Una vita con il boss «Riina, mio padre»

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Una vita con il boss «Riina, mio padre»
Corriere della Sera Martedì 5 Aprile 2016
CRONACHE
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Una vita con il boss
«Riina, mio padre»
le 22 alle 6 —; non è competenza mia dire se è
stato il capo della mafia oppure no. Lo stabiliscono le sentenze, io ho voluto parlare d’altro: la vita
di una famiglia che è stata felice fino al giorno
del suo arresto, raccontata come nessuno l’ha
mai vista e conosciuta».
dal nostro inviato Giovanni Bianconi
PADOVA «Tra febbraio e marzo del 1992 passammo notti intere insonni davanti al televisore a seguire il Moro di Venezia gareggiare nell’America’s
Cup. Papà preparava la postazione del divano solo per noi due, con un vassoio di biscotti preparato per l’occasione e due sedie piazzate a mo’ di
poggiapiedi... Io non avevo ancora compiuto 15
anni e lui, Totò Riina, era il mio eroe». Che, in
quegli stessi giorni, pianificava e ordinava l’omicidio di Salvo Lima, il politico democristiano assassinato per non aver saputo «aggiustare» il maxiprocesso alla mafia.
Poco dopo venne il 23 maggio: «La tv era accesa su Rai1, e il telegiornale in edizione straordinaria già andava avanti da un’ora. Non facemmo domande, ma ci limitammo a guardare nello schermo. Il viso di Giovanni Falcone veniva riproposto
ogni minuto, alternato alle immagini rivoltanti di
un’autostrada aperta in due... Un cratere fumante, pieno di rottami e di poliziotti indaffarati nelle
ricerche... Pure mio padre Totò era a casa. Stava
seduto nella sua poltrona davanti al televisore.
Anche lui in silenzio. Non diceva una parola, ma
non era agitato o particolarmente incuriosito da
quelle immagini. Sul volto qualche ruga, appena
accigliato, ascoltava pensando ad altro». Era stato
lui a decidere quella strage, per eliminare il magistrato che aveva portato alla sbarra Cosa nostra fino a infliggere l’ergastolo a Riina e compari.
libro
Il geometra Bellomo
In paese
In alto, nella foto grande, Giuseppe
Salvatore Riina in uno scatto
del 2011 a Corleone dopo essere
uscito dal carcere. In alto, a destra,
il padre Totò in manette: fu
catturato il 15 gennaio del 1993;
sotto, la prima pagina del Corriere
con la notizia. Sopra, Riina jr
sempre a Corleone nel 2008
Le stragi al telegiornale
E poi il 19 luglio, mentre la famiglia era in vacanza al mare: «Fu uno di quei giorni in cui mio
padre preferì rimanere a casa ad aspettarci, sempre circondato dai suoi giornali che leggeva lentamente ma con attenzione. Negli ultimi mesi
era diventato più attento nelle uscite in pubblico,
anche se dentro casa era sempre il solito uomo
sorridente e disposto al gioco». Al ritorno dalla
spiaggia ancora la tv accesa, ancora immagini di
morte, fuoco e fiamme: «Il magistrato Paolo Borsellino appariva in un riquadro a fianco, ripreso
in una foto di poche settimane prima... Lucia,
dodicenne, era la più colpita da quelle immagini.
Si avvicinò a mio padre silenzioso. “Papà, dobbiamo ripartire?”. “Perché vuoi partire?” domandò lui, finalmente rompendo la tensione con la
quale fissava il televisore. “Non lo so. Dobbiamo
tornare a Palermo?”. “Voi pensate a godervi le vacanze. Restiamo al mare ancora per un po’”. Lucia scoppiò in una ingenua risata e lo abbracciò...
E così restammo lì fino alla fine di agosto».
Anche l’eccidio di via D’Amelio era stato deciso da suo padre, Totò Riina. Ma questo particolare il figlio Giuseppe Salvatore detto Salvo, lo
omette. Così come non parla di Lima, di Falcone
e di tutte le altre vittime del capomafia corleonese che ha governato Cosa nostra a suon di omicidi. «Io non sono il magistrato di mio padre — dice sfilandosi gli occhiali da sole al tavolino di un
bar di Padova, dove vive e lavora in libertà vigilata», divieto di lasciare la provincia e di uscire dal-
Il figlio racconta:
«Le nottate alla tv
per l’America’s Cup
Non cenò mai fuori
Me lo ricordo zitto
il giorno di Capaci»
Le nozze
Giuseppe Salvatore Riina con la
sorella Lucia, ultimogenita di Totò
e Antonina Bagarella, il giorno del
suo matrimonio nel 2008.
Il marito della figlia dell’ex boss
si chiama Vincenzo Bellomo,
lo stesso nome che Riina —
e quindi la famiglia — utilizzò
durante i lunghi anni di latitanza
❞
È nato così il libro Riina-Family Life scritto da
Salvo Riina che a maggio compirà 39 anni, mafioso anche lui per la condanna a 8 anni e 10 mesi
di pena interamente scontata, papà e fratello
maggiore all’ergastolo (e al «41 bis»): «Giovanni
lo può incontrare in prigione, seppure con le limitazioni del “carcere duro”, io no». E nel libro
lamenta: «È dal gennaio del 1993 (quando Riina
fu catturato, ndr). Che non faccio una carezza a
mio padre, e così le mie sorelle e mia madre».
Facile replicare che nemmeno i familiari dei
morti di mafia possono più accarezzare i loro cari, e chiedere un pensiero per loro: le vittime.
Salvo Riina risponde quasi di getto: «Non ne voglio parlare, perché qualunque cosa dicessi sarebbe strumentalizzata». Dipende, forse. Ma lui
insiste: «Meglio il silenzio, nel rispetto del loro
dolore e della loro sofferenza. Anche in questo
caso la meglio parola è quella che non si dice».
Un motto che rievoca l’omertà mafiosa, che
però Riina jr contesta: «Non è omertà, è che io
ho scritto il libro non per dare conto delle condanne subite da mio padre, anche perché sarebbe inutile. A me interessava far capire che esiste
ed è esistita una famiglia che non aveva niente a
che fare coi processi e quello che succedeva fuori, e che nessuno conosce anche se tutti pensano
di poterla giudicare».
Ne viene fuori un’immagine di papà premuroso e amorevole che contrasta con la realtà giudiziaria e storica del boss protagonista delle più
cruente trame criminali. «Non è quello che ho
conosciuto io — ribatte convinto suo figlio —. Io
sono orgoglioso di Totò Riina come uomo, non
come capo della mafia. Io di mafia non parlo, se
lei mi chiede che cosa ne penso non le rispondo.
Io rispetto mio padre perché non mi ha fatto mai
mancare niente, principalmente l’amore. Il resto
l’hanno scritto i giudici, e io non me ne occupo».
Quello che scrive Salvo Riina diventa così un
racconto asciutto ma ricco di dettagli sulla vita
fra le mura domestiche di una famiglia di latitante: Totò Riina e, di conseguenza, la moglie e i
figli nati mentre lui era ricercato; continui cambi
di case, ma sempre tra Palermo e dintorni; i
● Sopra,
la copertina
di Riina. Family
Life, il libro
scritto da
Giuseppe
Salvatore Riina,
il figlio del
superboss
corleonese
Totò.
Pubblicato da
edizioni Anordest, uscirà
nelle librerie
dopodomani
● Giuseppe
Salvatore,
detto Salvo,
39 anni a
maggio, è stato
condannato
per
associazione
mafiosa
a 8 anni
e 10 mesi e ha
interamente
scontato
la pena
● Dall’aprile
del 2012
vive a Padova
in regime di
sorveglianza.
Il fratello
Giovanni, come
il padre, sconta
l’ergastolo
al 41 bis
Non sono il suo giudice, parlo della mia famiglia
Le vittime? Preferisco il silenzio
Sulla mafia non dico nulla, e se lei mi domanda
che cosa ne penso, io non rispondo
bambini regolarmente registrati all’anagrafe ma
impossibilitati ad andare a scuola, con la mamma che insegnava loro a leggere e scrivere; giochi e divertimenti garantiti ma niente amici in
casa né visite a casa di amici; il papà che esce la
mattina per andare a lavorare — «il geometra
Bellomo», si faceva chiamare — e puntuale a cena si mette a tavola con la famiglia: «Mai saltata
una sera», garantisce Salvo; l’attrazione per i
motorini e le belle ragazze, i primi amori.
Infanzia e adolescenza felici, assicura il figlio
del boss, trascorse senza fare domande: né sull’improbabile lavoro di un «terza elementare»,
né sulla necessità di non avere contatti con
l’esterno o sul continuo girovagare, che col passare del tempo diventa consapevolezza di una vita in fuga. «A mio padre non ho mai chiesto perché dovessimo nasconderci, e nemmeno se era
vero ciò che cominciai a sentire in tv o in giro,
quando ho scoperto che ci chiamavano Riina, e
non Bellomo». Strano, perché? «Per rispetto e
pudore». Nei confronti di chi? «Di mio padre e
mia madre: siamo cresciuti abituati a non chiedere». Si potrebbe chiamare cultura mafiosa.
«Io invece lo chiamo rispetto, un’educazione a
valori magari arcaici e tradizionali, che però a
me piacciono; valori forti e sani».
L’arrivo a Corleone
Con l’arresto di Riina sr, il 15 gennaio 1993,
cambiò tutto: l’arrivo a Corleone, l’esistenza non
più clandestina ma sotto i riflettori del mondo e
il microscopio di investigatori e giudici, che poi
hanno arrestato e condannato i due figli maschi,
Giovanni e lo stesso Salvo. Che adesso narra quel
che vuole (anche il carcere e la pena scontata,
evitando di entrare nel merito dei reati, fino al
matrimonio della sorella accompagnata all’altare
in sostituzione del papà, e altro ancora) ma tace
su tanti particolari: dall’ultimo «covo» in cui abitò con suo padre ai commenti del capomafia intercettati in carcere, quando confessò la «fine del
tonno» riservata a Falcone e altri delitti: «Non mi
interessa soddisfare le curiosità altrui. Io difendo
la dignità di un uomo e della sua famiglia. E la
sua coerenza, quando ha rifiutato di collaborare
con i magistrati. “Non ci si pente di fronte agli
uomini, solo davanti a Dio”, mi ripeteva».
Il risultato lo giudicheranno i lettori. L’editore,
Mario Tricarico, chiarisce il senso di un’operazione che ritiene legittima e interessante: «È come se in casa del “Mostro” che ha governato l’impresa criminale forse più importante del mondo
ci fosse stata una telecamera nascosta che ne registrava i momenti di normalità, e adesso chi
vuole può vedere quel film». Scene di un interno
mafioso che lasciano molte zone d’ombra, ma rivelano un punto di vista: il figlio del boss che non
vuole parlare del boss bensì di un padre e di una
madre «ai quali devo l’inizio della mia vita e l’uomo che sono», come ha scritto nel libro. Senza
nessun imbarazzo? «No, nessun imbarazzo», risponde Salvo Riina rinforcando gli occhiali da
sole.
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