acquisizione di una progressiva abilità nell’esecuzione di procedure tecniche. Il campo delle attitudini o psicoaffettivo riguarda la capacità di adattamento della vita interiore e di relazione alle nuove condizioni che la patologia comporta. Riconosciamo due classi di obiettivi pedagogici: •obiettivi di sicurezza comuni a tutti i pazienti affetti da una patologia. Riguardano conoscenze, abilità ed attitudini essenziali alla sopravvivenza e al benessere quotidiano. Ogni persona deve raggiungerli anche se con tempi diversi in base alle capacità di apprendimento. Nel paziente diabetico possono essere rappresentati dalla capacità di comporre menù equilibrati; interpretare i risultati di una glicemia; eseguire correttamente l’iniezione di insulina. Nel paziente con scompenso cardiaco congestizio possono essere quelli di riconoscere la presenza di edemi, eseguire l’autocontrollo della pressione arteriosa, adeguare l’attività fisica in relazione alla tolleranza allo sforzo. •obiettivi specifici riguardano la soddisfazione di bisogni personali del singolo paziente. Sono spesso oggetto di negoziazione per la realizzazione di progetti personali o esperienze specifiche. La donna affetta da diabete, in età fertile, che progetta una gravidanza, necessita di adattamenti nello schema terapeutico, nelle conoscenze e nello stile di vita. Lo strumento che facilita l’adesione al regime terapeutico e l’adattamento alle esigenze specifiche del soggetto è il contratto educativo. Nel contratto vengono negoziati gli obiettivi di sicurezza e gli obiettivi specifici per permettere una corretta autogestione della patologia e insieme una possibilità di personalizzazione delle cure in relazione ai progetti di vita dei soggetti. Il contratto quindi permette di personalizzare il piano di cura e potenzia la responsabilizzazione e la consapevolezza del paziente. Il processo di negoziazione del contratto offre inoltre altri vantaggi: - facilitano l’instaurarsi di una clima positivo e improntato sulla fiducia reciproca; - il paziente ha la possibilità di sperimentare come l’alleanza con il team o il sanitario di riferimento gli consenta di calibrare e valorizzare il suo sforzo e di orientarlo entro limiti realistici; - il processo di valutazione dei risultati diventa oggetto di discussione e occasione per migliorare e potenziare l’autonomia. 3 - La definizione dei contenuti, dei metodi e degli strumenti In stretta relazione con gli obiettivi pedagogici, contenuti nel contratto, vanno identificati i contenuti, i metodi più appropriati per favorirne l’acquisizione e gli strumenti che possono supportare il processo di apprendimento. I contenuti, oggetto di apprendimento, devono essere essenziali poiché l’abbondanza di nozioni è inutile e a volte fa perdere di vista ciò che è indispensabile sapere. Le conoscenze devono essere scelte in modo pertinente e non devono essere affogate in un mare di dettagli. I metodi di insegnamento devono essere scelti in relazione all’obiettivo educativo; spesso per ogni obiettivo possono essere scelti più metodi utilizzati nelle varie fasi del percorso pedagogico. I metodi tuttavia si differenziano in relazione al tipo di competenza da acquisire e al livello di complessità identificato per quella competenza Nella scelta dei metodi occorre rispettare alcuni principi, ovvero: - favorire la partecipazione attiva; - rispettare i ritmi e gli stili di apprendimento; - procedere dal semplice al complesso; - valorizzare l’errore come occasione per fornire una retroinformazione correttiva; - favorire l’espressione dei sentimenti e degli stati d’animo; - sostenere il soggetto nel processo di adattamento alla malattia. Possiamo identificare vari tipi di metodi: •TUTORATO INDIVIDUALE - E’ adeguato per programmi di educazione continua e per esigenze particolari. Offre la possibilità di coniugare l’in- segnamento, la valutazione ed il sostegno psicologico. •INCONTRI CON GRUPPI E’ un metodo collettivo usato per persone con bisogni di apprendimento comuni e lo stesso livello di competenze pregresse. •AUTOAPPRENDIMENTO Si realizza attraverso letture, visione di filmati, ricerche in internet, programmi e-learning. •INCONTRI DI EDUCAZIONE DA ALTRI PAZIENTI ESPERTI La peer education offre significativi risultati in termini di efficacia. Spesso questo metodo viene utilizzato nell’ambito di programmi educativi organizzati da associazioni di pazienti e loro familiari (Associazione per diabetici, AISTOM, ecc). •GIOCO E’ il metodo privilegiato per facilitare l’apprendimento nei bambini. L’organizzazione dell’apprendimento che utilizzi come metodo il gioco deve rispettare il livello cognitivo e psicomotorio e le conoscenze di base acquisite in relazione all’età e all’apprendimento scolastico. •ATTIVITA’ DI GRUPPO Sono metodi utilizzati per l’educazione degli adolescenti poiché soddisfano il loro bisogno di socializzazione attraverso esperienze mirate nel piccolo gruppo (gite, attività teatrali, stage, attività sportive, gioco di ruoli, tavole rotonde). •DIMOSTRAZIONI - SIMULAZIONI ESERCITAZIONI Sono usate per l’acquisizioni di abilità di tipo tecnico. •VIDEOREGISTRAZIONE DELLE PROPRIE PERFORMANCE Si utilizzano per rinforzare le abilità gestuali corrette, per identificare gli aspetti da correggere attraverso la visione ripetuta della proprie performance. Per gli obiettivi relativi al processo di coping e al benessere psicosociale, l’O.M.S. indica come approcci quello della Scuola delle Relazioni Umane di K. Rogers e quello della Kubler – Ross, da utilizzare anche nei processi di cura a lungo termine. Gli strumenti vengono identificati come supporto ai metodi scelti. Alcuni esempi: l’uso del telefono per una educazione a distanza o follow up educativo; uso di check-list per l’ac- quisizione di abilità gestuali che evidenzino la sequenza corretta di azioni; elenco di domande chiave per identificare la causa di incidenti. 4 - La valutazione La valutazione pur essendo difficile da effettuare è necessaria per verificare se gli obiettivi fissati sono stati raggiunti. La valutazione deve essere programmata come tutte le fasi del percorso educativo e può prevedere dei momenti di verifica in itinere o finali in base al livello di complessità dell’intero processo e alla durata temporale. La valutazione per essere considerata valida deve presentare alcune caratteristiche, per cui gli strumenti che utilizza devono possedere alcune qualità: - validità, ovvero la capacità di misurare con precisione un tipo di obiettivo educativo; - affidabilità, è la capacità di riprodurre un certo valore in modo costante indipendentemente da chi effettua la valutazione; - oggettività, è il livello di concordanza fra giudizi espressi da diversi valutatori con pari grado di competenza; - comodità, nel rispetto della completezza e validità della valutazione si deve preferire strumenti semplici che possano essere utilizzati frequentemente; - l’accettabilità, occorre sempre ricordare che il paziente è il soggetto della valutazione e non l’oggetto. La scelta degli strumenti di valutazione si effettua in relazione ai differenti campi e livelli tassonomici delle competenze da esaminare. Per le competenze intellettive si possono utilizzare domande orali, test per identificare il livello di conoscenze e la capacità di interpretazione dei dati. Per valutare la capacità di assumere decisioni e risolvere problemi si può ricorrere a simulazioni, un ottimo strumento di simulazione sono le Carte di Barrows, esse presentano una situazione-problema a cui corrispondono una lista di decisioni più o meno pertinenti che possono essere scelte; oppure per verificare l’organizzazione delle conoscenze si possono utilizzare le mappe concettuali, tuttavia, a causa della complessità d’uso, non vengono ordinariamente utilizzate. 45 N. 1 - Gennaio / Marzo 2009 La valutazione delle competenze gestuali si può ottenere con l’uso di check-list che verifichino la sequenza corretta ed il livello accettabile di performance. La valutazione delle competenze relazionali si effettua con griglie di osservazione che misurino, ad esempio tramite scale di Likert o di Osgood, i comportamenti e le attitudini. La valutazione non ha come unico oggetto la verifica del livello di competenza raggiunto in corso o alla fine di un processo educativo, ma si estende anche alla validità complessiva dell’azione educativa per il benessere, la qualità di vita e la comparsa di complicanze. Si può globalmente esprimere un giudizio sulla base di tre criteri: - Successivamente si organizza un follow-up educativo con l’obiettivo di mantenere, migliorare e aggiornare le competenze acquisite. - La comparsa di complicanze, una nuova fase di sviluppo o il mancato raggiungimento degli obiettivi pedagogici o clinici implicano la verifica dei nuovi bisogni educativi e l’organizzazione di momenti di ripresa educativa allo scopo di acquisire o aggiustare le competenze. I tempi possono essere brevi poiché l’attività educativa è mirata a specifici bisogni. Pedagogici Bio -Clinici Psicosociali COSA HA IMPARATO? Nuove conoscenze Capacità tecniche Comportamenti L’evoluzione della malattia si è modificata favorevolmente? La qualità di vita del paziente è migliorata? Il problema clinico si è modificato? La motivazione e la collaborazione hanno bisogno di maggior rinforzo, sostegno? Ci sono nuovi bisogni formativi? La valutazione che ne deriva innesca delle nuove domande che rendono dinamico e continuo l’intervento educativo. La valutazione dovrebbe riguardare anche il livello di soddisfazione espresso dai pazienti; le loro opinioni, raccolte tramite questionari d’opinione, possono offrire suggerimenti per opportuni aggiustamenti all’intero percorso e prezioso feed-back per i sanitari rispetto alla loro competenza educativa. Le fasi La realizzazione di un intervento educativo può prevedere tre fasi principali: 46 il loro peso. Questa fase prevede comunque una serie di incontri per affrontare per gradi gli obiettivi, a partire da quelli più semplici per giungere alla padronanza di tutte le competenze necessarie e negoziate. - la fase iniziale che viene programmata in seguito alla diagnosi e alla presa in carico del paziente e che può avere durata variabile in relazione al livello di competenze da acquisire, alla risposta in termini di apprendimento da parte dell’assistito e alla scelta dei diversi metodi; inoltre le risorse e l’investimento in campo educativo, delle varie strutture/organizzazioni sanitarie hanno I contesti I contesti per la realizzazione degli interventi educativi in ambito terapeutico possono essere diversi: - l’ospedale dove frequentemente si effettua la prima diagnosi è uno dei luoghi privilegiati per la realizzazione dei primi momenti educativi, sia nell’ambito delle unità operative di degenza che nei day - hospital o negli ambulatori protetti. La dimissione e il rientro al domicilio impongono un raccordo con altri servizi sanitari e con il medici di medicina generale (MMG). Nelle strutture di day hospital o negli ambulatori protetti si possono svolgere anche le fasi successive del processo educativo ovvero follow - up e ripresa educativa attraverso programmi strutturati e multidisciplinari. Tali programmi possono essere strutturati in momenti precisi come l’educazione di un giorno o successiva alla visita medica, all’intervento infermieristico o di altri professionisti. - Nelle patologie croniche spesso si ricorre a dimissioni protette e alla presa in carico dell’assistito da un servizio di assistenza domiciliare, che può proseguire l’azione educativa intrapresa, modificarla o svilupparla in relazione ai bisogni e all’efficacia dell’integrazione e del passaggio di informazioni fra le varie strutture. - Altri contesti possono realizzare interventi di educazione terapeutica come: centri termali, centri di vacanza in particolare per bambini ed adolescenti, sedi delle Associazioni come l’Associazione per Diabetici, l’AISTOM. -Le reti di assistenza sono per loro natura sistemi di collegamento fra diversi contesti: l’ospedale, medicina ambulatoriale, studi di professionisti sanitari come fisioterapisti, infermieri, dietisti. La realizzazione di interventi educativi nelle reti di assistenza ha il vantaggio di godere di un approccio multiprofessionale che soddisfa il principio dell’approccio sistemico. Strumenti La realizzazione del processo educativo necessita di un sistema di raccolta dei dati, di trascrizione del progetto e registrazione dei progressi ottenuti. Tale strumento è la cartella educativa; essa offre il vantaggio di facilitare il processo di comunicazione e integrazione dei vari professionisti coinvolti nell’attività educativa, permette la memoria storica di tutti gli eventi, offre, con rispetto della sequenza temporale, la lettura dello svolgimento del percorso pedagogico nelle sue vare fasi. La cartella educativa può essere realizzata su supporto informatico o cartaceo, ma deve essere utilizzabile nei vari contesti in cui si svolge l’attività educativa; può rappresentare anche una sezione della cartella clinica, della cartella infermieristica o meglio ancora della cartella integrata. Questo strumento può inoltre contenere tutti i documenti che vengono utilizzati per favorire l’acquisizione della competenze e la loro valutazione (Check-list, elenco di domande, carte di Barrows, report). Le informazioni che la cartella raccoglie possono essere utilizzate anche per scopi di ricerca o formativi per i professionisti. Altro strumento che può risultare molto utile per favorire il raccordo fra centri di cura e MMG è il resoconto dell’educazione terapeutica che riassume le competenze che il paziente padroneggia e quelle che necessitano di un pieno sviluppo attraverso momenti di follow up. Appunti Conclusioni La conduzione di interventi di educazione terapeutica implica competenze complesse tipiche del professionista sanitario con esperienza. Egli infatti deve esprimere una certa padronanza di competenze metodologiche, educative e relazionali, possedere conoscenze e abilità cliniche ed assistenziali consolidate, governare e condividere processi di lavoro integrati nell’ambito di un team multidisciplinare in uno o più contesti di lavoro. A fronte di tale impegno e complessità di variabili in gioco c’è la prospettiva della significatività dei risultati sia per gli assistiti che per le organizzazioni sanitarie ed i professionisti stessi. Per l’assistito e la sua famiglia i vantaggi sono in termini di salute e di qualità di vita; per le organizzazioni sanitarie il vantaggio riguarda la riduzione dei costi socio-sanitari, l’appropriatezza delle cure e dell’uso delle risorse; infine il professionista può riscoprire il gusto di un approccio globale alla persona e non solo alla malattia o alla prestazione, può vivere la propria professionalità in una dimensione dialettica che ci restituisce il valore di ciò che serve e che è gradito. Le riflessioni condotte finora ci portano ad affermare che: la sfida dello sviluppo delle competenze relative all’educazione terapeutica per i professionisti attuali e futuri e l’investimento che le organizzazioni sanitarie devono realizzare è forse una strada obbligata per garantire qualità, efficienza dei servizi ed equità nella risposta alla attuale domanda di salute del nostro contesto sociale. 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